Educatore CL indagato, la posizione della Diocesi di Reggio Emilia

laliberta.info

In relazione a notizie di stampa relativamente ad indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Rimini e riguardanti il già responsabile provinciale di Gioventù Studentesca di Reggio Emilia, la Diocesi precisa che nelle scorse settimane, a fronte della sospensione di ogni incarico educativo all’interno di Comunione e Liberazioneall’indagato è stata revocata l’idoneità all’insegnamento della religione cattolica.

Nel rinnovare la nostra attenzione e il nostro ascolto alla famiglia e nel ribadire la fiducia nell’operato della Magistratura, la Diocesi manterrà ogni più opportuna vigilanzainfatti “come Chiesa ci sentiamo tutti chiamati in prima persona a una profonda reazione morale, a promuovere e testimoniare la vicinanza a coloro che sono stati feriti da un abuso” (Linee guida, 2019).

Reggio Emilia, 19 agosto 2023  

Dr. Corrado Zoppi

Portavoce della Commissione per la tutela dei minori
Componente dell’Ufficio Scuola

Dopo le denunce delle ginnaste 2 tecnici indagati per abusi

 © ANSA

– Due tecnici dell’Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica di Desio (Monza) sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Monza, per maltrattamenti per i presunti comportamenti vessatori ed abusi psicologici nei confronti di alcune giovani atlete, tutte minorenni all’epoca dei fatti.

Lo ha reso noto il Procuratore della Repubblica Claudio Gittardi.

Le indagini, partite dalle testimonianze delle giovanissime sportive, sono orientate ad accertare imposizioni e divieti relativi a consumo di cibi e bevande, a plurimi controlli del peso corporeo e presunte umiliazioni subite dalle atlete per comportamenti ritenuti non adeguati.
Lo scandalo è esploso a fine ottobre, con le denunce di alcune ex atlete. Il 14 novembre scorso due ex ginnaste dell’accademia di ritmica di Desio (Monza), sono state sentite in Procura “a sommarie informazioni” e, in quell’occasione, hanno ribadito quanto era già uscito sui media sulle vessazioni subite durante la permanenza nella scuola di ginnastica.
A quanto emerso, le ragazze hanno raccontato nel dettaglio il contesto nel quale gli abusi si sarebbero verificati, in particolar modo umiliazioni per il loro aspetto fisico e un controllo esasperato del peso, la durata e reiterazione nel tempo abusi e chi li commetteva. Hanno parlato di un sistema di rigide regole legate all’attività sportiva agonistica, di rilievo nazionale e internazionale. La Procura di Monza ha quindi iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di maltrattamenti due ct, responsabili sia della struttura che della gestione tecnica delle atlete. (ANSA).

IL PAESE SOTTO CHOC Sposa a sei anni e vittima di continui abusi: la storia della donna che ha turbato la Turchia

Padre e marito, condannati a 27 anni ma ancora in libertà, fanno parte della confraternita religiosa Ismailaga, vicina al governo

Turchia, bimba data in sposa a 6 anni: il caso scuote il Paese

Sposa a sei anni e vittima di continui abusi. La Turchia è sotto choc per la storia di H.G.K. una giovane donna di 24 anni che ha denunciato il padre per averla costretta al matrimonio quando era appena una bambina e il suo ex consorte che ha abusato di lei per anni. Genitore e marito facevano parte della confraternita religiosa Ismailaga, presente in diverse province e vicina al governo. Un vero e proprio matrimonio combinato, che la donna ha avuto il coraggio di denunciare solo nel 2020. Lo scorso 30 ottobre per i due uomini è arrivata una condanna a 27 anni di carcere.

Sorprende, però, il fatto che, nonostante la gravità dell’accaduto, nessuno abbia saputo nulla dei fatti fino alla denuncia del quotidiano Birgun. Rimane il dubbio che sulla vicenda sia calato il silenzio perché c’era coinvolta una confraternita islamica vicina all’esecutivo. Sull’accaduto sono intervenute le massime autorità dello Stato. Mustafa Sentop, vicepresidente turco, braccio destro di Erdogan, ha dichiarato: « Il fatto che uno dei nostri figli sia stato vittima di un fatto così grave non può lasciarci indifferenti e richiede provvedimenti. È inammissibile che succedano casi di violenza e abusi come questo». Duro anche il ministro della Giustizia, Bekiz Bozda ha assicurato che la magistratura è al lavoro. Intanto, però, nonostante la condanna, i due uomini sono ancora a piede libero e, nonostante il matrimonio sia finito da tempo, per la giovane donna non è ancora venuto il momento di dirsi al sicuro.

Il caso ha sconvolto profondamente il Paese. Il matrimonio fra minorenni, formalmente, in Turchia è vietato da anni. Ma alcune tradizioni sono rimaste vive nella società, soprattutto nel sud-est del Paese, complice non solo la politica conservatrice del governato islamico- moderato, ma anche la crisi siriana, che portato nel Paese milioni di persone, con l’incremento di minori siriane offerte in sposa a uomini adulti. Un’altra pratica molto diffusa è il matrimonio combinato, dove gli sposi vengono promessi fin dalla più tenera età dai loro genitori. Una concezione patriarcale che pesa soprattutto sulle donne. Un rifiuto da parte loro ha portato, anche di recente, all’uccisione, spesso perpetrata dal padre o dal fratello dopo un processo che si svolge all’interno della famiglia.

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Di fronte agli abusi sessuali ma anche di potere, di coscienza, di autorità… l’assunzione di responsabilità va fatta sia da parte di coloro che hanno abusato sia di quelli che hanno permesso che ciò accadesse

Perché coloro che hanno sofferto sono la priorità. Di questa priorità parliamo in una lunga intervista con don Gottfried Ugolini, responsabile del Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della diocesi di Bolzano-Bressanone e coordinatore del Servizio interdiocesano del Triveneto, che ha da poco concluso nella Facoltà teologica del Triveneto un corso su questo tema.

Sul fronte della tutela dei minori e delle persone vulnerabili la Chiesa italiana si sta impegnando per costruire una nuova cultura della prevenzione. Per questo ha messo in campo il Servizio nazionale per la tutela dei minori (con Servizi regionali nelle 16 regioni ecclesiastiche affidati a un vescovo delegato, un coordinatore e un’équipe di esperti e 226 referenti diocesani, uno per ogni diocesi), la rete dei Servizi diocesani e dei centri d’ascolto (98 Centri in 157 diocesi, il 70% del totale), la formazione di 1.200 operatori (genitori, allenatori, dirigenti, sportivi, educatori parrocchiali, insegnanti coinvolti nel progetto Safe) e, infine, la partecipazione al rinnovato Osservatorio nazionale per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile istituito presso il Dipartimento per le politiche della famiglia.

Abusi sessuali ma anche di potere, di coscienza, di autorità… Papa Francesco ha fatto notare che la mancanza o la poca trasparenza e responsabilizzazione nella Chiesa fa perdere ai fedeli la fiducia nei loro pastori e rende sempre più difficile l’annuncio e la testimonianza del vangelo. E, per ritornare credibili, il pontefice ha ribadito che non basta fermarsi alla condanna, ma è necessario promuovere una cultura della dignità della persona, coinvolgendo l’intera comunità ecclesiale chiamata a imparare dure lezioni dal passato.

L’assunzione di responsabilità va fatta sia da parte di coloro che hanno abusato, sia di quelli che hanno permesso che ciò accadesse. Perché coloro che hanno sofferto sono la priorità.

Di questa priorità parliamo con don Gottfried Ugolini, responsabile del Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della diocesi di Bolzano-Bressanone e coordinatore del Servizio interdiocesano del Triveneto, che ha da poco concluso un corso nel ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto a Padova sul tema “Tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Compassione-conoscenza-competenza”.

La prima esperienza in Italia
– Don Ugolini, la Chiesa altoatesina è stata la prima in Italia ad avviare, nel 2010, uno sportello di ascolto per vittime di abusi, mettendo al centro dell’attenzione le persone ferite, offrendo loro ascolto e accompagnamento. Che cosa richiede l’ascolto di queste persone? Come ci si accosta alle loro ferite?

Prima di tutto, le persone che hanno subìto un abuso hanno bisogno di interlocutori affidabili, credibili e consapevoli che l’abuso in tutte le sue forme è una realtà. Questo è l’atteggiamento di fondo che permette di accogliere e di ascoltare le persone con attenzione, compassione e rispetto. Le persone richiedono di essere credute e prese sul serio. Un’atmosfera di accettazione, di fiducia e di empatia, insieme a un ambiente sicuro, favorisce e sostiene le persone che hanno trovato il coraggio e la forza di confidarsi. Questo loro passo è da apprezzare, perché segna l’inizio dei necessari passi verso la giustizia e la guarigione.

Le conseguenze di un abuso, indipendentemente dal tipo di abuso, toccano tutte le aree della persona, le relazioni sociali e il suo futuro; riguardano tutta l’esistenza della persona e sono da prendere seriamente in considerazione. Una sensibilità nei confronti delle conseguenze che hanno segnato la vita della persona è indispensabile. Non dobbiamo dimenticare che ci sono persone vittime di abusi che non ce l’hanno fatta a convivere con il fatto dell’abuso e con le sue gravi conseguenze esistenziali: per loro l’ultima via d’uscita è stato il suicidio. Altre persone hanno sofferto e soffrono ancora le conseguenze dell’abuso.

– Quali sono le resistenze più forti che si incontrano nell’affrontare la realtà degli abusi?

È normale che, di fronte a questa realtà, emergano resistenze fino al rifiuto di confrontarsi con essa. Il tema ci tocca nella nostra personalità, nell’intimità, nella sessualità, nell’affettività e nella nostra dignità umana.

Le resistenze più forti vanno da una negazione massiccia a un’attribuzione a cause esterne, come la secolarizzazione, la rivoluzione sessuale e la diffusione della pornografia nei media. Esistono forti resistenze, a livello di gerarchia, ad accettare nelle proprie file la realtà dell’abuso in tutte le sue forme.

Qui la reazione si orienta verso la salvaguardia dell’immagine istituzionale e dei propri membri, presunti autori di reato. Questo avviene attraverso atteggiamenti e posizioni difensive come, ad esempio, il riferirsi al fatto che la maggior parte degli abusi avviene nelle famiglie e che accade anche in tutte le altre realtà; il sospetto che i media abbiano l’intenzione di attaccare e distruggere la Chiesa; oppure richieste di perdono senza assumere la responsabilità e senza rendere giustizia alle persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi.

Altre forme di resistenza sono il sospetto o il timore di generalizzazioni del tipo “tutti i sacerdoti sono pedofili”. Come resistenza forte considero anche l’atteggiamento di evitare ogni contatto fisico e ogni forma di vicinanza con minori per prevenire sospetti e accuse.

Le resistenze sono espressioni e forme di un’insufficiente presa di conoscenza della realtà degli abusi, delle conseguenze per le vittime e della dimensione sistemica del problema. Attraverso una sensibilizzazione e una maggiore comprensione del fenomeno, si possono trasformare le resistenze in atteggiamenti che promuovono la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, in sintonia con i valori del vangelo, dei diritti umani e del bambino.

Abusi: dinamiche e strutture
– Che cosa è necessario per rompere il tabu dell’abuso?

È necessario promuovere una cultura che facilita e favorisce la conversazione aperta e sincera sulla sessualità, in tutte le sue espressioni, con tutte le paure e i desideri, le sofferenze e le gioie ad essa associate. Il presupposto è un’educazione sessuale responsabile e graduale, adeguata all’età, con un linguaggio comprensibile e rispettoso, insieme alla possibilità di dialogare, narrare e discutere tutti gli aspetti legati all’intimità e all’affettività, in un’atmosfera serena e rassicurante che sappia mettere e far rispettare i limiti della propria sessualità per i valori ad essa associati.

A mio avviso, sono tre le condizioni per rompere il tabù degli abusi. La prima riguarda il riconoscimento della realtà degli abusi e delle persone, donne e uomini, di tutte le età, vittime di abusi e sopravvissuti.

La seconda concerne l’assumere la responsabilità nei confronti delle persone vittime e sopravvissute di abusi e delle persone che hanno perpetuato abusi, assicurando procedure trasparenti, supporto psicologico, medico, legale e spirituale, e l’impegno di rendere giustizia a tutte le persone coinvolte.

Infine, la terza condizione si riferisce alla sensibilizzazione attraverso l’informazione e la formazione del personale operante nell’ambito pastorale, educativo e spirituale a tutti i livelli e in tutte le aree ecclesiali.

Oltre a un chiaro e deciso posizionamento ai vertici gerarchici, è parimenti richiesto e necessario un empowerment della base per creare insieme ambienti sicuri e protetti. Visto che si tratta di un problema sociale, è indispensabile la collaborazione con tutte le istituzioni e gli enti sociali per un cambiamento di cultura che miri alla tutela dei minori.

– L’abuso è un fatto personale o vive in una dimensione più ampia?

L’abuso non avviene mai come un fatto isolato tra due persone. È sempre coinvolto l’ambiente, anzitutto il sistema, che permette, favorisce, ignora, copre e relativizza l’abuso attraverso concetti teologici, pastorali e spirituali distorti o idealizzati.

Una gerarchia autoritaria o permissiva, un sistema di informazione e di comunicazione inefficace, l’assenza o la trascuratezza di una formazione umana e la mancata supervisione del personale, l’istituzione creata come sistema chiuso senza possibilità di reclamo o di critica all’interno, la visione elitaria dell’istituzione con regole interne senza confronto dall’esterno, la sacralizzazione e l’idealizzazione del clero e dei religiosi, insieme a una netta distinzione tra clero e laici che impedisce ogni messa in discussione dell’autorità conferita con l’ordinazione o con la professione finale: sono tutti elementi che hanno contribuito, al di là degli elementi individuali legati alla persona abusante, a creare le condizioni per abusare. Ricordiamoci che, alla base di ogni abuso, c’è l’abuso di potere.

– Qual è la “forza” della vulnerabilità? E come deve provocare la nostra cultura?

Una società che tende a sopravvalutare la sicurezza, la salute, il piacere della vita come aspetti invulnerabili, e che tende a evitare o perfino a superare la sofferenza, il male, i limiti, rischia di perdere di vista o di negare la vulnerabilità. Il confronto con le vittime e i sopravvissuti agli abusi ha invece rimesso al centro l’aspetto della vulnerabilità. Parliamo di minori e di persone vulnerabili come possibili vittime di abuso.

Il motu proprio di papa Francesco del 2019 definisce “persona vulnerabile” «ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che, di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa».

Questa definizione, che corrisponde a quella di “vulnerabilità speciale” (Unesco 2005), si differenzia dalla “vulnerabilità radicale” in quanto indica una condizione umana comune.

La vulnerabilità radicale indica la possibilità di essere feriti. Pertanto, la vulnerabilità radicale indica la capacità di essere esposti agli altri, mentre essere esposti agli altri implica la possibilità di essere feriti.

Inoltre, la vulnerabilità indica sia la possibilità di essere feriti e di lasciarsi ferire, che la possibilità di ferire, ad esempio, nel difendermi per non essere ferito da un’altra persona.

Detto questo, possiamo affermare che la “forza” della vulnerabilità si radica nella mia consapevolezza e accettazione che sono vulnerabile. Chi è in contatto con la propria vulnerabilità è capace di riconoscere, cogliere e rispettare la vulnerabilità degli altri.

La forza della vulnerabilità sta nella capacità di essere compassionevole che motiva ad agire. Il buon samaritano si ferma vedendo la persona ferita per terra, prova compassione, si avvicina, si prende cura di lei e la porta in un luogo sicuro dove coinvolge altri.

La vulnerabilità ci rende più umani e sociali, riconoscendo e considerando la nostra potenzialità di ferire. In questo, la vulnerabilità provoca la nostra società, nel piccolo e grande mondo, nel rispetto della dignità umana, nell’impegno di promuovere solidarietà, sussidiarietà e giustizia, nella convivenza interculturale e interreligiosa per il bene comune e per la pace, che rimane un impegno costante.

– Quali sono gli ostacoli principali a un cambio di mentalità e di cultura?

Al centro del confronto con gli abusi sono il potere e l’autorità. Il potere può essere usato sia in modo costruttivo sia in modo distruttivo. È necessario rileggere i concetti di potere e rivedere l’uso del potere indipendentemente dalla gerarchia e dal potere divino.

Il potere è una capacità umana e sociale. Il rischio di usare il potere in modo distruttivo, sia nei riguardi delle persone sia nei riguardi dell’istituzione, viene rivelato da Gesù quando evidenzia l’atteggiamento di servizio alla luce del Regno di Dio e in contrasto all’uso distruttivo fatto dai potenti, e non solo, del mondo.

Per quanto riguarda l’autorità che deriva dall’incarico conferito e dal potere connesso, è bene ricordare le radici della parola “autorità”: “augere” significa far crescere, promuovere lo sviluppo dei talenti e delle capacità verso un fine, il bene della persona e il bene comune. Questo richiede l’esercizio responsabile dell’autorità.

Potere e autorità si definiscono in processi di comunicazione, nel dialogo continuo che include la critica e una costante verifica.

La mancanza di processi legati alla “correctio fraterna”, come strumento di verifica e di fare verità, ostacola un cambio di mentalità e di cultura. La loro presenza e attuazione favorisce invece un vero cambio di mentalità e di cultura, perché permettono di affrontare esperienze, situazioni e temi presenti. In un’atmosfera di fiducia, di rispetto reciproco e di onestà si può dialogare e comunicare alla ricerca della verità che ci rende liberi.

Resistenze
– Qualche altro esempio?

Tra gli ostacoli principali sono da elencare: la resistenza dei responsabili a prendere sul serio e in modo credibile la piaga dell’abuso e le sue conseguenze, sia per le persone vittime sia per tutta la Chiesa. Le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, se non entrano nei programmi delle diocesi e delle varie realtà ecclesiali come punto di riferimento da attuare e se non emergono nelle relazioni annuali come momento di verifica della prassi concreta, ostacolano severamente un cambio di mentalità e di cultura.

Non basta l’istituzione di servizi per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili senza essere inseriti in un discorso programmatico che rende trasparente l’impegno concreto e visibile verso queste persone.

Infine, come ostacoli principali, sono da nominare le istituzioni formative e i centri di studio. Nelle istituzioni formative sono fondamentali le indicazioni delle Linee guida per l’istruzione e per l’accompagnamento dei formandi. Di conseguenza, è necessario personale competente e qualificato.

Nei centri di studio ci vuole una rilettura di tutte le materie con un approccio intra- e interdisciplinare, che parta dalla sofferenza delle vittime.

– Il clericalismo è un ostacolo per il riconoscimento e la denuncia delle forme di abuso e di violenza, che – lo sottolineiamo – sono dei crimini?

Il clericalismo è un atteggiamento e un comportamento distorto, moralmente ed eticamente inaccettabile. L’esaltazione del ruolo di chierico (ma vale altrettanto per i membri di istituti religiosi, responsabili di associazioni e di movimenti, e anche per i laici) deforma la coscienza e annebbia la percezione della realtà. Nonostante le qualità e le abilità pastorali, educative e spirituali della persona, l’agire è incentrato sulla manipolazione.

La manipolazione ha l’effetto di proteggere e difendere sé stessi e il proprio ruolo. Spesso il clericalismo si esprime in un atteggiamento di superiorità, di supremazia, di importanza e di grandiosità, come si può esprimere anche in un atteggiamento esagerato di disponibilità, di umiltà e di adulazione per attirare l’attenzione e per essere ammirati. Ogni critica o accusa viene percepita come un disturbo narcisistico o addirittura come ferita narcisistica. Di conseguenza, non viene riconosciuta la realtà degli abusi e le denunce delle forme di abuso e di violenza vengono negate, banalizzate o attribuite ad altre realtà.

Le forme estreme di clericalismo manifestano un atteggiamento di inattaccabilità e di arroganza. L’idealizzazione del proprio ruolo, con distorsioni cognitive per presentare cause e ragioni per difendere sé stessi o per minimizzare la realtà degli abusi nella Chiesa, spostando il focus sugli abusi nelle famiglie e in altre realtà sociali, crea una forma di dissociazione che rafforza l’autostima e conferma l’immagine di sé stessi.

– Quali sono le prassi pastorali da rivedere per garantire la cura e la custodia dei più piccoli?

Le Linee guida della Conferenza episcopale italiana offrono, insieme ai sussidi, un quadro di riferimento per una revisione della prassi pastorale. La tutela dei minori e delle persone vulnerabili dev’essere un filo conduttore nella definizione degli obiettivi pastorali, sia nella programmazione annuale sia nella relazione annuale. Le Linee guida devono diventare una prassi vissuta, che porti a un cambiamento di mentalità e di cultura.

A realizzare le Linee guida sono tutti coloro che si impegnano nella pastorale. Perciò è necessario informare e formare i responsabili e tutto il personale, inclusi i volontari. Già nella selezione del personale è importante fare riferimento alle Linee guida e al rispettivo codice di condotta. Nell’elaborazione dei programmi e dei progetti sono da integrare e da osservare le buone prassi per garantire la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.

L’impegno e le procedure per l’intervento in casi di abuso, e per la prevenzione da abusi sessuali e da altre forme di violenza, devono essere verificati e aggiornati continuamente.

– Quale ruolo gioca il linguaggio che usiamo?

Particolare attenzione va rivolta ai linguaggi che usiamo nella vita quotidiana. La comunicazione comprende parole, espressioni emotive, atteggiamenti e comportamenti che possono contenere una valenza abusante.

L’uso del linguaggio, la scelta delle parole, il modo di esprimersi, verbale o non-verbale, può diventare un abuso oppure prevenire un abuso. Il linguaggio può ferire e re-traumatizzare le persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi prima, durante e dopo la denuncia e le procedure legali. Il linguaggio può creare un’atmosfera di accoglienza, di comprensione, di rispetto, di trasparenza e di empowerment.

In generale, il linguaggio può promuovere un cambiamento di mentalità e di cultura, che mette al centro la persona vittima e sopravvissuta e che favorisce la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, coinvolgendo sempre più responsabili ecclesiali, collaboratori e collaboratrici pastorali, educativi e spirituali insieme alla base.

Un aspetto importante riguarda l’uso del linguaggio nelle comunicazioni ufficiali della Chiesa al riguardo della piaga degli abusi, nelle procedure di intervento, nei concetti di protezione e di prevenzione, nella liturgia, nell’annuncio della parola e nei programmi pastorali, educativi e spirituali.

Competenze
– L’ascolto delle persone vittime di abusi e il confronto con la realtà degli abusi come problema sociale ci interpellano sull’abc delle competenze di base necessarie. Possiamo indicarne alcune?

Queste riguardano, in primo luogo, la capacità e la qualità della relazione con sé stessi, con gli altri, con la vita, con il mondo e con Dio.

Il rispetto reciproco richiede la competenza di riconoscerci come persone umane, dotate di una dignità indistruttibile e inalienabile attraverso l’essere creati a immagine di Dio prima ancora dei diritti umani.

La terza competenza tocca la responsabilità personale al riguardo del proprio agire e non agire, per proprio impegno o meno di sviluppare i talenti e le doti con le rispettive conseguenze per sé stessi e per gli altri. Oltre alla responsabilità personale, c’è anche la responsabilità sociale e morale, che riguarda il bene personale e il bene comune.

La quarta competenza riguarda la comunicazione, l’interagire con gli altri. Il dialogo ha un ruolo cruciale nell’incontro e nell’interazione con gli altri. Una comunicazione efficace richiede la capacità di esprimersi in modo semplice e comprensibile, la capacità di ascoltare e di comprendere, di capire l’altra persona. La condivisione, la capacità di vivere e di lavorare insieme, di superare conflitti e di trovare consenso sono elementi essenziali della comunicazione come competenza indispensabile.

La quinta competenza concerne l’etica professionale. Ognuno ha un compito, un ruolo da svolgere, formale o informale. Il modo in cui viene vissuto e gestito il proprio ruolo è determinante per la collaborazione e per la trasparenza: ad esempio, se lo esercito in modo autentico, trasparente e responsabile. Più chiaramente sono definiti i compiti, le competenze e le responsabilità legate al ruolo, migliori sono la collaborazione e il risultato, e più facile è chiarire conflitti, superare crisi e rispettare i limiti individuali e quelli imposti dall’ambiente o dalla situazione.

Queste competenze di base sono cruciali, sia nel processo di recupero per le persone coinvolte nell’abuso sia nell’impegno per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, e anche nell’attuazione delle procedure durante la segnalazione, la denuncia, gli iter legali, integrativi e riabilitativi.

– Il lavoro in rete è un punto di forza?

Assolutamente sì! Il lavoro in rete è cruciale sia all’interno delle diverse realtà ecclesiali sia con le diverse realtà sociali. Sradicare la piaga dell’abuso richiede uno sforzo e un impegno comune, a cui papa Francesco esorta costantemente, invitando a una conversione di tutta la Chiesa. A tutti i livelli della Chiesa è auspicabile e necessario un lavoro in rete: a quelli gerarchici come a quelli di base.

Lo scambio di esperienze, dei risultati di analisi, delle ricerche, degli esiti di progetti e di programmi supervisionati e delle verifiche fatte regolarmente, e la condivisione dei problemi, delle sfide e delle situazioni difficili da gestire, sono un’opportunità per imparare l’uno dall’altro, per sostenersi e per camminare insieme verso una qualità pastorale, educativa e spirituale nell’ottica di un’etica professionale.

Un approccio intra- e interdisciplinare richiede il confronto con le scienze umane e sociali partendo dall’opzione “victims first”, in linea con l’esperienza riportata dal popolo di Dio in varie forme letterarie dell’Antico Testamento e in sintonia con il messaggio e l’azione di Gesù (vedi il giudizio universale in Matteo 25).

L’analisi e la riflessione scientifica parte dalle esperienze reali e concrete, portando a nuove teorie e conseguenze pratiche. In questa continua interazione il lavoro in rete è essenziale e fondamentale. In questo modo si evitano gli angoli morti e si amplia la visuale.

Inoltre, il lavoro in rete permette una diffusione più immediata delle informazioni, una collaborazione tempestiva e sinergetica, e un continuo confronto critico attraverso uno sguardo esterno e indipendente.

Quello che c’è da fare
– Che cosa è chiamata a fare ancora la Chiesa?

A livello internazionale, la Chiesa è sicuramente tra le istituzioni più impegnate nella lotta contro l’abuso in tutte le sue forme. La Chiesa si presenta con posizioni chiare e decise, sebbene queste non siano applicate in tutte le parti del mondo allo stesso modo.

I sistemi con le loro istituzioni, gerarchie e strutture hanno il compito di garantire la stabilità, sia nel conservare gli obiettivi sia nel mantenere saldo l’insieme attraverso meccanismi di controllo e di autoprotezione. Si tratta di un compito primario ed essenziale per la vita e la sopravvivenza del sistema. Di conseguenza, è molto difficile avviare dei processi di correzione e di cambiamento sistemico. È un processo che abbraccia diverse generazioni, richiedendo pazienza e perseveranza, continuità e fermezza nell’impegno di conversione e di trasformazione.

Concretamente, la Chiesa è chiamata a lavorare contemporaneamente e con ritmi differenti su diversi livelli: come Chiesa universale in realtà culturali e politiche diverse, come Chiesa locale nelle diverse realtà ecclesiali e come Chiesa strutturata e differenziata in diverse espressioni istituzionali con rispettive autonomie di gestione e norme.

L’ambiente sociale, culturale, storico, religioso, politico, economico e geografico insieme alle situazioni di crisi, conflitti e guerre richiede differenziazioni e considerazioni specifiche nell’implementare e applicare le Linee guida e le direttive canoniche emanate e prescritte.

– Quali sono i rischi e le carenze principali che oggi si riscontrano?

La Chiesa, anche guardando alla Chiesa in Italia, è chiamata a dimostrare serietà e impegno nell’applicazione delle Linee guida affinché diventino realtà, prassi vissuta. Il rischio è di fermarsi a comunicati e ad eventi pubblici. Servono segnali chiari per quanto riguarda il riconoscimento della realtà della piaga degli abusi di ogni genere nella Chiesa e l’assunzione della responsabilità per gli abusi perpetuati nella Chiesa da parte di chierici, religiosi, religiose, responsabili di associazioni, di comunità e di movimenti ecclesiali su minori e su persone vulnerabili.

Inoltre, ci vogliono chiari segnali di accoglienza verso le persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi, di un ascolto sincero e rispettoso e di un’offerta dei supporti psicologici, medici, legali e spirituali di cui hanno bisogno. C’è tutt’ora un grande bisogno, da parte delle persone colpite da abusi, di cogliere che i responsabili – vescovi, superiori e superiore di istituti religiosi, e altrettanto i responsabili di associazioni, di comunità e movimenti ecclesiali – garantiscono la massima trasparenza nell’attuazione delle procedure coinvolgendo laici ed esperti esterni per evitare ogni insabbiamento e copertura o rischio di omertà.

Un’altra carenza da evidenziare riguarda l’accompagnamento e il supporto delle persone che hanno abusato durante e dopo l’attuazione delle procedure canoniche e civili.

Le pene canoniche spesso non sono capite e sono difficilmente accettate dalle vittime che ritrovano, ad esempio, nelle celebrazioni liturgiche la persona che ha abusato, che è ancora in contatto con minori, che è trasferita in altri ambiti pastorali dove corre nuovamente il pericolo di ripetere l’abuso.

Sono poche le strutture di cura che offrono un cammino terapeutico e di riabilitazione. Non tutte le persone che hanno abusato hanno la capacità di cambiare attraverso una terapia e necessitano ulteriori forme di monitoraggio e di supervisione. Adeguati programmi sono ancora da studiare. Inoltre, sono necessari criteri e procedure da prendere in considerazione per valutare se la reintegrazione nel ministero pastorale sia appropriata e responsabile.

Ci vogliono procedure in riferimento a situazioni dove è avvenuta un’accusa che si è rivelata falsa: come reagire a livello mediatico, come reagire nei confronti della persona accusata, come reagire nella realtà ecclesiale dove il presunto abusatore era in servizio, di quali forme di supporto hanno bisogno la persona e la comunità e quali rituali possiamo adottare per promuovere una de-traumatizzazione e un’elaborazione delle varie reazioni, a volte contradittorie nelle comunità, che portano a una riappacificazione e riconciliazione. Come gestire un sistema irritato, è una questione aperta.

– Come può articolarsi meglio una nuova cultura della prevenzione?

Al riguardo della tutela dei minori e delle persone vulnerabili, esistono concetti di prevenzione e concetti di protezione.

Per la prevenzione esistono sussidi sulle buone prassi da adattare alle diverse realtà ecclesiali e locali e da attuare con momenti di supervisione e di verifica come “work in progress”.

I concetti di protezione si focalizzano sulla questione di come individuare gli errori in un’azione congiunta del livello sistemico e di quello individuale. Le organizzazioni di alta affidabilità adottano l’approccio “error friendly”, atteggiamento amichevole verso gli errori. Sono sensibili agli errori e su ciò che funziona e perché funziona. Alla base c’è la consapevolezza che gli errori o i malintesi più piccoli possono provocare conseguenze catastrofiche, vedi, ad esempio, interventi di emergenza medica e sistemi di controllo.

Oltre all’attenzione individuale è necessaria un’attenzione strutturale e sistematica per individuare e definire i rischi che favoriscono gli errori nella routine che potrebbero causare un danno nel sistema.

La nuova cultura della tutela e della prevenzione di abusi e di altre forme di violenza mette al centro la dignità e il benessere dei minori e delle persone vulnerabili, ricordandoci il compito originale della nostra missione pastorale seguendo l’esempio di Gesù: mettendo i bambini e le persone ferite al centro con simpatia e compassione, offrendo loro l’amore misericordioso e salvifico di Dio, con l’effetto di coinvolgere gli altri presenti a cogliere la dinamica del Regno di Dio.

Una caratteristica centrale della cultura della tutela e della prevenzione è la vigilanza: la vigilanza nell’offrire ambienti sicuri e persone affidabili ai minori e alle persone vulnerabili e la vigilanza di verificare e aggiornare continuamente i programmi e le iniziative di prevenzione e di protezione, coscienti che le persone che tendono ad abusare o che sfruttano l’occasione di abusare cercheranno sempre di trovare dei punti deboli o delle lacune nei programmi di prevenzione e nelle istituzioni che offrono loro un’opportunità di adescamento.

Settimana News

Primo Report sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane

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Pubbblichiamo la Sintesi del Primo Report nazionale sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane realizzato dalla CEI. In allegato il testo integrale. 

Gli obiettivi e la metodologia della rilevazione
L’obiettivo della rilevazione è quello di verificare, nel biennio 2020-2021, lo stato dell’arte in merito all’attivazione del Servizio Diocesano o Inter-diocesano per la tutela dei minori (SDTM/SITM), del Centro di ascolto e del Servizio Regionale per la tutela dei minori (SRTM) nelle Diocesi italiane. Il presente report intende offrire uno strumento conoscitivo alla Conferenza Episcopale Italiana per implementare le azioni di tutela dei minori e delle persone vulnerabili nelle Diocesi italiane. A tale scopo, la metodologia del lavoro ha previsto la definizione e la somministrazione online di tre strumenti di rilevazione, uno destinato ai referenti diocesani per analizzare la struttura e le attività del SDTM/SITM, il secondo destinato ai referenti delle Regioni ecclesiastiche, il terzo indirizzato ai referenti dei Centri
di ascolto. I dati raccolti sono stati elaborati differenziando le diverse situazioni a livello
territoriale e dimensionale.

1. I Servizi Diocesani e Inter-diocesani per la tutela dei minori
I Servizi sono presenti in tutte le 226 Diocesi italiane. Le elaborazioni effettuate fanno riferimento a 158 risposte su 166 Diocesi coinvolte: 8 Servizi sono infatti a carattere Inter-diocesano. La rappresentatività statistica del campione di indagine è pari al 73,4% (166 Diocesi sulle 226 totali in Italia e, ad oggi, sono in corso ulteriori accorpamenti).
– La distribuzione geografica del campione evidenzia una relativa omogeneità nella presenza di Diocesi collocate nelle diverse aree del nostro Paese (seppure al Centro Italia corrisponda una percentuale di poco inferiore a quella di Sud e Nord). Dal punto di vista dimensionale, le Diocesi del campione sono soprattutto di medie dimensioni (tra 100 e 250mila abitanti), seguite dalle Diocesi di grandi (oltre
250mila) e piccole dimensioni (fino a 100mila).
– Ad avere l’incarico di referente nella maggior parte dei casi è un sacerdote (51,3%), seguito da laico o laica (42,4%) e solo raramente un religioso o una religiosa (6,3%).
– Le Diocesi di piccole dimensioni invece si distinguono in quanto a ricoprire il ruolo di referente, in oltre la metà dei casi, è un laico/a (56, 0%), mentre negli altri casi un sacerdote.
– Il 77,2% delle Diocesi censite ha una équipe di esperti a sostegno del SDTM.
– Le principali attività svolte dal SDTM consistono in incontri e corsi formativi.
– Il numero di incontri formativi proposti nel biennio in esame (2020-2021) è cresciuto notevolmente, passando dai 272 incontri del 2020 ai 428 del 2021.
– Il numero di partecipanti conferma il trend di crescita: da 7.706 nel 2020 a 12.211 nel 2021, con l’aumento più alto per gli operatori pastorali, passati da 3.268 a 5.760.
– Le relazioni tra SDTM e altri organismi ecclesiali, quali Ordinari religiosi e Superiori di istituti femminili, risultano scarse: solo il 4,7% dichiara di aver promosso iniziative comuni.
– Anche le iniziative o le collaborazioni con altri enti, associazioni, istituzioni non ecclesiali, risultano limitate (12,2%); solo nell’11,4% dei casi il SDTM partecipa a tavoli istituzionali civili.
– Gli Uffici diocesani con i quali sono state avviate collaborazioni sono soprattutto l’Ufficio per la pastorale giovanile (53,3%), l’Ufficio per la pastorale familiare (47,4%), l’Ufficio scuola (35,6%).
– La maggior parte delle Diocesi ha attivato un Centro di ascolto (70,8%), in particolare nelle Diocesi di grandi dimensioni (84,8%).
– Le modalità con cui vengono pubblicizzate le attività del SDTM si avvalgono soprattutto del sito web (67,7%), in secondo luogo si utilizzano presentazioni o comunicazioni ordinarie alla stampa (42,4%).
– I referenti dei SDTM sono stati chiamati a fornire un parere in merito ai punti di forza e di debolezza del sistema sinora costituito a livello diocesano. Tra i punti di forza vengono indicati in via prioritaria la sensibilità di educatori e catechisti nei confronti del tema degli abusi sui minori (il punteggio medio da 1 a 10 è 7,3) e la gestione delle relazioni con gli Uffici pastorali diocesani (7,1), con il Seminario
diocesano (6,5) e con educatori e catechisti (6,4).
– I punti negativi risultano invece: la capacità di gestire relazioni con Istituti e Congregazioni religiose (5,1), con le associazioni non ecclesiali (4,9), con gli enti locali (4,8); infine, il giudizio più negativo è riservato all’attività di comunicazione realizzata sui media locali (4,1) circa le iniziative proposte dai Servizi.

2. I Centri di ascolto
Sono stati rilevati dati relativi a 90 Centri di ascolto: di questi 21 attivati nel 2019 o prima, 30 nel 2020, 29 nel 2021 e 10 nel 2022. L’attivazione dei Centri di ascolto è strettamente correlata alla dimensione delle Diocesi, con 38 Centri costituiti in Diocesi di grandi dimensioni o Diocesi che si sono aggregate.
– La sede del Centro di ascolto differisce dalla sede della Curia diocesana nel 74,4% dei casi.
– Il responsabile del Centro, in oltre due terzi dei casi, è un laico o una laica (77,8%). Meno frequente è la scelta di un sacerdote (15,5%), oppure un religioso o una religiosa (6,7%). Tra i laici prevalgono nettamente le donne, che quindi rappresentano i due terzi dei responsabili.
– Nella maggior parte dei casi (83,3%), i Centri di ascolto sono supportati da una équipe di esperti.
– Nel biennio in esame il totale dei contatti registrati da 30 Centri di ascolto è stato pari a 86, di cui 38 contatti nel 2020 e 48 nel 2021.
– Il genere delle persone che hanno contattato il Centro rivela una maggiore rappresentazione delle donne (54,7%).
– I contatti sono avvenuti principalmente via telefono (55,2%) o, in misura inferiore, tramite corrispondenza online (28,1%).
– Il motivo del contatto è rappresentato dalla volontà di segnalare il fatto all’Autorità ecclesiastica (53,1%), dalla richiesta di informazioni (20,8%), da una consulenza specialistica (15,6%).
– I casi segnalati, anche per fatti riferiti al passato, riguardano 89 persone, di cui 61 nella fascia di età 10-18 anni, 16 over 18 anni (adulto vulnerabile) e 12 under 10 anni.
– Circa la tipologia dei casi segnalati, è emersa la prevalenza di “comportamenti e linguaggi inappropriati” (24), seguiti da “toccamenti” (21); “molestie sessuali” (13); “rapporti sessuali” (9); “esibizione di pornografia” (4); “adescamento online” (3); “atti di esibizionismo” (2).
– Le segnalazioni fanno riferimento a casi recenti e/o attuali (52,8%) e a casi del passato (47,2%).
– Il profilo dei 68 presunti autori di reato evidenzia soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni all’epoca dei fatti, in oltre la metà dei casi. Il ruolo ecclesiale ricoperto al momento dei fatti è quello di chierici (30), a seguire di laici (23), infine di religiosi (15). Tra i laici emergono i ruoli di insegnante di religione; sagrestano; animatore di oratorio o grest; catechista; responsabile di associazione.
– Il contesto nel quale i presunti reati sono avvenuti è quasi esclusivamente un luogo fisico (94,4%), in prevalenza in ambito parrocchiale (33,3%) o nella sede di un movimento o di una associazione (21,4%) o in una casa di formazione o seminario (11,9%).
– A seguito della trasmissione della segnalazione all’Autorità ecclesiastica da parte dei Centri di ascolto, tra le azioni poste in essere sono risultati prevalenti i “provvedimenti disciplinari”, seguiti da “indagine previa” e “trasmissione al Dicastero per la Dottrina della Fede”.
–  Tra le azioni di accompagnamento delle presunte vittime, i Centri forniscono informazioni e aggiornamenti sull’iter della pratica (43,9%), organizzano incontri con l’Ordinario (24,6%), offrono un percorso di sostegno psicoterapeutico (14,0%) e di accompagnamento spirituale (12,3%).
– Ai presunti autori degli abusi vengono proposti percorsi di riparazione, responsabilizzazione e conversione, compresi l’inserimento in “comunità di accoglienza specializzata” (un terzo dei casi rilevati) e percorsi di “accompagnamento psicoterapeutico” (circa un quarto dei casi).

3. I Servizi regionali per la tutela dei minori
I Servizi regionali (SRTM) attivati sono 16 e comprendono la totalità delle Regioni ecclesiastiche (le Regioni politiche Piemonte e Valle D’Aosta; Abruzzo e Molise; Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia costituiscono rispettivamente la Conferenza Episcopale Piemontese, la Conferenza Episcopale Abruzzese-Molisana e la Conferenza Episcopale Triveneta). Rappresentano il luogo di coordinamento tra i Servizi diocesani e organizzano iniziative di formazione dei membri degli stessi Servizi. Le attività del SRTM sono state quasi esclusivamente iniziative di carattere formativo, con 36 incontri nel 2020 e 62 nel 2021 (per un totale di 98 incontri con 2.746 partecipanti).

chiesacattolica.it

Presunti abusi su figlia minore, arrestato a Reggio Emilia

 © ANSA

Un uomo è stato arrestato a Reggio Emilia dalla Polizia con l’accusa di violenza sessuale aggravata nei confronti della figlia minorenne.

A darne notizia è la stampa locale che racconta come il Gip, Dario De Luca abbia accolto le richieste della Procura, emettendo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del padre.

Secondo le ricostruzioni, la vicenda risale a un paio di anni fa quando la ragazza aveva 17 anni e in un episodio quando aveva già compiuto la maggiore età. Le indagini sono scattate nel gennaio 2021 dopo la denuncia della madre che aveva raccolto le confidenze della figlia. Per il giudice, dopo gli accertamenti preliminari – dall’audizione della minore fino alla perquisizione anche informatica nell’abitazione di famiglia – sono stati ravvisati gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’uomo, disponendo l’arresto. Nell’interrogatorio di garanzia l’uomo ha negato ogni addebito proclamandosi innocente. (ANSA).

Accountability: autorità e dovere di rendere conto nella Chiesa

di: Domenico Marrone – in Settimana News

Il termine “accountability” è entrato nel lessico ecclesiale per via dell’esigenza di spiegazioni richieste alle autorità nei casi di abusi sessuali da parte di chierici o religiosi.

La scelta di adoperare il termine inglese è dettata da una stretta necessità: non esiste, infatti, una traduzione adeguata (che riesca ad esprimere, cioè, il medesimo significato) della parola accountability.

La nozione di accountability ha un ambito di applicazione più ampio. Di per sé, esso fa riferimento alla sfera economica e politica, dove un’istituzione o un soggetto delegato sono tenuti a rendere conto delle proprie decisioni e ad essere responsabili in modo autonomo dei risultati[1].

Generalmente ciò significa che il soggetto è (auto-)obbligato a informare delle proprie azioni (trasparenza), che è chiamato a darne giustificazione (rendicontazione) ed eventualmente che è tenuto al risarcimento (sanzionabilità). L’obiezione che qualcuno potrebbe fare è quella di evitare tale termine perché troppo carico di significati non religiosi, e anzi propriamente aziendali.

Una Chiesa affidabile
Eppure vale la pena fare una considerazione di carattere biblico: un’attenta analisi, infatti, potrebbe non solo riprendere i brani dove la “rendicontazione” viene espressamente richiamata (cf. Lc 16,2, ma specialmente 1Pt 3,15), ma anche mostrare che la narrazione biblica è evidenza della trasparenza dell’azione di Dio nella storia umana e ne costituisce quasi una regola di giudizio.

Certamente, il discorso dovrebbe prima precisare il significato della parola accountability in riferimento all’esperienza ecclesiale: se, in generale, essa indica la responsabilità di una impresa nei confronti dei propri clienti e soprattutto dei diversi portatori di interessi, per la Chiesa essa indica una duplice responsabilità: la trasparenza alla grazia e ai suoi strumenti e la capacità di creare processi di reale cooperazione[2].

Quindi, una Chiesa affidabile è prima di tutto una Chiesa che opera in trasparenza in tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Di fatto, la mancanza di trasparenza (chi ha deciso e che cosa, su quali caratteristiche vengono effettuate alcune scelte di azioni e di persone, cosa viene realmente deciso in tutti i livelli e le istanze decisionali) crea quell’elitarismo che oscura l’affidabilità della Chiesa.

In secondo luogo, una Chiesa affidabile è una Chiesa responsabile. Chi ha vissuto in una parrocchia, sa bene che attualmente il parroco può prendere molte decisioni senza dover comunicare molto, almeno nei paesi di antica evangelizzazione.

Un sistema datato
Gli attuali organi di partecipazione si rivelano molto labili e deboli, anche se sulla carta ad essi è affidato molto. Non parliamo della gestione delle opere e delle persone da parte delle comunità di vita religiosa, dove molto spesso le decisioni sono prese da un piccolo gruppo, se non da una sola persona, senza alcuna responsabilità, stravolgendo quel poco di democrazia che la profezia della vita religiosa porta con sé. Non è più questo il tempo dove è possibile affermare che l’autorità fonda la propria giustificazione, poiché i fatti hanno dimostrato l’esatto contrario.

Il sistema di rendicontazione interna tra laici e presbiteri, tra questi e i vescovi, fino al papa, è oramai datato, come un esperto di risorse umane potrebbe facilmente mostrare. Senza contare che l’affidabilità richiede una buona dose di corresponsabilità e di sussidiarietà: è ora che questo insegnamento tradizionale nella dottrina sociale della Chiesa diventi effettivo anche nella struttura ecclesiale.

Ciascun credente è in proprio responsabile della propria fede. Il clericalismo – già varie volte richiamato come malattia curiale – è purtroppo più diffuso di quanto si pensi: alla luce di questo è necessario un serio ripensamento della teologia del ministero.

Tutto questo non è però possibile – ancora una volta – se non vi è trasparenza delle responsabilità. Deve comunque essere chiaro che questo comporta una rivisitazione critica e profonda del significato dell’autorità nella Chiesa: se ancora il ministero episcopale è presentato e attuato come un’elezione totalmente avulsa dal popolo cui è a servizio, non vi è certo possibilità di una critica per così dire dal basso.

Diritti umani nella Chiesa
Vi è un punto che mi pare essere una specie di cartina di tornasole dell’accountability: si tratta dei diritti umani all’interno della struttura ecclesiale. È un dovere di coerenza: non si può predicare agli altri quello che non si vive. Tale impossibilità viene dal vangelo[3].

Un serio confronto con questo aspetto potrebbe aiutare a mostrare come la Chiesa cattolica e le sue istituzioni crede in quello che dice. E potrebbe aiutare a comprendere come essa intende porsi davvero a servizio della crescita umana: gli appelli alla giustizia, alla democrazia e al rispetto della persona dovrebbero poter essere vissuti in ugual modo fuori e dentro la Chiesa: il fatto che non sia una democrazia non significa che non possa valorizzare alcuni principi democratici essenziali e universalmente applicabili.

La Chiesa non è una democrazia, ma è una comunione di credenti. Il suo modello fondamentale è niente meno che la relazione di Gesù con i suoi apostoli. E questi non erano prìncipi, ma discepoli che non erano assoggettati ciecamente ad un monarca assoluto.

Il contenuto dell’accountability è legato da vicino alla nozione di responsabilità. Di fatti, la parola è adoperata in ogni ambito della vita sociale in cui vi è un qualche genere di rappresentanza di persone o di interessi ai quali si chiede di operare con trasparenza e con responsabilità.

Il termine è entrato anche nel lessico adoperato per spiegare diversi rapporti all’interno della Chiesa[4]. Anche se non vi è rappresentanza vera e propria da parte di pastori nei confronti dell’insieme dei fedeli, è indubbio che tutti i fedeli hanno interesse (se non “diritto”) a conoscere i modi di gestione della vita pastorale. E tale necessità di conoscenza richiede la consapevolezza nei pastori di dovere essere capaci di spiegare ogni scelta che riguardi la comunità loro affidata.

In assenza di un coinvolgimento dei fedeli privi di carisma episcopale nei processi decisionali della Chiesa, la trasparenza sarà di fondamentale importanza per il ripristino della credibilità e della legittimità della leadership episcopale.

Verso prassi orizzontali
Non si vuole affermare che nella Chiesa manchino del tutto le istanze di accountability. L’istituto della relazione quinquennale e le regolari visite ad limina dei vescovi diocesani presso la Sede Apostolica hanno lo scopo di ricordare ai vescovi l’obbligo di rendere conto della loro gestione delle porzioni del popolo di Dio che sono affidate al loro governo (cann. 399-400).

Tuttavia, poiché nel diritto canonico tutte le linee di accountability sono rivolte verso l’alto, solo i superiori gerarchici sono competenti a giudicare se i loro subordinati abbiano adeguatamente adempiuto agli obblighi del loro ufficio o se invece abbiano abusato dei loro poteri.

Solo raramente le direttrici che veicolano la determinazione di accountability si estendono orizzontalmente: da un parroco all’ordine dei presbiteri della diocesi, da un vescovo diocesano agli altri vescovi della sua provincia o Conferenza episcopale.

Il «popolo di Dio» non viene quasi mai menzionato in relazione alle strutture canoniche di accountability, tranne in alcune occasioni in cui è richiesto il consenso del Consiglio diocesano per gli affari economici (un organo che può contenere laici) per l’esecuzione di determinati atti di amministrazione dei beni della diocesi da parte di un vescovo diocesano.

I fedeli possono esprimere il loro scontento per lo scarso rendimento, gli illeciti e la cattiva condotta dei loro parroci e persino dei vescovi ai loro superiori gerarchici, ma questi ultimi sono liberi di dare a queste rimostranze tanto o poco peso quanto la loro discrezione impone, mentre decidono se mantenere, rimuovere o disciplinare i loro subordinati. In altre parole, la Chiesa ha mostrato tutti i tratti disfunzionali caratteristici di quello che gli esperti di scienze sociali definiscono un «indolente monopolio»[5].

Talvolta si ha l’impressione che, come molte altre organizzazioni gerarchicamente ordinate, la Chiesa segua le norme di un «duplice diritto», in cui alcuni membri, per servirsi dell’espressione di Orwell, «godono di maggiore uguaglianza rispetto ad altri». Anche se tutti i fedeli, laici e chierici, sono vincolati dai precetti della legge divina ed ecclesiastica, più si avanza sulla scala gerarchica della Chiesa, più si indossano i requisiti della legge della Chiesa come se si trattasse di un abito di qualche taglia più grande[6].

«Poche cose, credo, generano disordine e alimentano la paura umana dell’ignoto tanto quanto le decisioni [di governo] prese in segreto, isolate dalle critiche, non supportate da constatazioni di fatto, non spiegate con opinioni ragionate e libere da qualsiasi prerequisito di essere motivate da precedenti»[7].

Ritengo che ogni uomo o donna – e anche ogni organizzazione – dovrebbe avere tre persone di riferimento nella sua vita per mantenere la concentrazione, rimanere orientato ai risultati, raggiungere la trasparenza morale e astenersi dal deragliare quando è investito di una particolare responsabilità: un Paolo, un Barnaba e un Timoteo.

Figure bibliche
Paolo quale espressione di un uomo più anziano che è disposto a guidarti, a costruire nella tua vita, a coinvolgerti in relazioni strette e aperte: un allenatore non un capo, un costruttore non solo un critico. Questo Paolo potrebbe non essere necessariamente qualcuno più intelligente o più dotato di te, ma qualcuno che nella vita ha percorso un lungo tratto di strada e che è disposto a condividere i suoi punti di forza e di debolezza.

Barnaba è un’anima gemella, un compagno, uno che non è affatto intimidito da te, qualcuno che ti ama ma non è travolto da te. Perché ti rispetta, non ti denigra ed è capace di essere onesto con te. È uno davanti al quale puoi essere responsabile: nudo ma senza provare vergona.

Il terzo individuo è un Timoteo. Questo è un uomo più giovane nella cui vita stai costruendo. Tu sei per lui il mentore per eccellenza: affermando, incoraggiando, insegnando, correggendo, dirigendo, pregando e condividendo. Hai il coraggio di costruire nella vita di questo Timoteo ciò che avresti voluto vedere in te stesso alcuni anni lungo la strada. In Timoteo stai modellando una stella, la stella che sognavi quando eri molto più giovane.

Questo equilibrio tripartito – ascendente, orizzontale e discendente – è una sfida per chiunque abbia compiti di responsabilità nelle organizzazioni e nelle relazioni umane.

Leadership
La responsabilità non è solo una questione di controlli e contrappesi; è prima di tutto una questione di rapporti umani. Un saggio scrittore dice che i leader non dovrebbero mai servire senza una struttura di supporto, senza altri che aiutino a mantenere la loro concentrazione, la loro purezza e le caratteristiche che li rendono idonei a guidare, sia nella Chiesa, nella nazione o nella società.

Dove c’è un’assenza di responsabilità, c’è spesso una cultura dell’impunità – un disprezzo per le norme, i valori, la decenza e il decoro.

La leadership non riguarda tanto la tecnica e i metodi quanto l’apertura del cuore. La leadership riguarda l’ispirazione – di se stessi e degli altri. Alcuni individui e organizzazioni evitano la responsabilità perché la vedono solo in termini di controlli e contrappesi: un mezzo di disciplina e controllo.

La leadership riguarda le esperienze umane, non i processi. E la leadership non è una formula o un programma; è un’attività umana che viene dal cuore e considera il cuore degli altri. È un atteggiamento, non una routine. Alla fine, la leadership trasformativa è quella che risponde a Dio attraverso lo sviluppo di virtù e pratiche, e raggruppa le persone per far avanzare la missione e la visione dell’organizzazione.

Le istituzioni vibranti sono quelle guidate da persone piene di speranza e creative, che agiscono come portatrici di tradizione, sono di per sé incubatrici di leadership e sono praticamente laboratori di apprendimento. Tali leader sono leader responsabili e reattivi.

Alcuni individui e organizzazioni evitano la responsabilità perché la vedono solo in termini di controlli e contrappesi: un mezzo di disciplina e controllo. Sebbene questa sia una componente vitale, la responsabilità ha molte più facce. In primo luogo, la responsabilità consiste nel rispondere alle parti interessate, prendendo in considerazione le loro esigenze e opinioni nel processo decisionale e fornendo una spiegazione del motivo per cui sono state o non sono state prese in considerazione.

Pertanto, è meno un meccanismo di controllo e più un processo di apprendimento. Essere responsabili significa essere aperti con le parti interessate, coinvolgerle in un dialogo continuo e imparare dall’interazione. Può quindi generare la titolarità di decisioni e progetti e migliorare la sostenibilità delle attività e delle idee. Infine, definisce un percorso verso prestazioni migliori.

La responsabilità non è un adempimento legalistico gravoso, con troppa burocrazia e una cultura punitiva che soffoca l’assunzione di rischi e la creatività. Non utilizza tali tattiche coercitive come l’invasione della privacy o il portare gli altri sotto il peso dei tabù di qualcuno, del legalismo o di tattiche manipolative e di dominio.

Fondamenti di un’istituzione trasparente
Il Global Accountability Project (GAP, 2005) identifica quattro dimensioni fondamentali delle organizzazioni responsabili:

Trasparenza: si riferisce all’apertura di un’organizzazione sulle proprie attività, fornendo informazioni su ciò che sta facendo, dove e come ciò avviene e come sta andando. Garantisce che i portatori di interessi ricevano le informazioni di cui hanno bisogno per partecipare alle decisioni che li riguardano.
Partecipazione: l’enfasi qui è su un approccio partecipativo al processo decisionale, con meccanismi a livello operativo, tattico e strategico, che consentono ai diversi portatori di interessi di contribuire alle decisioni che li riguardano. Pertanto, un certo grado di potere deve essere ceduto agli interessati affinché l’organizzazione sia considerata veramente responsabile.
Valutazione: questo requisito garantisce che l’organizzazione sia responsabile delle proprie prestazioni, del raggiungimento dei propri obiettivi e del rispetto degli standard concordati. Questo è un processo di apprendimento che informa le attività in corso e sul processo decisionale futuro, fornendo informazioni che consentono all’entità di migliorare le prestazioni, e quindi essere più responsabile della propria missione, visione e obiettivi.
Diritto di dissenso: ciò consente a tutti i portatori di interesse di cercare e ricevere risposta dall’organizzazione, interrogando una decisione, un’azione o una politica e ricevendo una risposta adeguata al proprio dissenso.
Una responsabilità significativa può derivare solo da tutti e quattro i criteri fondamentali, che funzionano in modo efficace. I leader devono rendere conto a Dio, ai fedeli, a se stessi, alla società in generale e alla visione e alla missione della Chiesa.

Qual è la differenza essenziale tra falsa e vera leadership cristiana? Quando un uomo, in virtù di una posizione ufficiale nella Chiesa, esige l’obbedienza di un altro, indipendentemente dalla ragione e dalla coscienza di quest’ultimo, questo è lo spirito di tirannia.

Quando, invece, dall’esercizio del tatto e della simpatia, con la preghiera, la forza spirituale e la sana saggezza, un lavoratore cristiano può influenzare e illuminare un altro, così che quest’ultimo, per mezzo della propria ragione e coscienza, è portato a modificare un corso e ad adottarne un altro, questa è la vera leadership spirituale[8].

[1] Cf. A. Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica, Roma, Città Nuova, 2004.

[2] Per una discussione più approfondita, cfr. Benjamin Chuka Osisioma, Accountability in the church, Presented at Conference of Chancellors, Registrars, and Legal Officers, Church of Nigeria (Anglican Communion), At Basilica of Grace, Diocese of Abuja, Gudu District, Apo, Abuja, 6 agosto 2013; consultabile online: https://www.academia.edu/4221114/Accountability_in_the_Church.

[3] Cf. O. Gracias, Accountability (il dover rendere conto) in una Chiesa Collegiale e Sinodale, 22 febbraio 2019, in https://www.vatican.va/resources/resources_card-gracias-protezioneminori_20190222_it.html

[4] Sull’adeguatezza dell’accountability alla natura della Chesa, cfr. R. J. Kaslyn, Accountability of Diocesan Bishop. A significant aspect of ecclesial communion, in “The Jurist”, 67 (2007), pp. 109-152.

[5] Sulla nozione di «monopolio del pigro» e le sue dinamiche, vedi A. HIRSCHMAN, Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge 1970. Per la sua applicazione alla Chiesa, vedi M.J. BANE, «Voice and Lo-yalty in the Church: The People of God, Politics and Management», in S. POPE, ed., Common Calling: The Laity and Governance of the Catholic Church, Washington 2004, 181-194.

[6] P. NONET – P. SELZNICK, Law and Society in Transition, New Brunswick (NJ) 2005, 35.

[7] R. KENNEDY, «Address on Due Process to National Conference of Catholic Bishops», Proceedings of the Canon Law Society of America 31 (1969) 15 (traduzione nostra).

[8] Per una discussione più approfondita, cfr. Benjamin Chuka Osisioma, Accountability in the church, Presented at Conference of Chancellors, Registrars, and Legal Officers, Church of Nigeria (Anglican Communion), At Basilica of Grace, Diocese of Abuja, Gudu District, Apo, Abuja, 6 agosto 2013; consultabile online: https://www.academia.edu/4221114/Accountability_in_the_Church.

“Chiesa che si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo”

Santi Pietro e Paolo. Papa Francesco: “Essere una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti”
Testo dell’allocuzione del Papa – Il segno (…) indica parole pronunciate a braccio.
(Sala stampa della Santa Sede) Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco benedice i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana. Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa presiede la Celebrazione Eucaristica con i Cardinali, con gli Arcivescovi Metropoliti e con i Vescovi Sacerdoti.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico guidata dall’Arcivescovo di Telmissos Job, Rappresentante del Patriarcato Ecumenico presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese e co-presidente della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, accompagnato dal Vescovo di Alicarnassos Adrianos e dal Diacono Patriarcale Barnabas Grigoriadis.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Santo Padre pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
La testimonianza dei due grandi Apostoli Pietro e Paolo rivive oggi nella Liturgia della Chiesa. Al primo, fatto incarcerare dal re Erode, l’angelo del Signore dice: «Alzati, in fretta» (At 12,7); il secondo, riassumendo tutta la sua vita e il suo apostolato dice: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). Guardiamo a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – e chiediamoci che cosa hanno da suggerire alla Comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale.
Anzitutto, gli Atti degli Apostoli ci hanno raccontato della notte in cui Pietro viene liberato dalle catene della prigione; un angelo del Signore gli toccò il fianco mentre dormiva, «lo destò e disse: Alzati, in fretta» (12,7). Lo sveglia e gli chiede di alzarsi. Questa scena evoca la Pasqua, perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse (cfr v. 10). È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci.
Sperimentiamo ancora tante resistenze interiori che non ci permettono di metterci in movimento. A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia. Allora, la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo – scriveva padre de Lubac – nelle nostre mani diventa una fede che «cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito» (Il dramma dell’umanesimo ateo. L’uomo davanti a Dio, Milano 2017, 103-104).
Il Sinodo che stiamo celebrando ci chiama a diventare una Chiesa che si alza in piedi, non ripiegata su sé stessa, capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo. (…) Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia,
non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. (…) La seconda Lettura, poi, ci ha riportato le parole di Paolo che, ripercorrendo tutta la sua vita, afferma: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). L’Apostolo si riferisce alle innumerevoli situazioni, talvolta segnate dalla persecuzione e dalla sofferenza, in cui non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo di Gesù. Ora, alla fine della vita, egli vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte.
È una Parola di vita anche per noi, che risveglia la consapevolezza di come, nella Chiesa, ciascuno sia chiamato ad essere discepolo missionario e a offrire il proprio contributo. E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi.
Chiesa sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. (…)
Ma partecipare significa anche portare avanti la “buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale, (…) non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione. Da quando Gesù Cristo è risorto, facendo da spartiacque della storia, «è iniziata una grande battaglia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le potenze dell’odio e della distruzione» (C. M. Martini, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).
E allora la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili, (…) ma aiutarci ad essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “buona battaglia”. (…)
Fratelli e sorelle, oggi, secondo una bella tradizione, ho benedetto i Palli per gli Arcivescovi Metropoliti di recente nomina, molti dei quali partecipano a questa nostra celebrazione. In comunione con Pietro, essi sono chiamati ad “alzarsi in fretta” per essere sentinelle vigilanti del gregge e a “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. (…)
E di cuore saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata dal caro fratello Bartolomeo. Grazie per la vostra presenza qui! Camminiamo insieme, perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità.
Pietro e Paolo intercedano per noi, per la città di Roma, per la Chiesa e per il mondo intero.
Amen.