A Betlemme tutto pronto per il Natale, tornati i pellegrini

 © EPA

– Una Betlemme affollata di turisti e pellegrini – tornati in gran numero dopo il prolungato fermo a causa del covid – si appresta a dare il via alle celebrazioni del Natale.

A segnare gli appuntamenti è l’ingresso nella cittadina palestinese del Patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa che stasera celebrerà nella Chiesa di Santa Caterina la tradizionale Messa di mezzanotte.

Pizzaballa sarà accolto al suo arrivo in città dagli scout cattolici nella consueta manifestazione di benvenuto. La processione poi si snoderà per tutta ‘Star Street’ (la Via della Stella) – la tradizione vuole che questa sia la via percorsa dalla Sacra Famiglia più di 2mila anni fa – per arrivare fino a Piazza della Mangiatoia (di fronte la Basilica della Natività) dove troneggia un alto albero di Natale, acceso ad inizio dicembre.
La Messa di mezzanotte – secondo fonti religiose – dovrebbe vedere il ritorno del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen che sarà accompagnato – secondo quanto si apprende – dal premier dell’Anp Mohammed Shtayyeh.
Insieme a loro numerosi rappresentanti diplomatici tra i quali il Console italiano a Gerusalemme Giuseppe Fedele. Le previsioni – in base al numero di biglietti chiesti – riferiscono per stasera di una Chiesa piena al contrario degli anni scorsi in cui le presenze erano contingentate a causa delle limitazioni sanitarie.
Subito dopo la liturgia della mezzanotte, nella Grotta della Natività – dove la tradizione vuole sia nato Gesù – si svolgeranno le funzioni celebrate da padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa. (ANSA).

 

Spiritualità. Come una stella nelle nostre mani vuote: il vero presepio è dentro noi

Le opere di Giotto, Botticelli e La Tour ci ricordano il valore di questa storia incontrata tante volte: è come se Dio deponesse una stella nelle nostre mani vuote. La riflessione del cardinale poeta
“Natività di Gesù” di Giotto, 1303 1305 circa), particolare. Padova, Cappella degli Scrovegni

“Natività di Gesù” di Giotto, 1303 1305 circa), particolare. Padova, Cappella degli Scrovegni – WikiCommons

da Avvenire

Anno dopo anno, la storia della nascita di Gesù ci viene incontro mescolando fede e sentimento, associando ethos e pathos, coniugando il contingente con l’eterno, il dialetto umano con il teatro di Dio. Abbiamo incontrato questa storia molte volte, e la verità è che sentiamo che ancora non ci ha detto tutto quello che ha da dirci. È il prodigio delle grandi narrazioni: anche una volta raccontate continuano a essere un segreto che spetta a ciascuno svelare. Per qualche ragione il presepio è questa macchina antitragica che trasmette l’impressione che Dio si pone alla portata di tutti. È universale e locale, spirituale e materiale, scenografico e storico. Ed è come se deponesse una stella nelle nostre mani vuote.

Partiamo da tre rappresentazioni della scena del Natale che probabilmente tutti abbiamo visto e che danno un contribuito decisivo al canone della pittura a occidente: la pioniera Natività di Giotto, la cosiddetta Natività mistica di Botticelli e Il neonato di Georges de La Tour. Un trittico che si offre alla nostra meditazione.

“Natività di Gesù” di Giotto, 1303 1305 circa). Padova, Cappella degli Scrovegni

“Natività di Gesù” di Giotto, 1303 1305 circa). Padova, Cappella degli Scrovegni – WikiCommons

Vedere con gli occhi del corpo

Su Giotto (1267-1337) c’è quel racconto del Vasari che narra come, all’età di dodici anni, egli fosse un pastore di pecore che andava spargendo disegni sulle pietre. Lo avrebbe visto uno dei grandi pittori toscani dell’epoca, Cimabue, che lo ingaggiò come apprendista nella sua bottega. Eppure, forse ancor più decisivo sarebbe stato l’incontro con la traccia lasciata dalla figura di san Francesco d’Assisi (1181-1226). Li separano quattro decenni, ma Giotto conierà alcune delle immagini più celebri di quel giovane mendicante innamorato di Dio che aveva ispirato una delle riforme spirituali di maggior impatto nel percorso storico del cristianesimo, e i cui effetti incrociano il nostro presente.

Era stato il Poverello, la notte di Natale dell’anno 1223, nella povera contrada di Greccio, a organizzare la prima rappresentazione dal vivo della nascita di Gesù. Como spiega il suo cronista Tommaso da Celano, Francesco voleva «vedere con gli occhi del corpo» il bambino nato a Betlemme, «i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Fece vestire gli abitanti di Greccio con le vesti degli antichi pastori, dei magi, di Giuseppe e di Maria. Era il trionfo degli umili.

Veniva così a fissarsi la tradizione del presepio nel suo nucleo essenziale. Ma vi si inscriveva allo stesso tempo un insegnamento che non può essere dimenticato: tutti gli abitanti di Greccio (e, per estensione, di tutta la terra) possono essere attori nella narrazione plasticamente espressa nel presepio. Nessuno è escluso. Secondo le belle parole della testimonianza di Tommaso da Celano, un qualsiasi borgo sperduto poteva trasformarsi in «una nuova Betlemme», poiché quella «notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali». Di quella notte, quando un’intera popolazione celebrò una gioia nuova, il pittore Giotto ripropose la memoria in un affresco della Basilica inferiore di Assisi.

Uno dei caratteri dell’arte di Giotto è che egli rappresenta i santi come esseri umani dall’apparenza comune. Contemplando la sua natività, in effetti, avvertiamo di essere posti davanti a una storia vera, non davanti a una favola. Tutto è imponente, vasto e splendente come il blu della volta celeste o del manto di Maria. Ma tutto è anche vero e vernacolare: la madre prende realisticamente il figlio tra le sue braccia, e nella scena inferiore le aiutanti lo fasciano e nutrono come si fa con un neonato per proteggerlo. Sono modi di tenere al riparo la fragilità della vita nuda di Dio, che nel presepio si fa Dio con noi, un Dio che si può toccare. E costituiscono, al tempo stesso, pezzi di una storia che appartiene a ogni vivente, la parabola universale dell’esistenza. È chiaro che il presepio rappresenta, nel suo gioco di miniaturizzazione e ingrandimento, una meditazione sull’infanzia di Gesù. Ma è simultaneamente la possibilità, per l’essere umano, di un’infanzia ritrovata. Nella sospensione cosmica che il presepio visualizza graficamente, comprendiamo allora che la nostra stessa creazione non è terminata.

Natività mistica” di Sandro Botticelli (1501). Londra, National Gallery),

Natività mistica” di Sandro Botticelli (1501). Londra, National Gallery), – WikiCommons

Gli angeli scendono ad abbracciare gli uomini

Una delle raffigurazioni più commoventi del presepio è quella che molti critici ritengono essere l’ultima grande opera firmata da Sandro Botticelli. Essa data da un periodo abitualmente descritto come di profondi rivolgimenti e di ricostruzione spirituale, quando l’autore, confrontandosi con la predicazione apocalittica del Savonarola, ripensa tutto il suo percorso precedente. Sotto l’impatto della dottrina del frate domenicano, Botticelli abbandonerà i temi profani divenuti emblematici della sua opera per dedicare gli ultimi anni esclusivamente alla pittura sacra.

È in tale contesto che appare, nel 1501, la Natività mistica. Si tratta, sotto il profilo artistico, di un’operazione complessa, dal momento che qui si procede a una volontaria regressione nella costruzione della prospettiva, la quale si fa di nuovo più prossima all’iconografia medievale, in una deliberata ricerca della struttura ieratica. Da un lato, abbiamo il ritorno a una tradizione iconografica che si riteneva superata. Dall’altro, però, ci troviamo di fronte al coraggio di rappresentare il presepio con una modalità innovatrice. Alle prese con il mistero dell’incarnazione, Botticelli non è semplicemente interessato a raccontare ciò che fu: si arrischia a descrivere quello che è e che sarà. Combina la descrizione della prima venuta di Cristo, qual è raccontata nei Vangeli dell’Infanzia, con la visione della seconda venuta di Cristo, che il cristianesimo professa.

Per questo, abbiamo in questo suo dipinto la venuta e anche il ritorno; l’inizio del tempo messianico, e il compimento; la memoria, e anche la speranza. In alto, la danza dei dodici angeli, in un girotondo sotto la cupola dorata che allude alla rigenerazione spirituale, alla concordia tra il mondo e le sfere celesti. Sul tetto della stalla, altri tre angeli che aprono il libro e rivelano che in quel luogo il Verbo si è fatto carne. Al centro della rappresentazione c’è Gesù Bambino, deposto nella mangiatoia, sorvegliato dall’asino e dal bue, e che tende le braccia a Maria. Al suo fianco, Giuseppe che sonnecchia. Maria e Giuseppe insegnano in questo modo ad accogliere quello che viene da Dio e che non comprendiamo, o capiremo solo più tardi. A loro si associano i magi e i pastori, condotti da un angelo a Gesù.

Per cogliere il significato del presepio serve uno sguardo spirituale. Penso spesso alla lezione di questi ultimi. Essi corsero a vedere un Bambino che era nato tra le privazioni di una stalla e ritornarono per la loro strada lodando Dio, ricolmi di gratitudine per il segnale che era stato dato loro. Possiamo a ragione domandarci: “Ma che cosa videro?”, “Che cosa mai contemplarono di talmente straordinario o grande da essere capace di riempire il loro cuore?”, “Non era esposta ai loro occhi, in fondo, semplicemente la vita vulnerabile; un’esistenza condizionata dalle evidenti difficoltà materiali e logistiche che il presepio offre; la vita avvolta negli stracci di un’estrema fragilità?”. Eppure, i pastori e i magi usciranno da quella visione quasi danzando, intonando inni! Non restano lì in attesa di contemplare l’opera compiuta: ne salutano il principio. Rimangono estasiati ad assistere allo sbocciare del fiore. Accolgono la grandezza del dono e niente più, inginocchiandosi davanti al suo umilissimo apparire.

Quel Bambino spoglio di ogni forza, munito unicamente di quanto le braccia con un abbraccio possono fare, trasforma radicalmente la storia, instaura la vittoria sul male. E non per nulla in questo dipinto ci sono sette piccoli demoni che, alla vista del Principe della Pace, si ritirano, vinti, nelle fessure delle rocce. E compare allora un insolito e straordinario registro iconografico: in basso, nel primo piano del quadro, tre angeli vengono ad abbracciare gli uomini.

Davvero Botticelli rilegge il presepio come un abbraccio. Ma quale tipo di abbraccio? Se facciamo caso al simbolismo delle vesti degli angeli (bianco, verde e rosso), è l’abbraccio della fede, della speranza e della carità. Ma è l’abbraccio dato al fango e alla stella che ogni essere umano porta in sé, alla sete e alla sorgente, al desiderio e al viaggio, alla coscienza e alla vertigine, alla polvere che muore e a un granello di infinito. Questo abbraccio dilata in noi l’idea dell’amore.

“Il neonato” di Georges de La Tour (1645 1648.Rennes, Museo delle belle arti

“Il neonato” di Georges de La Tour (1645 1648.Rennes, Museo delle belle arti – WikiCommons

La nudità di Dio che si fa carne

Anche quello di Georges de La Tour (1593-1652) è un caso curioso. Egli è molto differente dai suoi contemporanei. Ha ricevuto committenze pubbliche come gli altri, e tuttavia non fu mai associato alla rappresentazione di un potere o alla monumentalità celebrativa. Pensò la pittura come un incontro dell’essere umano con sé stesso; desiderò l’arte come un evento contemplativo la cui essenza non si distanza, per esempio, dalla preghiera. E tradusse tutto questo illuminando i suoi dipinti dall’interno con la luce di una fiamma.

A ragione Pascal Quignard dice che quella candela tremula nella sua opera, e da cui questa dipende, è l’immagine stessa di Dio. I suoi quadri diventano, conseguentemente, esercizi spirituali, carichi di mistero, solitudine e silenzio. In essi intuiamo che il Verbo non può essere accolto che nel silenzio.

I chiaroscuri e i notturni di de La Tour testimoniano l’importanza che nel suo percorso formativo ebbe Caravaggio. Mentre, però, de La Tour si avvicina a lui, allo stesso tempo se ne allontana. I suoi dipinti religiosi prendono le distanze dalla grandezza delle figure del Caravaggio o dalla sua drammatica mise en scène, talora violenta: sono, al contrario, più quotidiane, più silenti, a noi così vicine da sembrare disposte a confondersi con noi. Non stupisce che ci sia chi interpreta quel capolavoro che è Il neonato (datato al 1645 circa) non come una raffigurazione sacra ma come un momento familiare attorno a un bebè qualsiasi.

Ci troviamo, tuttavia, davanti a una duplice operazione: de La Tour spoglia e semplifica – è certamente vero –, ma al fine di rimuovere quel velo che può essere rappresentato dalla teatralizzazione del divino. Se quel neonato è il Figlio di Dio, noi lo capiremo non dalla forza, ma dall’umiltà; non dall’imposizione di un discorso, ma dal vagito silenzioso che riempie lo spazio; non dall’esplicitazione enfatica dei personaggi in gioco, ma dalla liturgia senza parole dei loro corpi, in una gravità nuda. La gravità e la nudità del Dio che si fa carne. Tornano in mente i versi di Fernando Pessoa: «Egli è l’Eterno Bambino, il dio che mancava. / Egli è l’umano che è naturale, / egli è il divino che sorride e gioca. / È per questo che io so con assoluta certezza / che egli è il vero Gesù Bambino».

La fiaba e la storia

«Non si comprende nulla del presepe, se non si comprende innanzi tutto che l’immagine del mondo, cui esso presta la sua miniatura […] è un’immagine storica». In un saggio sul presepio, il filosofo Giorgio Agamben lo contrappone alla natura e alle dinamiche tipiche delle fiabe: queste sono l’espressione del meraviglioso, mentre quello ha, come sua materia prima, la storia. Nel presepio, dice Agamben, siamo restituiti all’univocità e alla trasparenza degli avvenimenti storici. Il presepio funziona come un fotogramma della storia. Fissa realmente il tempo in un’immagine precisa, e non con il linguaggio del mito o l’artificio della favola, ma nello spoglio intervallo (che il filosofo definisce «intervallo messianico») tra due istanti.

L’immaginario è così vinto dalla realtà, con quella concretudine che si respira nello straordinario prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria». O nel vertiginoso incipit della Prima Lettera di Giovanni, così costruito: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta».

Questa testimonianza di una visione storicamente attivata mostra che il presepio non è solo un dato cronologico appartenente a duemila anni fa, bensì rappresenta, come scrive Giorgio Agamben, «un evento kairologico». Kairologico vuol dire che non si tratta solo di un momento puntuale: è piuttosto l’occasione opportuna, il tempo favorevole e la condizione necessaria perché la storicità prenda il volo e faccia sussultare il mondo.

Il presepio in cui Dio nasce

Ora, partendo esattamente dalla irremovibile storicità dell’avvenimento che il presepio rappresenta, ne concludiamo che ogni uomo è il presepio in cui Dio nasce. I presepi che vengono allestiti, e poi tranquillamente messi via, i presepi ai quali riserviamo una scadenza determinata (e non al di là di questa), i presepi che soltanto illustrano l’inoffensiva nostalgia dei simboli, non sono veri presepi. Il presepio siamo noi. È dentro di noi che un Dio nasce. Dentro questi gesti che in uguale misura sono rivestiti di speranza e di ombra. Dentro le nostre parole e il loro traffico sonnambulo. Dentro il riso e l’esitazione. Dentro il dono e l’attesa. Dentro il calore della casa e nell’addiaccio imprevisto. Dentro il pendio e dentro la pianura. Dentro la lampada e nel grido. La nostra stirpe è quella degli appena nati. Quale che sia la nostra età o la stagione che ci troviamo a vivere, la verità è che noi siamo, fino alla fine, una cosa al suo inizio. E il presepio conferma che la nascita è struttura fondante della vita.

Testimoni. Da Teresina a “Tu scendi dalle stelle” i santi che hanno “vissuto” il Natale

testimoni della fede che hanno avuto la vita trasformata guardando a Betlemme. La storia dell’Istituto religioso femminile che si ispira al Santissimo Natale e il legame tra san Nicola e santa Claus
Un'opera creata dallo street artist Harry Greb è visibile accanto alla Basilica di San Pietro. L'installazione denominata "Notte Santa" (Benvenuti in Europa) mostra le statuine del presepe con i salvagenti e vuole rappresentare attraverso il simbolismo della Natività, le difficoltà e la drammatica realtà di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e tutti quegli esseri umani che fuggono da situazioni di pericolo di vita in cerca di diritti, speranza e solidarietà

Un’opera creata dallo street artist Harry Greb è visibile accanto alla Basilica di San Pietro. L’installazione denominata “Notte Santa” (Benvenuti in Europa) mostra le statuine del presepe con i salvagenti e vuole rappresentare attraverso il simbolismo della Natività, le difficoltà e la drammatica realtà di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e tutti quegli esseri umani che fuggono da situazioni di pericolo di vita in cerca di diritti, speranza e solidarietà – Ansa

da Avvenire
Se ci domandassero quali santi hanno testimoniato con la loro vita lo spirito del Natale probabilmente risponderemmo ”tutti”. E non sbaglieremmo. Lo stesso vale per la devozione a Maria e il senso di umiltà e gratitudine di fronte alla Passione di Cristo. Tuttavia c’è chi proprio sulla nascita del Dio che si fa uomo, ha modellato il senso stesso del proprio esistere nella fede. A cominciare dal nome. La Congregazione delle Suore del Santissimo Natale si chiama così perché «vuole rendere continuamente attuale l’oggi di Betlemme, cioè l’incarnazione di Cristo, mistero di salvezza e liberazione per tutti gli uomini».

Nato nel 1890 dall’impegno del canonico Francesco Bono, parroco della periferia povera di Torino, l’Istituto ha avuto come prima superiora Giuseppina Cavagnero (1858-1951) nota anche come madre Natalina, che ne divenne cofondatrice. Al centro del carisma la vicinanza e la condivisione con i poveri, a cominciare dalle fanciulle e dai malati che assistevano gratuitamente. Un campo di azione che poi si è allargato così come la loro presenza, oggi realtà non solo in Italia ma anche in Africa e India. Sempre però con lo sguardo al mistero della nascita del Figlio di Dio a Betlemme. «Con l’adorazione del Bambino – sottolineano le suore del Santissimo Natale – le nostre incoerenze si stemperano in lacrime, in desideri di pace, di quella pace che il Figlio di Dio è venuto a portare a tutti gli uomini che egli ama (Lc 2, 14). Per questo nel presepe c’è posto per tutti, a partire dai più poveri, dagli sfortunati, dai malati, dai senzatetto, dai profughi, dalla gente invischiata nel male, ecc».

Natale dunque come poesia dell’accoglienza, come casa degli ultimi, come modello di una santità che si costruisce giorno dopo giorno, anche con atti in apparenza insignificanti. È la radice di quella teologia della “piccola via” che ha reso immortale la biografia di Teresa di Lisieux, o meglio di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, che proprio della consapevolezza della piccolezza umana, della necessità di svuotarsi di se stessa per riempirsi di Dio, ha fatto il segno della propria vita. «Come il sole illumina nello stesso tempo i cedri e ogni fiorellino come se esso fosse solo sulla terra – scriveva in una delle sue tante pagine memorabili –, così Nostro Signore si occupa in modo particolare di ogni anima come se essa fosse unica; e come nella natura tutte le stagioni sono regolate in modo da far sbocciare nel giorno stabilito la pratolina più umile, così tutto corrisponde al bene di ogni anima. E ancora: «Io morrò presto. Non ho offerto al buon Dio che l’amore, ed Egli mi restituirà l’amore. Dopo la mia morte farò cadere sul mondo una pioggia di rose. Voglio insegnare la mia piccola via agli uomini, voglio dir loro che vi è una piccola ma una gran cosa da fare quaggiù: gettare a Gesù i fiori dei piccoli sacrifici».

E del resto il Natale stesso nella letteratura cristiana fonde insieme il gusto lieve della festa con l’amaro della solitudine e della tristezza contemplata nel povero e di cui Gesù Bambino diventa immagine oltreché, naturalmente, riscatto. Quel mix di fragilità e grandezza, nella dolcezza della melodia, che ha reso immortale “Tu scendi dalle stelle” di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Forse di più natalizio c’è solo il presepe di Greccio, e la storia di san Nicola, la cui vicenda avrebbe ispirato la figura stessa di Babbo Natale ovvero il santa Claus dei Paesi anglosassoni, il Nikolaus porta doni in Germania. Alla base di questo collegamento forse un episodio della vita del santo vescovo di Myra, il cosiddetto “miracolo delle tre fanciulle”. Venuto a conoscenza di un nobile decaduto che per contrastare la miseria aveva deciso di avviare le tre figlie alla prostituzione, il santo avrebbe infatti assicurato alla famiglia il denaro necessario a evitarlo. E ci riuscì, secondo la tradizione, facendo scivolare dalla finestra della casa del genitore tre palle d’oro che garantirono all’uomo il denaro necessario per il matrimonio delle ragazze. Naturalmente la vita di san Nicola è ricca anche di molti altri richiami, come ha testimoniato la preghiera per la pace in Ucraina di mercoledì scorso a Bari ma la leggerezza, la poesia, almeno in questi giorni prevale.

Dall’altra parte, perché non si spenga il lume sulla durezza della realtà vissuta dagli ultimi, basta scorrere le pagine di tanti testimoni della fede. Come “gli auguri scomodi” di don Tonino Bello che a proposito del Natale, scriveva: “Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio”. Immagini pesanti, parole forti, da accompagnare però con la dolcezza di un’altra preghiera dello stesso vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, neo venerabile: “Il Natale ti porta un lieto annunzio: Dio è sceso su questo mondo disperato. E sai che nome ha preso? Emmanuele, che vuol dire: Dio con noi. Coraggio, verrà un giorno in cui le tue nevi si scioglieranno, le tue bufere si placheranno, e una primavera senza tramonto regnerà nel tuo giardino, dove Dio, nel pomeriggio, verrà a passeggiare con te”. Perché in fondo è questo a rendere unico il Natale: l’unire insieme il dono più grande e la più enorme solitudine la gioie e le lacrime, ingredienti di una ricetta, la vita, che sfama davvero solo se diventa interamente dono.

Questo Bambino. Le nostre fragilità e la certezza del Natale. La vittoria che solo vale

Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita. Il neonato è l’Emmanuele, il Dio-con-noi
Le nostre fragilità e la certezza del Natale. La vittoria che solo vale

Reuters

Natale è molto più buono di quanto pensiamo! E soprattutto è davvero buono, tutt’altro che una melassa di sentimenti a poco prezzo. Certo, è buono perché ispira gratuità, induce a donare, a preparare regali e a scoprire che siamo contenti di prepararli per le persone che amiamo o che vogliamo sentano il nostro amore. Indicazione valida tutto l’anno! Ma è ancora più buono se pensiamo che il nucleo incandescente di questa irradiazione di affetti che riscalda il cuore del mondo a Natale, è il grembo di una ragazza che ha offerto tutto l’amore di Donna che aveva per dare alla luce il Figlio di Dio.

Natale è la certezza che il mistero di Dio non è l’oggetto astratto di futili dispute filosofiche, politiche, persino religiose. Futili, e anche pericolose, perché interessate a decidere la vittoria di una parte dell’umanità su un’altra. E si vince solo insieme! Futili perché Dio non lo riconosci nelle dotte istruzioni dei gestori economici della qualità della vita che, quando le cose vanno male, denunciano gli errori dei tuoi calcoli e passano all’incasso della loro buonuscita.

Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita. Questo Bambino è l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Davvero con noi. È nato e per trenta anni ci ha studiati amorevolmente (non con le statistiche e i bilanci), vivendo come noi e con noi, prima di dirci quello che doveva dirci per conto di Dio. E che doveva dirci, per conto di Dio? Doveva dirci che il mondo del quale Dio è il Signore (“il regno di Dio”) è il mondo che viviamo: quello nel quale cerchiamo come possiamo di amare e di essere amati; quello nel quale sappiamo di non essere mai all’altezza delle promesse fatte e ricevute. Il Figlio che nasce a Natale afferma: «In verità, in verità vi dico» che il più piccolo dono d’amore (fosse un bicchiere d’acqua a un estraneo) vale una vita eterna. E ci fa conoscere la vita di Dio, che ci è destinata fin dalla creazione del mondo. Nasce nel mondo perché la nostra vita nasca al cielo. Una vita nella quale la fiducia dei bambini e le speranze dei loro padri e delle loro madri, avranno un mondo infinito da abitare: dove ogni lacrima sarà asciugata e neppure una carezza verrà sprecata.

Il Natale è più che un sogno, è la carne di Dio che riveste di amore la nostra fragile carne, di Dio eterno che rivela l’amore del nostro presente.

Nel Natale di Gesù, il mistero di Dio assume una forma che chiunque può riconoscere (“chiunque”, capisci?), diventa un volto che si può decifrare, un Tu con il quale si può prendere confidenza, una carezza e uno sguardo dal quale ci si può sentire infinitamente amati. Il Natale di Dio non contiene tutte le risposte, ma ci dona il suo amore che è la risposta a tutto. Da quando Dio è uno dei nostri bambini, nessuno osi mortificare il più piccolo dei nostri figli. Dio è nel suo volto. Il Vangelo narra la nascita di Gesù e rivela la causa per cui Maria è costretta a partorire in una mangiatoia: «non c’era posto per loro nell’alloggio» (Lc 2,7). Questo non smette di stupirci, commuoverci, interrogarci. È proprio quello che accade in tante situazioni di fragilità di donne, uomini, piccoli, famiglie del nostro tempo. Ne condivido tre.

Penso anzitutto alla fragilità della pace. Viviamo il primo Natale di guerra in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ci coinvolge tutti e capiamo quella «guerra a pezzi» di cui da tempo parlava papa Francesco. Poco ascoltato. Guerra significa dolore, morte, devastazione del territorio, fuga di chi cerca riparo lontano da casa. La guerra è il punto di deflagrazione: ma la pace manca pure dove i diritti vengono calpestati e dove chi li cerca o li difende cercando una società più giusta e libera viene condannato a morte.
Penso alla fragilità dell’educazione. La povertà economica risucchia nel suo vortice una fetta sempre più ampia della popolazione.
Ma c’è anche la povertà meno evidente ma ugualmente grave della scuola che a fatica sta riprendendosi dopo i mesi terribili della pandemia. Scuola significa socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno, la cultura per capire il mondo, l’umanesimo per non diventare bruti, le competenze intellettuali, la crescita nella capacità di relazionarsi, i mezzi stabili per costruire insieme un mondo migliore. Quanti giovani si sentono e sono spesso soli, incerti, sempre precari? Questo è il tempo di genitori, di insegnanti, di educatori e di pastori maturi, che sappiano essere veri maestri di vita e aiutino a credere al futuro.

Infine, penso anche alla fragilità dell’evangelizzazione. Il Cammino sinodale, giunto al suo secondo anno, rivela certo anche tante fatiche, debolezze, a volte il desiderio nostalgico di tornare a come eravamo prima del Covid, l’incertezza di risposte non più sufficienti. Il cammino sinodale ha significato anche l’occasione perché il Vangelo parli di nuovo a tutti i nostri compagni di strada e ispiri la scelta di costruire comunità umane, case che siano la famiglia di Dio, Chiese domestiche, di comunione e di servizio ai poveri. Era proprio questo il programma del Concilio Vaticano II.

Certo, sentiamo tante fatiche e stanchezze, ma è questa la stagione in cui la Chiesa sia davvero missionaria e generi l’incontro tra Dio e ogni uomo e donna. Guardiamo Gesù Bambino nella mangiatoia, Maria e Giuseppe accanto a lui. E risuonano le parole di san Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Ecco il Natale, la pace che disarma i cuori, l’amore che dona forza e intelligenza la speranza che libera dalla rassegnazione e mette in cammino. Partiamo proprio dalle fragilità per riconoscerci umili, deboli, ma capaci di grandi cose perché pieni del Dio che si pensa per sempre con noi.

Avvenire

Celebrazioni Natale 2022 (fino all’Epifania) Parrocchia S. Agostino, S. Stefano e S. Teresa di Reggio Emilia

Orari delle celebrazioni fino all'Epifania - Santa Maria Nuova Viterbo

Mercoledì 21 dicembre in S. Agostino
dalle 20:30 alle 21:30 Novena di Natale con bimbi, ragazzi, giovani, famiglie e adulti.
Sacramento della Riconciliazione
Giovedì 22 dicembre dalle 16 alle 20 in S. Agostino
Venerdì 23 dicembre dalle 16 alle 20 in S. Stefano
Sabato 24 dicembre dalle 9.15 alle 12 in S. Teresa
Sabato 24 dicembre dalle 16 alle 18 S. Agostino
Celebrazione della Notte Santa
Sabato 24 dicembre – S. Agostino alle ore 24
Domenica 25 dicembre
Solennità di Natale orari festivi
Lunedì 26 dicembre – S. Stefano
S. Agostino ore 9 – S. Stefano ore 10 – S. Teresa ore 11
Sabato 31 dicembre
Te Deum in Ghiara alle 18:30
Domenica 1 gennaio 2023 Solennità Maria SS. Madre di Dio – orari festivi
Giovedì 5 gennaio 2023 Vigilia Solennità dell’Epifania
Messa prefestiva S. Agostino ore 1830
Venerdì 6 gennaio 2023 Solennità dell’Epifania
orari festivi
Domenica 8 gennaio 2023 – Festa del Battesimo di Gesù
orari festivi

Il disagio di una non-attesa

di: Giuseppe Savagnone – settimananews.it

Gli addobbi e le luci delle nostre città parlano già del Natale ormai imminente. Eppure, una rapida scorsa dei giornali offre scenari che contraddicono nel modo più stridente il clima natalizio: l’assurda guerra in Ucraina, con le migliaia di ragazzi morti dall’una e dall’altra parte, i massacri e le torture, le devastazioni; la corruzione all’interno del palazzo che dovrebbe rappresentare il cuore dell’Europa, quell’europarlamento la cui vicepresidente è stata sorpresa mentre teneva a casa settecentocinquantamila euro, frutto di corruzione; la crisi energetica che ci minaccia tutti, ma che, come al solito, sarà sofferta soprattutto dai più poveri; i cambiamenti climatici, che annunziano purtroppo un deterioramento del nostro ambiente naturale, causato dal riscaldamento globale; la ripresa minacciosa, anche se ancora sotto controllo, dell’epidemia di Covid.

«Homo Deus»
Ma ci sono anche i tanti episodi, piccoli e meno piccoli che ogni giorno ci ricordano la gravità della profonda crisi morale che sembra attraversare tutto l’Occidente e da cui l’Italia è ormai investita anch’essa in pieno.

Per citarne solo uno, assolutamente marginale, ma tristemente significativo, colpisce che un ex premier – protagonista di più di un ventennio della nostra storia nazionale e attualmente leader di uno dei tre partiti della coalizione di governo, oltre che senatore – per incitare i giocatori della squadra di calcio di cui è proprietario prometta loro come premio, in caso di vittoria, «un pullman di troie». Era uno scherzo, naturalmente, come il senatore ha tenuto a precisare, offeso, quando si sono scatenate le polemiche. Ma la sua storia personale è ben rappresentata dal livello di questo scherzo.

Fra grandi tragedie, vergognosi scandali e piccoli episodi di squallore morale, sembra clamorosamente smentita la tesi di un noto intellettuale emergente, Yual Noah Harari, che ha avuto enorme successo con il libro, Sapiens. Da animali a dèi, seguito dall’altro Homo Deus. Breve storia del futuro, nei quali descrive l’irresistibile ascesa del genere umano, grazie alla tecnica, verso traguardi che lo porterebbero a sostituire le vecchie e obsolete divinità, compreso il Dio cristiano (Harari è rigorosamente ateo).

Di questa ambiziosa (anche se, per sua stessa ammissione, problematica) prospettiva Harari parla appunto nella sua seconda opera, pubblicata nel 2018. Solo che, nella quarta di copertina, dove ne è sintetizzato il contenuto, si legge: «Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l’ambizione antica di elevarci al rango di divinità, di trasformare “Homo sapiens” in “Homo Deus”».

Un quadro che l’epidemia di Covid, la guerra in Ucraina e i problemi migratori legati alla sempre crescente desertificazione del pianeta, hanno reso, dopo appena due anni, ben poco corrispondente alla realtà effettiva delle cose. Il problema non sono solo i rischi, dall’autore previsti, insiti nel progresso tecnologico, ma le fragilità e le contraddizioni da cui l’Homo appare strutturalmente segnato e che rendono poco prevedibile la sua progressiva trasformazione in Deus.

Il disagio di una non-attesa
Alla luce di questa evidenza, che getta un’ombra pesante sul futuro, sembra del tutto fuori luogo l’attesa festosa del prossimo Natale. E, in effetti, quasi nessuno lo aspetta veramente. Il rituale consumistico degli acquisti è ormai così preponderante, rispetto al significato religioso della festa, da rendere quest’ultimo, agli occhi dei più, quasi irrilevante. A consolare la gente sembrano bastare il pellegrinaggio nei negozi e le luminarie del centro, i preparativi dei festeggiamenti, la prospettiva delle imminenti vacanze.

Eppure tutti avvertiamo il disagio di un mondo dove le cose non vanno nella direzione della verità e giustizia, senza le quali anche l’apparenza della pace (che comunque non c’è) sarebbe un’illusione. Tutti portiamo nel cuore, più o meno consapevolmente, l’insoddisfazione per il presente. Ma senza che questo si traduca in una reale e fattiva attesa del futuro.

È come se fosse subentrata una sottile rassegnazione. È significativo il distacco di una percentuale sempre più consistente di italiani dalla politica, chiaramente espresso dall’astensionismo nelle ultime elezioni (36% degli elettori), già maggiore che nelle precedenti e immensamente più grande che in quelle del secolo scorso. Un modo di uscire dal gioco che rivela una sottile, inespressa disperazione. Perché è proprio la speranza che, in mezzo a questo chiassoso clima di festa, sembra la grande assente. Non aspettiamo più niente di veramente nuovo.

La nostra non-attesa ricorda quella di un famoso testo teatrale, della metà del secolo scorso, di Samuel Becket, Aspettando Godot. In esso l’autore mette in scena due poveracci, Vladimiro ed Estragone, che, a un angolo di strada, attendono l’arrivo di un misterioso personaggio, di nome Godot, che sembra incarnare, ai loro occhi, la risposta alle loro esigenze. E il nome stesso, in effetti, è allusivo: Becket, un inglese francofono, utilizza il termine God (Dio, in inglese), dandogli una coloritura francese. Ma già l’inconcludenza del dialogo dei due protagonisti – in realtà due monologhi dissennati, che si intrecciano senza veramente incontrarsi – lascia trasparire la vanità di questa attesa. Ne riportiamo solo qualche battuta:

«Estragone: “Dovrebbe già essere qui”. Vladimiro: “Non ha detto che verrà di sicuro”. Estragone: “E se non viene?”. Vladimiro: “Torneremo domani”. Estragone: “E magari dopodomani”. Vladimiro: “Forse”. Estragone: “E così di seguito”. Vladimiro: “Insomma…”. Estragone: “Fino a quando non verrà”. Vladimiro: “Sei spietato”. Estragone: “Siamo già venuti ieri”. Vladimiro: “Ah no! Non esagerare, adesso”. Estragone: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Vladimiro: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Estragone: “Sì”. Vladimiro: “Be’… (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione” (…) Estragone: “Sei sicuro che era stasera?”. Vladimiro: “Cosa?”. Estragone: “Che bisognava aspettarlo?”. Vladimiro: “Ha detto sabato. (Pausa) Mi pare” (…) Estragone: “Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà poi domenica? O lunedì? O venerdi?”».

Privi di memoria e incapaci di progettare il futuro (non sanno bene neppure esattamente cosa si aspettano da Godot), i due appaiono smarriti anche per quanto riguarda la loro collocazione nel presente, ma non fanno nulla per cambiare la situazione di disperata immobilità a cui sembrano condannati. Perciò, quando, alla fine, come prevedibile, un ragazzo porta la notizia che Godot non verrà, e uno dice all’altro: «Andiamo», la didascalia con cui l’opera si conclude avverte: «Non si muovono».

Una proposta alternativa
In questo contesto acquista un singolare significato la definizione che la tradizione cristiana ha sempre dato del periodo che precede il Natale: «tempo di Avvento». Un richiamo all’attesa di ciò che deve avvenire. Un richiamo che, alla luce di quanto si è appena detto, appare profondamente inattuale. Siamo ancora capaci di attendere qualcosa che non sia la crescita del Pil? Nel Sessantotto ci si batteva contro il “sistema”, nella convinzione che fosse possibile un futuro radicalmente diverso, migliore del presente. Oggi nessun partito, nessun uomo politico, nessun intellettuale ha la fantasia e il coraggio di avanzare una simile scommessa. La scena è dominata da influencer che sponsorizzano prodotti del mercato.

A fronte di questo, la proposta dell’Avvento cristiano è la sfida a prendere sul serio la speranza di un autentico rinnovamento come prospettiva di senso per la nostra vita personale e sociale. Dove il termine «senso» raccoglie in sé la duplice accezione di «significato» e di «direzione»: non si può dare significato neppure al presente se non c’è una direzione in cui andare. Si può condividere o meno il valore religioso di questo richiamo, ma esso può avere almeno un valore di stimolo alla ricerca e all’impegno anche per il non credente.

A patto, però, di farci carico di tutta la fragilità e la contraddittorietà della condizione umana, che rende assi più plausibile che Dio si faccia uomo per condividerla e riscattarla, a partire dalle sue ferite e dalle sue oscurità, piuttosto che l’uomo, con il suo inarrestabile progresso, si faccia Dio.

Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 16 dicembre 2022.

#Natale2022. Caro Babbo Natale: l’ufficio postale dove arrivano le letterine

L’Ufficio postale di Babbo Natale a Rovaniemi, in Finlandia, in collaborazione con il servizio postale finlandese Posti ha esaminato centinaia di lettere recapitate a Babbo Natale da bambini e adulti di tutto il mondo. Dai dati raccolti emerge che i più grandi desideri per il prossimo Natale sono la famiglia, la salute e la felicità e non giochi elettronici e giocattoli.

Ogni anno, l’Ufficio postale di Babbo Natale riceve oltre mezzo milione di lettere. Situato nel Circolo Polare Artico a Rovaniemi, la città di origine di Babbo Natale secondo la tradizione, questo è l’Ufficio postale più a nord della Finlandia. Nelle settimane che precedono il Natale, l’Ufficio postale riceve fino a 30 mila lettere al giorno. Nel corso degli anni, Babbo Natale ha ricevuto più di 20 milioni di lettere da 200 Paesi.

Giovani e adulti, per lo più di età compresa tra gli 8 e i 25 anni, riversano i loro desideri nelle lettere scritte a Babbo Natale, per chiedere i regali più disparati, dai giocattoli di tendenza alla pace nel mondo. I dati raccolti dalle lettere recapitate nel 2022 hanno individuato tre temi principali: salute, famiglia e unione.

«Le lettere ricevute rivelano la realtà emotiva che si vive nel mondo di oggi e dimostrano che le persone care e le piccole cose, come passare tempo insieme, sono quelle che contano di più», ha commentato Jenni Ihatsu, direttore marketing di Posti, la società delle poste finlandesi. «In un’epoca storica segnata da una pandemia, da uno stato di malessere civile e dal cambiamento climatico, è importante sottolineare l’importanza di questi temi e ricordarci che ovunque viviamo, le emozioni e i desideri delle persone sono molto simili».

L’Ufficio postale riceve lettere per Babbo Natale e i suoi elfi tutto l’anno. Chi ama immergersi nello spirito natalizio può visitare direttamente l’Ufficio postale, incontrare gli elfi e persino scrivere lettere da lasciare sul posto.

«Leggere le lettere a Babbo Natale è una delle parti più belle del nostro lavoro. Ci piace portare gioia in tutto il mondo ed è affascinante leggere i desideri delle persone», commenta Katja Tervonen, capo degli elfi presso l’Ufficio postale di Babbo Natale. «Negli ultimi anni, le lettere sono diventate meno materialistiche e più orientate alla famiglia, all’unione e alla felicità. E questa è la vera essenza del Natale».

I temi più comuni che si ritrovano nelle lettere di Natale inviate a Babbo Natale sono nell’ordine la famiglia, la salute, l’unione. E poi ci sono letterine che dicono “credo in Babbo Natale” “Babbo Natale esiste?” “Rispondimi per favore”

Nelle loro lettere le persone non chiedono solo regali materiali, ma mostrano anche affetto per Babbo Natale, inviando i migliori auguri a lui e alle sue renne, raccomandandogli di riposare a sufficienza e promettendo biscotti e carote al suo arrivo alla Vigilia di Natale.

I più desiderosi possono persino ricevere una lettera di risposta da Babbo Natale, a patto di includere il proprio indirizzo nella lettera. L’Ufficio postale di Babbo Natale invia circa 10.000 risposte ogni anno.