Libro: Rut, la migrante

Rut, la migrante. Per una globalizzazione della speranza

Un bel commentario spiritual-esistenziale del monaco benedettino allo splendido libretto di Rut, un testo biblico non molto conosciuto ma molto importante nel canone biblico. Esso è preso a vademecum della crescita nella vita psicologica e spirituale del credente.

Alcuni ipotizzano che il libro di Rut sia stato composto nel tempo monarchico (nel canone esso segue immediatamente il libro dei Giudici), mentre altri lo riconducono al tempo esilico-postesilico di Israele. In quest’ultimo caso, al pari del libretto di Giona, esso contesterebbe la politica identitaria di Esdra e di Neemia che, per salvaguardare la continuità del popolo tornato dall’esilio, non esitarono a far sciogliere i matrimoni già contratti fra gli israeliti e le donne appartenenti alla zona esilica di Babilonia.

Rut appartiene al popolo di Moab, interdetto da Dt 23,4-5 dall’entrare nella comunità del popolo di Israele neppure alla decima generazione perché ostacolò il passaggio di Israele nel suo cammino di liberazione dall’Egitto e di entrata nella terra della promessa. (I rabbini però “recuperarono” la proselita Rut, superando l’interdetto deuteronomico dicendo: Queste cose le hanno fatte gli uomini, non le donne!).

La famiglia di Elimèlech (nome altisonante, “Il mio dio è re!”) e di “Noemi/Nŏomî) (la vocalizzazione ebraica però induce la lettura Noomi, “la Dolce”) emigra, per sopravvivere alla grave carestia e non per vivere, dalla “casa del pane”, Betlemme, ai campi di Moab, terra straniera e “nemica”.

Dopo dieci anni, Noemi si ritrova vedova e orfana dei suoi due figli (già contrassegnati da nomi “devitalizzati” come “languore” e “consunzione”). Accompagnata dalle sole due nuore, Orpa e Rut, Noemi rientra a Betlemme, poiché ha sentito dire che YHWH aveva visitato il suo popolo dandogli pane.

Orpa (“Colei che volge le spalle”) volge le spalle, legittimamente, alla suocera. Il libretto biblico non la giudica negativamente per questo.

Rut, l’“amica”, invece, “si incolla/dābaq” alla suocera, facendo corpo unico con lei, col suo paese, la sua cultura, il suo Dio, il tempo e il luogo della sua morte.

A Betlemme, Rut si metterà al lavoro come serva, forte e laboriosa, in qualità di spigolatrice (lqṭ). Finita “per caso” nel campo di Booz, suo parente con diritto di riscatto (ma Noemi glielo dirà solo più tardi…), Rut troverà la pienezza della sua vita nel matrimonio con Booz, generando Obed, il nonno di Davide. Booz, infatti, forzando (questo lo affermo io, non MichaelDavide) due istituti giuridici diversi – quello del levirato e quello del dovere di riscatto dei beni di un parente caduto in miseria, al fine di non disperdere l’eredità dei padri –, oltre al campo di Noemi in vendita, “compra” anche Rut, che fa corpo unico con la suocera, per dare un figlio al marito defunto di Rut. Rut è il vero “tesoro nel campo”, per il quale conviene vendere tutto per comperarlo (cf. Mt 13,44)…

Rut, “la moabita” – come sempre viene etichettata sino al termine della vicenda, quando finalmente tutto il popolo e gli anziani la riconoscono come “la donna” (cf. Rt 4,11) –, è simbolo di umile servizio, di grande amore per la suocera, di profondo rispetto delle persone e del loro cammino, di grande apertura alla religione del paese dove di trova a emigrare e a doversi integrare. Pur non essendo israelita, appartenente al popolo della Torah, essa diventa proselita vivendo concretamente a partire dal proprio intimo spirituale il cuore della Torah-legge: l’amore! Attraverso di lei, emigrante povera e vedova – annota MichaelDavide –, YHWH continua atessere la carne del Figlio di Dio che si sarebbe incarnato come discendente di Davide, Gesù di Nazaret. Il gomitolo di lana che si vede in tante icone tenuto fra le mani da Maria, la madre di Gesù, è filato anche da Rut, la moabita…

In un tempo in cui non c’era ancora il re e ognuno si comportava come meglio credeva (Gdc 21,25, versetto che precede immediatamente il libretto di Rut), Rut compare come la donna – straniera e “nemica” – che incarna l’amore nel “din-rigore” e nello “ḥesed-amore fedele”. Vivendo con un lavoro assiduo e umile, corretto e rispettoso, quale “donna giusta al posto giusto”, essa trova l’amore dell’“uomo giusto al posto giusto”, Booz (“la Forza”).

Egli è potente, rinomato e ricco, ma anch’egli rispetta, senza prevaricare approfittando del suo stato, l’umile serva nella notte del profumo e dell’incontro sensuale sull’aia in cui si ventilava l’orzo.

Il commento di MichaelDavide intarsia il suo testo con molte annotazioni spirituali e psicologico-psicanalitiche, facendo vedere come l’ordine e l’amore conducano alla piena fioritura della vita. Rut è l’umile serva e serena, laboriosa, altruista fino a mettere in grembo alla suocera il proprio figlio Obed, come fosse lei la sua madre. Le donne di Betlemme riconoscono pubblicamente che la nuora di Noemi la ama più di sette figli: la pienezza dell’amore (cf. Rt 4,15). Da parte sua, la grande Noemi accompagna con delicatezza e sapienza tutta femminile la nuora perché si apra continuamente alla vita, senza intristirsi nel presente vivendolo senza speranza.

Rut, la straniera-vedova-povera, scomunicata dalle scritture di Israele, diventa l’anello insostituibile della catena genealogica che “costruisce” la casa di Israele, come le matriarche Rachele e Lea (un ordine non cronologico, ma d’amore, cf. Rt 4,11) e viene ricordata nella genealogia matteana di Gesù (cf. Mt 1,1,1-17), insieme ad altre quattro donne (!), tutte “particolari”: Tamar, la nuora di Giuda che concepisce con lui il figlio Perez (ricordato in Rt 4,18), mascherandosi da prostituta; Raab, la prostituta di Gerico che aiuta gli spie di Israele che sta per entrare nel paese; Betsabea, la moglie di Uria l’hittita che concepisce un figlio da Davide, adultero e omicida e, infine, Maria di Nazaret, che concepisce Gesù per potenza dello Spirito Santo.

Rut è un bellissimo libretto biblico, fine e profondo, che apre alla globalizzazione di una speranza che, accogliendo lo straniero, spera con fede certa che ci sarà vita ancor più abbondante, oltre ogni barriera e ogni preclusione.

Piccole osservazioni. A p. 166 r 11 leggi Rt 2,23; p. 167 r 16 leggi profùmati (così anche a p. 170 ad l.); a p. 170 13 leggi Làvati; a p. 194 r -11 leggi esprimono; a pp. 201-202 non vedo un motivo cogente per modificare la sequenza dei soggetti grammaticali del testo ebraico di 3,14-16a: lei (= Rut) si alzò prima che si potesse riconoscere una persona dall’altra nel buio dell’alba; lui (= Booz) dice che nessuno venga a sapere dell’incontro notturno e prosegue dando una misura abbondante di orzo a Rut; egli (= Booz) entra in città (3,15b), mentre in 3,16 si annota che “lei” (= Rut) arrivò dalla suocera; a p. 213 r -10 leggi portate; a p. 214 r 4 leggi la vita sia. In tutto il testo il termine ebraico ḥesed viene collegato all’articolo femminile, forse perché seguito dalla traduzione “carità”; nella lingua ebraica il termine è però di genere grammaticale maschile e quindi preferisco la dizione “lo ḥesed”, essendo il termine ebraico non ancora di uso corrente nella lingua italiana.

Non c’è la bibliografia, ma nelle note si vede come l’autore spazia da citazioni di padri della Chiesa a quelle di esegeti vari, di esperti di vita spirituale, di psicologi, di psicanalisti e di psichiatri (in primis C.G. Jung).

Un testo davvero piacevole e illuminante.

Fratel MichaelDavideRut, la migrante. Per una globalizzazione della speranza, Ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 2019, pp. 272, € 17,00, ISBN 978-88-922-1926-7.

Le donne e il clericalismo

da Settimana News articolo del Card. Blase Cupich

Siamo fortunati ad avere un numero di commissioni e di consigli laici, sui quali faccio affidamento per ricavarne consigli e sostegno. Considero la loro collaborazione come la chiave per una governance condivisa, necessaria oggi nella Chiesa. Uno dei gruppi cui faccio riferimento è il Comitato arcidiocesano delle donne. Questo organismo consultivo è rappresentato dalle donne di tutti e sei i vicariati e si incontra durante tutto l’anno.

Ho chiesto loro di consultare le donne dell’arcidiocesi sul tema del clericalismo. Esse hanno interpellato 1.500 donne, ponendo tre domande: com’è il suo modo di comprendere il clericalismo? ha mai sperimentato personalmente il clericalismo? in che modo i laici possono cooperare a mettere fine al clericalismo?

I risultati sono importanti per tutti noi per una giusta comprensione del problema.

Mentre quasi la metà delle donne intervistate sono state aiutate a capire cosa si intendesse per “clericalismo”, una volta spiegato cosa si intendeva con quella parola, quasi due terzi di esse ha affermato di averne avuto personalmente l’esperienza.

Molte hanno associato il clericalismo con gli abusi sui minori e sul loro occultamento negli ultimi anni, poiché è lì dove gli effetti del clericalismo e le sofferenze inflitte per tutta la vita sono più visibili. Ciò che maggiormente ha turbato le donne è stata la ricorrente mancanza di risposte alle vittime da parte della gerarchia, e molte di loro si sono dette convinte che questa crisi avrebbe potuto essere evitata se le donne fossero state coinvolte nel contrastare efficacemente il triste fenomeno. Questa percezione è indubbiamente vera e dovrebbe rimanere un punto di riferimento per procedere in qualsiasi caso di abuso riguardante i chierici, compresi i vescovi.

Oltre alla crisi degli abusi, molte donne hanno parlato della loro esperienza in fatto di clericalismo nel non essere ascoltate o essere state ignorate dalla Chiesa nella vita di tutti i giorni. Alcuni preti – hanno dichiarato – sono ben disposti all’ascolto, altri no. Hanno detto che questi preti:

* vogliono avere l’ultima parola anche nei minimi dettagli della vita della parrocchia;

* pretendono di essere la persona migliore di tutti oppure squalificano la conoscenza che le donne hanno dei problemi della Chiesa;

* ragionano autorevolmente di argomenti di cui non sanno nulla;

* usano la loro autorità per negare i sacramenti oppure

* per favorire quei parrocchiani che trattano il clero come se avesse sempre ragione.

Le intervistate hanno espresso a più riprese il loro punto di vista dicendo che, siccome le donne non hanno autorità nella Chiesa, a nessun livello, la loro sapienza acquisita e i loro talenti non sono impiegati a beneficio della Chiesa. Questa emarginazione è avvertita in maniera più acuta dalle donne che fanno parte del personale pastorale, come coloro che sono inserite nell’ambito amministrativo, oppure dalle donne che fanno opera di volontariato o che sono laureate.

Riassumendo questo modello di disuguaglianza circa il modo con cui i preti trattano le donne, una di esse notava: «Anche se ho avuto alcuni pastori meravigliosi che hanno sostenuto e accolto bene i miei doni e mi hanno dato ogni possibilità di contribuire alla vita della parrocchia, ne ho incontrato anche altri che preferivano che io fossi invisibile».

Per porre fine alla cultura del clericalismo, molte hanno sottolineato che bisogna cominciare con l’ascoltare i laici e con il dare credito alle loro voci a lungo ignorate, in particolare a quelle delle donne e dei giovani adulti. Ma significa anche finire di trattare i preti come una casta privilegiata, e invece rispettarli come persone umane fallibili che condividono la nostra condizione umana e si sintonizzano con i bisogni della comunità, al punto che tutti capiscano che siamo qui per aiutarci vicendevolmente ad avvicinarci a Dio e gli uni agli altri.

I preti dovrebbero essere disposti a parlarne nelle loro omelie – hanno affermato le intervistate – e i pastori dovrebbero riesaminare il modo con cui valorizzano i talenti dei laici così che le decisioni siano condivise. Inoltre, hanno sottolineato che il ruolo verticistico del pastore deve essere ripensato e ristrutturato.

Dovrebbe anche essere preso in considerazione il fatto di istituzionalizzare la partecipazione delle donne – hanno detto altre –, affermando di seguire con interesse lo studio che il papa ha intrapreso sul diaconato femminile. Un passo del genere, secondo molte delle inchiestate, dovrebbe coinvolgere le donne nei battesimi e nella predicazione e anche il riconoscimento della loro posizione di competenza nella vita quotidiana della Chiesa.

Le donne che hanno partecipato a questa inchiesta erano salde nel loro amore alla Chiesa e nella speranza di migliori relazioni con il clero. Esse desiderano che i loro preti camminino accanto a loro e a tutti i laici così da mostrare che tutti i battezzati condividono l’invito a partecipare all’unico sacerdozio di Gesù.

Il Comitato arcidiocesano delle donne ha affermato quanto esse siano state rincuorate da papa Francesco che ha spesso parlato della necessità di sradicare il clericalismo, sia che abbia origine dall’immagine che il clero ha di stesso sia dall’atteggiamento di deferenza di altre persone verso di esso. Si sentono incoraggiate quando il papa, i vescovi, i preti, i diaconi e i laici riconoscono il clericalismo come un peccato che mina la missione della Chiesa di essere nel mondo un “ospedale da campo”. Il comitato ha concluso il suo rapporto affermando: «Se insieme rifiutiamo la cultura tossica del clericalismo, potremo lavorare insieme in quell’ospedale da campo, sanando le ferite e riscaldando i cuori dei fedeli».

Sono riconoscente per l’inchiesta effettuata nell’arcidiocesi dal Comitato delle donne. Hanno reso un grande servizio alla nostra Chiesa locale e non vedo l’ora di continuare a dialogare con loro mentre intraprendiamo il rinnovamento della Chiesa a cui Cristo ci invita in questo nostro tempo.

Papa Francesco e la “via del colesterolo”

La città in cui risiedo ha, come tante altre, un percorso noto popolarmente come “la via del colesterolo”. In quel luogo, oltre a camminare e a correre – quando ci incontriamo con amici e conoscenti –, parliamo anche dei nostri stati di salute. Ci scambiamo i risultati dell’ultima analisi medica, commentiamo l’esercizio fisico che ci è stato prescritto e ci sono coloro che insistono nell’essere quelli che prendono il maggior numero di pillole…

Capita spesso di incontrarsi con persone che, meglio informate, conoscono con assoluta precisione diagrammi entro cui si gioca una vita sana e che, superati o non raggiunti, indicano uno stato di sofferenza, per esempio, diabete o ipoglicemia, dovuta ad un eccesso o a un deficit di zucchero nel sangue.

Sanno che fra questi estremi esiste un equilibrio costantemente instabile e, pertanto, un’enorme diversità di situazioni: è difficile trovare due analisi uguali non solo tra soggetti diversi ma, persino, in una stessa persona nel corso di una giornata. Nell’attenzione a questo equilibrio si muove ciò che oggi intendiamo per vita sana.

Alla luce di questo plastico aneddoto, penso che sia possibile anche diagnosticare la salute di una società in base alla sua attenzione all’equilibrio tra libertà e solidarietà. Quando troviamo dei paesi in cui il fattore determinante è la solidarietà a prezzo della libertà, sappiamo che essi hanno enormi difficoltà ad evitare l’autoritarismo.

E quando ne troviamo altri in cui l’esaltazione della libertà annulla la solidarietà, sappiamo anche che si pongono le basi per un neoliberalismo che, privo di cuore, si preoccupa più della libertà dei movimenti della volpe che non della precaria esistenza dei volatili con cui condivide il pollaio.

Ma sappiamo anche che esistono società in cui si cerca di raggiungere, con maggiore o minore fortuna, il desiderato equilibrio tra libertà e solidarietà. È la scommessa dei paesi che hanno posto il benessere sociale di tutti i loro cittadini (compresi quelli non produttivi economicamente) come obiettivo principale, senza ignorare, per questo, i problemi che un’opzione del genere comporta e le necessarie misure correttive.

Il riferimento a una vita personale o socialmente salutare ci consente anche di diagnosticare ciò che sta accadendo nella Chiesa in questo momento.

È risaputo che papa Francesco, per recuperare un equilibrio perduto negli ultimi decenni, scommette, da un lato, sul Vangelo e sulla dottrina e, dall’altro, sulla contemplazione e sull’impegno di liberazione. Ed è anche risaputo che ha davanti un’opposizione sempre più agguerrita e temeraria.

Egli cerca, in primo luogo, un nuovo riequilibrio tra la “folle creatività” che deriva dal programma di Gesù sul monte delle Beatitudini e la “sicurezza” garantita dalla cieca obbedienza alla legislazione e al magistero ecclesiale.

Come risultato di questa ricerca ci sono coloro che denunciano che egli sta confondendo la Chiesa con una ONG; come se al tramonto della vita non fossimo esaminati sull’amore, ma su tutte le volte che siamo mancati alla messa per dar da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, per visitare il malato, il carcerato e accogliere il migrante.

Non mancano nemmeno coloro che lo accusano di essere “eretico”, vale a dire, fondamentalista, perché articola il Vangelo e la dottrina sociale in base alla centralità che esso ha. L’ignoranza, anche tra i cattolici, è insolente.

In secondo luogo, non si stanca mai di ricordare l’importanza di articolare la contemplazione del mistero di Dio nelle trasparenze del cosmo, della vita, della coscienza personale e della storia con l’impegno di liberazione, senza incorrere negli eccessi di coloro che si rifugiano nella mistica degli occhi chiusi o finire stremati nel correre la maratona della vita come fosse uno sprint.

Davanti a questi estremi, egli insiste nel dire opportune e importune, che i cattolici sono chiamati ad essere contemplativi nell’azione, ossia a muoversi fra i Tabor attuali (Com’è bello stare qui!) e i Calvari contemporanei (Dio mio, perché mi hai abbandonato?). Nei primi, per caricare le batterie e, nei secondi, per far scendere i crocifissi dalle loro croci o impedire che esistano, oltre alla cura di coloro che sono sfiniti per una generosità eccessiva e al di là dell’emergere di spiritualità talmente ossessionate dal silenzio e dall’unità interiore che finiscono per trascurare il fatto che la spiritualità è “ex-centrica”, (fuori del centro, per rendersi presente nelle periferie) e che il silenzio coesiste con le grida che lì si innalzano.

Credo che la “via del colesterolo” proposta da Francesco, porti a camminare costantemente tra questi tre “ottomila” che stanno al cuore del Vangelo: il programma (dottrinale) proclamato sul monte delle Beatitudini; le consolazioni (compresi i sacramenti) che si trovano nei Tabor attuali e l’impegno di liberazione nei Calvari dei nostri giorni. Un programma difficile da digerire per i suoi accusatori.

Settimananews

Il cinema dei Papi

Avvalendosi di documentazione in gran parte inedita proveniente dagli archivi della Segreteria di Stato vaticana, dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede e della Gendarmeria pontificia, Dario Edoardo Viganò ripercorre e analizza la genesi e il ruolo storico della Filmoteca Vaticana, istituita nel 1953 con pellicole provenienti dall’appartamento privato di Pio XII e istituita formalmente nel 1959 da Giovanni XXIII.

In sessant’anni di storia e con circa ottomila titoli, la Filmoteca si è affermata come un archivio unico nel suo genere, divenendo il principale deposito della memoria delle immagini in movimento dei pontificati novecenteschi. Le sue pellicole sono infatti in grado di offrire un punto di vista originale per documentare le profonde trasformazioni intervenute nell’immagine del papato e nel rapporto tra la Chiesa cattolica e il cinema.

Vicecancelliere della Pontificia accademia delle scienze, Viganò è stato assessore del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede. È professore ordinario di Cinema presso Uninettuno e alla Luiss Business School. Riprendiamo dal volume una parte dell’introduzione.

Il cinema dei Papi

Il 16 novembre 1959 è una data importante nella storia del rapporto tra i cattolici e il cinema. Quel giorno Giovanni XXIII, a poco più di un anno dal suo insediamento sulla Cattedra di Pietro, inaugurava la Filmoteca Vaticana, portando così a compimento l’intuizione coltivata all’inizio di quel decennio dal suo predecessore Pio XII.

L’evento in sé era carico di potenti simbolismi perché, come non mancò di notare la stampa dell’epoca, la nuova istituzione – ultimo segno dell’attenzione dei pontefici verso i mezzi di comunicazione – trovava sede nel cuore del Vaticano nei locali di Palazzo San Carlo che quindici anni prima erano divenuti il centro logistico di quell’Ufficio Informazioni per i prigionieri di guerra che era stato l’esempio più significativo del felice connubio tra un’alta esperienza di comunicazione e l’esercizio della carità della Chiesa al suo massimo grado.

Già tre anni dopo la fine del conflitto in realtà Pio XII aveva insediato lì la Pontificia Commissione per la cinematografia didattica e religiosa e subito si era cominciato ad allestire una saletta di proiezione al piano terra del Palazzo, che poi sarebbe divenuta col tempo una sorta di “cinema del papa”, ancor oggi centro nevralgico dell’attività della Filmoteca Vaticana.

Ma, al di là di queste simbologie contingenti, quella data si può dire rappresenti uno spartiacque nel rapporto tra la Chiesa e il cinema, o meglio il crocevia di una transizione che l’evento del Concilio Vaticano II avrebbe completato.

L’istituzione della Filmoteca Vaticana può essere infatti guardata sia come l’atto finale di una relazione con i media ancorata alla strategia della doppia pedagogia (in equilibrio tra ammonimento e incoraggiamento), fulcro della prospettiva della Chiesa di Pio XII, sia come l’annuncio della profonda rivisitazione del rapporto tra i mezzi di comunicazione di massa e l’azione ecclesiale, esito di quella nuova attenzione ai «segni dei tempi» proposta dal pontificato giovanneo.

In occasione dei sessant’anni della Filmoteca Vaticana, tornare dunque a rileggere quei passaggi significa porsi nel centro di una cruciale fase di trasformazione che, non per caso, da qualche tempo intercetta gli interessi degli studiosi dei media. D’altra parte, è stata proprio la Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede (divenuta Dicastero nel 2018) a favorire, fin dalla sua istituzione nel 2015, l’attenzione dei ricercatori su questi temi, ponendo al centro un iniziale rilancio della Filmoteca Vaticana divenuta sede nel 2017 di un primo convegno di studi per i sessant’anni dall’enciclica Miranda prorsus di Pio XII, organizzato in collaborazione con la Scuola Normale Superiore di Pisa.

In tale contesto, questo contributo rappresenta anche l’ultimo sviluppo di un lavoro di ricerca sulla relazione tra la Chiesa e il cinema che ho personalmente cominciato negli anni Novanta concentrandomi sulla realtà ambrosiana: il volume che dedicai alla ricostruzione dell’atteggiamento verso il cinema tenuto dagli arcivescovi di Milano nel corso del Novecento si fondava su una metodologia d’analisi centrata sull’esame dei documenti d’archivio talvolta inediti che, sotto molti aspetti, ripropongo in questo lavoro.

Quella ricerca nasceva nel contesto di un interesse coltivato con i ricercatori che allora si erano raccolti con Francesco Casetti attorno alla rivista Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano nei primi anni Novanta, da cui presero avvio diversi filoni di indagine culminati, alla metà del primo decennio degli anni Duemila, anche nell’importante collana in tre volumi Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, editi dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, che curai allora con Ruggero Eugeni.

All’interno e a fianco di questi filoni sono scaturite ricerche su figure rappresentative dell’attivismo delle diocesi lombarde in campo cinematografico (padre Agostino Gemelli, don Angelo Zammarchi, don Giuseppe Gaffuri, don Giuseppe Fossati, padre Nazareno Taddei) o su temi e casi di studio particolari (il cinema missionario, i pubblici cattolici, i film emblematici come La dolce vita).

Alla base del laboratorio storiografico attivato con Eugeni, con l’importante collaborazione di Elena Mosconi, stava una constatazione tanto semplice nella sua evidenza quanto difficile nella sua traduzione in un orizzonte di ricerca: negli ultimi quindici anni circa era emersa con sempre maggiore chiarezza l’impossibilità di una storia del cinema separata dall’orizzonte di una storia della cultura.

Ciò che stava venendo in luce nel panorama di studi nazionale e internazionale, in cantieri di ricerca anche molto distanti tra loro per metodologia e presupposti eurisitici, era che il mezzo cinematografico, fin dalla sua prima apparizione nel panorama mediatico, era stato capace – come scrivevamo con Eugeni – di «autoaffemarsi come fonte indiscussa di radicale ridefinizione dell’immaginario collettivo, dei valori individuali e sociali, delle categorie conoscitive e interpretative del reale». Il cinema, notavamo, pare il medium che forse più di altri ha contribuito a ri-orientare i tratti delle culture ad esso preesistenti, a segnare il passo della loro successiva evoluzione e a costituirsi per questo, ancora oggi, come ambito di osservazione privilegiato a partire dal quale è anche storia culturale.

Sulla base di questi presupposti lanciavamo la nostra sfida conoscitiva inevitabilmente ambiziosa: quella di ricostruire la complessa e articolata vicenda del rapporto tra la Chiesa e il cinema in Italia, rileggendola in virtù di questa non più eludibile congiunzione tra storia del cinema e storia della cultura.

In questi ultimi dieci anni poi questo filone ha fatto ulteriori e significativi passi in avanti anche livello internazionale, consolidandosi in un più articolato ambito di studi che in Italia è stato favorito soprattutto dal dinamico cantiere di ricerca attivatosi all’Università degli Studi di Milano attorno al progetto I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70 promosso da Tomaso Subini.

Lo studio del rapporto tra cattolicesimo e cinema è cioè, col tempo, uscito da una nicchia di ricerche specialistiche, per divenire un argomento attraverso il quale oggi storici dell’età contemporanea, storici del cinema, sociologi, antropologi, si confrontano in campo aperto, affinando sempre più i parametri d’indagine e i paradigmi tassonomici della ricerca. Si sta arrivando così a definire un contesto di ricerca che mostra delle caratteristiche originali che lo differenziano, sotto molti aspetti, dall’esperienza inglese e statunitense deiReligion and Film Studies.

Parafrasando la celebre espressione di Karl Polany si potrebbe dire che cattolicesimo e cinema rappresentano uno dei temi privilegiati attraverso cui studiosi di discipline diverse oggi provano a misurare la portata e le caratteristiche della «grande trasformazione» (politica, economica, sociale, culturale) del XX secolo. Si avverte, cioè, un’estensione degli ambiti di osservazione che vanno anche oltre la storia della cultura (o della cultura visuale), per fare del rapporto Chiesa-cinema una chiave ermeneutica attraverso cui misurare la reazione del cattolicesimo alle grandi trasformazioni novecentesche in campo politico, economico, sociale.

Prima sintesi di questa nuova metodologia è il recente volume di Gianluca della Maggiore, storico dell’età contemporanea, e Tomaso Subini, storico del cinema, i quali, grazie anche all’ausilio di nuove fonti provenienti da molti archivi italiani e dall’Archivio Segreto Vaticano, mostrano quale efficacia possa raggiungere il dialogo interdisciplinare su questi temi.

Avendo come orizzonte di comprensione tale panorama di studi in piena evoluzione, questo lavoro intende ricostruire il processo di avvicinamento alla costituzione della Filmoteca Vaticana attraverso lo scandaglio di documentazione, in gran parte inedita, proveniente dagli archivi vaticani. Per le analisi al centro del volume ci si è infatti potuti avvalere dell’accesso ai documenti della II Sezione della Segreteria di Stato vaticana, delle carte dell’archivio dell’ex Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali e dell’archivio della Gendarmeria Pontificia, che gettano una luce in buona parte nuova su queste vicende.

Le due parti che compongono il volume hanno un filo narrativo simile, muovendosi a cerchi concentrici da una prima ricognizione generale sull’atteggiamento complessivo verso il cinema tenuto da Pio XII e Giovanni XXIII – il primo e il quarto capitolo –, per poi indagare la declinazione istituzionale di questi approcci, andando infine a puntare il focus dell’analisi sugli specifici passaggi che portarono alla nascita della Filmoteca Vaticana. L’esame delle carte ha infatti reso subito chiaro che, per una efficace comprensione dei motivi alla base della scelta di istituire nel cuore del Vaticano un archivio cinematografico e una sala di proiezione, non si poteva che fare riferimento ai più complessi scenari su cui si stavano muovendo le trasformazioni nel rapporto tra la Santa Sede e il cinema e i mezzi di comunicazione di massa nel loro complesso.

L’articolata fase di organizzazione della Commissione pontificia per il cinema – al centro del secondo capitolo – rivela quanto sul terreno mobile della rapida evoluzione del sistema mediatico si confrontassero due diverse visioni pastorali: l’una più incline ad una centralizzazione e clericalizzazione degli approcci, l’altra più aperta a valorizzare l’esperienza delle Chiese locali e degli organismi internazionali laici: non si trattava in fondo solo di istituzionalizzare la doppia pedagogia di Pio XII verso il cinema attraverso degli organismi che ne universalizzassero la portata e la ricaduta, ma di attrezzarsi con degli strumenti di governo capaci di aiutare nella decifrazione di una società in continuo mutamento, i cui cambiamenti apparivano sempre più connessi alle forme di sviluppo del sistema dei media a livello internazionale.

È in questa fase che emerse il ruolo di figure chiave come Giovanni Battista Montini, Martin J. O’Connor, Albino Galletto e Andrzej M. Deskur: tutte protagoniste in diversi modi del processo che portò alla veloce trasformazione della Commissione pontificia esclusivamente dedicata al cinema fino alla nascita, nel 1954, della Pontificia Commissione per la cinematografia, la radio e la televisione.

Tra queste figure sarà soprattutto Deskur – come si analizza nel terzo capitolo – all’alba degli anni Cinquanta a gestire le primordiali fasi di gestazione di quella che, circa un decennio dopo, sarebbe divenuta la Filmoteca Vaticana. Fu proprio il sacerdote di origini polacche, chiamato nel 1952 a dar man forte a Galletto alla segreteria della Commissione pontificia per il cinema, a render subito più solida l’intuizione di Pio XII di creare un deposito di film nel cuore del Vaticano, accompagnando i primi passaggi che portarono alla costituzione già nel 1953 di una prima cineteca vaticana in un magazzino del vicolo del Perugino.

L’avvento al soglio di Giovanni XXIII fece intravedere subito anche un mutamento d’atteggiamento nella gestione delle prospettive verso il cinema e i media – al centro del quinto capitolo –, le quali tuttavia presentavano anche delle innegabili continuità col pontificato precedente.

Se il motu proprio Boni pastoris del febbraio 1959 rese ancor più solida la posizione della Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione portando per certi versi ad una maggiore centralizzazione della politica vaticana verso i media, la radicale diversità nel personale approccio ai mezzi di comunicazione di massa da parte del papa rispetto ai pontificati che lo avevano preceduto, e le aperture verso il mondo del cinema da lui mostrate negli anni in cui era patriarca di Venezia, suscitarono attese in ogni parte del mondo. Una situazione che indusse in certi ambienti del cinema l’anticipazione e, più volte, il travisamento di segnali di apertura e innovazione, che dovettero essere puntualmente frenati dagli interventi delle autorità vaticane.

È in questo contesto in profonda transizione che prese forma ufficiale – il sesto capitolo – la Filmoteca Vaticana: l’articolato processo di redazione dello statuto che vide protagonista il nipote di Pio XII, Carlo Pacelli, Consigliere generale dello Stato della Città del Vaticano, fu condotto con l’apporto di numerose personalità della Curia vaticana e degli ambienti cattolici romani, tutte decise a conferire al nuovo ente uno status che lo ponesse nel solco delle grandi istituzioni vaticane dedite alla conservazione del patrimonio del passato.

La rapida ricognizione su questi primi sessant’anni di storia della Filmoteca Vaticana che si conduce nell’ultimo capitolo evidenzia la distanza tra le grandi aspettative iniziali e i concreti esiti fino ad oggi effettivamente raggiunti, ma anche le enormi potenzialità di un’istituzione che, come suggerirono i redattori del suo statuto, può senz’altro ancora ambire a onorare la «secolare tradizione della Santa Sede» tesa ad «accogliere i più notevoli documenti di storia e di cultura», gestendo con oculatezza una politica culturale che valorizzi le fonti su cui sempre più in futuro si costruirà la storia del cattolicesimo.

Dario Edoardo ViganòIl cinema dei Papi, Documenti inediti dalla Filmoteca vaticana, Marietti 1820, pp. 178, € 13,00.

settimananeews

Bose: Vivere in Cristo

Settimananews

La vita in Cristo è dimensione fondante ogni esperienza di fede cristiana e tende alla divinizzazione. Le note informative sui lavori del convegno di spiritualità ortodossa (Bose, 4-6 settembre) permettono di evidenziare la ricchezza delle relazioni, la continuità nel tempo dell’iniziativa (27ª convocazione) e la presenza di tutte le anime dell’Ortodossia, nonostante le gravi divisioni in atto. 

“Chiamati alla vita in Cristo”: questo il tema del 27° Convegno internazionale di spiritualità ortodossa che si è tenuto presso la Comunità monastica di Bose dal 4 al 6 settembre scorso.

La Comunità di Bose vuole continuare ad essere un luogo ospitale in cui in cui i cristiani, a qualunque confessione appartengano, possano sentirsi a casa, riflettere insieme, dialogare, gioire insieme e soffrire insieme, e insieme cercare vie di pace per vivere la vocazione cristiana nel mondo.

27 convegno spiritualità ortodossa

Come sempre numerosissimi sono stati i partecipanti, vescovi, preti, monaci e monache, laici provenienti dalle diverse Chiese. Numerosi i membri della Chiesa ortodossa greca e russa, ma anche della Chiesa ortodossa dell’Ucraina, dell’Albania, delle Chiese armena e copta. Tra i partecipanti vi erano anche diversi monaci e monache cattolici, oltre a un discreto numero di laici.

Fratel Luciano, priore della Comunità di Bose, nel saluto iniziale, ha ricordato come la vita in Cristo è la dimensione interiore che fonda ogni comunione ecclesiale, intraecclesiale e interecclesiale.

I lavori del Convegno si sono aperti con la prolusione di fratel Enzo, presidente del comitato scientifico organizzatore dei convegni di spiritualità, il quale ha ricordato come nell’ebraismo e nel cristianesimo la lettura della storia dell’umanità si manifesta come testimonianza di ripetute vocazioni e chiamate da parte di Dio. Dio, anzitutto, chiama all’esistenza le creature del cielo e della terra, chiama l’essere umano alla vita; su questa vocazione alla vita, al lavoro per fare della vita un’opera d’arte, si innesta la vocazione cristiana, la chiamata a vivere «in Cristo».

Come è stato ricordato anche in altre relazioni, la vita cristiana non si riduce a un’etica, è accoglienza della presenza del Cristo dentro di noi fino a raggiungere, come afferma la spiritualità dell’Oriente cristiano, la divinizzazione. Atanasio di Alessandria conia quel detto che verrà ripreso nel corso dei secoli: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio» (L’incarnazione 54,3).

Ci sono ancora profeti?

Le relazioni del primo giorno hanno posto le basi bibliche per l’approfondimento del tema che è stato oggetto di studio nei giorni successivi.

Arsenij Sokolov, biblista e rappresentante del Patriarcato di Mosca a Damasco, ha parlato della vocazione profetica in una bella relazione dal titolo “Le mie parole sulla tua bocca” (Ger 1,9); dopo aver percorso le vocazioni dei profeti nell’Antico Testamento, ha sollevato la domanda attuale e bruciante: «Ci sono ancora profeti tra di noi? Ci sono figure paragonabili ai profeti di Israele, che facciano risuonare nell’oggi l’appello alla santità?».

Il professor John Fotopoulos, dell’Università di Notre Dame (Indiana, USA), si è soffermato sul testo di Paolo nella Lettera ai filippesi 3,13-14: «Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta». Dimenticare il passato non significa perdere le proprie radici ma fare spazio al seme della Parola che è stato seminato in noi, seme di vita nuova, che poco per volta trasforma le nostre vite e fa di noi creature nuove. Il processo di salvezza è dinamico, come diceva Gregorio di Nissa: «si va da inizio a inizio per una serie di inizi che non hanno mai fine» (Omelie sul Cantico dei cantici 8).

Al termine dell’esegesi del passo paolino, il professor Fotopoulos ha osservato come spesso la Chiesa ortodossa sia tentata di volgersi al passato e di non accogliere le sfide del presente. Ci possiamo domandare se questo non sia vero anche per la Chiesa cattolica.

27 congresso di spiritualità ortodossa

L’appello alla vita in Cristo risuona nella Chiesa, corpo di Cristo. Bassam Nassif, docente di teologia pastorale alla Facoltà teologica di Balamand in Libano, ha parlato della Chiesa come Corpo di Cristo e dei carismi del popolo di Dio. Nella Chiesa i doni sono innumerevoli e diversi; tutti vanno vissuti nell’amore e fatti fruttificare per il bene comune; tutti vanno riconosciuti evitando ogni tentazione di clericalismo che riduce il laicato a una «seconda classe».

Due relazioni hanno considerato il rapporto tra le comunità cristiane e le società nelle quali sono chiamate a vivere. I cristiani non possono limitarsi «a un lavoro filantropico o sociale o alla pura celebrazione di liturgie e teleliturgie; devono essere laboratori viventi e operanti per la salvezza e la divinizzazione dell’uomo», ha detto l’Archimandrita Athenagoras Fasiolo.

Questo tema è stato ripreso dal professor Aristotle Papanikolau (Università di Fordham, New York), il quale ha affermato che «la Chiesa e la polis sono spazi distinti e la comunione divino-umana possibile nella polis non può mai coincidere con la sua pienezza realizzata nella Chiesa… è molto forte la tentazione di utilizzare lo stato e il nazionalismo per assicurare il privilegio dell’ortodossia in una società in nome della deificazione della cultura della e della polis. Ma questa è la tentazione di Giuda, non la politica della divinizzazione cui tutti siamo tutti chiamati».

Perdonare Dio?

Altre due relazioni si sono incentrate sul tema della donna nel cristianesimo. Despina Prassas (Providence, RI negli USA) ha parlato degli incontri di Gesù con le donne, fermandosi in particolare sull’incontro con la samaritana di Gv 4, chiamata nella tradizione ortodossa Potheteinί, «donna di luce».

“Il carisma della donna nella Chiesa” è stato il tema trattato da Julija Vidović (Parigi), un tema assai attuale che deve tener conto dello sconvolgimento antropologico in atto, ha osservato la relatrice, e non ricadere in forme di «clericalismo al femminile».

Il metropolita Ilarion di Volokolamsk, confrontando la tradizione orientale (Nicola Cabasila, xiv sec. e Giovanni di Kronstadt, xix sec.) e quella occidentale (L’imitazione di Cristo, xv sec.), ha concluso che «sia la vita in Cristo nella tradizione ortodossa, sia l’imitazione di Cristo nella tradizione cattolica hanno messo in risalto la stessa idea fondamentale, senza la quale non esiste una vera fede cristiana: il centro della vita di un cristiano è la persona viva del Dio-Uomo Gesù Cristo».

E il Cristo che abita in noi è la fonte della nostra speranza, ha ricordato Andrei, metropolita di Cluj, in Romania: «speranza di incontrare Cristo nell’amore», «speranza che ci aiuta a guardare al futuro con fiducia», sapendo che Dio ci attende al termine del nostro cammino.

La santità non è riducibile a un’etica; nella Chiesa cerchiamo la divinizzazione dell’uomo, un modo di esistenza che ci è stato rivelato nel Figlio, ha dichiarato il teologo greco Christos Yannaras. La vita cristiana è una vita «buona e bella».

Sebastian Brock, dell’Università di Oxford, ha parlato di questa bellezza analizzando alcuni testi di Efrem il Siro (iv sec.): «la salvezza è acquisita una volta che lo specchio interiore del cuore si trovi in stato di pulizia tale da riflettere nuovamente la bellezza dell’immagine di Dio con cui gli esseri umani furono originariamente creati».

Stephen Headley, del Patriarcato di Mosca, ha trattato di questo tema a partire dal Typikόn di san Saba (v sec.), mentre Peter Bouteneff (Istituto teologico St Vladimir, Crestwood, USA) si è soffermato su una particolare dimensione della bellezza della vita cristiana: l’esperienza del perdono. Quando la bellezza dell’immagine di Dio è ottenebrata dall’odio e dall’inimicizia, solo il perdono può restaurarla, ricostruire relazioni fraterne, ristabilire in noi il volto di Cristo. «È bello perdonare, è bello essere perdonati»; solo il perdono ricevuto dal Signore ci consente di aprirci al perdono dei fratelli ma, ricordando l’esperienza di Giobbe e di alcuni santi, il relatore ha aggiunto: «Anche noi, a volte, dobbiamo perdonare Dio!». Per dare forma al corpo di Cristo, Dio ha bisogno di noi, vuole aver bisogno di noi, della nostra disponibilità a perdonare.

Maschio/femmina: famiglia/cenobio

La vocazione battesimale, morire a se stessi per vivere in Cristo, viene realizzata in diverse forme di sequela del Signore, nella via del celibato per il Regno e nella via del matrimonio vissuto nella tensione da parte dell’uomo e della donna a diventare uno in Cristo.

Della vocazione monastica hanno parlato padre Porfirije, del Patriarcato di Serbia, per quanto concerne la tradizione ortodossa, e padre Michel van Parys per la tradizione occidentale; quest’ultimo ha ripercorso le tappe del cammino del profeta Elia, tradizionalmente considerato precursore della vita monastica, leggendo in ciascuna di essa i nodi cruciali del cammino monastico.

Nektarios, metropolita dell’Argolide, riflettendo sulla condizione del monachesimo odierno in Grecia, si è interrogato sulla capacità delle guide spirituali di discernere le motivazioni che conducono un giovane a bussare alle porte di un monastero. A volte la vita monastica è soltanto un luogo di rifugio, a volte si accolgono tutti indiscriminatamente, «sacrificando la qualità alla quantità», «facendo violenza alle coscienze».

27 convegno spiritualità ortodossa

Padre Angaelos, vescovo della Chiesa copta a Londra, originario del monastero egiziano di abba Bishoj, ha offerto una viva testimonianza del monachesimo in Egitto, un monachesimo che non è semplicemente «un capitolo all’interno di un libro di storia», ma una realtà tuttora vivace, testimonianza di una vita cristiana che sa andare «controcorrente e presentarsi come controcultura».

Un’altra relazione si è rivolta a un ambito più specifico: “La vocazione del monachesimo accademico”, fermandosi sull’esperienza dell’Accademia teologica di Kiev.

La vocazione alla santità, alla vita in Cristo è vissuta anche nella vita matrimoniale. John Behr (Istituto St Vladimir, New York) ha ricordato come, nella tradizione ortodossa, durante la liturgia nuziale, gli sposi vengono incoronati «perché stanno entrando nel cammino del martirio. Il matrimonio, proprio come il monachesimo, continua la fondamentale vocazione cristiana al martirio e non ha necessità di essere, né dovrebbe essere assimilato al monachesimo».

Geografia ecumenica dei saluti

Numerosi i messaggi di saluto pervenuti dalle diverse Chiese sono stati letti nel corso del convegno. Il Patriarca ecumenico Bartholomeos, il Metropolita Ilarion a nome del Patriarca di Mosca Kirill, il Patriarca di Antiochia Youhanna X, il Patriarca di Alessandria Theodoros II, il Patriarca della Chiesa ortodossa serba Irinej hanno inviato lettere di saluto in cui hanno espresso la loro gratitudine e la loro vicinanza alla Comunità e ai partecipanti al convegno.

Da parte cattolica, papa Francesco ha voluto inviarci la sua benedizione; anche il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e diversi vescovi ci hanno inviato messaggi di saluto.

Fratel Enzo, presidente del Comitato scientifico dei convegni di spiritualità ortodossa, esprimendo il suo ringraziamento innanzitutto al Signore, poi ai relatori e a tutti i partecipanti al convegno, così ha concluso i lavori di questi giorni: «Desideriamo continuare questo umile servizio alle Chiese, un servizio, che crediamo stia nello spazio della fraternità, della stima e dell’amicizia reciproca, dell’attenzione all’altro, un servizio che sta nel proprio della vocazione monastica, in risposta e in puntuale obbedienza al Signore… Un grazie a tutti voi, che ci incoraggiate con la vostra presenza e il vostro amore a perseverare nella comune sequela del Signore».

Il film “UNA CANZONE PER MIO PADRE”, in uscita nelle sale Italiane il 7 Novembre 2019, verrà presentato in anteprima nazionale giovedì 19 settembre, alle ore 15.00

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Arriva in Italia il film-rivelazione che ha già conquistato gli USA, ispirato alla storia vera del cantante Bart Millard. Introducono la proiezione: l’attore e doppiatore Luca Ward, il fondatore della Dominus Production Federica Picchi e numerosi esperti sui temi della prevenzione dalle dipendenze. 

Il film “UNA CANZONE PER MIO PADRE”, in uscita nelle sale Italiane il 7 Novembre 2019, verrà presentato in anteprima nazionale giovedì 19 settembre, alle ore 15.00, presso l’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, a Palazzo Montecitorio.

La pellicola racconta del modo in cui Bart Millard è riuscito a superare le ferite di un’infanzia difficile attraverso un cammino interiore culminato nella scrittura di una canzone di enorme successo, I Can Only Imagine, vincitrice del triplo disco di platino e lungamente in vetta alle classifiche di musica pop e country americane.

L’ingresso è con prenotazione (fino ad esaurimento posti) previa registrazione scrivendo a press@dominusproduction.com oppure chiamando il numero 0550468068 (Lun. -Ven. 8.30-18.00). Priorità sarà riconosciuta agli insegnanti, agli educatori e alla stampa.

“UNA CANZONE PER MIO PADRE” è un film sulla debolezza dell’uomo e sulla sua capacità di riscatto, un riscatto che arriva attraverso la ricerca della bellezza, dentro e fuori di sé. Di questo parleranno gli ospiti che animeranno il dibattito che precederà la proiezione: l’attore Luca Ward, doppiatore di Dennis Quaid, padre del protagonista; il fondatore della Dominus Production e presidente del comitato “Spettacolo e Cultura”, Federica Picchi, che affronterà sia il tema dei messaggi subliminali presenti nei media, sia come gli stessi media possano trasformarsi da strumento negativo a indispensabile ausilio educativo per giovani e adolescenti; il chimico e tossicologo,Daniele Prucher, che illustrerà gli effetti della dipendenze sul cervello e sul comportamento; lo psichiatra e psicologo dell’infanzia e adolescenza, Luciano Gheri, che analizzerà le ricadute psicologiche su chi ha subito violenza da parte di soggetti con dipendenza da alcol o droga, specie quando questi sono figure di riferimento come i genitori; il magistrato Domenico Airoma, Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Napoli, che mostrerà come le dipendenze incidano sull’aumento della criminalità giovanile.

Seguirà alle ore 17, la proiezione del film UNA CANZONE PER MIO PADRE in lingua italiana, di durata 110 minuti.

Per l’importanza del tema affrontato, saranno presenti numerose realtà attive in ambito educativo e sociale. Tra queste menzioniamo: l’Associazione ARTICOLO 26, nella persona della vicepresidente dott.ssa Chiara Iannarelli, la cui missione è la progettazione educativa condivisa tra scuola e famiglia e che sta partecipando attivamente alla distribuzione del film UNA CANZONE PER MIO PADRE nelle scuole;AGISCUOLA, nella persona del presidente dott.ssa Luciana della Fornace, realtà che dal 1985 mette in contatto il mondo della scuola e il mondo dello spettacolo; il MOIGE, nella persona del direttore generale dott. Antonio Affinita, associazione impegnata in ambito sociale ed educativo per la protezione dei minori; NUOVI ORIZZONTI, comunità Internazionale fondata da Chiara Amirante, che da 25 anni si pone l’obiettivo di intervenire in tutti gli ambiti del disagio sociale realizzando azioni di solidarietà a sostegno di chi è in grave difficoltà, con una particolare attenzione alle problematiche che caratterizzano i ragazzi di strada e il mondo giovanile.

UNA CANZONE PER MIO PADRE

Un film dei fratelli Erwin con Dannis Quaid, J. Michael Finley, Madeline Carroll, Priscilla Shirer, Cloris Leachman e Trace Adkins.

Durata 110min | Uscita nazionale 7 Novembre 2019 | DistribuzioneDominus Production

Per maggiori informazioni sul film, visitare la pagina:www.unacanzonepermiopadre.it

MALTEMPO, DA OGGI CALO TEMPERATURE E PIOGGE

ansa

GIU’ ANCHE DI 10 GRADI A CENTRO-NORD E SU ADRIATICO Il clima estivo di questi ultimi giorni ha le ore contate: previsto un brusco calo delle temperature di 7-10 gradi tra oggi e domani al Centro-Nord e sul versante adriatico. Attesi dal pomeriggio rovesci e temporali localmente di forte intensità, talora accompagnati anche da grandinate e da una intensificazione dei venti.