Accountability: autorità e dovere di rendere conto nella Chiesa

di: Domenico Marrone – in Settimana News

Il termine “accountability” è entrato nel lessico ecclesiale per via dell’esigenza di spiegazioni richieste alle autorità nei casi di abusi sessuali da parte di chierici o religiosi.

La scelta di adoperare il termine inglese è dettata da una stretta necessità: non esiste, infatti, una traduzione adeguata (che riesca ad esprimere, cioè, il medesimo significato) della parola accountability.

La nozione di accountability ha un ambito di applicazione più ampio. Di per sé, esso fa riferimento alla sfera economica e politica, dove un’istituzione o un soggetto delegato sono tenuti a rendere conto delle proprie decisioni e ad essere responsabili in modo autonomo dei risultati[1].

Generalmente ciò significa che il soggetto è (auto-)obbligato a informare delle proprie azioni (trasparenza), che è chiamato a darne giustificazione (rendicontazione) ed eventualmente che è tenuto al risarcimento (sanzionabilità). L’obiezione che qualcuno potrebbe fare è quella di evitare tale termine perché troppo carico di significati non religiosi, e anzi propriamente aziendali.

Una Chiesa affidabile
Eppure vale la pena fare una considerazione di carattere biblico: un’attenta analisi, infatti, potrebbe non solo riprendere i brani dove la “rendicontazione” viene espressamente richiamata (cf. Lc 16,2, ma specialmente 1Pt 3,15), ma anche mostrare che la narrazione biblica è evidenza della trasparenza dell’azione di Dio nella storia umana e ne costituisce quasi una regola di giudizio.

Certamente, il discorso dovrebbe prima precisare il significato della parola accountability in riferimento all’esperienza ecclesiale: se, in generale, essa indica la responsabilità di una impresa nei confronti dei propri clienti e soprattutto dei diversi portatori di interessi, per la Chiesa essa indica una duplice responsabilità: la trasparenza alla grazia e ai suoi strumenti e la capacità di creare processi di reale cooperazione[2].

Quindi, una Chiesa affidabile è prima di tutto una Chiesa che opera in trasparenza in tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Di fatto, la mancanza di trasparenza (chi ha deciso e che cosa, su quali caratteristiche vengono effettuate alcune scelte di azioni e di persone, cosa viene realmente deciso in tutti i livelli e le istanze decisionali) crea quell’elitarismo che oscura l’affidabilità della Chiesa.

In secondo luogo, una Chiesa affidabile è una Chiesa responsabile. Chi ha vissuto in una parrocchia, sa bene che attualmente il parroco può prendere molte decisioni senza dover comunicare molto, almeno nei paesi di antica evangelizzazione.

Un sistema datato
Gli attuali organi di partecipazione si rivelano molto labili e deboli, anche se sulla carta ad essi è affidato molto. Non parliamo della gestione delle opere e delle persone da parte delle comunità di vita religiosa, dove molto spesso le decisioni sono prese da un piccolo gruppo, se non da una sola persona, senza alcuna responsabilità, stravolgendo quel poco di democrazia che la profezia della vita religiosa porta con sé. Non è più questo il tempo dove è possibile affermare che l’autorità fonda la propria giustificazione, poiché i fatti hanno dimostrato l’esatto contrario.

Il sistema di rendicontazione interna tra laici e presbiteri, tra questi e i vescovi, fino al papa, è oramai datato, come un esperto di risorse umane potrebbe facilmente mostrare. Senza contare che l’affidabilità richiede una buona dose di corresponsabilità e di sussidiarietà: è ora che questo insegnamento tradizionale nella dottrina sociale della Chiesa diventi effettivo anche nella struttura ecclesiale.

Ciascun credente è in proprio responsabile della propria fede. Il clericalismo – già varie volte richiamato come malattia curiale – è purtroppo più diffuso di quanto si pensi: alla luce di questo è necessario un serio ripensamento della teologia del ministero.

Tutto questo non è però possibile – ancora una volta – se non vi è trasparenza delle responsabilità. Deve comunque essere chiaro che questo comporta una rivisitazione critica e profonda del significato dell’autorità nella Chiesa: se ancora il ministero episcopale è presentato e attuato come un’elezione totalmente avulsa dal popolo cui è a servizio, non vi è certo possibilità di una critica per così dire dal basso.

Diritti umani nella Chiesa
Vi è un punto che mi pare essere una specie di cartina di tornasole dell’accountability: si tratta dei diritti umani all’interno della struttura ecclesiale. È un dovere di coerenza: non si può predicare agli altri quello che non si vive. Tale impossibilità viene dal vangelo[3].

Un serio confronto con questo aspetto potrebbe aiutare a mostrare come la Chiesa cattolica e le sue istituzioni crede in quello che dice. E potrebbe aiutare a comprendere come essa intende porsi davvero a servizio della crescita umana: gli appelli alla giustizia, alla democrazia e al rispetto della persona dovrebbero poter essere vissuti in ugual modo fuori e dentro la Chiesa: il fatto che non sia una democrazia non significa che non possa valorizzare alcuni principi democratici essenziali e universalmente applicabili.

La Chiesa non è una democrazia, ma è una comunione di credenti. Il suo modello fondamentale è niente meno che la relazione di Gesù con i suoi apostoli. E questi non erano prìncipi, ma discepoli che non erano assoggettati ciecamente ad un monarca assoluto.

Il contenuto dell’accountability è legato da vicino alla nozione di responsabilità. Di fatti, la parola è adoperata in ogni ambito della vita sociale in cui vi è un qualche genere di rappresentanza di persone o di interessi ai quali si chiede di operare con trasparenza e con responsabilità.

Il termine è entrato anche nel lessico adoperato per spiegare diversi rapporti all’interno della Chiesa[4]. Anche se non vi è rappresentanza vera e propria da parte di pastori nei confronti dell’insieme dei fedeli, è indubbio che tutti i fedeli hanno interesse (se non “diritto”) a conoscere i modi di gestione della vita pastorale. E tale necessità di conoscenza richiede la consapevolezza nei pastori di dovere essere capaci di spiegare ogni scelta che riguardi la comunità loro affidata.

In assenza di un coinvolgimento dei fedeli privi di carisma episcopale nei processi decisionali della Chiesa, la trasparenza sarà di fondamentale importanza per il ripristino della credibilità e della legittimità della leadership episcopale.

Verso prassi orizzontali
Non si vuole affermare che nella Chiesa manchino del tutto le istanze di accountability. L’istituto della relazione quinquennale e le regolari visite ad limina dei vescovi diocesani presso la Sede Apostolica hanno lo scopo di ricordare ai vescovi l’obbligo di rendere conto della loro gestione delle porzioni del popolo di Dio che sono affidate al loro governo (cann. 399-400).

Tuttavia, poiché nel diritto canonico tutte le linee di accountability sono rivolte verso l’alto, solo i superiori gerarchici sono competenti a giudicare se i loro subordinati abbiano adeguatamente adempiuto agli obblighi del loro ufficio o se invece abbiano abusato dei loro poteri.

Solo raramente le direttrici che veicolano la determinazione di accountability si estendono orizzontalmente: da un parroco all’ordine dei presbiteri della diocesi, da un vescovo diocesano agli altri vescovi della sua provincia o Conferenza episcopale.

Il «popolo di Dio» non viene quasi mai menzionato in relazione alle strutture canoniche di accountability, tranne in alcune occasioni in cui è richiesto il consenso del Consiglio diocesano per gli affari economici (un organo che può contenere laici) per l’esecuzione di determinati atti di amministrazione dei beni della diocesi da parte di un vescovo diocesano.

I fedeli possono esprimere il loro scontento per lo scarso rendimento, gli illeciti e la cattiva condotta dei loro parroci e persino dei vescovi ai loro superiori gerarchici, ma questi ultimi sono liberi di dare a queste rimostranze tanto o poco peso quanto la loro discrezione impone, mentre decidono se mantenere, rimuovere o disciplinare i loro subordinati. In altre parole, la Chiesa ha mostrato tutti i tratti disfunzionali caratteristici di quello che gli esperti di scienze sociali definiscono un «indolente monopolio»[5].

Talvolta si ha l’impressione che, come molte altre organizzazioni gerarchicamente ordinate, la Chiesa segua le norme di un «duplice diritto», in cui alcuni membri, per servirsi dell’espressione di Orwell, «godono di maggiore uguaglianza rispetto ad altri». Anche se tutti i fedeli, laici e chierici, sono vincolati dai precetti della legge divina ed ecclesiastica, più si avanza sulla scala gerarchica della Chiesa, più si indossano i requisiti della legge della Chiesa come se si trattasse di un abito di qualche taglia più grande[6].

«Poche cose, credo, generano disordine e alimentano la paura umana dell’ignoto tanto quanto le decisioni [di governo] prese in segreto, isolate dalle critiche, non supportate da constatazioni di fatto, non spiegate con opinioni ragionate e libere da qualsiasi prerequisito di essere motivate da precedenti»[7].

Ritengo che ogni uomo o donna – e anche ogni organizzazione – dovrebbe avere tre persone di riferimento nella sua vita per mantenere la concentrazione, rimanere orientato ai risultati, raggiungere la trasparenza morale e astenersi dal deragliare quando è investito di una particolare responsabilità: un Paolo, un Barnaba e un Timoteo.

Figure bibliche
Paolo quale espressione di un uomo più anziano che è disposto a guidarti, a costruire nella tua vita, a coinvolgerti in relazioni strette e aperte: un allenatore non un capo, un costruttore non solo un critico. Questo Paolo potrebbe non essere necessariamente qualcuno più intelligente o più dotato di te, ma qualcuno che nella vita ha percorso un lungo tratto di strada e che è disposto a condividere i suoi punti di forza e di debolezza.

Barnaba è un’anima gemella, un compagno, uno che non è affatto intimidito da te, qualcuno che ti ama ma non è travolto da te. Perché ti rispetta, non ti denigra ed è capace di essere onesto con te. È uno davanti al quale puoi essere responsabile: nudo ma senza provare vergona.

Il terzo individuo è un Timoteo. Questo è un uomo più giovane nella cui vita stai costruendo. Tu sei per lui il mentore per eccellenza: affermando, incoraggiando, insegnando, correggendo, dirigendo, pregando e condividendo. Hai il coraggio di costruire nella vita di questo Timoteo ciò che avresti voluto vedere in te stesso alcuni anni lungo la strada. In Timoteo stai modellando una stella, la stella che sognavi quando eri molto più giovane.

Questo equilibrio tripartito – ascendente, orizzontale e discendente – è una sfida per chiunque abbia compiti di responsabilità nelle organizzazioni e nelle relazioni umane.

Leadership
La responsabilità non è solo una questione di controlli e contrappesi; è prima di tutto una questione di rapporti umani. Un saggio scrittore dice che i leader non dovrebbero mai servire senza una struttura di supporto, senza altri che aiutino a mantenere la loro concentrazione, la loro purezza e le caratteristiche che li rendono idonei a guidare, sia nella Chiesa, nella nazione o nella società.

Dove c’è un’assenza di responsabilità, c’è spesso una cultura dell’impunità – un disprezzo per le norme, i valori, la decenza e il decoro.

La leadership non riguarda tanto la tecnica e i metodi quanto l’apertura del cuore. La leadership riguarda l’ispirazione – di se stessi e degli altri. Alcuni individui e organizzazioni evitano la responsabilità perché la vedono solo in termini di controlli e contrappesi: un mezzo di disciplina e controllo.

La leadership riguarda le esperienze umane, non i processi. E la leadership non è una formula o un programma; è un’attività umana che viene dal cuore e considera il cuore degli altri. È un atteggiamento, non una routine. Alla fine, la leadership trasformativa è quella che risponde a Dio attraverso lo sviluppo di virtù e pratiche, e raggruppa le persone per far avanzare la missione e la visione dell’organizzazione.

Le istituzioni vibranti sono quelle guidate da persone piene di speranza e creative, che agiscono come portatrici di tradizione, sono di per sé incubatrici di leadership e sono praticamente laboratori di apprendimento. Tali leader sono leader responsabili e reattivi.

Alcuni individui e organizzazioni evitano la responsabilità perché la vedono solo in termini di controlli e contrappesi: un mezzo di disciplina e controllo. Sebbene questa sia una componente vitale, la responsabilità ha molte più facce. In primo luogo, la responsabilità consiste nel rispondere alle parti interessate, prendendo in considerazione le loro esigenze e opinioni nel processo decisionale e fornendo una spiegazione del motivo per cui sono state o non sono state prese in considerazione.

Pertanto, è meno un meccanismo di controllo e più un processo di apprendimento. Essere responsabili significa essere aperti con le parti interessate, coinvolgerle in un dialogo continuo e imparare dall’interazione. Può quindi generare la titolarità di decisioni e progetti e migliorare la sostenibilità delle attività e delle idee. Infine, definisce un percorso verso prestazioni migliori.

La responsabilità non è un adempimento legalistico gravoso, con troppa burocrazia e una cultura punitiva che soffoca l’assunzione di rischi e la creatività. Non utilizza tali tattiche coercitive come l’invasione della privacy o il portare gli altri sotto il peso dei tabù di qualcuno, del legalismo o di tattiche manipolative e di dominio.

Fondamenti di un’istituzione trasparente
Il Global Accountability Project (GAP, 2005) identifica quattro dimensioni fondamentali delle organizzazioni responsabili:

Trasparenza: si riferisce all’apertura di un’organizzazione sulle proprie attività, fornendo informazioni su ciò che sta facendo, dove e come ciò avviene e come sta andando. Garantisce che i portatori di interessi ricevano le informazioni di cui hanno bisogno per partecipare alle decisioni che li riguardano.
Partecipazione: l’enfasi qui è su un approccio partecipativo al processo decisionale, con meccanismi a livello operativo, tattico e strategico, che consentono ai diversi portatori di interessi di contribuire alle decisioni che li riguardano. Pertanto, un certo grado di potere deve essere ceduto agli interessati affinché l’organizzazione sia considerata veramente responsabile.
Valutazione: questo requisito garantisce che l’organizzazione sia responsabile delle proprie prestazioni, del raggiungimento dei propri obiettivi e del rispetto degli standard concordati. Questo è un processo di apprendimento che informa le attività in corso e sul processo decisionale futuro, fornendo informazioni che consentono all’entità di migliorare le prestazioni, e quindi essere più responsabile della propria missione, visione e obiettivi.
Diritto di dissenso: ciò consente a tutti i portatori di interesse di cercare e ricevere risposta dall’organizzazione, interrogando una decisione, un’azione o una politica e ricevendo una risposta adeguata al proprio dissenso.
Una responsabilità significativa può derivare solo da tutti e quattro i criteri fondamentali, che funzionano in modo efficace. I leader devono rendere conto a Dio, ai fedeli, a se stessi, alla società in generale e alla visione e alla missione della Chiesa.

Qual è la differenza essenziale tra falsa e vera leadership cristiana? Quando un uomo, in virtù di una posizione ufficiale nella Chiesa, esige l’obbedienza di un altro, indipendentemente dalla ragione e dalla coscienza di quest’ultimo, questo è lo spirito di tirannia.

Quando, invece, dall’esercizio del tatto e della simpatia, con la preghiera, la forza spirituale e la sana saggezza, un lavoratore cristiano può influenzare e illuminare un altro, così che quest’ultimo, per mezzo della propria ragione e coscienza, è portato a modificare un corso e ad adottarne un altro, questa è la vera leadership spirituale[8].

[1] Cf. A. Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica, Roma, Città Nuova, 2004.

[2] Per una discussione più approfondita, cfr. Benjamin Chuka Osisioma, Accountability in the church, Presented at Conference of Chancellors, Registrars, and Legal Officers, Church of Nigeria (Anglican Communion), At Basilica of Grace, Diocese of Abuja, Gudu District, Apo, Abuja, 6 agosto 2013; consultabile online: https://www.academia.edu/4221114/Accountability_in_the_Church.

[3] Cf. O. Gracias, Accountability (il dover rendere conto) in una Chiesa Collegiale e Sinodale, 22 febbraio 2019, in https://www.vatican.va/resources/resources_card-gracias-protezioneminori_20190222_it.html

[4] Sull’adeguatezza dell’accountability alla natura della Chesa, cfr. R. J. Kaslyn, Accountability of Diocesan Bishop. A significant aspect of ecclesial communion, in “The Jurist”, 67 (2007), pp. 109-152.

[5] Sulla nozione di «monopolio del pigro» e le sue dinamiche, vedi A. HIRSCHMAN, Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge 1970. Per la sua applicazione alla Chiesa, vedi M.J. BANE, «Voice and Lo-yalty in the Church: The People of God, Politics and Management», in S. POPE, ed., Common Calling: The Laity and Governance of the Catholic Church, Washington 2004, 181-194.

[6] P. NONET – P. SELZNICK, Law and Society in Transition, New Brunswick (NJ) 2005, 35.

[7] R. KENNEDY, «Address on Due Process to National Conference of Catholic Bishops», Proceedings of the Canon Law Society of America 31 (1969) 15 (traduzione nostra).

[8] Per una discussione più approfondita, cfr. Benjamin Chuka Osisioma, Accountability in the church, Presented at Conference of Chancellors, Registrars, and Legal Officers, Church of Nigeria (Anglican Communion), At Basilica of Grace, Diocese of Abuja, Gudu District, Apo, Abuja, 6 agosto 2013; consultabile online: https://www.academia.edu/4221114/Accountability_in_the_Church.