48 ore a Reggio Emilia, la città dal grande passato e dal presente vivace

Reggio Emilia Stazione AV di Santiago Calatrava 2 (Foto Kai-Uwe Schulte-Bunert)

Chiusa tra due vicine ingombranti come Parma e Modena, la più discreta Reggio Emilia regala al visitatore molto più di quel che si aspetterebbe. La meraviglia va ben oltre la scontata fama gastronomica della patria del Parmigiano Reggiano, del locale aceto balsamico, dei salumi reggiani (prosciutto crudo e cotto, coppa, mortadella, salami e cotechini) accompagnati dal gnocco fritto, dei cappelletti, dell’erbazzone.

 

48 ore a Reggio Emilia, la città dal grande passato e dal presente vivace

 

Senza dimenticare il Lambrusco reggiano: l’area vitivinicola della sua provincia è più estesa di quella più nota di Modena. Ma Reggio Emilia è anche arte, architettura, musica, teatro, senso civico e i resti di una passione politica che, tra miti della Resistenza e lotte sociali, ha influenzato la toponomastica più che in qualunque altro capoluogo italiano. È la città di pittori come Correggio, Antonio Fontanesi, Antonio Ligabue e Marco Gerra. Del poeta Ludovico Ariosto. Di Nilde Iotti, prima Presidente donna della Camera dei deputati. Di giganti dello spettacolo come Cesare Zavattini e Romolo Valli. E ha sfornato nel Novecento un’impressionante serie di cantati: Iva Zanicchi, Zucchero, I Nomadi e Luciano Ligabue. Senza dimenticare il genio industriale Max Mara con i vecchi impianti trasformati in museo d’arte contemporanea. E il Tricolore che Reggio ha regalato all’Unità d’Italia. Una città dove palazzi, chiese e teatri testimoniano un grande passato. E dove i colori delle facciate delle case – gialle, rosse, arancio, verdi, azzurre – raccontano la vivacità dei suoi abitanti.

 

PRIMO GIORNO
MATTINA

La vista inizia nell’immensa piazza Martiri del 7 luglio 1960 con i contigui piazza della Vittoria e Parco del Popolo. Probabilmente l’unica spianata urbana italiana che ospita tre teatri: l’Ariosto, il Cesare Zavattini e il Municipale Romolo Valli. Quest’ultimo è un tipico teatro d’opera italiano di metà Ottocento con facciata neoclassica e interno barocco. La sala ellittica, colorata di bianco e oro, racchiude quattro ordini di palchetti, il palco reale e la loggia.

 

 

Reggio Emilia, Teatro Romolo Valli (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Teatro Romolo Valli (foto Marco Moretti)

 

Visite guidate permettono di ammirare i dipinti allegorici del soffitto, da cui pende il grande lampadario di cristallo, i tre sipari affrescati e, nel sottotetto, una straordinaria collezione di macchine teatrali. A sinistra del teatro, c’è il Palazzo dei Musei con esposizioni che spaziano dalle scienze naturali all’arte, dall’etnografia all’archeologia. Sul lato opposto della spianata, un edificio eclettico ospita la Galleria Parmeggiani, una casa museo con una collezione di falsi d’autore con in ballo pittori come Velasquez, Van Eyck e El Greco.

POMERIGGIO
Da piazza Martiri, via Crispi porta in piazza Del Monte dominato dal cinquecentesco Hotel Posta, da dove in pochi passi si raggiunge piazza Prampolini, il cuore di Reggio, chiusa su tre lati dal Palazzo del Monte di Pietà dominato dalla Torre dell’Orologio, dal Duomo e dal Municipio. La Cattedrale con la facciata romanica ospita all’interno una pala d’altare del Guercino nella cappella Fiordibelli.

 

Reggio Emilia, Municipio  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Municipio  (foto Marco Moretti)

 

Il Municipio comprende Museo e sala del Tricolore: racconta come nacque la bandiera nazionale e la storia risorgimentale di Reggio. Tra Duomo e Municipio s’apre il vicolo del Broletto, un sottopasso situato dove nel Quattrocento c’era il cimitero della Cattedrale: ospita botteghe gastronomiche come l’Antica Salumeria Pancaldi e la Casa del Miele (vende latticini di mucca rossa reggiana e ripieno per i cappelletti). Il Broletto collega piazza Prampolini a piazza San Prospero, sede del mercato e dell’omonima basilica, la più preziosa di Reggio: fondata nel 997, fu arricchita all’esterno nel Cinquecento con sei leoni in marmo rosso di Verona, venne poi barocchizzata nel Settecento, all’interno s’ammirano gli affreschi di Camillo Procaccini e Bernardino Campi nel presbiterio e nell’abside che domina uno stupendo coro il legno del Quattrocento. Da qui, seguendo via San Carlo, si raggiunge l’elegante piazza Fontanesi, una spianata rettangolare ingentilita da decine di tigli: è il fulcro della movida reggiana.

 

Reggio Emilia, case su via Emilia San Pietro  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, case su via Emilia San Pietro  (foto Marco Moretti)

 

CENA
Il ristorante A Mangiare (viale Monte Grappa 3) è una riuscita contaminazione tra tradizione reggiana e cucina basca, frutto dell’incontro tra lo chef Olatz Agoues e la sommelier Donatella Donati. I cappellacci all’alga spirulina ripieni di crostacei, con crema di fave, capperi e crudo di gambero rosso riassumono al meglio il mix creativo di questa coppia di ristoratori.

SECONDO GIORNO
MATTINA

La via Emilia è la strada dello shopping sui due lati. Percorrendo quello porticato a San Pietro, al numero 27 s’incontra il quattrocentesco Palazzo Sacrati: è privato ma merita di entrare nell’androne per gettare lo sguardo sul meraviglioso  patio. Poco oltre, la chiesa di San Pietro annuncia gli omonimi chiostri – un colossale complesso monastico del Cinquecento – impiegati per spettacoli all’aperto e per mostre di fotografia e arte contemporanea.

 

Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (foto Marco Moretti)

 

 

Reggio Emilia, Palazzo Sacrati  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Palazzo Sacrati  (foto Marco Moretti)

 

POMERIGGIO
Sul versante opposto dell’arteria, a 2 chilometri dal termine della via Emilia Santo Stefano, in via Fratelli Cervi 66, si raggiunge la Collezione Maramotti, l’ex fabbrica di Max Mara costruita nel 1951. Achille Maramotti, il creatore della famosa casa di moda era un grande collezionista d’arte. Negli spazi ridisegnabili dello stabilimento dismesso, nel 2007 ha aperto un museo d’arte contemporanea ricco di centinaia di opere create dopo il 1945: tele e sculture dei maggiori artisti, da Francis Bacon a Lucio Fontana, e dei più importanti movimenti, dall’Arte povera alla Transavanguardia. La permanente comprende 200 opere, a cui si sommano le mostre temporanee. Le visite accompagnate sono gratuite: è obbligatoria la prenotazione. Dall’arte all’architettura contemporanea, una breve corsa in auto (5 km dal centro) porta alla Stazione Mediopadana dell’Alta Velocità progettata da Santiago Calatrava come un’onda lunga 483 metri nell’inseguirsi di 457 portali in acciaio bianco.

 

Reggio Emilia, case nel Centro Storico  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, case nel Centro Storico  (foto Marco Moretti)

 

CENA
Trattoria La Morina (C.so Garibaldi n. 24/D) serve ricette reggiane tradizionali a prezzi contenuti: cappelletti in brodo, tortelli verdi o di zucca, erbazzone, polenta con porcini dell’Appennino, spongata reggiana.

 

Reggio Emilia, in bici nel Centro Storico (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, in bici nel Centro Storico (foto Marco Moretti)

 

REGGIO IN BICICLETTA
Reggio Emilia è la città più ciclabile d’Italia con una rete di 178 chilometri di ciclovie. Si basa su 12 piste, lunghe da 5 a 12 chilometri, e su di un anello ciclabile di 4,5 chilometri che circonda il centro storico.

lastampa.it

LA FAMIGLIA NELL’ARTE Una semplicità mai banale

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Osservatore Romano

La pittura di Jan Knap è solo in apparenza semplice. Oggi semplicità fa pensare a banalità. Le opere di Knap, quando si studiano e si approfondisce anche la conoscenza dell’artista stesso, da apparentemente elementari, diventano intellettualmente impegnative. Angioletti con tanto di ali, bambini dai dolci visi, ambienti domestici da casa delle bambole, questi particolari occupano la pittura di Knap. Può sembrare anacronistica, vista la ruvidezza dei linguaggi della maggior parte degli artisti contemporanei. Può sembrare sdolcinata, sentimentalista, in conflitto con la schizofrenia della nostra umanità, può addirittura scandalizzare per la mitezza delle sue figure, eppure non è niente di tutto questo. Dietro alle composizioni idilliache, si celano ricerche filosofiche, teologiche, antropologiche. Allievo del più grande artista contemporaneo, Gerhard Richter, da lui apprende l’uso e le potenzialità dei colori, ma non lo imita, non ne segue i codici espressionisti astratti, anzi se ne discosta sviluppando la sua cifra stilistica che vede dominante l’elemento del sacro nella proposta cristiana cattolica (Knap studia filosofia e teologia a Roma dal 1982 al 1984).

L’iconografia della Sacra Famiglia non nasce da spinte emotive fideistiche, da devozionismi gratuiti, nasce dallo studio del Vangelo, dall’individuazione di quella “luce” che solo chi indaga il Vangelo seriamente riesce a cogliere e della quale non potrà più fare a meno. L’identità di Knap si rivela entrando nelle stanze dei suoi quadri, sedendosi ai tavoli apparecchiati, spiando da finestre di luce la quotidianità della famiglia che è sacra, tanto quanto lo è la famiglia stessa.

Una quotidianità che nelle opere di Knap diventa mistica, spazio dove far posto a Dio, sul divano, la sera prima di addormentarsi, la mattina al risveglio. Papa Francesco richiama la bellezza della quotidianità: accettare in silenzio la fragilità dell’altro, saper chiedere scusa e perdono, avere gesti di dolcezza, mostrando al coniuge la propria bontà concretamente «In ogni famiglia ci sono problemi» ma ci sono sempre tre parole che vengono in soccorso: «Permesso, per non essere invadenti, grazie, per aiutarci reciprocamente, e scusa. Dire scusa, poi, prima che finisca la giornata» per evitare «le guerre fredde del giorno dopo» (Angelus 27/12/2020).

Con queste parole entriamo nell’opera di Knap dal titolo La sacra famiglia.

Un olio su tela del 1994, pieno di candore e sapienza familiare potremmo dire. Nostalgico di quelle famiglie che vivono nel nostro immaginario. Scorgiamo una classicità nella composizione che trasuda contemporaneità nell’uso di colori e luce che si riflette su una bianchissima tovaglia in contrasto con il grigio delle pareti. Pareti spoglie, prive di arredi eccetto una stilizzata croce. Sono Giuseppe e Maria col Bambino, hanno l’aureola infatti, ma sono allo stesso tempo tutti i Giuseppe e Maria di oggi che portano la croce o la appendono al muro come guida. La fede dei membri di una famiglia non si misura dal numero di immagini sacre presenti in casa o dalla quantità di riunioni settimanali alle quali partecipa, ma è nella vita di famiglia praticata e pensata secondo il Vangelo di Gesù.

Torniamo però alla concretezza delle pareti di casa: ci viene in mente un passaggio profetico di Papa Francesco in Amoris laetitia: «La mancanza di un’abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione. … “La famiglia ha il diritto a un’abitazione decente, adatta e proporzionata al numero dei membri, in un ambiente che provveda i servizi di base per la vita della famiglia e della comunità”. Una famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda» (44). La casa è importante nella pittura di Jan Knap forse perché, costretto a fuggire dalla Cecoslovacchia del blocco sovietico, si ritrova esule tra Europa e Usa. Quasi un nomade, Jan inserisce nei suoi quadri delle case silenziose, scene di vita familiare intime, finestre con vista su giardini rilassanti, per accedere a questo bisogno di luce.

Giuseppe e Maria, nell’opera che stiamo osservando, sono genitori che non hanno paura di parlare di Dio e con Dio, ambiscono all’Eden (la mela e gli angeli seduti alla mensa lo ricordano) sono genitori che nella limpidezza dei loro sguardi, i vestiti senza inutili orpelli, la compostezza dei loro corpi, i capelli in ordine, simboli di umiltà come valore, non come sottomissione bigotta, ci dicono la bellezza della famiglia nella semplicità della fede. Ecco la ricchezza e la forza di questo quadro. Grida quanto è bella la famiglia che crede. Il Papa ci accompagna con tenerezza: «L’educazione dei figli dev’essere caratterizzata da un percorso di trasmissione della fede, che è reso difficile dallo stile di vita attuale, dagli orari di lavoro, dalla complessità del mondo di oggi, in cui molti, per sopravvivere, sostengono ritmi frenetici. Ciò nonostante, la famiglia deve continuare ad essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo. Questo inizia con il Battesimo, nel quale, come diceva sant’Agostino, le madri che portano i propri figli “cooperano al parto santo”. …La fede è dono di Dio, ricevuto nel Battesimo, e non è il risultato di un’azione umana, però i genitori sono strumento di Dio per la sua maturazione e il suo sviluppo». Perciò «è bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Vergine. Quanta tenerezza c’è in quel gesto! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in spazio di preghiera» (Amoris laetitia, 287).

La tavola è il luogo della riunione familiare, in cui si racconta e si interpreta la realtà. Così si svela la vita alla luce del vangelo, le parole scambiate ai pasti sono una quotidiana scuola di vita tra genitori e figli. Come va con quel collega insopportabile? Come facciamo con quel compagno di scuola fastidioso? Come andranno le cose nel mondo dopo le notizie ascoltate in tv? Le risposte, se nascono dal vangelo, diventano il catechismo familiare. Immerso nella vita vera.

La sacra famiglia di Knap è composta da tanti quadri in uno solo. Ogni personaggio potrebbe essere quadro a se stante. Ogni particolare si traduce in una molteplicità di visioni nell’unicità dell’essere famiglia. Il padre, con l’angioletto che richiama il sogno di Giuseppe, sembra dormire ad occhi aperti. In effetti è assente rispetto a quello che sta succedendo dall’altra parte del tavolo, rispettando alla perfezione l’iconografia classica di un Giuseppe che si fa da parte perché è solo un custode. Protagonisti sono Maria e Dio. È nella fede, guardando l’angelo, che Giuseppe comprende il suo ruolo e riesce a portarlo avanti nonostante le difficoltà. Quanti genitori e sposi fanno fatica a prendere decisioni, a fare le scelte giuste davanti agli ostacoli che la vita getta loro davanti!

Spostiamo lo sguardo su Maria. Anche lei è quadro a sé. È “Madonna col Bambino”. Sfogliano o giocano con un libro, un chiarissimo richiamo e omaggio all’iconografia cinquecentesca, riletta nell’oggi. Maria, con quel bambino biondo, quasi botticelliano, sfoglia le bianche pagine di un libro da scrivere, che rivelerà la storia della vera salvezza.

E poi l’angioletto con le gambine intrecciate sulla sedia e le mani al petto. Omaggia Maria regina degli angeli? È un angelo custode? Sappiamo che ogni famiglia ha una parte di sé in Cielo. Può essere il bimbo concepito che non ha visto la luce o il familiare che non c’è più, che abbiamo salutato in questa terra ma che ci resta accanto e che un giorno ritroveremo perché la risurrezione ci riporterà di nuovo tutti insieme per sempre.

A sinistra abbiamo una porta dorata, fa accedere al laboratorio di Giuseppe. Il lavoro è separato ma non è lontano dalla vita familiare. Famiglia è anche concretezza: cose da fare, giustizia da pretendere, stipendi da cercare e da utilizzare in modo intelligente, ambienti dei quali aver cura. Nessuna famiglia può pensare di vivere senza lavoro, di dipendere dai soldi degli altri, di non ricevere la giusta ricompensa.

Dalla finestra si vede il cielo azzurro, piante verdi, nuvole che portano vita. Questa famiglia è immersa in una bellezza terrena ma non solo.

L’Italia vanta ricchezze senza pari

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A conferma che — per paesaggi, arte e cultura — l’Italia vanta ricchezze senza pari, il Global Soft Power Index, società leader nella valutazione del valore di un bene, materiale o immateriale, colloca il Belpaese in cima alla scala d’influenza Culture & Heritage, ovvero patrimonio storico-culturale. Una miniera — a cielo aperto e nei caveaux dei musei — di inestimabile ricchezza con cui, a fianco di altre specificità nostrane — inventiva, ospitalità, buon gusto — il concetto di “bellezza”, altrimenti impalpabile, da astratto prende forma e concretezza.

Un bene che, da immateriale, si concretizza a tal punto da finire oggetto di narrazione di un Padiglione della Biennale di Architettura 2021 di Venezia. «Sapere come usare il sapere» è il leit motiv che fa da sfondo all’esposizione in cui, attraverso una installazione realizzata da artisti del vetro, viene presentato il report relativo ad un’imponente ricerca tesa a stimare il patrimonio culturale, naturale e imprenditoriale italiano, quantificandone il valore effettivo, il peso reale, e definendo scambi e relazioni tra tutte le componenti attivamente coinvolte nell’ecosistema della bellezza. I numeri non ci dicono se sarà la bellezza a salvarci, ma la loro lettura certamente chiarisce che tanta bellezza genera altrettanto benessere, lavoro, conoscenza e sviluppo.

Muovendo dal nostro patrimonio culturale e paesaggistico, l’indagine prende in rassegna tutti i servizi collegati e l’indotto connesso, come i trasporti e l’hospitality, per arrivare alla produzione industriale di tutte le realtà design-driven rispondenti a logiche estetico-funzionali. E così, sono state individuate 341 mila imprese con un fatturato complessivo annuo di 682 miliardi di euro. Ai volumi prodotti da quest’avanguardia creativa e dinamica, che rappresenta il 31 per cento delle più disparate attività diffuse su tutto il territorio e riferibili a 8 settori produttivi tipici del Made in Italy (agroalimentare, automotive, cosmesi, meccanica, moda, gioielleria, orologeria, artigianato artistico), si somma la fruizione stessa di questo immenso ben di Dio culturale e paesaggistico che alimenta un motore pari al 17,2 per cento del Pil nazionale: si parla di un monumento o un’area archeologica ogni 50 kmq e di 128 milioni di visitatori.

Tradizioni, arti, mestieri, storie e, soprattutto, esperienze e voci non tessono solo una trama fatta di legami sentimentali, usi e costumi, ma alimentano un tessuto fiorente e rigenerativo. In tale contesto, le risorse umane sono il volano trainante di un ecosistema capace di rendere i territori di appartenenza più attrattivi e innesca un circuito virtuoso e sostenibile di ricchezza e benessere diffusi. A margine dell’indagine sono stati descritti alcuni case history: rimanendo nel capoluogo lagunare, ad esempio, opulenza e stile sono ispiratori anche della manifattura, della filiera agroalimentare e dell’arte profumatoria, emblema stesso della tradizione veneziana. Ambienti e luoghi leggendari della Laguna sono stati perfino dichiarati Patrimonio nazionale dal ministero dei Beni artistici e culturali: in occasione delle Mostre del cinema, della Biennale o di tante altre manifestazioni in città, dagli angoli e le calle più suggestive di Venezia sono passati personaggi appartenenti al mito dell’immaginario collettivo, a cominciare da Katharine Hepburn, Joe DiMaggio ed Ernest Hemingway. Tuttavia, potremmo citare una miriade di borghi e città, chilometri di coste o parchi naturali, che nel tempo hanno saputo imporsi come riferimento di una clientela internazionale e di una cultura che genera valore. Certo, questo grazie alla varietà di un territorio ospitale, ad un clima favorevole e ad un “paesaggio” naturale e artistico di straordinaria rarità. Ma, soprattutto, tutto ciò si alimenta e moltiplica grazie alla spinta della più grande delle risorse: la carica di umanità, la propensione alla condivisione, lo spirito di accoglienza, perché solo questi possono far sentire a casa lo straniero.

Osservatore

La civiltà e l’arte dell’attesa

Avvenire

La Bibbia contiene anche una grammatica dell’etica e della spiritualità dell’attesa. Il primo a praticare nella Bibbia l’arte dell’attesa è Dio stesso che ci aspetta mentre noi ci perdiamo nei porcili dove ci ha condotto la nostra voglia di felicità, o semplicemente la forza invincibile della vita. C’è poi la grande attesa del Messia, della fine dell’esilio, del risveglio di Dio, e quella infinita del ritorno del Signore. «Vieni, Signore Gesù», sono le parole con cui si chiude l’Apocalisse, con cui si chiude (non chiudendosi) la Bibbia cristiana. Attendono gli uomini (Noè la fine del diluvio, Abramo che arrivi il figlio promesso, Mosè che si converta il faraone, Geremia la parola per il popolo, Giobbe che arrivi finalmente Dio…); ma attendono, soprattutto e diversamente, le donne. Attendono nella Bibbia perché attendono nella vita. La nostra storia è anche storia di madri-spose-figlie-sorelle che hanno dovuto imparare l’arte dell’attesa, come parte essenziale dell’arte del vivere. Attendono attimo dopo attimo, li sentono tutti, senza farne passare invano neanche uno. Attendono nove mesi i bambini, e poi che i figli si perdonino gli uni gli altri, gli uomini che non tornano dalle guerre, quelli che tornano dal lavoro, dalle carceri, quello che forse un giorno finalmente capirà il male che ha fatto e tornerà a casa. In genere sono attese laboriose e attive, ma qualche volta, dopo aver fatto tutta la loro parte, quella possibile e quella impossibile, sanno attendere e basta. Come stanno per fare Rut e Noemi.

«B oaz le disse: ‘Apri lo scialle che hai addosso e tienilo forte’. Lei lo tenne ed egli vi versò dentro sei misure d’orzo. Glielo pose sulle spalle e rientrò in città» (Rut 3,15). Boaz conclude il convegno notturno con Rut con un dono. Un dono, non atteso né previsto, che dice molte cose.

Il dono, in genere, precede un incontro, lo prepara, ne apparecchia lo spazio, è la prima parola muta del dialogo che sta per iniziare. Così fece un’altra donna che ha dei tratti in comune con Rut: Abigail. Questa, quando venne a sapere del possibile conflitto tra suo marito e il re Davide, «prese in fretta duecento pani, due otri di vino… cento grappoli di uva passa e duecento schiacciate di fichi secchi, li caricò sugli asini», e li portò in dono a Davide (1 Sam 25,18). I doni che precedono l’incontro sono preziosi. Chi li riceve dispone la mente e il cuore a una buona relazione. Lo sapeva anche Giacobbe che, prima di incontrare suo fratello ingannato Esaù, gli fece arrivare dei doni (Gen 32,14). Il dono preventivo è olio nell’ingranaggio delle relazioni. Arrivare da un amico con un dono non è solo buona educazione. In quella bottiglia di vino, in quel libro, in quel mazzo di fiori ci sono tracce di linguaggi antichi che sono stati il cemento delle civiltà. Ciò che oggi ci appare come corte- sia è quanto resta di gesti decisivi che hanno trasformato le nostre lance in vomeri. Quell’oggetto che entra con noi nella porta di una casa amica, che qualche volta ci precede, celebra un legame, ti dice grazie perché ci sei, prima di sapere quanto buona sarà la cena. A volte, quando non abbiamo molte parole da scambiarci, o quando il dolore e la rabbia le hanno consumate tutte, arriviamo con un dono e la serata è già riempita di tutte le parole necessarie, che risuonano amiche sul nostro silenzio. E, altre volte, mi apri la porta, vedi il pacchetto; ci abbracciamo, e tutte le altre parole si sciolgono. Questi doni sono l’anima del perdono, che è un incontro di doni reciproci: per chiedere all’altro di essere perdonato devo precederlo con un dono – fossero soltanto le mie lacrime – il perdono è anche moltiplicazione del dono (per-dono). M a ci sono anche i doni che seguono gli incontri, quelli che arrivano dopo. Quando il pacchetto giunge alla fine, quando non ce l’aspettavamo, non c’era una ragione. Perché mentre i ‘doni prima’ hanno bisogno di una ragione (e se non ce l’hanno, possono essere il dono del faraone o quello mafioso), i ‘doni dopo’ no. Arrivano e basta. Per questo sono la sorpresa più grande, quella più gradita, tutta gratuità. I doni dopo potrebbero non esserci, non sono necessari. Per questo ci piacciono molto, forse troppo. E se non ne abbiamo ricevuto neanche uno, continuiamo ad attenderlo fino alla fine, e forse sarà il dono dell’angelo.

Quale la natura dei doni dopo gli incontri? Rut era rimasta probabilmente turbata dalle parole con le quali Boaz le aveva annunciato l’esistenza di un riscattatore ( goèl) più prossimo di lui, che aveva la precedenza. Ed ecco giungere il dono a tranquillizzare, rincuorare, assicurare, a dire: ‘non temere, ci sono’. I doni sono importanti sempre, ma soprattutto quando siamo nel turbamento, quando i rapporti vacillano. Noi maschi, qualche volta, sappiamo farli. Questi doni non sono controdoni, perché se lo fossero non ci sorprenderebbero e non sarebbero tutta gratuità. Per questo sono eccessivi, larghi e abbondanti (sei misure corrispondevano forse a 42 litri). I ‘doni prima’ possono essere economici e sobri; i ‘doni dopo’ amano lo spreco, la dissipazione, la dépense (Georges Bataille), non devono seguire la logica del calcolo e delle equivalenze. Quel dono fu l’ultima parola di quell’incontro importante, perché il discorso tra di loro potesse continuare dopo quella notte. I ‘doni dopo’ stanno lì a dire il valore di ciò che è già accaduto, a creare nell’altro un debito buono che potrà essere rimesso solo continuando la catena dei doni-gratuità. Forse a Boaz l’idea di quel dono gli venne durante l’incontro o alla fine, forse non lo aveva previsto. Perché questi doni hanno la capacità di sorprendere anche chi li fa.

«A rrivata dalla suocera, questa le chiese: ‘Com’è andata, figlia mia?’. Ella le raccontò quanto quell’uomo aveva fatto per lei e aggiunse: ‘Mi ha anche dato sei misure di orzo, dicendomi: ’Non devi tornare da tua suocera a mani vuote’’» (3,16 17). La suocera l’accoglie con un umanissimo: «E allora?». Anche qui, come alla fine del capitolo secondo (2,21), Rut racconta a Noemi gli eventi con parole diverse da quelle che aveva udito da Boaz. Infatti l’uomo non le aveva detto che l’orzo fosse per Noemi, e tutto lasciava intendere che fosse per lei. Non esistono parole uguali per tutti. In ogni racconto di parole che abbiamo udito si inserisce la nostra interpretazione. Lo vediamo tutti i giorni nelle nostre famiglie, comunità e nelle nostre imprese, che sebbene facciano di tutto per rendere non equivoci e lineari i messaggi veicolati da parole dette e scritte, molti conflitti e inefficienze nascono dai diversi significati che diamo alle stesse parole che ascoltiamo e leggiamo. Accade a tutti, soprattutto alle donne, che hanno spesso esegesi diverse e più profonde delle parole, grazie a un rapporto tutto speciale con la parola (per doverla trasmettere all’inizio e alla fine della vita, quando solo loro riescono a decifrare sussurri e gemiti). E così un’espressione del viso, un ammiccamento, un’inflessione nel tono della voce, un sorriso, parlano insieme alle parole e le cambiano.

Q ui Rut dona a Noemi una diversa lettura del dono dell’orzo, e lo fa diventare il dono di Boaz per Noemi. Forse lo aveva intuito dalle parole e dai gesti di Boaz, o forse Rut ha solo voluto fare il suo dono a Noemi cambiando il senso-direzione di quell’orzo. Il dono ama le distanze brevi. Non gradisce i passaggi intermedi. Il solo grado di separazione che vuole è uno. Se Rut avesse detto a Noemi: ‘Questo è il dono che Boaz ha fatto a me e che io ora faccio a te’, il valore di quel dono per Noemi si sarebbe ridotto di molto. Nel mercato i diversi passaggi nella filiera della merce ne accrescono il prezzo e spesso il valore. Nel dono invece accade il contrario: se so che il dono che mi stai facendo lo hai ricevuto da qualcun altro, si riducono immediatamente il valore del tuo dono a me e il valore del dono fatto a te (è anche questa una ragione della norma sociale che vieta di riciclare i doni). Tutti i donatari amano le primizie – non solo Dio quelle di Abele.

M a qui Rut ci suggerisce anche qualcos’altro. Ci dice quale deve essere il buon atteggiamento di chi si trova al centro di una trasmissione di doni. È il segreto dell’etica dei genitori, dell’educatore, dell’accompagnatore, del docente. Il dono della conoscenza che ti faccio non è qualcosa di mio che generosamente ti elargisco; io sono invece solo colui che ti trasmette ‘il dono dell’orzo’ per te – Dio, la società che ti dona la sua eredità, la gratuità di cui è piena la terra. Quando invece chi sta in mezzo si trasforma nella fonte del dono, diventa un idolo e non ripete più: ‘L’orzo non è mio, era già qui per te’. La prima generosità di un educatore sta nel non pensarsi e presentarsi come il padrone dell’orzo, ma solo come ponte del dono. Questa è la pre-condizione dell’autentica gratuità, necessaria in ogni processo di trasmissione della vita, del sapere e della sapienza. E anche quando sappiamo che in quanto stiamo trasmettendo c’è anche tutto il nostro talento e il nostro impegno personali, se siamo onesti sappiamo anche che la nostra parte è il bicchiere d’acqua in un oceano di gratuità. Queste parole di Rut sul dono di Boaz sono le sue ultime parole nel libro. Nel IV capitolo lei non avrà più la parola. Non c’erano parole migliori per concludere il suo discorso. «N oemi disse: ‘Sta tranquilla, figlia mia, finché non sai come andrà a finire la cosa. Di certo quest’uomo non si darà pace, finché non avrà concluso oggi stesso questa questione’» (3,18).

Le due donne hanno fatto tutta la loro parte, e qualcosa di più, per aiutare la Provvidenza a fare il suo lavoro. Ora è giunto il momento del riposo, della quiete, dell’attesa. È iniziato un altro tempo. Lo sanno. Si possono solo affidare alla bontà della vita e di Boaz, e sperare. La speranza ha bisogno dell’arte dell’attesa. Chi sa sperare ha imparato ad attendere. Il nostro tempo ha disimparato a sperare perché ha dimenticato il valore dell’attesa: «Tutta l’umana saggezza consisterà in queste due parole: attendere e sperare» (Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo).

l.bruni@lumsa.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA  – Avvenire

Il dono di Boaz a Rut e quello di Rut a Noemi sono un insegnamento sulla grammatica dei doni, di quelli ‘prima’ e di quelli ‘dopo’ gli incontri

La vita vola via come un sogno, e non si fa in tempo a far niente prima che ti sfugga l’istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, la più difficile e la più importante delle arti: quella di colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più

Pavel Florenskij

Lettera del 20 aprile 1937 dal Gulag di Solovki

Marc Chagall, «Ruth e Boaz» (1960)

Capodanno al museo, divertirsi con l’arte

ROMA  – Divertirsi con l’arte, ma anche con la musica e con le parole, per salutare finalmente questo anno buio e accogliere nel migliore dei modi il 2021: è davvero molto ricca l’offerta digitale e open air che i musei e i luoghi di cultura propongono al pubblico per trascorrere il 31 dicembre e i primi giorni del nuovo anno all’insegna della bellezza.

ROMA – “Oltre tutto” è il capodanno della Capitale, da seguire sul sito culture.roma.it e sulla pagina Facebook di @cultureroma, a cura di Francesca Macrì e Claudia Sorace: il 31 dicembre direttamente dal Laboratorio di Scenografia del Teatro dell’Opera Michela Murgia e Chiara Valerio accompagneranno il pubblico in un viaggio emozionante, pieno di musica, parole e arte. Da non perdere la prima mondiale di Tomás Saraceno “How to hear the universe in a spider/web: A live concert for/by invertebrate rights” pensato appositamente per “Oltre tutto”, la grande istallazione al neon, alta 16 metri, di Tim Etchells con il messaggio “This precise moment in time as seen from the future” e il lavoro di Alfredo Pirri dal titolo “Fuoco – Cenere – Silenzio”, creazione site specific che reinterpreta la pira e l’elemento rigeneratore del fuoco. Il 2 gennaio alle 16 sulla piattaforma Google Meet il Chiostro del Bramante dà appuntamento ai bambini e ai loro genitori per un divertente laboratorio didattico digitale dal titolo “Leggiamo la grande arte” dedicato alla lettura di Banksy di Fausto Gilberti (ed. Corraini). Con Technotown e Casina di Raffaello invece il 3 gennaio sarà possibile vivere un’avventura virtuale tra i grandi inventori, la scienza, l’arte e la letteratura che hanno fatto la storia del nostro Paese grazie alla Grande Tombola dell’Innovazione: dalle 16.30 grandi e piccini potranno divertirsi collegandosi con il proprio tablet, computer o smartphone e scoprire quale innovatore italiano e la sua invenzione corrisponderanno ai singoli numeri estratti.

MILANO – Una serata d’arte e musica di grande suggestione in cui i pensieri di tutti potranno essere protagonisti: è il capodanno di Milano dal titolo “Pensieri Illuminati”, completamente aperto ai cittadini e ideato per una visione in streaming. Il 31 dicembre l’evento si comporrà di un mix di tanti elementi diversi che dal Duomo si estenderà al Museo del Novecento per arrivare alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale: la narrazione collettiva trasformata dall’artista Felice Limosani in grafica generativa e pixel luminosi, la musica diretta dal Maestro Beatrice Venezi, eseguita dell’Orchestra ‘I Pomeriggi Musicali’, la drammaturgia messa in scena dalla Civica Scuola di Teatro ‘Paolo Grassi’ – Fondazione Milano e poi a mezzanotte la video installazione narrata da Alessandro Preziosi e proiettata sulla Cattedrale. Al Mudec il nuovo anno si apre invece con Gerda Taro, celebre fotografa a cui viene dedicato la “puntata” del 2 gennaio della miniserie “10 x 10” (progetto composto da dieci mini-video documentari che raccontano al pubblico la vita di dieci grandi protagoniste della storia della fotografia): alle 10 sui canali social Facebook e Instagram del Museo delle Culture Nicolas Ballario, volto di SkyArte e voce di Rai RadioUno per l’arte contemporanea, svelerà aneddoti e aspetti particolari della vita e della carriera dell’artista.

VENEZIA – Nuovo appuntamento sui canali social di Palazzo Grassi – Punta della Dogana con il format #OpenLab per i giorni 1, 2, 3 gennaio: inizia il nuovo anno con “A book is a book is a book”, un atelier in tre puntate, curato da Libri Belli di Livia Satriano, che invita il pubblico a riscoprire i libri della tradizione letteraria italiana, attraverso le loro copertine.

CORTONA – Si intitola “Look listen live Maec” lo speciale spettacolo di Capodanno, in scena il 1 gennaio dalle 18 in collegamento dal Maec di Cortona: il format, ideato da Maria Vittoria Paci, vedrà protagonista la Cor Orchestra diretta da Roberto Michele Baldo, con performance, sorprese e ospiti come l’attore Alessio Boni, gli scrittori Maurizio De Giovanni e Frances Mayes.

LATINA – Un percorso che si snoda in tutta la Città di Latina, con una serie di 8 “fotostorie” e 12 “singoli scatti” che rappresentano circa 100 fotografie divise in 10 maxi poster 6x3mt e 100 manifesti 100x140cm: è la mostra open air “Life in the Time of Coronavirus”, a cura di Giovanni Pelloso, in programma fino al 19 gennaio, pensata per raccontare la forza e la violenza del virus. La mostra è stata creata selezionando il materiale (oltre 10000 immagini) raccolto con una call internazionale: un appello a cui hanno risposto in moltissimi, dalla Spagna all’Inghilterra, dall’Iran al Brasile, dall’India al Nepal, oltre che dall’Italia, che ha permesso di costruire una narrazione collettiva dedicata a questo tempo di pandemia.

PRATO – Sulla pagina Facebook del Museo di Palazzo Pretorio il 1 gennaio sarà trasmesso alle 11 in diretta “Nel mar che bagna a Mergellina il piede”, lo speciale concerto di Capodanno nel quale saranno eseguiti brani inediti di autori del Seicento napoletano.

SASSARI – Un percorso altamente spettacolare è quello offerto da “Luci in Miniera” nell’ex borgo dell’Argentiera di Sassari, in cui ora è presente il Mar-Miniera Argentiera, il primo museo minerario a cielo aperto in realtà aumentata: durante tutto il periodo delle festività natalizie sarà un tripudio di luci, videoproiezioni, installazioni luminose, sonore e in realtà aumentata. Cinque le nuove installazioni luminose che vanno ad arricchire il museo open air, dall’Albero del buio a quelle dedicate agli elementi naturali, Terra, Aria, Acqua e Fuoco.

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L’arte racconta il Dio fatto carne

Un’espressione viva della prossimità di Dio. E’ questo la rappresentazione del Natale che ha interpellato nei secoli la creatività di generazioni di artisti di ogni parte del mondo. Poche espressioni del genio umano sono in grado di dar forma al mistero del Dio fatto carne.  L’arte raggiunge questo scopo. Lo dimostrano le 45 opere proposte dagli studiosi François Boespflug ed Emanuela Fogliadini nel volume intitolato “Il Natale nell’arte” e pubblicato da Jaca Book.

La vicinanza di Dio

“Soprattutto in questo momento di sofferenza – spiega a Vatican News Emanuela Fogliadini – l’arte ci dice la vicinanza di Dio. Il Natale è un mistero centrale della storia del cristianesimo, un annuncio rivoluzionario”.

Ascolta l’intervista ad Emanuela Fogliadini

Arte, storia e teologia si intrecciano nell’analisi descrittiva di tanti capolavori come il sarcofago del Museo di Arles, le miniature dell’Evangeliario di san Bernward a Hildesheim, i mosaici della Cappella Palatina di Palermo, le pitture del Monastero dei Siriani in Egitto o gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova.

Dio nato povero

L’arte coglie la portata teologica della notizia sconvolgente del Natale, di un Dio nato povero e annunciato ai pastori, i dimenticati della storia. Sfogliando le pagine illustrate del volume, scorrono in rassegna rappresentazioni della Natività riconducibili a diverse epoche, dal IV secolo ad oggi, e provenienti da contesti geografici lontani, dall’Europa all’Asia. Accanto alle rappresentazioni più note al mondo occidentale, figurano le espressioni figurative dell’inculturazione del Vangelo in Cina, Thailandia o Africa.

La piccola Pasqua

Il Natale ha ispirato da sempre entrambi i “polmoni” della Chiesa europea. “L’Oriente cristiano – prosegue Emanuela Fogliadini  – ha sottolineato il mistero dell’Incarnazione per opera dello Spirito Santo, ricorrendo spesso ad accorgimenti iconografici. La Vergine è rappresentata ad esempio di dimensioni più grandi rispetto ad altri personaggi; Giuseppe è in un angolo, non perché lo si voglia escludere, ma perché non ha partecipato alla nascita di Cristo; un raggio dello Spirito Santo penetra nella culla di Gesù, avvolto in fasce”. La mangiatoia è spesso evocativa del sepolcro: “un chiaro riferimento al tema della Passione e Resurrezione. La Natività infatti è chiamata in Oriente “piccola Pasqua”: Cristo infatti si è incarnato per la nostra salvezza”.

La famiglia e la nudità

D’altro canto in Occidente, soprattutto a partire dal Rinascimento italiano, l’iconografia del Natale si è concetrata sulle figure della Sacra Famiglia: Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù, a terra, talvolta nudo a sottolineare la condizione umana assunta da Dio.

Il Figlio di Dio

Calamita lo sguardo “Le Nouveauné” di Georges de La Tour, olio su tela, conservato a Rennnes, che campeggia sulla copertina del libro. Il sapiente uso del colore per rappresentare la luce, tipico del pittore francese del Seicento, crea grande suggestione attorno al mistero della nascita e fa subito intuire che quello che contempliamo non è un “Nuovo nato” qualunque, ma è il Figlio di Dio.

E’ nato. Oggi come ieri

L’Incarnazione del Verbo assume sovente i tratti della quotidianità. È il caso delle pitture di Maurice Denise e Fritz Von Uhde, due pittori attivi rispettivamente nell’Ottocento e nel Novecento. “Denis raffigura un gregge di pecore che sembrano adorare la nascita di un bambino in una moderna stalla”.  Gesù nasce, come duemila anni fa, anche nelle periferie dei nostri giorni.

vaticannews

Il Natale nell'arte

Arte: la lingua dei segni svela i capolavori

Avvenire

Video-descrizioni delle opere esposte L’iniziativa della Galleria degli Uffizi

L’arte parla un linguaggio universale e non ha bisogno di traduzioni.

Verissimo. Ma quando si visita un museo capita di voler scoprire il più possibile sui capolavori esposti: per questo, i musei organizzano percorsi guidati, affidando a personale specializzato la descrizione delle opere. Oppure danno ai visitatori la possibilità di noleggiare apposite registrazioni. La Galleria degli Uffizi, a Firenze, ha pensato anche alle persone sorde, escluse da queste due possibilità: per loro sono state realizzate videodescrizioni delle opere nella Lis, la lingua italiana dei segni, con sottotitoli in italiano.

A breve, gli stessi filmati saranno disponibili anche in segni internazionali, con sottotitoli in inglese. È una delle iniziative per migliorare l’accessibilità delle persone disabili al museo, sviluppata in collaborazione con l’Ente nazionale sordi.

Ciascun video presenta un capolavoro – “La Primavera”, di Sandro Botticelli, o i ritratti dei Duchi di Urbino, dipinti da Piero della Francesca – con brevi spiegazioni, per non distrarre del tutto il visitatore dall’osservazione delle opere. Il tutto a portata di smartphone. L’iniziativa è stata presentata in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, che si celebra oggi.

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Arte e fede. Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”

Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
L’affresco con una veduta ideale della città di Gerusalemme, dipinto sui meri del Colosseo nel XVII secolo

L’affresco con una veduta ideale della città di Gerusalemme, dipinto sui meri del Colosseo nel XVII secolo – Electa

Avvenire

Si è concluso di recente il cantiere di restauro dell’affresco raffigurante una veduta ideale della città di Gerusalemme, realizzato nell’Anfiteatro Flavio sull’arco di fondo della Porta Triumphalis, verso il Foro Romano. Il dipinto è ascrivibile al XVII secolo, come conferma il risultato del restauro, che ha consentito di confermare la fonte iconografica nella stampa unita alla seconda edizione del volumetto del teologo Christian van Adrichom Urbis Hierosolimae quemadmodum ea Christi tempore floruit (1585), disegnata e incisa da Franz Hogenberg e Arnold de Loose. Il restauro sarà presentato oggi, alle 17.30, con una lectio magistralis del cardinale Gianfranco Ravasi (che ne anticipa in queste colonne i punti principali) la cui registrazione sarà disponibile sul canale Facebook e sulla pagina YouTube del Parco archeologico del Colosseo a partire dalle ore 19.00 di sabato 23 ottobre.

Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.

Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.

Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.

Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.

La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.

Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.

Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni – che pure in Abramo hanno una radice comune – segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così “personale”.

Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).

Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica – adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana – dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».

Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).

Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me – dice il Signore – chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).

Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù – stando al Vangelo di Marco – avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).

È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).

Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.

Il dialogo interreligioso tra i monoteismi “gerosolimitani” e quello ecumenico tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente che proprio nella città di Cristo si sono per secoli divisi e osteggiati è, quindi, nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutte le confessioni religiose trasformarlo da sogno utopico in realtà storica e quotidiana.