Van Gogh a Padova e l’eroismo dell’arte

Forse lo stesso Van Gogh li avrebbe immaginati così, tutti in fila, su una parete , in un sentimento di vicinanza e di calore, quasi di affetto. Ma vedere i grandi ritratti del pittore olandese allineati in una stessa sala, dal quello del sottotenente Miliet, a quello di Joseph-Michel Ginoux, fino al postino e all’arlesiana, in un trionfo di giallo di verde e di blu, tutti gli amici di Arles, in un’esplosione di colore impressionante è davvero una grandissima meraviglia, da togliere il fiato. La sala è il cuore della mostra ”Van Gogh. I colori della vita”, al Centro San Gaetano di Padova dal 10 ottobre all’11 aprile, in tutto 96 opere di cui 82 del pittore divisi a metà circa tra quadri e disegni, distribuiti in sette sezioni e sette sale, in ordine cronologico, proveniente da tutti i grandi musei del mondo, ma in modo massiccio (74) soprattutto dal Kroller-Muller Museum, che possiede la seconda più vasta collezione al mondo di opere di Van Gogh. E per quelle 14 opere che non sono sue, si parla di Gauguin, Seurat, Signac, Hiroshige, in quadri meravigliosi che hanno un preciso rapporto con il percorso artistico ed esistenziale del pittore olandese.
Ma ad aprire il percorso sono tre grandiose tele di Francis Bacon, che già da sole varrebbero il viaggio a Padova, in cui il gigante della seconda metà del Novecento si confronta con un quadro emblematico di Van Gogh, Il pittore sulla strada di Tarascona, andato distrutto, per realizzare una serie di Studi per un ritratto di Van Gogh. ”E’ il punto di partenza – spiega il curatore Marco Goldin – di una mostra che, insieme al libro che la accompagna, vuole riscrivere la vita e l’opera del grande artista olandese, attraverso la lettura del suo epistolario. Con l’immagine del pittore come eroe da cui parte, e soprattutto nella convinzione che Van Gogh non fosse per niente pazzo”. Si perché il 15 ottobre sarà anche in libreria per La Nave di Teseo, ”Van Gogh. L’autobiografia mai scritta”, un poderoso volume di 700 pagine in cui lo storico dell’arte che da oltre 20 anni si occupa del grande pittore ha ritradotto e dato senso al suo epistolario (”che poi andrebbe anche considerato tra le grandi opere letterarie del suo secolo”, dice Goldin) rileggendone la vita.
Anche la mostra infatti, nelle sue sette sezioni che contengono i maggiori capolavori realizzati dall’olandese – dall’Autoritratto con il cappello di paglia, Il seminatore, i vari campi di grano, i paesaggi attorno al manicomio di Saint-Remy e molti altri – è organizzata in senso strettamente cronologico ripercorrendo le fasi e i colori della vita dell’artista che in dieci anni rivoluzionò il mondo dell’arte.
Si parte sempre dai luoghi, dalla miniera di Marcasse a Etten, con il cupo grigiore dei primi disegni ad indagare il dolore e la fatica; a Sien e il tempo dell’Aia; Nuenen tra tessitori e contadini, ”dove il paesaggio inizia ad affacciarsi dalle finestre delle case”, dice ancora Goldin; all’esplosione di Parigi, ”dove inizierà a confrontarsi con il mondo dell’arte moderna”; fino all’anno decisivo, il 1888 ad Arles tra i colori della Provenza, quindici decisivi mesi in cui realizza circa 200 quadri; e poi la fine del viaggio a Saint-Remy nell’istituto di cura per malattie mentali dove ruba dalla finestra il paesaggio della Provenza.
La mostra si chiude con la grande foto delle tombe affiancate di Vincent e di suo fratello Theodore, Theo, colui al quale sono indirizzate gran parte delle lettere, il gallerista che lo ha mantenuto destinandogli il 15-20% dei suoi guadagni negli ultimi dieci anni della sua vita, quando decide appunto, dopo tanti lavori ed altrettanti fallimenti, che l’arte sarà la sua missione. ”Van Gogh non era pazzo come viene dipinto in modo pittoresco dal cinema per esaltarne il lato maledetto – spiega Goldin e anche il suo rapporto con la famiglia era si conflittuale ma anche di un fortissimo legame”. Lo spiega a fondo questo viaggio nella sua opera e nei suoi sentimenti che è, come i circa 150 km che Vincent faceva in un paio di giorni, un atto altrettanto eroico e faticoso in un momento in cui un pandemia che non è finita mette a rischio ogni elemento della nostra vita. Ci saranno quindi visite contingentate nei tempi, e tutte le accortezze del caso per una occasione da non perdere assolutamente.
La mostra è promossa da Linea d’Ombra, e dal Comune di Padova, con la collaborazione del Kroller-Muller Museum e il Gruppo Baccini come main sponsor.

ansa

ARTE/ Nel “ritratto della madre” la grandezza segreta e anomala di Boccioni in mostra a Domodossola

Da oggi per 15 giorni è in mostra a Domodossola “Ritratto della madre” (1910) di Umberto Boccioni. Un’opera straordinaria e anomala

Alla fine della sua breve vita ne dipinse ben 62: 62 ritratti di sua madre, tra disegni e dipinti. È il caso davvero unico di Umberto Boccioni, il maggior artista italiano del 900, vero artefice della grande stagione futurista, morto nel 1916 a soli 34 anni. Nel nostro secolo solo Alberto Giacometti ha mostrato una simile attenzione al volto della propria madre Annetta. Ma la “predilezione” di Boccioni verso Cecilia Forlani, la donna che lo aveva messo al mondo nel 1882 a Reggio Calabria, è qualcosa di davvero fuori dall’ordinario. Proprio in questi giorni uno dei 62 ritratti conclude la mostra “Umano molto umano” organizzata a Casa de Rodis, a Domodossola: una mostra a rotazione che prevedeva ogni settimana l’“incontro” con un grande ritratto del 900, nella vetrina affacciata sulla piazza centrale della cittadina ossolana. Da oggi, ed eccezionalmente per 15 giorni, sarà la volta dello stupendo Ritratto della madre del 1910, proveniente dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza. Un prestito reso possibile grazie alla collaborazione del museo e in particolare del suo presidente Massimo Ferrari. 

Come si spiega una tale attenzione nei confronti di propria madre da parte di un artista dal carattere tumultuoso e dalla vita nomade? Sappiamo da tantissime testimonianze che Boccioni era personaggio inquieto, a volte anche rissoso; non si contano poi le quantità di avventure femminili che hanno costellato la sua vita. Il suo profilo era quello tipico di un uomo di avanguardia in un inizio secolo travolgente e tempestoso, come era stato l’inizio del 900. Erano personaggi portati a tagliare i ponti con il proprio milieu sociale e famigliare. Anche Boccioni era un oltranzista, non solo nell’arte ma anche nelle scelte di vita; fu tra i protagonisti di questa straordinaria accelerazione che portò ad una rottura generalizzata con i linguaggi del passato.   

Ma Boccioni in tutto questo rivolgimento custodì sempre il legame più “inaspettato”, quello con la propria madre Cecilia (che si era divisa precocemente da Raffaele Boccioni, padre di Umberto). Era un legame profondo, che lo portava a esternare spesso preoccupazioni da figlio molto premuroso: quando la sorella Amelia si sposò, aveva raccomandato al futuro cognato di prestare attenzione particolare alla mamma. Boccioni infatti in quel periodo era sempre in giro per l’Europa e quindi non poteva prendersene cura. Tornato a Milano, sarebbe andato a vivere con lei.

Ma c’è di più. C’è la centralità che per il Boccioni artista assume quella figura di donna di un altro secolo, con i capelli bianchi raccolti sulla testa e gli abiti da donna del popolo. Come si può spiegare questa vera “anomalia”?

Nel 1912, nella casa di tre locali di corso Genova 23 a Milano, Boccioni aveva realizzato uno dei 62 ritratti intitolandolo Materia. È un quadro colossale in ogni senso, anche per le sue misure, uno dei capolavori dell’intero 900. Un quadro che fa sintesi dell’esperienza futurista e la rilancia dentro una prospettiva di inedita grandezza. “Capolavoro ostico e stupendo”, lo definisce Gino Agnese nella sua biografia di Boccioni. Il titolo gioca sull’assonanza con la parola latina “mater”: come se il corpo di Cecilia non fosse generativo solo di quel figlio scapestrato e geniale, ma anche del farsi stesso della pittura. È un ritratto dentro il quale irrompe il mondo intero, con i suoi cambiamenti travolgenti, ma anche con i drammi incombenti.

Il cammino di avvicinamento a questo capolavoro è costellato di opere dove l’impeto lascia sempre spazio alla tenerezza. Come nel caso del Ritratto in mostra, dove Boccioni lascia che la luce baci la madre posandosi sul suo volto. È un ritratto affascinante e anche spiazzante, perché non ci si aspetta che una visione moderna, tesa e inquieta, possa prendere corpo su un corpo “antico”. Ma questa è la grandezza segreta e “anomala” di Boccioni.

sussidiario.net

Arte e sacro. Chiesa e immagini, una lunga storia in cerca di futuro

Particolare del Crocifisso di Giotto (1301-1302) conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini

Particolare del Crocifisso di Giotto (1301-1302) conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini – WikiCommons

da Avvenire

Anticipiamo qui un estratto da Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana (EDB, pagine 264, euro 19,00) di Giuliano Zanchi.

Il mondo assai variegato della vita cristiana ha riscoperto solo recentemente, diciamo una quarantina d’anni, la chiave esteticofigurale come opportunità per una generale ripresa di coscienza del proprio deposito spirituale. Le inventive della pastorale si sono riempite di immagini. I suoi discorsi si sono infarciti di enfatici richiami alla bellezza. Mi sembra aver preso quota un orgoglio per quel patrimonio di arte sacra che si fa valere proprio alzandosi sul piedistallo della storia dell’arte e che tende a mitizzarsi retrospettivamente secondo un analogo racconto di convenzione; contraendo una medesima concezione dell’immagine, apologetica e astorica, che viene rinchiusa nel guscio dorato della sublimità artistica.

Vorrei non contestare il senso di quella riscoperta, che mi sembra anzi opportuna, quanto mettere in discussione la solidità di quel piedistallo, che mi pare invece ormai inadeguato. In quella posizione infatti il lemma “arte sacra” finisce per definire il legame tra potere delle immagini e vita cristiana come un dato immutabile, assunto una volta per tutte nel suo modello uniforme, che però non riflette altro che una sorta di idealizzazione romantica dell’arte a soggetto religioso della stagione tridentina. Proiettato all’indietro, quello sguardo fa dell’intera storia cristiana una mera ripetizione della stessa gloria estetica; proiettato in avanti, ma anche solo sul presente, esso non percepisce che il vuoto lasciato dalla sua assenza, resa particolarmente luttuosa dal declino moderno della figura. (…)

La convinzione di fondo è che i bisogni della vita cristiana e il potere simbolico delle immagini hanno dato vita nel tempo a vari modelli di incontro, secondo paradigmi che ogni volta hanno assegnato all’immagine, anche quella definita sacra, una diversa funzione. È un racconto che tratteggia sostanzialmente l’avvicendarsi di tre tempi.

Il primo tracciato storico, che si slancia per un’ampiezza di quasi tredici secoli, può essere definito, seguendo il famoso titolo di Hans Belting, un’epoca di culto delle immagini. Un cristianesimo in ascesa eredita dalla cultura antica una “concezione attiva” dell’immagine che, attraverso il crogiolo della teologia e superando vecchie inibizioni aniconiche, confluisce nella funzione assegnata alla nuova immagine cristiana. Nota con il termine di icona, essa condensa un tale densità simbolica da lambire i confini del potere sacramentale oltre che rappresentare un analogo della reliquia e del segno eucaristico. Un tale potere garantisce il realismo della presenza nella delicata comunicazione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile. In ordine alla sua efficacia restano sostanzialmente impercepiti quei particolari criteri di qualità cui si darà nel tempo il nome di arte. Sono ben più dirimenti quelle differenze di ordine teologico che permettono di distinguere un’icona da un idolo. Questa distinzione e quella che determina la funzione delle immagini sacre fino alle soglie dell’Umanesimo.

Il secondo tempo di questo racconto avviene nei confini della modernità, intesa come arco che unisce il fiorire dell’umanesimo e il suo sviluppo nei secoli della ragione. La differenza tra idolo e icona non è più cosi trasparente. La teologia provvede a separare rigorosamente le prerogative dell’immagine e quelle del sacramento. Sull’eucaristia viene posto tutto il peso della presenza reale. L’immagine diventa luogo della rappresentazione. La bolla neoplatonica dell’antica cosmologia prima si incrina, poi si dissolve. L’immagine non è più sacramento dell’altro mondo, ma rappresentazione di questo. Non significa che essa non sia più veicolo della dimensione spirituale. Ma dovrà farlo secondo un diverso ordine di mediazioni. Legata alle capacita tecniche dell’uomo, essa è ormai “opera dell’arte” e da sacramento astorico di un tempo ora entra nel catalogo di una disciplina che ha la sua autonomia e la sua storia. Infatti l’arte finirà per essere un analogo della religione, per poi prendere la propria strada.

Il terzo momento è quello in cui ci troviamo noi. La civiltà forgiata dalla ragione ha perso la fede in ogni possibile narrazione. Non esistendo più un fondamento la dimensione estetica si incarica di coprire il gigantesco vuoto della sua assenza. Le immagini non sono riflesso della verità, nemmeno rappresentazione del mondo, ma la sola realtà esistente. Nel nostro mondo tutto quello che ha pretesa di essere reale deve passare attraverso le immagini. Una nuova simbolica forte, anche se priva di una referenza trascendente. Non abbiamo ricominciato noi a parlare di icone?

La vita sociale si estetizza in ogni suo aspetto e ogni immagine del passato diventa contemporanea del suo gioco. Quello che oggi chiamiamo arte contemporanea ha assunto altre missioni. Essa permette la sopravvivenza di quel permanente iconoclasmo che nella storia combatte sempre il pericolo di una idolatria dell’immagine onnipotente. In tempo di “tirannia della bellezza” l’arte batte i palcoscenici della commedia e della tragedia. Nel frattempo la vita cristiana è finita ai margini del mondo e fatica molto a comprendere quello che vi accade. Subisce il nuovo impero delle immagini ma non sa trovare aiuto nelle arti. (…)

Il rapporto tra potere simbolico delle immagini e bisogni della vita cristiana, per quanto sempre molto fluido, ha dato vita a modelli relativamente configurati, in cui quello che ci siamo abituati a chiamare immagine sacra ha assunto caratteristiche e funzioni anche diverse. Il nostro è il tempo in cui essa, tra mille difficoltà, sta cercando la sua nuova sintesi. Ciò di cui la cultura media dei cristiani oggi non ha coscienza è proprio questa condizione di lenta emersione di un nuovo modello, avendo perso memoria della sua natura storica. Essa quindi ricorre continuamente al ripostiglio del suo passato, quando non frequenta i discount delle novità a buon mercato. Non ha pazienza. Vedere il passato come un ricettacolo di variazioni, anziché una ripetizione dell’identico, consente al futuro di prepararci novità. Così il presente può essere un luogo di attesa.

Verso il Meeting. Lagerkvist, la fede e… l’attualità di Barabba

In cartellone una pièce teatrale tratta dal romanzo col quale lo scrittore giunse al Nobel. Un’ambientazione moderna per dare voce alle domande dei non credenti dei nostri giorni

Barabba in un’incisione ottocentesca

Barabba in un’incisione ottocentesca

da Avvenire

“Midnight Barabba” è prodotto da Meeting Rimini in collaborazione con Avl Tek. Oltre al regista Otello Cenci, coautore del testo con Giampiero Pizzol, hanno contribuito al soggetto Davide Rondoni e Nicola Abbatangelo; scene di Nicola Delli Carri, costumi della Sartoria Shangrillà. Sette gli attori in scena: Raffaello Lombardi, Michele d’Errico, Antonella Carone, Franco Ferrante, Carla Guido, Roberto Petruzzelli e Mimmo Padrone. Lo spettacolo andrà in scena al Teatro Galli il 18 e il 19 agosto alle 20.45 (biglietti su www.vivaticket. it).

Pär Lagerkvist

Pär Lagerkvist

La Leporina non sa niente del Maestro. Non sa perché non l’abbia guarita, lasciandole quel viso sfigurato. E non sa perché proprio a lei abbia chiesto di portare testimonianza. Sa solo che non può fare a meno di seguirlo, fino al martirio, fino a essere presa in braccio, per l’ultima volta, dall’unico uomo che sembra averle mai prestato attenzione. Un malfattore, scampato alla croce e destinato ai lavori forzati. Si chiama Barabba e, se il processo non fosse andato com’è andato, sarebbe toccato a lui morire sul Calvario, non a Gesù di Nazareth. Eppure sul Calvario Barabba ci va lo stesso, per contemplare l’agonia del giusto. Per rendere testimonianza, in un certo senso, anche se – almeno in questo – la Leporina è più consapevole di lui, più pronta a obbedire alla chiamata. La tensione fra i due personaggi è uno degli elementi portanti di Barabba, il capolavoro dello scrittore svedese Pär Lagerkvist, che per questo romanzo (ora riproposto da Jaca Book nella classica versione di Giacomo Oreglia e Carlo Picchio e con una nota di Alesandro Ceni, pagine 158, euro 14) ottenne nel 1951 il premio Nobel per la letteratura. Documento di un’inquietudine spirituale che attraversa per intero l’opera di Lagerkvist, Barabba fu trascritto in forma drammatica dallo stesso autore e diede spunto a un fortunato film hollywoodiano, con Anthony Quinn nel ruolo del protagonista.

Del tutto inedito è invece l’adattamento che debutterà a Rimini come spettacolo inaugurale del quarantesimo Meeting per l’amicizia fra i popoli. La rivisitazione si annuncia originale fin dal titolo, Midnight Barabba, che allude alla cornice della messinscena: un party molto sofisticato, nel corso del quale i vari personaggi, tutti intellettuali influenti nella Stoccolma di metà Novecento, si ritrovano a immedesimarsi nelle figure e nelle situazioni del Barabba di Lagerkvist. «Non è un semplice espediente di teatro nel teatro – spiega il regista Otello Cenci, che è anche autore del copione insieme con Giampiero Pizzol –. Al contrario, il confronto col romanzo porta alla luce l’umanità di ciascuno, altrimenti nascosta dalle consuetudini della mondanità. Le maschere sono quelle che i personaggi indossano nella vita quotidiana. L’incontro con le parole di Lagerkvist diventa l’occasione per mostrare il proprio volto, in tutta la sua fragilità e complessità».

Già in precedenza gli spettacoli del Meeting avevano adottato la formula di una fittizia prova generale. «Sì, abbiamo fatto qualcosa di simile per i cori da La Rocca di Eliot e per le parti del Tommaso Moroattribuibili a William Shakespeare – ricorda Cenci –, ma in quei casi c’erano da colmare le lacune presenti nel testo di cui disponevamo. La scelta operata per Barabba è differente. Una versione drammatica esiste già, d’accordo, ma lo stesso Lagerkvist non ne era del tutto soddisfatto: si tratta di una sorta di sacra rappresentazione il cui stile rischia di accentuare la distanza fra la nostra epoca e quella in cui il romanzo fu scritto. Lagerkvist ha operato in un momento storico in cui anche un ‘ateo cristiano’, quale lui si riteneva, non poteva fare a meno di misurarsi con Cristo. Questa è esattamente la condizione di Barabba nel corso del romanzo: salvato dalla morte di Gesù, continua a essere spiritualmente perseguitato dalla grandezza del suo salvatore. Oggi non è più così, al cristianesimo non si riconosce più cittadinanza nei discorsi della quotidianità. Per questo avevamo bisogno di allestire lo sfondo di un ricevimento in cui tutto è apparenza e in cui, all’improvviso, la realtà fa irruzione sotto forma di domanda radicale».

Anche il poeta Davide Rondoni, che ha contribuito alla stesura del soggetto di Midnight Barabba, insiste sulla necessità di rivalutare l’intuizione fondamentale dello scrittore svedese: «Insieme con pochi altri, tra cui Pier Paolo Pasolini, don Luigi Giussani e Carlo Betocchi, Lagerkvist aveva compreso che in Occidente il cristianesimo non poteva più illudersi di vivere di rendita. Il capitale era stato dilapidato, occorreva ricostruire tornando all’origine essenziale del Vangelo. Di tutto questo il personaggio di Barabba offre una rappresentazione geniale. Non sa da dove gli venga la salvezza perché ignora tutto di se stesso, si muove come uno straniero in una terra nella quale il cristianesimo comincia già germogliare. Per lui l’insegnamento di Gesù è nuovo e misterioso, così come può tornare a esserlo per noi al principio del XXI secolo. Finita la stagione dei trionfalismi, rimane il fascino delle cose vere. Pur nella crisi sua personale e della generazione a cui apparteneva, Lagerkvist disponeva ancora di un linguaggio adeguato a esprimere la profondità di questa ricerca. Un suo verso, in particolare, riassume in modo esemplare l’irrequietezza dei Barabba di ogni epoca: ‘Uno sconosciuto è mio amico’».

Uno sconosciuto, non a caso, gioca un ruolo decisivo anche nella partitura di Midnight Barabba: «Ed è proprio la sua presenza a far emergere la personalità autentica degli altri personaggi – osserva Giampiero Pizzol –. Ognuno degli invitati al party allude a una particolare posizione interiore: c’è lo scettico e il curioso, chi si interroga sull’amore e chi preferisce restare in disparte. Lo stesso Barabba, in fondo, sceglie per sé il ruolo dello spettatore ed è per questo che il pubblico può riconoscersi tanto facilmente in lui. Fa pensare a un san Paolo al contrario, recalcitrante di fronte alla conversione, ma ancora capace di consegnare la propria umanità in un abbandono che assume i tratti dell’esperienza mistica».

“NOW NOW. Quando nasce un’opera d’arte”, la mostra | Intervista a Luca Fiore

Progetto di Casa Testori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli

Dopo il viaggio alla scoperta dell’arte contemporanea del 2015 e l’incontro con le opere monumentali del 2017, la mostra di quest’anno darà al visitatore la possibilità di entrare nel processo stesso dell’opera, partecipare al momento creativo, conoscere le dinamiche, la ricerca e gli accadimenti di un artista: tra frustrazioni ed entusiasmi. Al Meeting saranno presenti 6 giovani artisti che trasferiranno in Fiera il proprio studio, al lavoro con tecniche e linguaggi molto diversi tra loro. Non mancheranno spunti storici, una grande sorpresa e alcuni dei protagonisti della scena artistica italiana, che si alterneranno in mostra ogni giorno.

Il Video

segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone

«Aperti al Mab». Una settimana per scoprire musei, archivi e biblioteche della Chiesa

Quasi trecento eventi in tutta Italia: scopri quelli vicini a te sul sito dedicato ai beni culturali della Cei. Un inestimabile patrimonio di storia, cultura e fede da conoscere

Una settimana per scoprire musei, archivi e biblioteche della Chiesa

Avvenire

I tesori della Chiesa aperti a tutti. Un inestimabile patrimonio di storia, cultura e fede da conoscere, per comprendere quali siano le radici del nostro Paese e quali sono le sue potenzialità per il futuro.

Dal 3 al 9 giugno si svolgerà, per la prima volta, l’iniziativa nazionale «Aperti al Mab. Musei Archivi Biblioteche ecclesiastici», che punta a dare risalto al ruolo centrale svolto da ogni Istituto culturale nel proprio territorio, a servizio della comunità.

Il progetto è promosso dall’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei, insieme all’Associazione musei ecclesiastici italiani (Amei), all’Associazione archivistica ecclesiastica (Aae) e all’Associazione dei bibliotecari ecclesiastici italiani (Abei), con il patrocinio del coordinamento MAB-Italia Musei Archivi Biblioteche e in collaborazione con l’International archives day e con le Giornate nazionali dei musei ecclesiastici.

Dalle pagine miniate di Padova alle prime lettere dei Papi all’Ordine dei minori di Assisi; dal viaggio nel tempo e nella storia di Nonantola(Modena) alle cinquecentine di Molfetta (Bari) o ai preziosi manoscritti medioevali di Oristano. Così i territori raccontano se stessi e la storia di un popolo. 

E a Mantova il museo diocesano Francesco Gonzaga offre ai visitatori la mostra “Aspettando Giulio…” con disegni di Giulio Romano, l’allievo prediletto di Raffaello lì trasferitosi dal 1524 fino alla morte nel 1546; una selezione di documenti della committenza ecclesiastica all’artista e alla sua cerchia provenienti dall’Archivio storico diocesano, nonché due testi del Cinquecento della Biblioteca del Seminario vescovile: il terzo libro dell’architettura di Sebastiano Serlio e un volume di Vitruvio. I tre istituti collaborano anche con il museo civico cittadino testimoniando l’importanza del legame con il territorio e con la comunità civile. Se si innesca un processo questo procede con passione e determinazione.

Scopri tutti gli eventi in Italia sul sito Beweb dedicato ai beni culturali della Chiesa (CLICCA QUI)


«Gli istituti culturali – spiega don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio Cei – costituiscono il presidio per garantire una crescita completa e consapevole dell’essere umano e sono luogo d’incontro e di scambio, culturale e cultuale, anche tra fedi religiose e tradizioni diverse. Apriamo, dunque, musei, archivi e biblioteche! Apriamoli fra di loro, perché imparino a collaborare e a saper guardare a prospettive comuni, apriamoli ancor più alla gente, con sempre maggiore spirito di servizio e accoglienza».

Le proposte culturali messe in cantiere per questa settimana, in tutto il Paese sono 296, organizzate da dai musei, dagli archivi e dalle biblioteche ecclesiastiche.

La loro mappa interattiva è disponibile nella sezione dedicata del portale BeWeb (CLICCA QUI), insieme a una gran quantità di informazioni su aperture straordinarie, visite guidate, seminari, convegni, mostre. Ampio spazio alle iniziative di «Aperti al Mab» anche sui siti dell’Ufficio Bce, di Amei, di Aae e Abei nonchè sui siti MabItalia, Anai e «Il mondo degli archivi».
Il 3 giugno a Roma, in apertura della settimana di eventi, l’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto proporrà quattro Workshop a numero chiuso su «La comunicazione», «La gestione del cambiamento. Gli aspetti giuridici»; «La narrazione del patrimonio» e «Il Mab. Scommesse e prospettive».

I numeri:

296 iniziative di Aperti al Mab di cui:

94 musei – 115 archivi – 87 biblioteche

Don Valerio Pennaso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto spiega in un video dell’Agenzia Sir il senso di queste giornate:

Video


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Arte e tradizione. Il divino e l’umano: nel presepe quell’inaudito incontro

«L’incontro di due protagonisti, il divino e l’umano: è questa la ‘storia’ che il presepe racconta. Un racconto di cui c’è bisogno oggi almeno come ce n’era quando nel 1223 Francesco d’Assisi, per la prima volta, riprodusse nella grotta di Greccio la scena della Natività. Oggi come allora l’uomo ha bisogno di Dio: oggi, forse ancor più che allora, c’è sete di un amore che vinca la ‘folla delle solitudini’ e stemperi l’accanirsi dei conflitti. ‘Fare il presepe’ è perciò oggi più che mai un messaggio di pace e di speranza, un gesto d’amore, che può parlare al cuore di tutti ». Così l’arcivescovo Bruno Forte, che non a caso all’arte del presepe ha dedicato bellissimi saggi. E al dialogo tra artisti e natività sono dedicate numerose mostre e iniziative anche grazie a Fondazione Crocevia con il progetto ‘Presepe Presente’.

A Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, per il terzo anno consecutivo una mostra di presepi d’artista è stata inaugurata ieri dal vescovo Claudio Giuliodori. Nel primo chiostro del Bramante sono esposte, fino al 27 gennaio, le opere di grandi maestri: l’Annunciazione di Arturo Martini, una splendida terracotta del 1927; un presepe degli artisti Anselmo Bucci e Francesco Nonni, maiolica del 1949; le straordinarie terrecotte dedicate alla storia della salvezza dell’artista campano Marcello Aversa. Di quest’ultimo il vescovo di Carpi Francesco Cavina ha inaugurato il 9 dicembre presso il Duomo la grande mostra «Marcello Aversa. Storie di cielo in terra», che resterà aperta fino al 29 gennaio. L’esposizione si tiene in contemporanea anche nel Museo diocesano di Salerno, dove sarà inaugurata dal vescovo Luigi Moretti il 16 dicembre. E poi il grande presepe di Francesco Artese a Firenze di cui parliamo altrove in questa pagina. L’arte si confronta con il grande mistero: la divinità assume l’umano facendosi volto, carne, ossa. L’umanità accoglie il divino per ritrovare l’unità perduta e la pienezza di gioia, di vita, di amore, di bellezza. Il mistero è l’Eterno che si piega alle coordinate spazio-temporali nella notte di Betlemme. Solo Matteo e Luca raccontano le vicende legate alla nascita di Gesù: 48 versetti il primo, 132 il secondo. Poche parole per descrivere il mistero più grande. Ecco allora il desiderio di mostrare, di far vedere, di raccontare. E questo è il presepe, come nota Davide Rondoni: «Il presepe non è un simbolo, che per alcuni può essere anche una semplice idea, un’astrazione. Il presepe è un racconto, la narrazione di un evento, di un fatto storico. Non è un’ideologia, ma contemplazione e memoria».

Tra i contemporanei Marcello Aversa al presepe dedica quasi tutta la sua arte. Scrive di lui Bruno Forte: «Aversa ‘plasma’ così i suoi presepi: col tocco dell’artista, trasforma la creta in racconto, rendendo visibile l’incontro che cambia il cuore e la vita. Il divino è rappresentato dalla scena che dà senso a tutte le altre: ‘il mistero’. Essa comprende le figure del Bambino, di Maria e di Giuseppe, affiancati dal bue e dall’asinello, e la mangiatoia (praesepium), che dà il nome all’insieme. Che si sia di fronte al luogo in cui l’Eterno sta entrando nel tempo è indicato dal roteare degli angeli, impegnati a cantare la gioia del cielo che viene ad abitare la terra. L’umano è presente nella varietà delle sue espressioni: dai pastori, i poveri aperti alle sorprese di Dio, ai magi, figura di tutte le ‘genti’ raggiunte dalla luce della stella, all’umanità indifferente e distratta, rappresentata dagli ospiti della locanda». «In realtà è tutta la terra ad accogliere il Redentore del mondo: le intuizioni della più antica teologia cristiana, per la quale il Cristo è il centro e il fine del cosmo, sono così presenti in questi presepi, diventando anche un invito alla spiritualità ecologica. È così che questi presepi possono assolvere efficacemente al compito per cui nacque il presepe: dire il Vangelo ‘in dialetto’, in un modo, cioè, che sfidi le nostre paure e le chiusure del cuore, e sia annuncio di una gioia e di una speranza possibili, dischiuse oggi, per tutti, da quell’umile nascita».

da Avvenire

Musei Vaticani in giro per l’Italia

Possiede 2797 chiavi; 300 sono quelle che utilizza quotidianamente per l’apertura e la chiusura dei Musei Vaticani. Tutte le mattine si reca alle 5.45 alla Gendarmeria vaticana per ritirare le chiavi che servono ad aprire le porte delle sale affrescate dei Musei, visitati ogni anno da 6 milioni di turisti.Gianni Crea è il clavigero dei Musei Vaticani, colui che custodisce tutte le chiavi.

“Custodisco e conservo tutte le chiavi del Museo del Papa. Trecento vengono usate quotidianamente per aprire e chiudere i diversi reparti. Le altre 2.400 chiavi vengono custodite in un bunker che prevede un sistema di condizionamento per impedire che si arrugginiscano e usate settimanalmente per verificare la funzionalità. Conosco le chiavi come le mie tasche”, spiega Crea.

Le chiavi più antiche sono tre: la numero 1 è quella del portone monumentale, attualmente l’uscita dei Musei Vaticani; la chiave numero 401 che apre il Portone di Ingresso del Museo Pio Clementino e poi c’è la chiave più grande e più importante di tutte, quella senza numero, che apre la porta della Cappella Sistina, sede dal 1492 di ogni Conclave. È la chiave più preziosa, custodita nel bunker in una busta chiusa, sigillata e controfirmata dalla direzione e ogni suo utilizzo deve essere autorizzato e protocollato su un antico registro, dove è necessario scrivere anche il motivo di ogni suo utilizzo.

Curiosità, aneddoti, immagini e filmati inediti sui Musei Vaticani e la Cappella Sistina saranno svelati in una conferenza evento in programma il 18 luglio a Reggio Calabria, prima tappa di un viaggio ideale dei Musei Vaticani in giro per l’Italia che vedrà la partecipazione di Sandro Barbagallo, curatore del Reparto collezioni storiche dei Musei Vaticani e noto critico d’arte, e Paolo Merenda, teologo e professore presso l’Istituto di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense.

avvenire