MANOVRA ANTI-VIRUS, VERTICE DI GOVERNO DA CONTE REFERENDUM A RISCHIO RINVIO, VERSO L’ELECTION DAY

Il premier Conte incontra i capidelegazione al governo e i capigruppo di maggioranza e opposizione per fare il punto sull’emergenza. In arrivo il nuovo decreto anti-virus. Intanto il referendum sul taglio dei parlamentari, previsto il 29 marzo, potrebbe slittare. Si ipotizza di spostarlo con le Regionali di primavera, mentre i comitati per il ‘No referendum’  chiedono di annullarlo.

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IL CRISTIANESIMO COME IDEALE DI LAICITÀ POLITICA. LA LEZIONE DI ANTISERI

antiseri grande

stradeonline.it

1. Lo Stato forte, nel senso di Wilhelm Röpke

Il breve saggio di Dario Antiseri – L’invenzione cristiana della laicità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017, 120 pp. – è una rassegna di idee e pensatori che hanno avuto il merito di rompere gli schemi ordinari, di non cedere alle sirene rassicuranti del collettivismo.
Tutti autori che possiamo definire liberali e che hanno in comune il culto del Singolo, della Persona portatrice di diritti e di interessi superiori ad ogni ragion di Stato.
Il merito di Antiseri è quello, inoltre, di mostrarci come la tradizione liberale, il relativismo politico e la desacralizzazione del Potere sia strettamente legato al cristianesimo e alla demitizzazione del mondo che promana dalla Croce.
Desacralizzazione del potere statuale che non significa, però, anarchismo e cedimento ad un flusso escatologico indifferente alla vicende storiche e nemico della concretezza.
Il mito dell’estinzione dello Stato, ci dice Antiseri, non è proprio del liberale ma è, invece, l’esito della mitologia marxista al termine della fase di dittatura del Proletariato.
Un mito, la promessa edificazione di un paradiso in terra, che è servito a strutturare con più forza la tenuta di una dittatura che da strumentale è divenuta l’esito storico di un pensiero riduzionista e violento.
I liberali non vogliono la giungla anarchica, non è questo, ad esempio, il fine della “Scuola di Friburgo” e di Wilhelm Röpke che con la sua opera ed attraverso la rivista Ordo, edita dal 1948, contribuì decisamente al miracolo economico tedesco attraverso l’influenza esercitata sul Cancelliere Ludwig Erhard.
E di Stato forte ma non affaccendato parla effettivamente Wilhelm Röpke!
Gli ordoliberali, secondo Antiseri, concepiscono dunque lo Stato come presidio di regole per la libertà. Regole certe a garanzia del moto sociale, della tutela della concorrenza e del merito.
Una vera e propria Costituzione economica che sostiene il mercato ed i suoi effetti benefici sulla scalata sociale e sul benessere collettivo; effetti “sociali” direttamente collegati ad un progresso legato alla cooperazione nella divisione del lavoro e alla competizione che premia il valore.
Altro che Mano invisibile come oscura provvidenza ! Ed in effetti questa espressione di Adam Smith troppe volte fraintesa va correttamente compresa non come intelligenza aliena dalla Società ma come imprevedibilità degli effetti pubblici delle azioni intenzionali private, come salutare effetto moltiplicatore della ricchezza che deriva dal soddisfacimento degli interessi privati in un regime di cooperazione nel mercato.
Sono i monopolisti e i cacciatori di rendite i nemici dello Stato liberale e questi vanno combattuti con le regole e le forme dello Stato di diritto.
E vanno combattuti, del resto, tutti i pianificatori, le oligarchie al potere che si arrogano il diritto di scegliere per tutti e di indirizzare la vita collettiva in virtù del proprio sapere.
L’unica pianificazione legittima nella Società aperta, insegna Antiseri, è la pianificazione delle forme, l’organizzazione della cornice giuridica in cui si svolge il libero moto sociale, non la pianificazione sostanziale dei processi economici, non la centralizzazione dei progetti di sviluppo e ciò perché questa centralizzazione genera solo privilegio e concentrazione di potere in capo ad una casta di burocrati illuminati che decidono tutto per gli altri.
Luigi Einaudi nelle sue Prediche Inutili (1955) avvertiva come una bugia – proprio sulla base degli assunti su rappresentati – quella secondo la quale Adam Smith fosse il campione dell’assoluto lasciar fare, dello Stato assente.
Lo Stato per i liberali, invece, è necessario quanto gli argini al suo proliferare ingiustificato, al rischio della statizzazione compiuta delle dinamiche sociali e, quindi, lo Stato è necessario per combattere l’accentramento sregolato delle risorse e dei mercati con effetti di abuso di posizione dominante.
Per Einaudi come per Antiseri una società priva di economia di mercato e concorrenza sarebbe una società oppressa da una forza unica, sia essa la burocrazia comunista o l’oligarchia capitalistica.
La Società aperta si fonda, al contrario, sul riconoscimento e la tutela del pluralismo degli attori sociali, dei corpi intermedi. Una Società al cui interno si può ben distinguere il Diritto (frutto dell’evoluzione naturale di una comunità libera) dall’arbitrio del Poterepro tempore, la Legge da una legislazione motorizzata ed autoritaria creatrice non di ordine ma di privilegio e discriminazione.
Per questo lo Stato forte combatte autoritarismo e monopoli realizzando quell’imperio del Nomos che è l’unica condizione per la benefica anarchia degli Spiriti.
Ciò significa per quanto riguarda i c.d. diritti sociali: libertà eguale e uguaglianza delle opportunità da raggiungere anche attraverso l’intervento del settore pubblico, anche attraverso la previsione di un minimo necessario per la vita che sia punto di partenza e non di arrivo, che stimoli partecipazione e lavoro.
In un ambito propriamente liberale e non autoritario il valore fondante, l’apriori ideologico, è costituito proprio dallo sforzo volontario, dal sacrificio, dall’attitudine al lavoro che genera ricchezza e profitto.
Di contro, la Società chiusa dei pianificatori illuminati si impone culturalmente con il privilegio escludente che genera sempre nuove classi e categorie di emarginati (provvisoriamente escluse dall’intervento specifico e redistributivo) le quali, così, sono costrette ad attendere la prossima prebenda dello Stato paternalista.
Ludwig von Mises nel suo Liberalismo (1927) considera, quindi, lo Stato di diritto come una necessità imprescindibile per la promozione della vita, per la sicurezza e la libertà e per la pace.
Ed è proprio la pace la teoria sociale del liberalismo, è la pace a garantire la libertà degli attori sociali ed i commerci proficui.
È la pace, per Antiseri, a legare strettamente liberalismo e democrazia: solo uno Stato fondato sulla libera scelta dei governati esclude la guerra civile tra le opzioni dello scontro politico in caso di dissenso della maggioranza.
La democrazia rappresentativa fondata sul voto libero ed uguale e il liberalismo sono, dunque, due facce della stessa medaglia che possiamo ben definire Occidente, inteso come luogo politico/spirituale dell’alternanza delle forze politiche nella gestione di un Potere e di una Sovranità imbrigliate dalla Costituzione e dai diritti delle minoranze.
Friedrich von Hayek nel suo Legge, Legislazione, Libertà (1973) conferma l’opzione liberale per uno Stato non minimo ma, appunto, forte: la Grande Società, infatti, deve coltivare ed impegnarsi per fini umanitari e li deve realizzare anche con operazioni fuori mercato a tutela dei deboli; ciò che conta e che impedisce la deriva assistenzialistica e statalista è distinguere tra un sistema fondato su norme generali ed astratte e l’arbitrio sovrano di provvedimenti autoritari.
Lo Stato di diritto rappresenta l’ordine endogeno di una “Legge” frutto dello sviluppo di una Società libera, di una Società che non è assorbita dal Leviatano e che ha proprie istituzioni (famiglia, scuola, associazioni, imprese) non riconducibili alle istituzioni del Potere sovrano.
Lo Stato assoluto dell’intervento arbitrario, invece, è espressione dell’ordine imposto da una legislazione che depone il “diritto” per soddisfare precise scelte politiche contingenti.
La legislazione, chiarisce Antiseri interpretando Hayek, diventa un male nel momento in cui non soggiace alle forme generali della Legge, della Costituzione del nostro stare insieme.
Uno stare insieme che è libero quando è orientato alla collaborazione e allo scambio e quando si fonda su diritti fondamentali rispettati e tutelati dal Potere, quali: la stabilità del possesso (non solo del possesso di beni materiali ma anche e soprattutto del possesso di sé, della libertà delle proprie azioni), il trasferimento per consenso (contro ogni esproprio arbitrario), l’adempimento delle promesse (il vincolo contrattuale).
Sono queste le leggi fondamentali di David Hume ma anche i fondamenti dell’associarsi umano secondo Hannah Arendt che proprio sulla Promessa come argine – insieme al Perdono – all’automatismo ctonio della necessità naturale e brutale fonda la specificità della condizione umana nella sua Vita Activa (1958).

2. L’ignoranza dei fallibili, lo scetticismo dei liberi e la specificità dei corpi intermedi

Per Karl Popper la conoscenza umana è fallibile e la teoria scientifica – per essere tale e distinguersi dalla ideologia – deve essere falsificabile.
E Antiseri precisa che lo scienziato non va a caccia di conferme ma pone l’assedio alle proprie conclusioni. Posto che la conoscenza umana è diffusa nel mondo in milioni e milioni conoscenze particolari di tempo e spazio, ogni esperienza è dunque differente dall’altra e ogni vita contiene un patrimonio di saperi sconosciuto alle altre.
Solo nella collaborazione e nella concorrenza questa conoscenza diffusa può produrre i suoi migliori effetti, e ciò vale tanto nelle dinamiche politico/sociali quanto nella scienza. Solo questo consente di scovare gli errori e di superarli.
Secondo John Stuart Mill, infatti, le convinzioni salde riposano su un’unica garanzia/legittimità: l’invito a tutti a dimostrarle infondate !
Ed allora, ci sprona Antiseri, in questo contesto umanissimo di ignoranza costitutiva e di fallibilità delle acquisizioni raggiunte che senso ha la pianificazione accentratrice di un legislatore onnipotente, di un Partito sedicente rappresentativo della volontà generale?
Sono l’individualismo metodologico e il fallibilismo epistemologico i valori Società aperta. Valori “deboli” che negano l’esistenza di una verità razionale, politica e sociale, che, come tale, si debba imporre legalmente a tutti gli attori sociali.
Metodo scientifico e metodo liberale sono dunque per Antiseri strettamente legati e non per l’orgoglio fatuo di rivendicate certezze acclarate ma, di contro, per l’affermata mancanza di certezze che sprona ricerca e sollecita sostegno e competizione.
Secondo Luigi Einaudi, ancora, trial and error, i tentativi e gli errori sono l’emblema della superiorità del metodo liberale, la riconosciuta possibilità della revocabilità delle scelte prese messe alla prova della concretezza.
Un metodo che si impone sul metodo tirannico fondato sul semplicismo manicheo che tutto riduce a ideologia, all’emarginazione dell’avversario squalificato prima come nemico e, poi, come criminale.
Un metodo liberale che, in quanto pluralista, relativista e non dogmatico, non può che tradursi nella discussione parlamentare, nella tutela della critica di ogni opposizione democratica.
E i cristiani, secondo Antiseri, non possono che aggiungere questo a conferma: la verità è assente dal mondo, in attesa della parousia, e la conoscenza è dispersa in frammentarie conoscenze di milioni e milioni di individui che la Società aperta ha il compito di tutelare contro l’arbitrio di un Potere che pretende venerazione come un idolo sostitutivo.
Per questo l’intelligenza concentrata del pianificatore, del leader del Partito/Stato, è nemica della libertà: per Hayek l’onniscienza porta a schiavitù mentre il riconoscimento della conoscenza dispersa genera cooperazione e associazione.
Gli americani si associano di continuo e mentre in Francia a capo di un’istituzione c’è il governo, in America ci sono i cittadini. Questo descrisse Alexis de Tocqueville nel suo La democrazia in America (1840) per far comprendere in Europa la specificità della società del Nuovo Mondo.
Potremmo tradurre tale descrizione – e così fa Antiseri – come principio di sussidiarietà, principio che trova riconoscimento compiuto anche nella Quadrigesimo anno (1931) di Pio XI: è ingiusto, afferma il Papa, che lo Stato si sostituisca alla forza e all’industria delle comunità sociali in grado di operare e ciò perché il compito naturale della Società è di aiutare in maniera suppletiva e non sostitutiva le membra del corpo sociale, non distruggerle ed assorbirle.
Lo stesso principio, in seguito, fu confermato dalla Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII e dalla Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II.
E fu Antonio Rosmini nella sua Filosofia della politica (1839) a mettere in guardia contro il monopolio statale che vieta ed impedisce le attività degli individui. Libere attività che danno forma a quei corpi intermedi che realizzano ciò che propriamente Antiseri definisce come sussidiarietà orizzontale che va distinta dalla ben più blanda sussidiarietà verticale secondo la quale ciò che non fa lo Stato lo fa la Regione e ciò che non fa la Regione lo fa la Citta Metropolitana e così via.
Una forma di statalismo decentrato che nasconde, in fondo, una forma subdola di autoritarismo burocratico: ciò che non fa il pubblico lo fa comunque il pubblico! E le forze del settore privato o del Terzo settore vengono così concusse e demotivate.
Contro questa tautologia del Pubblico Popper parla di sotto società libere e spontanee con autonome opinioni e credenze.
In tal senso, la riconosciuta libertà dei corpi sociali intermedi diviene fondamento etico, fonte morale del liberalismo.
Una fonte morale che riconosce come le entità collettive, Stato, Nazione, Classe, Partito, sono composte da individui e solo questi in definitiva agiscono ed il loro agire – per motivati interessi particolari – nel contesto di una Società che ha il monopolio della coercizione al solo fine di limitare la coercizione stessa, raggiunge e realizza l’interesse pubblico: nelle arti, nella tutela della salute, della sicurezza sociale, della scuola.
L’ordine spontaneo, quindi, realizza fini pubblici in un ambito regolato dal diritto e ciò perché il fine pubblico non è appannaggio solo dello Stato e delle sue articolazioni.

3. La concorrenza: meriti e non privilegi. Il liberale è liberista

Cum-petere significa cercare insieme in modo agonistico la soluzione migliore, non significa farsi la guerra.
La competizione è il terrore di tutti i conservatori, afferma Antiseri, perché è timore per il cambiamento.
In Perché non sono un conservatore (1977) Hayek precisa come il conservatore ha la sua risorsa più forte nella tradizione di idee ereditate; il nuovo è squalificato come ignoto e illegittimo e da ciò monta la sfiducia verso ciò che rompe il confine dato.
Questo timore identitario sta all’origine dell’ostilità verso l’internazionalismo, lo spirito comunitario, l’apertura allo straniero: il culto esacerbato del proprio bagaglio culturale venerato come speciale e migliore.
Per il liberale e per il cattolico scettico verso le costruzioni politico sociali che si presentano come salvifiche tale culto contrasta con i diritti innati dell’Uomo e con una Promessa che ha superato tutti i confini.
I cristiani derivano il loro scetticismo politico da Agostino e dall’escatologia della Croce che desacralizza il Potere di questo mondo come la supposta superiorità ed autorità degli “illuminati” all’opera per la realizzazione del paradiso in terra.
Il progresso sociale, in vero, non è mai stato davvero il frutto di piani o progetti intenzionali di pochi sapienti ma il frutto spontaneo della cooperazione libera e in concorso, del moto sociale incorniciato dal diritto.
Secondo Einaudi, infatti, in un regime che tutto controlla e indirizza dall’alto il motto d’ordine diventa la disciplina, nessuno può promuovere ed affermare il novum in mancanza del beneplacito o della scartoffia autorizzativa.
E per questo, in tale sistema, la corruzione è fatale! E quanti esempi di tale deriva nei contesti più caratterizzati dal controllo pubblico e burocratico di un’economia fatta di trasferimenti e di sussidi; fonti di clientele e potentati avulsi da lavoro e produzione.
Il liberale ed il cristiano, secondo Antiseri, dovrebbero quindi difendere il mercato non solo perché il mercato genera benessere e ricchezza ma, soprattutto, per ragioni etiche e politiche.
Secondo Hayek, infatti, chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini ed è per questo che la proprietà privata dei mezzi di produzione deve prevalere sulla esclusiva proprietà pubblica ed è per questo che i monopoli, pubblici o privati è lo stesso, vanno combattuti come ogni abuso di posizione dominante. Ne va della libertà individuale, di quel pluralismo economico e politico che realizza progresso secondo Einaudi.
Stato di diritto ed economia di mercato nascono e muoiono insieme dice Antiseri:Commercium et Pax era scritto sul porto di Amsterdam perché – come intuito dall’economista francese Frédéric Bastiat nel primo ‘800 – se su di un confine non passano le merci vi passeranno i cannoni.
Mercato, pace, libertà politiche e sociali costituiscono nella ricostruzione storico ideale di Dario Antiseri un’unità inscindibile tanto che oggi, dall’Ungheria alla Russia, alla Turchia, laddove, quindi, si tende a scindere prosperità e libertà si giunge a teorizzare la democrazia illiberale che, in quanto non fondata sulla tutela dell’individuo libero, non è vera democrazia ma obbedienza in cambio di protezione.
Troppo spesso scienziati sociali e politici benedetti da un consenso popolare estorto con disinformazione e regalie, ci hanno alternativamente detto che senza il mercato o senza la libertà del commercio o senza le libertà del Singolo si sarebbe potuta finalmente realizzare la Società perfetta. Bene, ci dice Antiseri, la Società perfetta è l’antitesi della Società aperta.

4. Cristianesimo e secolarizzazione. I maestri del cattolicesimo liberale e la scuola libera

Il potere politico non è il padrone delle coscienze, Cesare non è il Signore, ed il martire rifiutando di maledire Cristo e di venerare lo Stato esercita una dolorosa confessione pubblica che desacralizza il potere.
La secolarizzazione, quindi, è una chiara conseguenza del messaggio cristiano.
È stato il cristianesimo – ci dice Antiseri seguendo la lezione dello storico Guglielmo Ferrero – a far tramontare l’esprit pharanoique dello Stato antico, a mutare di segno il rapporto tra valore del Singolo e ragion di Stato lungo un processo che possiamo ben definire rivoluzionario che pone davanti allo Stato gli interessi ed i diritti della Persona.
Lo stesso processo fu tematizzato da Hannah Arendt nel suo già citato Vita Activa allorquando evidenziò il “ribaltamento” realizzato dal cristianesimo che alla sacralizzazione e all’infinità del Cosmo degli antichi sostituì la sacralizzazione e l’immortalità del Singolo.
Joseph Ratzinger ci parla di questo quando nel suo Fede, verità, tolleranza (2003) afferma che il relativismo in politica è il benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica, dal pericolo dell’idealismo assoluto.
È sulla base di questo assunto, di questa contraddizione tra cristianesimo e perfettismo politico che sempre Papa Ratzinger (in una intervista del 2003) spiega la sua contrarietà alla Teologia della liberazione: non si può assolutizzare politicamente una posizione teologica, non c’è un’unica ricetta per liberare e dare progresso.
Non si può venerare una costruzione teologico politica che promette la fine della Storia ma è necessario cercare strade diverse aperte al pluralismo storico/sociale.
Nel dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che a Lui appartiene (Matteo 22,21; Marco 12,17; Luca 20,25) ciò che più deve sollecitare la nostra attenzione è che, quindi, Cesare non è Dio e su questo altare di laicità sono caduti i martiri !
La stessa laicità di origine cristiana che, per Antiseri, ha contribuito con forza all’emancipazione dell’indagine scientifica moderna: la desacralizzazione del Cosmo realizzata dal pensiero giudaico cristiano con il processo di secolarizzazione ha preparato la strada all’investigazione sperimentale.
Finché infatti la natura è colma di forze spirituali essa è sacra, non è manipolabile per le scienze. Con il monoteismo giudaico cristiano, invece, si realizza un disincanto mondano, una purificazione laica che apre la strada alle scienze senza negare l’inestirpabile domanda di senso religioso trascendente, così come aveva intuito Max Scheler nel suo Sociologia del sapere (1924).
La razionalizzazione greca, infatti, non riuscì a demitizzare la natura. Il cosmo rimase eterno e indisponibile mentre l’individuo continuò ad essere destinato all’oblio.
Il ribaltamento definitivo avverrà solo con il messaggio evangelico che alla Trascendenza del monoteismo aggiungerà la follia e lo scandalo di una Croce che mette in contraddizione tutte le verità di questo mondo.
Nel suo affascinante excursus storico/ideale Antiseri, come abbiamo avuto modo di sottolineare, si richiama espressamente alla lezione di tanti cristiani liberali: Alexis de Tocqueville, Frédéric Bastiat, Lord Acton.
Non mancano gli italiani Antonio Rosmini e il suo allievo Alessandro Manzoni, tutti pensatori accomunati, lo ribadiamo, dalla battaglia contro il perfettismo.
Pensatori che dall’incontro tra metodo liberale e messaggio evangelico traggono una Verità demitizzante: La persona è fallibile e lo Stato non è perfetto.
Il perfettismo, invece, è proprio quel sistema che sacrifica i beni presenti all’immaginato futuro compimento, ai progetti utopici.
Di gnosticismo parlerà compiutamente Eric Voegelin nel suo La nuova scienza politica (1968), mostrandoci come l’idea del Terzo Regno, la realizzazione dello Spirito nella società umana come fase ultima della vicenda terrena, la possibile acquisizione razionale della verità politico/sociale, fosse nient’altro che una degenerazione dell’escatologia cristiana, una sua tragica immanentizzazione che si è tristemente realizzata nelle spietate utopie del Novecento.
E con acume Manzoni nel suo Dell’invenzione (1850) affronta l’illuminismo razionalista francese: Robespierre aveva imparato da Rousseau che l’uomo nasce buono e che le istituzioni sono uno ostacolo allo Stato perfetto e proprio per questa negazione dell’evidenza di una natura umana scissa e ferita (che si realizza nelle Fede e nella Speranza e non nel Potere) si prese facilmente la decisione di togliere dalla faccia della terra tutti coloro che con le loro idee sbagliate si opponevano all’edificazione della Società ultima.
Antiseri, ancora, riconosce in questo percorso di Fede e Libertà il ruolo centrale rivestito dal pensiero di Luigi Sturzo. Il popolarismo sturziano, infatti, laico, aconfessionale, partito di cattolici e non cattolico, è l’esempio novecentesco del metodo liberale fiorito dall’intransigenza cristiana e dal culto della Persona.
Il 13 maggio 1954 così scrive Sturzo: nella soppressione di ogni libertà economica si annida l’errore antico di fare dello Stato un idolo: Moloch o Leviatano che sia.
Un idolo che è più pervasivo di qualunque traduzione di una fede fondata sulla trascendenza di una Verità inattingibile se non per speculum in aenigmate (Cor I,13,12); un idolo che è pronto a sacrificare ogni bene all’ottimo di un progresso inevitabile ed automatico, un processo necessario fondato, paradossalmente, sulla sacralità di testi ed analisi qualificate come vere ed incontestabili.
E non possiamo che concludere questa disamina di pensatori cristiani e liberali da dove abbiamo cominciato, da Wilhelm Röpke, dal suo Stato forte e non affaccendato di cui tratta, tra l’altro, nel suo capolavoro Civitas Humana (1943).
L’ispiratore del miracolo economico tedesco era consapevole, infatti, che solo il cristianesimo contrariamente alle civiltà pagane è riuscito progressivamente a porre al centro il Singolo con la sua anima immortale desiderosa di salvezza. Sopra lo Stato c’è la giustizia di Dio e tale giustizia non risponde ai consueti canoni terreni, non si bea del sacrificio, non si accontenta dell’espiazione risarcitoria, non riconosce alla dottrina di Stato l’ultima parola sui cittadini.
E per questo una politica cristianamente orientata non può che essere pluralista e combattere il monopolio in tutte le sue forme e campi di applicazione, anche e soprattutto il monopolio dell’educazione e della formazione.
E nell’ultima parte del suo saggio, Antiseri affronta proprio le resistenze statalistiche alla competizione tra scuole che emerge, in Italia, dalla mancata e piena applicazione dei principi della Legge 62/2000 che ha sancito il passaggio dalla scuola di Stato al sistema nazionale di istruzione costituito dalla scuola pubblica statale e dalla scuola pubblica paritaria.
Non basta, infatti, dichiarare giuridicamente uguali scuole statali e scuole libere, occorre anche sostanziare la libertà delle famiglie di scegliere per i propri figli il percorso formativo più idoneo, anche attraverso forme di finanziamento della libera scelta.
Sul punto Antiseri richiama l’idea avanzata da Milton Friedman, ripresa da Fiedrich von Hayek e introdotta in Italia da Antonio Martino: quella di veri e propri “buoni scuola”, di vouchers non negoziabili che andrebbero non alle scuole ma ai genitori e agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere le scuole alle quali consegnare i loro buoni.
Ciò consentirebbe anche di superare la sterile battaglia ideologica che si impunta su una interpretazione non sistematica e riduttiva di quel “senza oneri per lo Stato” che è previsto dall’art. 33 della nostra Costituzione nel momento in cui riconosce il diritto di Enti e privati di istituire scuole libere. Un diritto che realizza quel pluralismo scolastico che sempre lo stesso articolo 33 tutela allorquando prevede che la Legge debba assicurare alle scuole non statali “piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. Ma quale libertà può essere davvero riconosciuta se l’accesso alle scuole paritarie viene limitato solo agli abbienti, se si esclude in modo assoluto una loro partecipazione congrua, anche indiretta, al sistema di finanziamento dell’istruzione?
La stessa Corte Costituzionale, occorre segnalarlo, nonostante molti ricorsi di incostituzionalità contro la possibilità di finanziamento pubblico del settore educativo non statale, confessionale, a-confessionale o comunale che sia, ha sempre affermato che dal carattere gratuito dell’istruzione obbligatoria – comunque garantita dallo Stato – è necessario spostare l’attenzione sull’adempimento dell’obbligo scolastico, riguardante la generalità degli alunni e realizzabile anche attraverso istituti non statali.
E proprio al fine di consentire l’assolvimento di questo obbligo è legittimo garantire direttamente agli alunni forme di provvidenza pubbliche che hanno come destinatari diretti gli alunni e non le scuole.
Ciò avviene, ci ricorda Antiseri, in tutta Europa con la sola eccezione di Grecia e Italia.
E poi, in definitiva, perché no? Perché non realizzare davvero il pieno pluralismo anche nel mondo scolastico? Perché non consentire, quindi, che la competizione fertile, plurale, sociale e pubblica tra scuole diverse – non solo statali, ma anche confessionali, laiche e diversamente ispirate – sostanzi davvero il diritto naturale delle famiglie e degli studenti di scegliere liberamente – senza vincoli governativi – i maestri, senza subire il peso del monopolio di chicchessia?
E a tal proposito, Antiseri – a chiusura del saggio – propone il pensiero di grandi personalità, non solo cattoliche, a favore della competizione tra scuole:
“Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere” (Gaetano Salvemini).
“Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità” (Luigi Sturzo).
“noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato (Antonio Gramsci).
“Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perché i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme e miri alla produzione di una squallida uniformità” (Bertrand Russell).
“Non si può esaltare l’idea della scuola di Stato senza descriverne la realtà così come non si può denigrare la realtà della suola dei preti senza citarne l’idea. […] Non muoverei dunque oggi un dito in favore della scuola di Stato dove non regna nessuna “libertà di idee”, ma solo conformismo e corruzione e se invece della scuola di Stato come è oggi si parla di come dovrebbe essere, allora vorrei parlare di più delle scuole dei preti come sono oggi (molte) ma come sono alcune (poche) o meglio come dovrebbero essere. E in tal caso non c’è dubbio per me che sarebbero migliori quelle dei preti perché l’amore di Dio è in sé migliore che la coscienza laica o l’idea dello Stato o del bene comune” (don Lorenzo Milani).

Scriveva Karl Popper che perché una democrazia liberale resti in piedi è necessario che sia sorretta da una “solida tradizione”, nella fattispecie da una “struttura morale”

Scriveva Karl Popper che perché una democrazia liberale resti in piedi è necessario che sia sorretta da una “solida tradizione”, nella fattispecie da una “struttura morale”: il costituzionalismo – la separazione dei poteri, la blindatura dei diritti fondamentali, una Corte Suprema, quella Costituzionale, posta a presidio della rigidità della Costituzione stessa … – è essenziale, ma non è sufficiente, trattandosi di mere (per quanto solenni) astrazioni.

Le pietre angolari della democrazia liberale devono insomma essere interiorizzate dai cittadini, cosicché fenomeni antidemocratici e antiliberali non giganteggino e possano essere ben gestiti o neutralizzati dal sistema politico-istituzionale. Il popolo italiano, lo si dica senza alcuna pretesa “scientifica”, ma semplicemente muniti di buonsenso e di una pur sommaria conoscenza dell’Italia, anche quella pre-politica (dalle descrizioni dantesche della penisola, al “familismo amorale”), non è predisposto allo stabile mantenimento di tutte le innovazioni sociali, politiche e giuridiche che hanno fatto dell’Occidente il posto meno invivibile del globo, ma se l’è un po’ ritrovate, specie dal secondo dopoguerra in poi, quando le spinte verso lidi, per così dire, “non occidentali” sono state annichilite da onde anomale di denaro a debito.

Allora, quando i fenomeni antisistema erano per tali ragioni (e non per una qualche struttura morale) minoritari, nel Belpaese veniva praticato il più efficace espediente per la protezione della democrazia. Ed era efficace proprio perchè era in qualche modo a metà tra il proibizionismo politico-ideologico (si potrebbe ri-citare Popper e lo stra-citato paradosso della tolleranza) che finisce sempre per mettere la democrazia parlamentare di fronte una contraddizione strutturale e di ammantare del fascino del proibito le posizioni antisistema, e dall’altra, l’agnosticismo “weimeriano” che rende le democrazie non protette vulnerabili all’ascesa di movimenti antidemocratici e antiliberali.

La “terza via” di cui stiamo parlando era la conventio ad excludendum, che permise la lunga traversata della democrazia italiana, per quanto si trattasse di una democrazia bloccata o di una quasi-democrazia, per un dopoguerra assai difficile, accogliendo a bordo – ma fuori dalla plancia di comando, con un’unica blanda eccezione che comunque confermò la regola, visto la durata del governo Tambroni – il più grande partito comunista dell’Occidente e un partito neo-fascista, “autenticato” dalla presenza di ex gerarchi di regime.

L’anno scorso alle politiche (e quest’anno alle europee, ma a parti invertite) a vincere le elezioni sono stati due partiti antisistema: uno strutturalmente, programmaticamente e orgogliosamente antiparlamentarista e l’altro esplicitamente suprematista, nonché aduso a scambiare le autorità di pubblica sicurezza per guardie pretoriane del sovranisticamente corretto. E sono stati questi due partiti a porre in essere una conventio, un vero e proprio contratto, adexcludendum verso Renzi e Berlusconi, gli unici due guardiani del faro liberal-democratico rimastici (suona stranissimo, specie per il secondo, al quale esplicitamente si diede del duce per un intero ventennio, con messinscene da “il regime è alle porte”, imbavagliamenti in diretta televisiva e girotondi in piazza; ma anche per il secondo, additato per tutta la campagna pre-referendaria del 2016 quale responsabile di una prossima ventura deriva autoritaria; quando si urla “Al lupo! Al lupo!”…).

I due suddetti partiti, M5S e Lega, ben lungi dall’istituzionalizzarsi, hanno iniziato adaggredire gradualmente l’edificio liberal-democratico, i primi con un riforma orwelliana della giustizia e l’approvazione in tre letture di un legge di revisione costituzionale che – in combinato disposto con una legge “sull’applicabilità delle leggi elettorali” e con l’eventuale introduzione del referendum propositivo – minimizza il parlamento, la cattedrale della democrazia, a favore del plebiscitarismo; il secondo con la personalizzazione e la banalizzazione del ministero dell’interno – istituzione sacra al punto che, prima di Alfano, nessuno nella storia della Repubblica andò al Viminale da capopartito, giusto per esorcizzare il rischio di contaminarlo di faziosità – con un approccio a metà tra Jerry Calà e Mario Scelba, oltreché ovviamente con l’approvazione di due decreti sicurezza cattivisti e presumibilmente anticostituzionali e la sistematica presa in ostaggio di naufraghi disperati.

Il tutto senza citare né i programmi di politica economica simil-latinoamericani e lo spostamento del baricentro geopolitico verso regimi autocratici, cui ambiscono ambedue i gemelli antisistema né la subordinazione psicologica (visto che in termini di rapporti di forza intra-parlamentari sono messi assai meglio) dei pentastellati al Capitano, del quale non solo hanno avallato silenziosamente, quando non con partecipazione attiva, i più disumani provvedimenti, ma che hanno persino salvato, loro iper-giustizialisti, da un sacrosanto processo per cattivismo, giustificandosi con formule degne del peggior azzeccagarbugli.

Adesso, in vista del passo falso del “Capitano”, ex genio, e dei due forni nuovi di zecca a disposizione del M5S, ci si sforza per capire cosa sia meno pericoloso tra salvinismo e grillismo. Questa gentaglia – perché tale è chi vuol smontare la democrazia liberale, in questi casi l’ostilità politica non può non trascendere nell’antipatia umana, per dirla con un eufemismo – potrebbe beneficiare o di una ri-legittimazione (M5S) o di un ritorno all’ovile e conseguente ri-conferma al Viminale nonostante un errore grossolano da politico simil-dilettante.

Se Salvini comunque non era, col senno di poi, in una posizione win-win, come una diffusissima psicosi ci aveva fatto credere, è la democrazia a trovarsi invece in una posizione lose-lose: comunque vada, in attesa del risveglio di nuovi poli non populisti, ci teniamo sempre in equilibrio sull’orlo di un precipizio politico-istituzionale.

stradeonline.it

Le tappe. Cosa succede ora: iI timing e i nodi della crisi dell’Esecutivo giallo-verde

Voto di (s)fiducia al Senato, poi le consultazioni di Mattarella e due possibili scelte: esecutivo di transizione o governo dimissionario per le elezioni
'Parlamentarizzare' la crisi allunga i tempi e mette a rischio il varo della legge di bilancio da parte della nuova maggioranza. L’ipotesi 'esecutivo di transizione'

‘Parlamentarizzare’ la crisi allunga i tempi e mette a rischio il varo della legge di bilancio da parte della nuova maggioranza. L’ipotesi ‘esecutivo di transizione’

Avvenire

A meno che il premier Conte non si dimetta subito senza passare dall’Aula, imprimendo un’accelerazione alla crisi, il pallino passa in mano ai presidenti delle Camere Fico e Casellati. Sono loro due, adesso, insieme ai capigruppo, che devono valutare i tempi e i modi più opportuni per portare la crisi in Aula. L’ipotesi ieri più accreditata è che Conte chieda la fiducia solo al Senato, la prima Camera che gli ha dato il mandato a governare più di 14 mesi fa. Un passaggio sarebbe sufficiente e renderebbe superfluo un ‘raddoppio’ a Montecitorio.

A Palazzo Madama si innescherebbe ufficialmente la crisi: Conte chiederebbe la fiducia, non la otterrebbe e di conseguenza si recherebbe dimissionario al Colle, decretando la fine del governo Conte. A seguire si apre la fase due. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella svolge le consuete consultazioni con i gruppi parlamentari guidati dai rispettivi leader. Se le Camere sfiduciano Conte il 20 agosto, le consultazioni possono svolgersi già il 21. Non dovrebbero durare più di una giornata. A conclusione, il capo dello Stato comunicherebbe le sue decisioni: se ritiene – cosa al momento poco probabile – che ci sia una nuova maggioranza possibile, potrebbe offrire incarichi esplorativi o un pre-incarico. Ma non sembra questa la circostanza. Piuttosto, Mattarella dovrebbe trovarsi di fronte a un mare di veti incrociati.

In tal caso, avrebbe due strade. La prima: sciogliere le Camere e lasciare in carica per gli affari correnti il governo dimissionario di Giuseppe Conte. La seconda: fare una proposta al Parlamento per un governo di transizione che, se bocciata, condurrebbe il Paese alle urne. Con questi passaggi, si arriverebbe intorno al 26-27 agosto.

Sciogliendo le Camere in quei giorni, si potrebbe andare al voto il 27 ottobre, nel pieno della sessione di bilancio. Un bel rischio. Considerando poi che le nuove Camere vengono convocate 20 giorni dopo il voto, e che prima di mettere mano al governo si eleggono i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, il nuovo esecutivo metterebbe le mani sui conti molto tardi.

Servirebbe un’intesa specifica con l’Europa per avere più tempo. Il tutto in un contesto segnato dal rischio di un forte aumento delle aliquote Iva. Tutto questo, come detto, a meno che Conte, valutata nelle prossime ore la degenerazione della situazione politica, non decida di dimettersi. Al momento così non pare. M5s vuole una ‘crisi lunga’ e ha i numeri in Parlamento per imporre i suoi tempi e la sua strategia. E in questi tempi relativamente lunghi possono innescarsi meccanismi e dinamiche al momento imprevedibili.

Salvini, il voto anticipato, deve ancora sudarselo.

Società. Se la politica si riduce a mera arte del sedurre

da Avvenire

Secondo il filosofo Gilles Lipovetsky l’impenitente Don Giovanni appare un principiante, rispetto all’odierno marketing alla conquista strategica dei consumatori/elettori

Se la politica si riduce a mera arte del sedurre

Non c’è dubbio che il desiderio di piacere, di mettersi in mostra, di farsi belli con mille artifici per attrarre gli sguardi e la benevolenza altrui o conquistare consensi a suon di messinscena, sia vecchio quanto il mondo. Ritualizzata, circoscritta in passato in una coreografia di relazione e corteggiamento tra uomini e donne, la seduzione è diventata oggi un imperativo che pervade in modo nuovo ogni ambito della vita individuale e collettiva, acquisendo una centralità e un potere mai visti. E ben oltre i confini delle manovre amorose, lasciandosi alle spalle l’immaginario secolare della bellezza moralmente fonte di pericoli, tirannia tentatrice da tenere a freno, reprimere e condannare come si deduce dall’etimologia delverbo sedurre, dal latino seducere, ovvero attirare a sé, deviare dalla retta via, indurre in errore.

Dal rischio del moralismo ci si è smarcati da tempo con il trionfo del desiderio, diventato diritto-dovere di modificare qualsiasi parte del corpo e metterla in scena, di piacersi e piacere fuori da ogni protocollo, lontani anni luce da quel binomio di rituali galanteria/civetteria entro cui si muoveva la seduzione classica. Oggi nell’era dell’accelerazione dei contatti, delle relazioni in Rete libere e veloci, compresse e immediate, anche la seduzione si è fatta iperbolica e fast, e persino prepotente arma di potere e controllo.

Viviamo l’era della seduzione sovrana, una logica globale senza precedenti che riorganizza sistematicamente i territori del consumo, dei media, dell’economia, dell’educazione e della politica. Siamo tutti dentro un tempo in cui la regola principale è «piacere e colpire», per dirla con il titolo di questo corposo saggio di Gilles Lipovetsky, Piacere e colpire. La società della seduzione (Cortina, pagine 424, euro 29). Docente di Filosofia all’Università di Grenoble, raffinato osservatore delle tra- sformazioni culturali e sociali della contemporaneità, Lipovetsky entra nelle pieghe dell’ipermodernità seduttiva e incantatrice, dell’economia consumistica ed emotiva, del marketing politico e dell’educazione liberale alla ricerca della felicità, mostrandoci della seduzione globale i punti di forza, dopo averne ampiamente e spietatamente documentato le derive.

Da mezzo secolo siamo piombati nella società del totalmente attraente dove la seduzione, uscita dal mondo dei salotti si è estesa all’infinito mondo, tanto che – sostiene Lipovetsky – l’impenitente Don Giovanni con i suoi eccessi oggi appare un principiante seduttore rispetto all’appetito insaziabile del marketing, alla conquista strategica dei consumatori come degli elettori. Obbligata a essere creativa, a reinventarsi continuamente imboccando strade inedite, la seduzione sovrana è diventata tentacolare, il vero volto del potere nelle società democratiche liberali, senza che ci sia riprovazione o che si cerchi di metterla sotto controllo. Piacere e colpire è la regola su cui poggia. La stessa legge che dai tempi di Corneille, Molière e Racine ha governato e legittimato nel teatro il primato del piacere suscitato nel pubblico, per generalizzarsi tre secoli dopo nell’universo mondo, insinuata nell’economia del consumo e nella politica.

«Ovunque – spiega Lipovetsky – lo scopo è quello di piacere e commuovere, sollecitare le emozioni, catturare i desideri e gli affetti». Tentare, incitare ininterrottamente al consumo compulsivo il consumatore con il sempre nuovo, «affascinare l’elettore, lusingare le passioni collettive meno lusinghiere e ciò al fine di avere la meglio sugli avversari, conquistare il potere e conservarlo». Così il marketing politico spettacolare «vende personalità, crea notorietà piuttosto che visioni del mondo», mette in scena la vita privata dei politici, nei talk show, nelle piazze e sulle copertine delle riviste, per avvicinarli alla gente comune, generare simpatia, in realtà vendendoli ai cittadini consumatori d’immagini.

Nella politica spettacolo nulla viene lasciato al caso, non l’informalità, non i vezzi del look, neppure quella che Lipovetsky chiama la «retorica incendiaria» che fa da contrappeso alla politica compassionevole. È la seduzione del politicamente scorretto giocato a suon di eccessi, violenza verbale, volgarità, di quei discorsi oltraggiosi che hanno fatto per esempio la fortuna di Trump, il cui carisma «non si basa sulla virtuosità della parola ma sui discorsi poco strutturati, su una retorica pubblicitaria fatta di formule scioccanti e grossolane, esprimendo un iperindividualismo narcisistico e aggressivo ».

Un mix di elementi che ha trasformato la sua campagna elettorale in un grande show che, per quanto brutale « ha sedotto un elettore bianco e anziano, poco istruito, di mezzi modesti, amareggiato, ostile alla élite economiche, politiche e culturali » . Ma se la politica non fa più sognare, anzi ha perso credibilità e forza di attrazione – sottolinea Lipovetsky – è anche responsabilità dell’impegno dei politici a sedurre gli elettori con promesse ingannevoli e ricette miracolistiche.

Una scelta che apparentata al gioco dei social dei like e dei tweet rende però la magia della simpatia dei leader fragile e a breve scadenza. Come si capisce il tempo della seduzione sovrana e irresponsabile con tutte le sue ricadute sulla nostra vita sociale e culturale non è quanto di meglio si possa sperare ancora per il futuro, neppure quell’utopia o almeno quell’obiettivo ambizioso che ci si augura per l’umanità ma, conclude Gilles Lipovetsky, ma da qui si po’ ripartire se non per sovvertirla almeno per emendarla. Instillandole degli anticorpi utili a promuovere modi di vita creativi più umani e di senso. E per fare questo bisogna scommettere sull’educazione, su una scuola ambiziosa che alzi gli obiettivi, sappia elevare le risorse intellettuale e far crescere passioni ricche e buone delle nuove generazioni. Mica facile.

avvenire

CONTE VUOLE DIALOGO CON L’UE, ‘NIENTE PROVE MUSCOLARI’

ansa

FUMATA NERA A VERTICE, POI SALVINI RIUNISCE SUOI MINISTRI L’Italia rispetterà il patto di stabilità ma il nuovo quinquennio europeo dovrà servire a una revisione delle regole. E’ questa la strategia del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, delineata ieri a un Forum ANSA, per evitare la procedura d’infrazione dell’Ue. ‘La lettera dell’Italia è pronta’, dice, precisando di cercare un ‘confronto’ e non ‘una prova muscolare’. Ieri mattina il vertice di Palazzo Chigi sulla risposta da dare all’Ue si era concluso con una fumata nera, demandando a sette tavoli di lavoro, uno dei quali sulla flat tax, la definizione della linea da seguire. Nel pomeriggio Salvini ha riunito nella sua casa romana i ministri leghisti, incontro suggellato con una foto su Facebook accompagnata da un post: “Su sicurezza e immigrazione, su lotta alla mafia e alla droga, sempre avanti con la ruspa. Dalle parole, ai fatti!”. 

Così come a scuola non si dovrebbe studiare (ed insegnare) per il ‘quanto basta’ ma per capire e scoprire, allo stesso modo e ancor meglio le realtà ecclesiali sono chiamate ad esprimere l’ansia pastorale per il bene comune

vinonuovo.it

Sulla vicenda della docente di Palermo, sospesa per diversi giorni per l’accostamento che alcuni suoi alunni avevano fatto tra le “leggi razziali” e il “decreto sicurezza”, avevo scritto un articolo per un quotidiano sul ‘fare o meno politica a scuola’. Qualche giorno fa, in occasione della presentazione di due miei libri in una parrocchia, una signora si avvicina alla fine per ringraziarmi e mi mostra la pagina con il mio articolo, chiedendomi quando ne avrei scritto uno sul ‘fare o meno politica nelle realtà ecclesiali’. Oggi, più ci rifletto più mi vengono in mente gli stessi concetti applicati alla scuola e quindi provo a convertirli ecclesialmente.

Innanzitutto è giusto o sbagliato? La politica che deve restare fuori è quella partitica – quella della militanza di destra, centro, sinistra, con i relativi estremi di qua o di là, tranne che non si dibatta sulla cronaca, a partire dai giornali, da un evento particolarmente significativo, e sempre mostrando tutte le sfaccettature. Non si può e non si dovrebbe fare a meno, invece, della politica come ‘ricerca del bene comune’ o come ‘la più alta forma di carità’. In tal senso, parrocchie, oratori, movimenti e associazioni sono state in passato un laboratorio politico e di politica, palestre in cui imparare nella libertà e con responsabilità ad essere “onesti cittadini e buoni cristiani”, costruttori della società! Di questo abbiamo tanto bisogno e forse tante realtà con tale prospettiva dovrebbero ritornare in campo un po’ dovunque.

Scrivendo sulla scuola, ho affermato – per quanti vogliono al contrario una totale asetticità e distanza dalla politica nelle classi – di non dimenticarsi che ci sono pagine e pagine di Storia dedicate, capitoli di Geografia, ore di Cittadinanza e Costituzione, dibattiti e teorie della Filosofia. E come parlare di Dante senza toccare il tema politico? Come trattare Machiavelli, Foscolo, Alfieri, Manzoni? E andando indietro, possiamo forse eliminare tutte le tragedie greche sul tema o alcune commedie di Aristofane? Oppure c’è modo di conoscere davvero Cicerone senza?

Scrivendo, ora, sulla Chiesa direi che alcuni degli Autori citati calzano perfettamente, ai quali è bene aggiungere la sfera della santità citando tra i nomi Tommaso Moro, Giorgio La Pira, Alberto Marvelli, Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, ma ci sono anche tanti re e regine dei secoli precedenti, molti “santi sociali”; è che dire dei papi come capi di stato, dei vescovi che hanno risposto a tutte le necessità della gente e dei parroci che in varie piccole realtà sono considerati più del sindaco. Certo, è vero che in diverse situazioni alcuni politici, formati in contesti ecclesiali, hanno sfruttato l’appartenenza per fini propri e di potere, nonché travisato gli insegnamenti, e persino tradito il Vangelo; ciò non vuol dire che non ci sia speranza, che è meglio non parlarne nei gruppi ecclesiali, che la politica resti fuori dagli oratori, che la Dottrina della Chiesa in tal senso si fermi ai convegni per gli addetti ai lavori o agli uffici di curia.

Così come a scuola non si dovrebbe studiare (ed insegnare!) per il ‘quanto basta’, per la ‘meno peggio’, per il ‘politically correct’, per sopravvivere e prendersi un pezzo di carta, bensì per capire e scoprire, per discernere e giudicare, per comprendere e desiderare di saperne di più, allo stesso modo e ancor meglio le realtà ecclesiali sono chiamate ad esprimere l’ansia pastorale per il bene comune, a testimoniare l’impegno per la cura del creato e della società, a scommettere sin dalla catechesi sulla formazione di “credenti credibili”, a mostrare la passione per il servizio responsabile nei confronti di ogni povertà. Tutto ciò è una scelta comunitaria oltre che personale, un’opzione pastorale fondamentale non secondaria, un altro modo di pregare e di servire il Vangelo.

I cattolici italiani e le loro scelte elettorali. Gli interessi più dei valori?

Avvenire

Fra le questioni che l’elezione europea del maggio 2019 ha lasciato aperte vi è quella che fa riferimento al rapporto tra voto politico e atteggiamento religioso. In alcuni momenti della storia d’Italia è apparso assai stretto il nesso che collegava fra loro l’atteggiamento verso la religione (e, in generale, la pratica religiosa) e le scelte di voto dei cittadini. Per circa mezzo secolo la Democrazia Cristiana ha direttamente o indirettamente beneficiato di questo collegamento, dal quale sono derivate dapprima le sue fortune e poi le sue sfortune. Dopo la fine della Dc, con la progressiva frantumazione di quell’eredità politica e morale, e in assenza di formazioni politiche facenti esplicito e dichiarato riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa e, in generale, ai valori evangelici, questo nesso si è quasi del tutto spezzato e il voto dei cattolici, anche di quelli dichiaratamente praticanti, si è decisamente spostato dal punto deivalori (tutti, non solo alcuni) a quello degli interessi. Un fenomeno che riguarda l’intero corpo elettorale – anche il direttore di questo giornale insiste da tempo su tale processo – ma che nel caso dei cittadini-elettori cattolici più impegnati sta diventando particolarmente stridente e impressiona persino di più.

Si tratta di una scelta di per sé anche legittima – apparendo comprensibile che i singoli cittadini abbiano a cuore i propri interessi, reali o presunti –, ma che di per sé fa intravedere alcune ombre: è infatti legittimo, per i singoli credenti, votare per una forza politica che tuteli i propri interessi prescindendo del tutto dall’attenzione ad alcuni fondamentali valori? Tentare di dare una risposta a questo interrogativo in modo organico e articolato supererebbe inevitabilmente il breve spazio di un articolo di giornale. Ciò per altro esime dal prospettare alcune considerazioni che dovrebbero, quanto meno, indurre a una seria riflessione (e, se necessario, a una sincera autocritica). Rispondere a questo interrogativo impone necessariamente anche una riflessione sul senso e il valore della politica, di qualunque politica. Essa ha come unico e principale compito quello di promuovere e tutelare gli interessi (sia pure legittimi) o deve anche farsi carico – in una prospettiva più ampia e più completa – di quello che tradizionalmente, nel linguaggio del tradizionale insegnamento della Chiesa, è stato da sempre definito il Bene comune? In quest’ultima prospettiva dovrebbe essere ritenuto doveroso compiere una scelta di campo a favore di coloro che meglio garantiscono, o sembrano garantire, il perseguimento più completo possibile dei valori piuttosto che la tutela dei propri interessi. Ma sembra che difficilmente ciò avvenga, anche nell’ambito di coloro che si considerano credenti e che forse, al momento del voto – quasi prigionieri, appunto, dei propri interessi – si lasciano da questi, e da questi soltanto, condizionare.

La constatazione di tale divario – che da alcuni decenni a questa parte sembra diventato sempre più accentuato – dovrebbe preoccupare non poco la comunità cristiana. Certo – lo scriveva circa 1.800 anni fa la “Lettera a Diogneto” –, i cristiani sono come gli altri e vivono nella stessa città degli altri con gli stessi doveri; ma non devono in tutto e per tutto lasciarsi assimilare, consegnarsi a quello che una volta si era soliti chiamare lo “spirito del tempo” (oggi lo “spirito delle mode” o forse addirittura lo “spirito della guida” di turno…). A parere di chi scrive, si impone dunque, per la comunità cristiana, a tutti i livelli, a partire dagli inizi del cammino catechistico per arrivare alle omelie domenicali e, augurabilmente, a vere e proprie scuole di “educazione alla cittadinanza”, un arduo ma necessario compito di formazione dei fedeli.

Un compito fondato sull’educazione alla socialità, ‘grande assente’, assai spesso, della normale pastorale e della prevalente omiletica: per evitare che l’appello ai valori del grande e concreto umanesimo al quale il cristianesimo ha dato anima sia semplicemente una «voce che grida nel deserto » o, peggio ancora, diventi sempre più una malaccorta copertura di inconfessati, e anche inconfessabili, interessi.