In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. […]».
La sorpresa: il padrone loda chi l’ha derubato. Il resto è storia di tutti i giorni e di tutti i luoghi, di furbi disonesti è pieno il mondo. Quanto devi al mio padrone? Cento? Prendi la ricevuta e scrivi cinquanta. La truffa continua, eppure sta accadendo qualcosa che cambia il colore del denaro, ne rovescia il significato: l’amministratore trasforma i beni materiali in strumento di amicizia, regala pane, olio – vita – ai debitori. Il benessere di solito chiude le case, tira su muri, inserisce allarmi, sbarra porte; ora invece il dono le apre: mi accoglieranno in casa loro. E il padrone lo loda. Non per la disonestà, ma per il capovolgimento: il denaro messo a servizio dell’amicizia. Ci sono famiglie che riceveranno cinquanta inattesi barili d’olio, venti insperate misure di farina… e il padrone vede la loro gioia, vede porte che si spalancano, e ne è contento. È bello questo padrone, non un ricco ma un signore, per il quale le persone contano più dell’olio e del grano. Gesù condensa la parabola in un detto finale: «Fatevi degli amici con la ricchezza», la più umana delle soluzioni, la più consolante. Fatevi degli amici donando ciò che potete e più di ciò che potete, ciò che è giusto e perfino ciò che non lo è! Non c’è comandamento più umano. Affinché questi amici vi accolgano nella casa del cielo. Essi apriranno le braccia, non Dio. Come se il cielo fosse casa loro, come se fossero loro a detenere le chiavi del paradiso. Come se ogni cosa fatta sulla terra degli uomini avesse la sua prosecuzione nel cielo di Dio. Perché io, amministratore poco onesto, che ho sprecato così tanti doni di Dio, dovrei essere accolto nella casa del cielo? Perché lo sguardo di Dio cerca in me non la zizzania ma la spiga di buon grano. Perché non guarderà a me, ma attorno a me: ai poveri aiutati, ai debitori perdonati, agli amici custoditi. Perché la domanda decisiva dell’ultimo giorno non sarà: vediamo quanto pulite sono le tue mani, o se la tua vita è stata senza macchie; ma sarà dettata da un altro cuore: hai lasciato dietro di te più vita di prima? Mi piace tanto questo Signore al quale la felicità dei figli importa più della loro fedeltà; che accoglierà me, fedele solo nel poco e solo di tanto in tanto, proprio con le braccia degli amici, di coloro cui avrò dato un po’ di pane, un sorriso, una rosa. Siate fedeli nel poco. Questa fedeltà nelle piccole cose è possibile a tutti, è l’insurrezione degli onesti, a partire da se stessi, dal mio lavoro, dai miei acquisti… Chi vince davvero, qui nel gioco della vita e poi nel gioco dell’eternità? Chi ha creato relazioni buone e non ricchezze, chi ha fatto di tutto ciò che possedeva un sacramento di comunione. (Letture: Amos 8,4-7; Salmo 112; 1 Timoteo 2,1-8; Luca 16,1-13)
(Alessandro Di Bussolo) Papa Francesco, nell’omelia della Messa del mattino a Casa Santa Marta, sottolinea che quando ci appropriamo del dono, e lo centriamo su noi stessi, “lo trasformiamo in funzione”, perdendo il cuore del ministero, episcopale o presbiterale che sia. Dalla mancanza di contemplazione del dono nascono “tutte le deviazioni che conosciamo”. Il ministero ordinato è un dono del Signore, “che ci ha guardati e ci ha detto ‘Seguimi’”, prima che un servizio, e non certo “una funzione” o “un patto di lavoro”.
Tv2000, in collaborazione con Vatican Media, trasmette in diretta, sabato 21 settembre dalle ore 17.15, la visita di Papa Francesco alla Diocesi suburbicaria di Albano Laziale. Nel programma della visita: il momento di preghiera con i sacerdoti nella cattedrale di San Pancrazio, poi la celebrazione della Messa presieduta dal Papa in piazza Pia.
Venerdì alle 17 il libro sul Servo di Dio; alle 18.30 la Messa presieduta dal Vescovo
Venerdì 20 settembre alle ore 17 nei Chiostri dei Servi di Maria, a Reggio, si presenta il volume “La memoria si rinnova” (Gianni Bizzocchi editore, 144 pagine, 15 euro), che raccoglie le omelie commemorative tenute dai celebranti negli anni scorsi e alcuni documenti inediti o poco conosciuti su Alcide De Gasperi. Alle 18.30, in Basilica, il vescovo Massimo Csmisasca presiederà l’annuale Messa in ricordo del Servo di Dio (si veda il programma a fianco). Diamo qualche anticipazione sull’appuntamento parlando con Luigi Bottazzi, presidente del Circolo di cultura “Giuseppe Toniolo” di Reggio Emilia, l’associazione di promozione culturale che dal 2008 organizza la celebrazione della Messa per lo statista trentino.
Bottazzi,come è nata l’iniziativa? L’idea è sorta nell’ambito del direttivo del Circolo, dopo che agli inizi del 2000 – anche a seguito della “scomparsa” sulla scena politica della Democrazia Cristiana, prima, e del Partito Popolare (quello di Martinazzoli), dopo – si sentiva o si percepiva nei convegni di studio, negli incontri e nelle conversazioni la mancanza di qualche evento, diciamo così, “identitario” di una tradizione, di un pensiero politico, di un comune sentire, di quella che era stata la formidabile, e per me grande, esperienza italiana dei cattolici impegnati in politica nel dopoguerra. La figura di sintesi che emergeva era indubbiamente quella di De Gasperi, pur non dimenticando leader di grande spessore come Giuseppe Dossetti e Aldo Moro. Voglio fare il nome di qualche amico che, con me, ha sostenuto questo impegno: Alfredo Spaggiari, Giuseppe Adriano Rossi, Mario Bronzoni, Lauro Bottazzi, Mario Poli, Antonio Marginesi, Giancarlo Pozzi, Romano Fieni, ed altri, come i compianti Carlo Bortolani, Sandro Chesi, Ettore Picchi, Pippo Bertani. A dire il vero anche durante il periodo de La Margherita (Democrazia e Libertà), formazione in cui molti cattolici reggiani ancora militavano, qualche volta in agosto abbiamo fatto celebrare – però in modo non continuativo (a Rivalta, a Regina Pacis, a San Pio X ) – una funzione religiosa in ricordo di De Gasperi, unendo nella preghiera comune “anche i leader cattolici che hanno servito la comunità nazionale”.
A Reggio Emilia sono già diversi anni che viene celebrata, solitamente nel mese di agosto, la Messa per Alcide De Gasperi. A che punto siamo arrivati? Quest’anno per la nostra città siamo al 12° anno. Continuiamo questa bella iniziativa, che per molti cattolici reggiani è diventata quasi una tradizione: la si aspetta! Infatti abbiamo ricevuto diverse telefonate in proposito, poi finalmente è uscita sulla stampa la notizia che la Messa sarebbe stata spostata in avanti di un mese, per poter rientrare nel calendario delle celebrazioni del Giubileo per il 400° anniversario della traslazione dell’Immagine miracolosa della Madonna delle Ghiara, i cui eventi ripartivano con i primi di settembre.
Domenica alle 16 convegno al Museo diocesano, alle 18 la Messa in Cattedrale presieduta dal Vescovo
La Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, proseguendo nel cammino che l’anno scorso, nel Santuario del beato Rolando Rivi a San Valentino (Castellarano), ha condotto a uno storico gesto di perdono, intende ricordare tutti i sacerdoti martiri del periodo 1943-1946 con una giornata di riconciliazione e di preghiera intitolata “Vexilla Regis prodeunt” (“Avanzano i vessilli del Re”, dall’incipit dell’inno liturgico composto da san Venanzio Fortunato in occasione dell’arrivo della reliquia della Vera Croce a Poitiers). L’iniziativa si terràdomenica 22 settembre in due momenti: alle 16, nella sala conferenze del Museo Diocesano, un convegno con l’intervento storico del professor Giuseppe Giovanelli, condirettore del Centro Diocesano di Studi Storici, e quello teologico di don Carlo Pagliari, biblista e direttore del Servizio per la Pastorale Giovanile; alle 18, in Cattedrale, la Messa sarà presieduta dal vescovo Massimo Camisasca.
Insieme al seminarista Rolando Rivi saranno commemorati don Pasquino Borghi, don Battista Pigozzi, don Giuseppe Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Aldemiro Corsi, don Sperindio Bolognesi, don Luigi Manfredi, don Pietro De Carli, don Dante Mattioli, don Giuseppe Iemmi, don Carlo Terenziani, don Umberto Pessina e tutti i confratelli che, pur non arrivando al sacrificio della vita, vennero minacciati, incarcerati, perseguitati o torturati a causa della loro testimonianza di fede e di carità.
Il cardinale Siri nel 1958, commemorandoli a Reggio Emilia insieme agli altri 40 sacerdoti uccisi in Emilia Romagna e ai 300 caduti nello stesso periodo in Italia, ebbe a dire: “Allora questi uomini che non maneggiavano armi, che erano generalmente inermi, sono diventati dei protettori, si sono fatti scudi, hanno dato garanzie, si sono offerti in ostaggio, hanno fermato spade brandite, non facendosi di parte mai, soltanto salvando uomini perché uomini”.
Gazzetta di Reggio
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Se dovessi cercare di delineare in estrema sintesi uno dei problemi maggiori della Chiesa cattolica odierna, lo definirei nei seguenti termini: oggi non abbiamo una teologia della Chiesa spendibile, ossia comprensibile e sensata, al di fuori della auto-referenzialità del linguaggio ecclesiastico. Ossia, non siamo capaci di dire la ragione della Chiesa nella vita quotidiana degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Né, tantomeno, riusciamo ad abbozzare un profilo teologico decente, degno, sopportabile e non sprezzante la realtà delle cose, quando scendiamo sul piano della comunicazione pubblica.
Dall’immunizzazione all’affidabilità
Abbiamo un immenso impianto ecclesiologico che funziona per un numero sempre minore di persone, anche tra i credenti stessi. E qui attenderei un attimo a mettere in moto tutto il sistema immunitario che la Chiesa coltiva, anche con una certa aggressività talvolta, dall’albeggiare dell’epoca moderna. Se fette sempre più ampie di mondo contemporaneo non capiscono il tratto anche teologico della Chiesa non sarà solo colpa loro; ci avremo pure ben messo del nostro – è il minimo di onestà che dobbiamo a tutti, anche a noi stessi.
Con la fede ce la caviamo un po’ meglio, ma quando ne va della Chiesa non andiamo oltre il balbettare a stento. Usando un lessico per iniziati, un po’ esoterici e tendenzialmente settari, che dice poco o nulla all’uomo e alla donna comune – anche quelli armati delle migliori intenzioni verso la Chiesa stessa.
Questo difetto di ecclesiologia pubblica può essere colto a più livelli, dagli abusi alle ultime ingerenze vaticane rispetto al «cammino sinodale» della Chiesa cattolica tedesca. Messi all’angolo non tanto dalla «malignità» della stampa, ma dalla nostra pluriennale negligenza e dal peccato corporativo di occultamento della violenza inflitta, insieme a tutta una catena di vischiose complicità, abbiamo assunto in toto il lessico giuridico, criminale, economico, che ha doverosamente aperto il varco in questo essere peccatrice della Chiesa.
Non disperdere la sofferenza delle vittime e raccogliere la sapienza del prendersi cura di loro
Non voglio essere frainteso, interventi dell’autorità ecclesiale a questi livelli erano dovuti da tempo purtroppo rapidamente divenuto immemorabile. I passi fatti a fatica e tra mille contrasti sono un buon inizio. Ma non possiamo accontentarci di questo, dovremmo osare di più, dovremmo avere un qualcosa di diverso da offrire alle vittime e a tutta la società civile che diffida di noi. Appunto, dovremmo imbastire un’ecclesiologia pubblica non per giustificarci, non per salvare un’immunità divina della Chiesa, ma per rendere efficace oltre se stesso tutto l’impianto giuridico, di controllo e prevenzione che lentamente stiamo mettendo in campo.
Tutti coloro che si sono e si stanno prendendo cura delle vittime in nome della Chiesa e a sua rappresentanza sono un patrimonio spirituale ed ecclesiale che non possiamo ridurre alla loro funzione. A loro, e alle vittime che se la sentono, dovremmo chiedere quale teologia della Chiesa sia necessaria nello spazio pubblico per custodire degnamente la loro sofferenza (vittime) e la loro dedizione (incaricati ecclesiali).
Sono persuaso che ne verrebbe fuori l’abbozzo di un’ecclesiologia (teologica) pubblica in grado di riconfigurare l’intero corpo ecclesiale cattolico. Solo così potremmo arrivare a una comprensione teologica dell’esistenza e della missione della Chiesa che sia decentemente praticabile nella contemporaneità segnata dalla sua colpevole mancanza rispetto a fratelli e sorelle che sono stati profondamente feriti o rovinati dalla Chiesa stessa.
L’eccesso giuridico che paralizza la Chiesa
La mancanza di questa ecclesiologia pubblica rende stagnante quella classica, lasciando al diritto canonico una competenza eccessiva rispetto alla configurazione del corpo ecclesiale e delle comunità cristiane. Ogni istituzione ha bisogno di una legge fondamentale, di un corpus giuridico costituzionale, ma esso deve essere fondamentalmente inspirativo. Basta guardare a Veritatis gaudium, nelle sue due parti, per vedere non solo lo sbilanciamento ma quasi la schizofrenia in cui viviamo da tempo come Chiesa. Tanto per fare un esempio la cui evidenza è immediata.
Anche l’ultimo intervento del Vaticano verso la Chiesa tedesca, che si accinge tra mille difficoltà e incertezze a un «cammino sinodale», è a mio avviso l’esito indiretto di una mancanza di ecclesiologia pubblica. Alla fin fine non ci si comprende e non ci si parla realmente perché ci si sta muovendo su piani completamente diversi – e non si riesce a riconoscere che il secondo piano, quello pubblico, ha una valenza teologica anche per il primo, quello della configurazione della Chiesa.
Questo non vuol dire che il «cammino sinodale» tedesco sia senza macchia, e neanche che esso sia la soluzione delle soluzioni. Ma è un tentativo di pensarsi come Chiesa a partire da quello che la Chiesa ha fatto, cercando di porre rimedio a mancanze drammatiche e colpevoli che hanno caratterizzato il suo fare nel mondo e verso le persone.
Senza affidabilità nessuna fraternità
Da ultimo, l’intervento vaticano viene sentito, e a mio avviso è, come una drammatica smentita della fraternità quale principio cardine che dovrebbe presiedere, nelle intenzioni di Francesco, non solo all’insieme della Chiesa ma, addirittura, alla complessività dell’umano.
È così che diventiamo pubblicamente non credibili e inaffidabili, quasi senza neanche accorgercene o, peggio, come se poi non ci interessasse più di tanto esserlo nella dimensione pubblica del vivere della Chiesa.
Le discipline teologiche nascono dalle esigenze concrete della Chiesa come comunità dei discepoli e delle discepole nel mondo comune dell’umano, luogo che Dio desidera abitare come la sua stessa dimora. Inventare un’ecclesiologia pubblica, che vuol dire anche dare forma a celebrazioni liturgiche che rispondono e corrispondono a un preciso abitare l’umana storia di vivere, mi sembra essere un imperativo dell’ora presente.