Parrocchie del centro storico Corsi per fidanzati 2022 in preparazione al Matrimonio

PROGRAMMAZIONE

SANTO STEFANO 2022 (Reggio Emilia città)

22 MARZO “Il sacramento del matrimonio” – rel. diacono Enrico Grassi
29 MARZO “La parola di Dio fondamento del matrimonio” – rel. coniugi Gozzi
5 APRILE “La relazione e le sue difficoltà”- rel. dott. Soliani
12 APRILE “Il dialogo nella coppia” – rel. dott. Soliani
19 APRILE “I corrosivi del matrimonio, ovvero essere buoni osservatori”- rel. coniugi Cavalca
26 APRILE “La conoscenza della fertilità” – rel. Maria Chiesi
3 MAGGIO“I figli dono di Dio” – rel. diacono Enrico Grassi

– Tutti i corsi si terranno alle ore 21 presso la Parrocchia di Santo Stefano. Al termine di ogni corso verrà anche rilasciato l’attestato di partecipazione. I corsi potrebbero subire variazioni per le date e/o modalità di fruizione, ONLINE O IN PRESENZA, secondo la normativa anti-covid.
– Le prenotazioni si POSSONO EFFETTUARE  presso la parrocchia di Santo Stefano o CON il responsabile degli stessi CORSI diacono Enrico Grassi cell. 3389805145
– il corso è gratuito ma si può collaborare “volontariamente” con offerta al fine dello stesso!

Reggio Emilia / Avvisi per Domenica 15 Agosto 2021. Orari celebrazioni Cattedrale, S. Prospero, S. Teresa e S. Agostino

Domenica 15 agosto 2021 Santa Maria Assunta 

– ore 11.00 Solenne celebrazione in Cattedrale (presiede Vicario)

– ore 11 S. Messa in S. Teresa (presiede Mons. Caprioli

* In S. Prospero e in S. Agostino: Santa Messa dell’Assunta alle ore 9 

* In S. Teresa e in S. Stefano: sospesa la Messa delle ore 10.00

* In S. Agostino: sospesa la Messa delle 11.00

Indulgenza plenaria in Cattedrale il giorno 15 agosto

Risultati immagini per assunta cattedrale reggio emilia

La missione che cambia

È un argomento che oggi non dibattiamo più con il «furore» del passato, ma che rimane ancora vero ed attuale. Ne ho trattato molte volte e ancora oggi ogni tanto mi si interpella su quest’argomento. Confesso però di farlo ora con minore entusiasmo perché ho l’impressione di… battere l’aria, dal momento che questo discorso si scontra con diversi dati di fatto che sembrano smentirne l’importanza.

Una «missione» che cambia
Ho l’impressione che il termine «missione» stia progressivamente perdendo il significato che aveva qualche decennio fa; inoltre il rapido ridursi numerico dei missionari ad gentes insieme con il calo di interesse di questo tema – nella transizione conciliare ancora incompiuta dalle «missioni» alla «missione» – fa sì che la missione ad gentes non sia più considerata come il compito specifico ed esclusivo dei missionari.

Questo non è per sé un male… ma il passaggio della missione dalla responsabilità degli Istituti alle singole chiese locali ha prodotto un diluirsi dell’urgenza e della partecipazione alla missione da parte delle comunità cristiane. Tante sono le ragioni che giustificano la mia reticenza, anche se l’argomento conserva ancora una sua importanza che lo rende ancora vero e attuale. Quali sono i compiti della missione ad gentes che oggi ancora la riguardano e la giustificano e insieme quali sono i punti problematici della missione ad gentes oggi?

Il primo elemento di questa transizione in linea con l’ecclesiologia conciliare è proprio il fatto che il modello missionario in vigore fino alla metà del secolo scorso è oggi irrimediabilmente oggetto di una profonda evoluzione. La missione ad gentes trova ancora dei seguaci che non intendono abbandonare il modello tradizionale – sia detto senza alcun disprezzo da parte mia – da parte dei missionari che vanno in missione e continuano il loro servizio, sia da parte delle comunità cristiane che volentieri ancora li appoggiano e collaborano con essi, penso ai generosi gruppi missionari delle parrocchie e delle diocesi.

Il fatto che il Concilio abbia affidato la missione a ogni comunità cristiana di giovane o antica origine, ha fatto evolvere il dovere missionario e sta mandando in archivio la specificità missionaria legata agli istituti missionari «vecchio stile».

Forse è proprio questa la ragione per cui la missione, pur teologicamente più corretta e politicamente o storicamente più libera, non attira più molti candidati. L’affermazione teologicamente molto vera che «tutti sono missionari», ha tolto urgenza e significatività all’impegno missionario. Allo stesso modo la missione intesa come «comunione fra le Chiese» ha contribuito a purificare l’idea della missione da ogni forma coloniale, esclusiva ed eroica del passato, ma ne ha insieme diluito la forza.

Un ultimo elemento di questa mutazione è l’attuale sviluppo degli istituti missionari che hanno assunto un nuovo, ancorché inevitabile, volto interculturale: i nuovi missionari, frutto della prima missione, sono presenti ora nelle nostre chiese e sono dichiarati i missionari del futuro. Si tratta di uno sviluppo provvidenziale e inevitabile di quella circolarità della missione che, come si usava dire qualche tempo fa, «ritorna a casa», da dove era partita.

Verso una missio «inter gentes»
Un secondo elemento di questo cambiamento, di cui è oggi impossibile non tener conto, è l’allargamento degli obiettivi della missione.

Fino a qualche tempo fa, era facile stabilirne l’ampiezza, quando la missione ad gentes aveva un duplice – e oggi dopo Redemptoris missio 34 – triplice obiettivo o ambito: l’annuncio del Vangelo, la costituzione di nuove comunità cristiane con una gerarchia sempre più autoctona, e la promozione dei «valori evangelici» detti anche «valori del Regno» (ivi). Quest’ultimo ampliamento, pur ancora abbastanza indefinito, ha forzato i confini dell’ad gentes che ora include nuovi campi di missione come l’impegno per la costruzione di un mondo nuovo secondo il Regno di Dio e soprattutto il dialogo interreligioso (non solo accademico!). Questo nuovo ambito impone di salvaguardare la verità della missione ad gentes ed escludere ogni forma di relativismo veritativo: un nuovo ineludibile impegno!

Per questo oggi non è più possibile mettere praticamente tra parentesi le religioni non cristiane come non fossero «vere» religioni, interlocutrici necessarie della missione: questo postula un allargamento dell’evangelizzazione fino a parlare di missione inter gentes dove le religioni non cristiane non sono più ignorate come ambiti non suscettibili di missione, perché resistenti all’annuncio del Vangelo o, peggio ancora, concorrenti dello stesso.

Altri allargamenti d’orizzonte
Così il tema della liberazione e dell’opzione preferenziale dei poveri che tanto ha travagliato la missione tradizionale per il rischio – esagerato – di ideologizzazione e che spesso le è stato contrapposto, oggi è una delle urgenze della missione cristiana.

Papa Francesco con Laudato sì’ ha ulteriormente dilatato gli interessi della missione cristiana al campo della dell’ecologia integrale, diventata una sfida dell’umanità tout court dalla quale la Chiesa non può esimersi per le sue implicazioni politiche e teologiche. L’ecologia integrale obbliga la Chiesa a collaborare con le forze socio-politiche e ad affrontare temi che, solo vent’anni fa, erano considerati, se non estranei, almeno non specificamente legati alla missione evangelizzatrice. Si pensi ai problemi del sottosviluppo del mondo, della pace e delle migrazioni interne e internazionali.

Mi fermo a questi tre aspetti dell’attualità della missione per non entrare, ad esempio, nel campo delicato della inculturazione del Vangelo che domanderebbe un capitolo a parte ed è stato già ampiamente trattato in passato. Ma non posso dimenticare che questi nuovi sviluppi costringono i missionari e gli istituti che alla missione fanno riferimento, a rivedere e rinnovare profondamente la formazione spirituale e accademica dei loro membri.

È fuori corso, morto e sepolto, quel principio dato per normale che per essere missionari bastava poco o nulla, oltre la buona volontà di partire e lavorare. Oggi le cosiddette opere con il relativo impegno finanziario ed economico non sono più il cuore della missione, perché molto più importante del denaro e degli strumenti tecnici è la testimonianza di una vita evangelica, povera e casta – che non è affatto una novità – dalla quale dipende la credibilità della missione stessa, base per una presenza umile e disarmata, e garanzia di un dialogo fraterno e vero con il mondo da parte di una Chiesa che si riconosce più sorella e madre più che signora e maestra, segno di comunione e di attenzione per il mondo.

Questa identità «spirituale» dovrà però essere accompagnata da una umanità ricca e aperta e da una preparazione intellettuale non qualunque, due realtà che non possono essere semplicemente date per scontate.

Rovereto, 4 agosto 2021.

P. Gabriele Ferrari sx
in Settimana news

La questione sinodale richiede una ricostruzione storica condivisa che permetta di uscire da alcuni pantani ecclesiali che sembrano oggi ineluttabili

Non ho la possibilità di rispondere puntualmente alle riflessioni qui svolte da Sergio Ventura a partire dalla mia rubrica su Jesus dello scorso luglio. Provo tuttavia a reagire in spirito di dialogo.

Accostare due sinodi così lontani è chiaramente una provocazione che, in quanto tale, resta precaria e fragile. L’intento era unirmi a coloro che avvertono urgente la necessità di una narrazione di parresìa sui decenni coincisi con le presidenze della CEI del card. Ruini e dei suoi immediati successori (a scanso di equivoci, «parresìa» non è qui da intendersi come «grande sincerità e coraggio individuali», ma nel senso molto più complesso che Andrea Grillo ha ben spiegato qui).

Non sono uno storico, ma occupandomi di teologia, posso riconoscere come non esista quasi nessun tema di grande attualità per la Chiesa italiana che non si trovi a dover fare i conti con quanto è successo negli ultimi quarant’anni, su cui è tuttavia difficile una narrazione condivisa. Trattando ad esempio del tema «teologia e cultura», due anni fa scrivevo insieme alla prof.ssa Stella Morra che:

«a metà degli anni ’80, la Conferenza Episcopale Italiana, su richiesta esplicita di papa Giovanni Paolo II, insistette molto sulla promozione di alcuni valori identitari, intorno cui costruire un profilo riconoscibile del cristiano cattolico italiano. Tali intenti trovarono una concretizzazione esplicita in una serie di iniziative sfociate nel Progetto Culturale della fine degli anni ’90. Lo scopo dichiarato era strutturare su valori o principi – che poi avrebbero trovato nei documenti magisteriali la qualifica di «non negoziabili» – una sorta di scheletro culturale del popolo di Dio. Esso, tuttavia, ha creato una situazione di conflitto – per certi versi diremmo inevitabile – che la chiesa italiana non aveva mai vissuto con questi toni, a differenza di altri paesi vicini come la Francia. La forte polarizzazione che ne è scaturita – anche all’interno della chiesa stessa – ha portato a una sconfitta di tutte le parti: abbiamo infatti quasi completamente rigettato una matrice popolare senza tuttavia conquistarne altre, consumandoci in scontri duri e spesso sterili» (Incantare le Sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, 234).

Questo embrionale tentativo di valutazione – molto più articolati sono ad esempio i saggi di Sorge giustamente citati da Ventura, o gli studi di De Rita – non vuole essere un giudizio di valore sull’operato dei singoli, sui quali ci sembra pleonastico ricordare che tra cristiani vale sempre l’attribuzione delle migliori intenzioni e il riconoscimento dell’assunzione di responsabilità in spirito di servizio, quanto piuttosto una ricostruzione che permetta di uscire da alcuni pantani in cui oggi vige quasi una sensazione di ineluttabilità, più che di immobilismo. Pur riconoscendo ai protagonisti del tempo la loro retta intenzione e la bontà di alcune scelte, penso che oggi sia evidente come i prezzi pagati siano stati molto alti. E non solo per la «cultura», ma anche per molti altri campi dell’evangelizzazione.

Faccio un altro esempio. Negli stessi anni del testo che evocavo nel pezzo su Jesus, il prof. Severino Dianich avvertiva che interpretare la «missione» nel senso del «compito pastorale» – come poi è stato spesso fatto – avrebbe portato inevitabilmente a una «strozzatura individualistica, soprattutto quando missione e compito pastorale restano determinati da un’ecclesiologia della struttura invece che dell’evento, da una teologia della chiesa nella quale, in maniera esplicita o nascosta, si pensa la chiesa esistente quando esiste il suo apparato sociale, dal quale essenzialmente emana la sua operosità, e non quando esiste il fatto comunionale come principio del suo agire. […] Se alla chiesa “piantata” resta da svolgere un compito pastorale che non è la missione, il suo problema principale non è più quello del rapporto con il mondo, ma quello della salvezza dei singoli cristiani. Il problema del rapporto con il mondo, dalla grande questione dell’impatto del vangelo con la storia si riduce alla piccola questione della rivalità fra la chiesa e lo stato, e della distribuzione delle competenze fra autorità religiosa e civile nella determinazione della vita pubblica dei cittadini. Succede così che si ha una chiesa decisamente apolitica alla base e una chiesa fortemente politicizzata al vertice: l’abbondantissima letteratura sul problema chiesa-stato, dove la chiesa non è la comunità cristiana ma solo la gerarchia, e dove lo stato non è la comunità civile ma la sua organizzazione nelle strutture dell’autorità, testimonia della grave restrizione di interessi nella quale una simile teologia prima o poi va a finire» (Chiesa estroversa, San Paolo, Cinisello Balsamo 20182, 133-134. [ed. or. 1987]) [1].

Era il 1987. Internet era fantascienza e il delitto d’onore era stato abrogato da solo 6 anni. Ma i grandi teologi hanno questo di bello, che vedono lontano. E i loro insegnamenti sono qualcosa cui si può tornare. A patto ovviamente che la storia sia raccontata tutta e, in quegli anni, la posizione di Dianich non fu certo tra le più ascoltate.

Tornare alla dignità del sacerdozio battesimale, vivere senza paura l’ecumenismo, riconoscere le questioni di genere, ridare slancio al movimento liturgico, stare dalla parte dei poveri anche quando non è comodo, affrontare il conflitto imparando la fraternità: l’elenco potrebbe continuare, ma questi temi non vanno interpretati come i singoli campi di battaglia in cui oggi dobbiamo entrare per sconfiggere l’avversario di turno (fuori e dentro la chiesa), quanto piuttosto le direttrici della forma che la chiesa italiana prenderà nel prossimo futuro. Questa prospettiva si acquisisce, a mio giudizio, assumendo anche un valido punto di vista storico, di cui abbiamo necessità urgente.
vinonuovo.it

Quei favolosi giovani animatori…

di MARCO PAPPALARDO in Vino Nuovo
I giovani ci sono in questa estate “per” e noi dove siamo? Non al posto loro, non senza di loro, mai prima di loro; ed invece “accanto” con discrezione, “vicini” quanto basta per dare una pacca sulla spalla, “un passo indietro” per dare un segno di “ok” visibile, “insieme” tutte le volte necessarie, pure lontani tuttavia in preghiera per loro.
ono adolescenti e giovani favolosi, dobbiamo dirlo! Sono gli animatori delle estati ragazzi, Grest, campi estivi, attività varie di parrocchie, associazioni, movimenti, oratori, gruppi ecclesiali. Sono un dono e una risorsa da non “sfruttare” come manodopera per necessità, ma da curare alla maniera di un bene prezioso. Non parliamo di extraterrestri, smidollati, sfigati, bensì degli stessi ragazzi che ogni giorno potremmo incrociare sul bus, in piazza, al bar, on line, un po’ dovunque.

Mentre ci sembrano distratti, sono più che connessi; quando pare che non ascoltino, hanno le antenne tese; sebbene siano tacciati di incostanza, si dedicano totalmente se coinvolti da protagonisti; nel momento in cui vengono richiamati, si lamentano come tutti ma poi ricominciano meglio di prima; se pur alternativi nel modo di vestire e di acconciarsi, non è mai l’abito che fa il monaco. Il mondo degli adulti non sempre gli va a genio ed in fondo alla loro età noi non la pensavamo poi tanto diversamente! Fanno di tutto per sfuggire al controllo delle loro famiglie ed invece si trovano nei cortili a “controllare” i figlioletti degli altri. Non amano a volte certe celebrazioni e liturgie, tuttavia da animatori e educatori celebrano la vita al massimo grado e agiscono per quel sacramento che è la persona ed in particolar modo i più piccoli e deboli.

I giovani ci sono in questa estate “per” e noi dove siamo? Non al posto loro, non senza di loro, mai prima di loro; ed invece “accanto” con discrezione, “vicini” quanto basta per dare una pacca sulla spalla, “un passo indietro” per dare un segno di “ok” visibile, “insieme” tutte le volte necessarie, pure lontani tuttavia in preghiera per loro. Guardiamoli con ammirazione nei cortili assolati per ore, circondati dai bambini che pendono dalle loro labbra, distrutti ma arricchiti alla fine della giornata di attività, strampalati e belli nei selfie.

Detto questo, forse qualcuno si scandalizzerà per il fatto che una parte di questi animatori sono gli stessi che poi si ubriacano, che fumano, che corrono con le moto, che si perdono nei social, che fanno d’estate quasi ogni giorno le ore piccole, che usano un linguaggio volgare. Che fare allora? Condannarli? No, per niente! Accompagnarli e prendersi cura è la strada migliore. San Giovanni Bosco diceva ai Salesiani: «Amate ciò che amano i giovani così i giovani ameranno ciò che amate voi». Così sarà possibile mostrare che l’incontro con Gesù non è “palloso”, ma avvincente ed entusiasmante, a patto che gli adulti responsabili, consacrati o laici, testimonino con la vita che Gesù non è un burocrate, un giudice, un musone! È un processo lungo, complesso, potremmo dire di inculturazione in certi casi, ma necessario per non apparire lontani, giudicanti, di quelli che puntano il dito e non sembrano mai essere stati giovani. Non si tratta, però, di fare gli “amiconi” o di lasciar passare tutto perché – come si dice – “sono ragazzi”, ma di costruire percorsi educativi che creino occasioni utili di confronto e di crescita integrale.

Non solo, ma bisogna anche fare proposte che puntino in alto, dando – se necessario – del “pane duro”, mostrando che la vita è bella e felice anche godendo delle piccole cose. Un altro modo per prendersi cura di questi giovani un po’ spiazzati, quasi “strabici dell’esistenza” è quello di fare dell’ambiente ecclesiale un luogo piacevole da vivere anche al di fuori degli impegni di volontario e animazione. Se essere animatore è come lavorare, finito il turno, sarò fuori di corsa a fare altro, meglio se magari mi fa sballare un po’; se essere animatore mi fa stare sereno, se mi sento accolto e voluto bene, se con il gruppo animatori abbiamo momenti di relax dopo l’attività, non ci sarà motivo di uscire e scappare, perché sarà bello passare la serata con gli amici dell’oratorio o del gruppo. Non ho bisogno di sballare quando c’è qualcosa che mi riempie il cuore. Richiamiamoli, sì, richiamiamoli, ma solo quando si dimenticheranno di essere felici!

Parole nuove per comunicare la comunità

Dall’Incontro online dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani spunti e riflessioni per ripensare la comunicazione.

Quale significato ha assunto il termine “comunità” in un mondo globalizzato e allo stesso tempo centrato sull’individuo? Come si può comunicare, senza limitarsi a trasferire delle informazioni? Come restituire corpo e peso alle parole ormai svuotate del loro senso? Come gestire la comunicazione in una situazione di crisi? Liturgia e tecnologia: può una supplenza diventare ordinarietà? Sono solo alcune delle domande che hanno puntellato l’Incontro online “Comunicare una comunità in cammino”, promosso dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, che nei giorni 13, 14 e 15 luglio ha visto la partecipazione dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani, dei corsisti Anicec e di quanti nel territorio, a vario titolo, sono impegnati sul fronte della comunicazione.
Il confronto con alcuni esperti – Nando Pagnoncelli, presidente di Ispos Italia, don Mario Castellano, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale, Silvano Petrosino, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Yago de la Cierva, docente alla Pontificia Università della Santa Croce – ha stimolato la riflessione sulla necessità di ripensare la comunicazione, alla luce di quanto vissuto durante la pandemia e nel contesto attuale dei social media. A partire da un recupero del valore delle parole. “C’è un eccesso di ricorso al termine ‘comunità’, usato con accezioni diverse e spesso anche frainteso”, ha osservato Pagnoncelli che ha invitato rileggere il vocabolo nel rapporto tra “legittime aspirazioni individuali e doveri verso il gruppo”, tra “identità e consapevolezza degli ancoraggi comuni” per poter quindi promuovere una “comunicazione volta a valorizzare la ricchezza delle differenze”. “Bisogna avere il coraggio di abbandonare alcuni termini che non parlano più, individuare gli aspetti essenziali e nuovi modi per comunicarli”, gli ha fatto eco Petrosino per il quale “occorre dare parola alle ‘minuscole’, ossia ai piccoli gesti e al bene quotidiano”.
Del resto, ha ribadito Vincenzo Corrado, direttore dell’Ucs, “la comunicazione è parte integrante della persona e dunque dimensione essenziale dell’evangelizzazione e dell’azione pastorale”. Ecco perché non si può ridurla al suo aspetto tecnico: “l’uso della tecnologia ha permesso a tanti sacerdoti di farsi prossimi, di spezzare la Parola con meditazioni, lectio e catechesi”, ha spiegato don Castellano che tuttavia ha messo in guardia dal rischio di “far diventare ordinario lo straordinario”. “La liturgia – ha rilevato – nutre il corpo e ha bisogno del corpo che diventa via di accesso ad un’esperienza di incontro che trasfigura e risana”.
Nel corso dei lavori, moderati da don Domenico Beneventi, collaboratore dell’Ucs, è emersa più volte la necessità di un ritorno all’essenziale e una comunicazione efficace, in particolare nella sezione dedicata alla gestione delle situazioni di crisi. “Comunicare è una parte indispensabile della risoluzione di un problema, non un optional”, ha affermato de la Cierva, che ha presentato un piano articolato in sei tappe: convocare la squadra, pensare, decidere la posizione e formalizzarla, assumere l’iniziativa e comunicare. “In una situazione di crisi – ha avvertito – il silenzio non funziona”. Servono le parole: quelle giuste. ​
CEI

Notizie 19 Luglio 2021