Geopolitica

di: Andrea Cappelletti (a cura)

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Francesco Casarotto, vicentino, è un giovane analista geopolitico. Ha collaborato con diverse realtà editoriali, sia italiane che internazionali. Attualmente collabora con la rivista Domino e con L’Osservatore Romano.

  • Francesco, cos’è la geopolitica?

È difficile dare una definizione assoluta, in quanto la geopolitica è una disciplina scientifica relativamente nuova e variegata. Per molto tempo non ha goduto di buona fama, a causa del suo accostamento all’ideologia nazista. Molti pensatori geopolitici del primo Novecento, infatti, hanno sostenuto tesi in seguito utilizzate dal regime del tempo, in Germania, per accreditare le proprie teorie.

Alcuni definiscono, semplicemente, la geopolitica come l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati: lettura certamente interessante, ma riduttiva poiché la geopolitica rivela sfaccettature assai più complesse e articolate.

Un grande studioso francese, Yves Lacoste – fondatore nel 1989 del Centro di ricerca e analisi della geopolitica – ne ha forse dato una accezione più accettata, oggi, ovvero ha visto in essa i dati dello scontro di potere tra due o più comunità, in un dato territorio. L’assunto è che, al centro dello studio della disciplina, ci sono sempre gli esseri umani, le comunità, con le loro tradizioni e i loro convincimenti. Gli esseri umani contano più della geografia.

A me piace definire la geopolitica un metodo per ragionare sull’attualità mondiale. Certamente, dopo la guerra in Ucraina, il termine ha avuto uno sviluppo importante. La geopolitica si è fatta conoscere dal grande pubblico, anche se citata spesso in modo improprio.

È bene precisare che non esiste, ancora, in Italia, una disciplina accademica chiamata geopolitica: non esiste, infatti, una facoltà universitaria italiana ad essa totalmente dedicata.

  • Quali sono le differenze di analisi tra giornalisti, storici e analisti geopolitici?

I giornalisti si muovono sul campo: hanno fonti in loco, lavorano, naturalmente, sull’attualità; guardano agli eventi attribuendo grande rilevanza alle posizioni dei leader delle nazioni e ai capi di governo. Non sto dicendo che questa prospettiva sia in sé sbagliata, ma certamente non tiene conto di molti altri aspetti.

L’analisi geopolitica osserva gli elementi strutturali e tende ad attribuire maggior peso alle costanti che inevitabilmente intervengono, quasi a prescindere dai cambiamenti di leadership: quali gli interessi nazionali, che tendono a perdurare nel tempo. Potremmo utilizzare l’esempio degli Stati Uniti che, nei confronti dell’Europa, hanno mantenuto evidenti interessi fin dall’inizio Novecento: pur col mutare delle loro tecniche di intervento, sono individuabili caratteri di atteggiamento politico durevoli e ben riconoscibili.

L’analisi giornalistica è, quindi, più informativa rispetto a quella geopolitica. Si dà tuttavia il caso che l’analista geopolitico – come spesso vediamo – venga interpellato per consulenze giornalistiche di vario tipo. E viceversa. Il giornalismo rimane fonte primaria anche per la nostra attività, per il suo essere dentro la realtà politica – o bellica – quotidianamente. Possiamo affermare che, senza questo tipo di informazione, lo stesso analista geopolitico non potrebbe svolgere al meglio il suo ruolo, ovvero quello di considerare i rapporti tra le parti, valutando i fattori di lungo corso, oltreché le variabili umane.

Per quanto riguarda la visione degli storici: è anch’essa, naturalmente, parte del bagaglio conoscitivo dell’osservatore geopolitico, che deve far tesoro di tutte le informazioni che compongono il complesso puzzle del suo lavoro.

La situazione dei rapporti tra Polonia e Ucraina, ad esempio, non può essere esaminata esclusivamente dal punto di vista presente, perché è necessario possedere tante informazioni storiche profonde per capirci qualcosa. La geopolitica deve tener conto, possibilmente, di tutto.

Mi viene da dire che i tre metodi di indagine che hai richiamato, ovvero quello della geopolitica, del giornalismo e della ricerca storica, oggi debbano collaborare molto più che in passato, per guardare lo stesso “oggetto” con più lenti di ingrandimento. Penso che si tratti di lavorare in maniera complementare, senza mai arroccarsi su posizioni di esclusività di conoscenza e di prestigio. Anche la geopolitica ha i suoi limiti e non può, certamente, ritenersi disciplina esaustiva della conoscenza nei rapporti tra gli Stati e le popolazioni.

La geopolitica può oggi spiegare molte questioni aperte in Ucraina, a Gaza o a Taiwan, ma ciò non è sufficiente. Necessita dei contributi della scienza economica e della sociologia.

Tuttavia, penso di poter affermare che la spiegazione che la geopolitica può dare delle situazioni è quella più integra e convincente, quella che più mi affascina, pur con tutti i limiti, a cui ho accennato.

***

  • Questo genere di approccio può apparire iperrealista e, persino, cinico: segna la fine di ogni utopia o speranza di un mondo migliore? 

In effetti la geopolitica è molto realista. Spesso è definita la ‘realpolitik’: descrive il «come» e il «perché» gli Stati perseguono, quasi solo ed esclusivamente, il loro interesse nazionale, a prescindere da considerazioni di carattere morale ed etico. Gli Stati si muovono secondo logiche di potere e di sopravvivenza, sempre.

In un mondo non governato da altro, non vi è un potere superiore a quello dello Stato. Certo: si ricorre alle alleanze, ma, come dicono spesso gli americani, non si può chiamare il “911”, il numero di soccorso “superiore”. È il potere del singolo Stato ad autorizzare, al proprio interno, l’uso della forza per impedire comportamenti illegali e, in base alle proprie regole, autorizzarne l’impiego. Ma, in ambito internazionale, non funziona allo stesso modo.

Purtroppo, sia la Società delle Nazioni prima che l’ONU poi, nati, di per sé, con tale compito – mi duole dirlo -, hanno fallito.

La Società delle Nazioni, organizzazione creata nel 1920 e a cui non aderirono gli USA e dalla quale fu esclusa la Russia rivoluzionaria, era nata con l’intenzione di regolare i rapporti e scongiurare scontri armati in caso di controversie. Ciò nonostante, proprio sotto il suo mandato, tra gli anni Venti e Quaranta, furono numerosi e sanguinosi i conflitti, tra cui quello sino-giapponese del 1931, l’aggressione dell’Italia all’Etiopia, la guerra civile di Spagna ecc. Né riuscì nell’intento di frenare la corsa alla Seconda Guerra Mondiale.

L’ONU nacque nel 1945. Sembrava una nuova promessa, ma fu subito vittima dei veti incrociati durante la guerra fredda e, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha fallito molti dei suoi obiettivi.

Per venire all’oggi, l’ONU non è riuscita ad imporre il cessate il fuoco in Ucraina e non riesce ad agire in Medio Oriente. Penso che, se domani dovesse scoppiare una guerra a Taiwan, l’ONU probabilmente resterebbe immobile.

Sono proprio questi gli aspetti che la geopolitica tende ad evidenziare, cioè i motivi di inerzia e il senso di impotenza, che stanno caratterizzando il quadro internazionale, con l’ONU paralizzata dal diritto di veto delle cinque maggiori potenze.

La visione realista della geopolitica costata che ogni Stato può far conto solo sulle sue proprie forze e quando, come in Ucraina, il divario di forze è evidente, facilmente il più debole viene aggredito.

In questo specifico caso, poi, la resistenza ucraina si sta prolungando in ragione dei copiosi aiuti americani ed europei, ma è difficile ipotizzare che questi Paesi, alleati, possano scendere direttamente in campo con i propri eserciti.

Certo, si possono comminare sanzioni – come è stato fatto – ma non ci si può appellare a una Corte Suprema mondiale, se non a un livello poco più che simbolico. L’Ucraina rimane, alla fine, la vittima.

Sarebbe bello e auspicabile che la politica internazionale potesse funzionare con gli stessi criteri della politica interna di uno Stato democratico, ma non è così, purtroppo, che funzionano le cose.

Il realismo geopolitico mi impone di vedere la politica internazionale secondo una logica perennemente conflittuale, per la sopravvivenza delle singole nazioni.

Comprendo, istintivamente, l’accusa di cinismo alla geopolitica, tuttavia non posso che assorbirla come la citata difficoltà di farsi una ragione dei rapporti internazionali. Dobbiamo necessariamente saper distinguere le nostre logiche da quelle che regolano – o non regolano – il mondo.

  • Come è nata e si è sviluppata in te la passione per questa disciplina?

Fin da adolescente ho avuto la forte necessità di capire le dinamiche che scuotono il mondo. Sono stato, a suo tempo, fortemente colpito dall’esplodere della guerra del Kossovo nel 1998, dall’11 settembre nel 2001, dalla guerra in Iraq nel 2003. Sono cresciuto in un ambiente in cui c’è sempre stata molta attenzione per la politica internazionale. Io non riuscivo a comprendere, mi sfuggivano le ragioni profonde. Ho assistito a tantissime manifestazioni per la pace, ho letto e considerato gli aspetti economici e sociali dei conflitti. Non me ne sono fatto mai una ragione.

Conclusa la scuola superiore, ho deciso di frequentare una facoltà universitaria che mi fornisse gli strumenti per capirne di più: ho studiato a Trento, presso la facoltà di Sociologia, nell’indirizzo Studi Internazionali. Vi ho sostenuto un solo esame di geopolitica, perché il programma era strutturato su uno spettro ampio di discipline.

Per la magistrale, mi sono orientato verso la “Luiss Guido Carli” di Roma, ed è stato proprio là che sono stato preso dalla geopolitica, grazie alla quale ho trovato più puntuali risposte ai miei interrogativi. Ho scoperto un metodo che consente di semplificare e di dare conto della realtà, ovviamente senza banalizzarla.

La mia scelta professionale di divenire un “geopolitico” non è immune da timori e tremori, perché, specie, in Italia, questa disciplina è vista ancora con sospetto.

Dal 24 febbraio 2022, cioè dall’inizio della guerra in Ucraina, e poi con la crisi mediorientale e la pressione della Cina su Taiwan, sto osservando una intensificazione di interesse della opinione pubblica: la geopolitica sta venendo prepotentemente alla ribalta.

La ragione di tanto interesse è piuttosto amara ma, appunto, realistica. Oggi le aziende di produzione di beni sono uscite dal sogno di un mondo interconnesso e pacifico, in cui si possono tranquillamente far circolare le persone e le merci. Penso che ci si dovrà misurare, per gli investimenti del futuro, sempre più, con i calcoli di rischio geopolitico, come ben ci sta mostrando il caso della crisi dei commerci lungo la via navigabile del Mar Rosso.

Tutto ha poi una evidente ricaduta su tutti noi, sulle nostre tasche, sul quotidiano. Ci pensavamo, forse, al riparo da tali, brutte, congiunture, ma, purtroppo, non è così.

La prospettiva di un mondo sempre più conflittuale è evidente. E ciò non fa che motivarmi a conoscere, approfondire, capire e spiegare, anche se, forse, poco serve ad evitare il peggio.

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  • La globalizzazione che posto ha nella genesi dei conflitti?

La globalizzazione ha sicuramente creato nuove diseguaglianze economiche all’interno delle nazioni e delle popolazioni, esacerbando molti conflitti intestini. A livello internazionale, la globalizzazione non è una cosa nuova, nel senso che, da sempre, ossia da quando esistono potenze egemoni, si sono ingenerate globalizzazioni di varia sorte: lo stesso Impero Romano ha prodotto qualcosa di simile, oppure l’Impero britannico – più vicino a noi – che ha preceduto, nel tempo, l’egemonia statunitense. In pratica, si sono verificati fenomeni analoghi di dominio commerciale e militare, dei mari innanzi tutto.

È la marina americana ad aver permesso, nei nostri tempi, lo sviluppo del commercio globale. In tal senso, l’attacco del gruppo armato yemenita degli Houthi nel Mar Rosso, non è altro che un segno dell’attacco all’egemonia globale statunitense.

È inevitabile che l’ordine mondiale fondato dagli USA non possa andar bene a tutti. Ed è logico che altri Stati pretendano regole internazionali diverse. Realisticamente solo grandi o medie potenze, come la Russia, l’Iran e la Cina possono oggi sfidare le regole imposte dagli Stati Uniti. Questi scontri sono pertanto ineluttabili. Ma capisco che una conclusione del genere possa apparire molto cinica, senza speranza di risoluzione; faccia rimanere molto male.

  • Un’ultima domanda: come la visione geopolitica si concilia in te con le tue concezioni ideali, forse religiose?

È certamente questo l’aspetto più critico della mia professione, perché, come tutti, ho le mie convinzioni etiche, politiche e religiose, che spesso non vanno nel verso esiti geopolitici. Non nego che questa scissione provoca in me, come, suppongo, in ogni operatore del settore, una lacerazione dolorosa e un prezzo psicologico molto alto.

Mi servo di un esempio. Quando parlo di guerra in Ucraina – o in Medio Oriente – da testimone di certe scene di orrore, il mio impulso immediato è di esprimere giudizi di valore e di prendere posizione. Mentre il buon analista – e io lo devo essere – sa guardare alla realtà “obiettivamente”, come si guarda dall’alto e con un certo distacco: il mondo è così com’è, non come vorrei che fosse.

A tutt’oggi mi sento ancora “troppo” portatore di una concezione idealista. È chiaramente legittimo – e direi quasi doveroso – possedere e coltivare valori. Ma quando io mi appresto ad analizzare le situazioni da professionista, devo fare lo sforzo di lasciar fuori, per così dire, tutto l’altro dalla mia porta. Le mie percezioni emotive rischierebbero di compromettere l’obiettività dell’analisi, mentre il mio compito è fornire chiavi di lettura attendibili del mondo, così come esso è.

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Con gli occhi puntati sul quotidiano triste conteggio di morti, ospedalizzati e nuovi positivi, e ora sull’arrivo dei vaccini – il primo passo, si spera, per uscire da questo lungo incubo – risulta per tutti difficile alzare lo sguardo e cercare di immaginare gli scenari strategici del prossimo anno. Ma è uno sforzo che va in ogni caso fatto, dato che questa pandemia non ha certo fermato i mutamenti geopolitici globali. E Il primo dato che sembra emergere è proprio che il Covid-19 non stia producendo mutamenti significativi nelle dinamiche in atto da tempo: continua infatti la massiccia redistribuzione del potere all’interno del sistema internazionale, che rischia anzi di essere accelerata da questa pandemia. Un mutamento dei rapporti di forza e della centralità delle aree geopolitiche che impongono soprattutto alle due potenze principali, Cina e Stati Uniti, di formulare visioni strategiche coerenti e convincenti. L o scenario principale resta quello dell’Asia- Pacifico, con il ruolo mondiale giocato dalla Cina e le sfide ad esse connesse, in particolare quella per la supremazia globale fra Washington e Pechino. Sul futuro del gigante cinese vi sono ormai due scuole di pensiero consolidate: i sinoottimisti, convinti della sua continua ascesa a prima potenza mondiale, capace sia di superare i problemi interni sia di riuscire ad aggregare attorno a sé un nuovo polo regionale asiatico, marginalizzando nel tempo l’importanza degli Stati Uniti nel continente euroasiatico. E che quindi vi sia tutto da guadagnare da una nostra crescente integrazione nel sistema economico-commerciale cinese. Opposti a loro i sino-pessimisti che ritengono che Pechino dovrà nel prossimo futuro affrontare tensioni politico- sociali ed economico-finanziarie interne pericolosissime. E che credono che a livello regionale, i tanti paesi ostili alla Cina e vicini agli Stati Uniti (dal Giappone a Taiwan, dall’India al Vietnam, all’Australia, solo per citarne i principali), riusciranno a contenerne la spinta egemonizzante. Per questi ultimi, lo straordinario successo della Cina degli ultimi decenni è dovuto soprattutto a clamorosi errori strategici dell’Occidente e che quindi, con diverse scelte politiche, sia possibile ridurne l’ascesa. Entrambe queste visioni sembrano eccessive, e figlie di un pregiudizio ideologico – vuoi in positivo vuoi in negativo. M a su entrambe peseranno certamente le scelte della nuova presidenza statunitense. È difficile che il presidente Biden possa ribaltare completamente la politica di scontro avviata dal predecessore Trump, per tornare a una prospettiva di cooperazione, legata a un’idea di globalizzazione che sembra ormai tramontata. Egli dovrà tuttavia cercare di rimediare alle tante scelte infauste e controproducenti della pessima passata amministrazione, in particolare restaurare la fiducia negli Stati Uniti co- me alleato sicuro e affidabile, che non abbandona i propri “amici” nel momento del bisogno. È passata quasi inosservata la recente creazione nel Pacifico della più grande area di libero scambio del mondo, voluta dalla Cina e resa possibile solo dall’autolesionismo di Trump, che ha perseguito la strada retorica e populista del protezionismo delle merci americane. Lasciando campo libero a Pechino.

A un livello globale più generale, Biden dovrà mostrare subito, nel corso del nuovo anno, se egli voglia perseguire la strada della restaurazione – come se il ciclone Trump non si fosse abbattuto sulle relazioni Usa con il mondo – o del ri-orientamento, recuperando il rapporto deterioratosi con l’Europa senza rifugiarsi in una visione del mondo ormai tramontata. Il che significa ripristinare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e riaffermare i legami con i propri alleati in modo nuovo. Ma soprattutto implica adottare scelte meno erratiche e occasionali nei rapporti con la Russia, che certo non miglioreranno con il nuovo presidente, affrontare il problema Nato (e Turchia nella Nato) e mettere nuovamente mano alla “questione mediorientale”. Partiamo da quest’ultima, vero snodo obbligato di ogni presidente Usa: per quanto da tempo ogni nuovo occupante la Casa Bianca prometta di non farsi invischiare dalle insidiose sabbie dei deserti mediorientali, i problemi della regione rimangono centrali. Biden ha dinanzi a sé una scelta non facile: cercare di rispettare la promessa di tornare all’accordo nucleare siglato da Obama con l’Iran nel 2015 e denunciato unilateralmente da Trump nel 2018 oppure privilegiare la strada degli “Accordi di Abramo”, cercando possibilmente di renderla smaccatamente meno favorevole a Israele e meno anti-iraniana nella sua architettura. Rientrare nell’accordo nucleare è in verità molto complesso, dato che occorrerebbe smontare la rete di sanzioni che colpiscono duramente l’economia iraniana (e per farlo occorre l’appoggio di un Congresso a oggi molto riluttante); ma soprattutto anni di demonizzazione da parte di Trump, di Israele e delle monarchie arabe del Golfo hanno enormemente indebolito le fazioni di potere moderate di Teheran, a tutto vantaggio dei gruppi più radicali e anti-occidentali. Mentre gli Accordi Abramo, nati per celebrare ufficialmente l’alleanza strategica fra Israele e le monarchie arabe contro l’Iran e i suoi alleati, difficilmente potranno evolvere in uno strumento utile a ridurre le tensioni nella regione. I file su Russia e Nato sono strettamente intrecciati, collegati soprattutto dal “cosa fare” con la Turchia e il suo presidente autocrate. Ankara è il problema che rischia di minare l’Alleanza Atlantica, ma è assolutamente chiaro a Biden che non possiamo certo “regalare” la Turchia alla Russia, soprattutto in un momento in cui il Mediterraneo è tornato ad avere una sua centralità, per quanto legata soprattutto a crisi politiche, guerre civili e flussi migratori incontrollati. I margini di azione appaiono anche in questo caso ridotti, dato che l’av- venturismo e l’autoritarismo di Erdogan vanno in qualche modo limitati, ma senza spingerlo – per reazione – a rafforzare i legami di convenienza, in una sorta di ricattatoria “politica dei due forni”. Quanto a Mosca, il lento declino di Putin, unito alla crisi economica e ai costi delle avventure militari russe nell’Est Europa e nel Mediterraneo, possono spingere quel paese a legarsi ancora di più ai progetti infrastrutturali e alle visioni politiche di Pechino.

M a importante sarà recuperare per Biden il filo dei rapporti con l’Europa, per quanto l’Europa possa ormai sembrare geopoliticamente marginale sulla scena globale. Se Trump aveva palesemente puntato sulla demolizione dell’Unione Europea, a vantaggio della variegata compagnia di populisti, aspiranti autocrati e demagoghi che ha dato ben triste spettacolo in questi anni sul proscenio politico europeo, Biden deve velocemente capire che riproporre il legame euro-atlantico tradizionale, senza offrire nuovi contenuti e una nuova visione che corrisponda al mutato contesto, rischia di ripristinare solo una formula vuota e formale. In fondo, anche Obama aveva mostrato un disinteresse verso il Vecchio Continente celato solo dai suoi modi eleganti. Ma con la Cina che cerca sempre più di compattare a suo vantaggio la piattaforma continentale euroasiatica, Washington deve trovare nuove vie. E riallacciare al contempo legami con un’Europa che ha ripreso iniziativa politica ed economica all’interno e all’esterno dell’Unione.

S ullo sfondo la presa d’atto, resa più evidente dalle ferite inferteci dalla pandemia, che la globalizzazione come l’abbiamo esaltata per decenni è sostanzialmente fallita, avendo offerto prospettive ai ricchi a scapito di un numero crescente di condannati alla povertà o alla marginalizzazione sociale. Se la ricetta proposta dai populisti, legata a un protezionismo vecchio stile e a un nazionalismo egoista, è palesemente controproducente, occorre anche evitare che sia Pechino a proporre un modello diverso, più sfuggente e ben più pericoloso, di globalizzazione. In cui la crescita economica si accompagna all’autoritarismo e alla rinuncia a quei valori di libertà e di rispetto dei diritti umani che – nonostante tutti i nostri limiti ed errori – sono il lascito migliore delle democrazie occidentale al XXI secolo.

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