Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania

da Osservatore Romano

Mark jennings, «Spirito Santo»

«Camminare insieme e con tutta la Chiesa» sotto «la luce, la guida e l’irruzione» dello Spirito Santo, per «imparare ad ascoltare e discernere l’orizzonte sempre nuovo che ci vuole donare». È questa la «sinodalità» proposta dal Papa «al popolo di Dio che è in cammino in Germania» nella lunga lettera resa nota la mattina del 29 giugno. Un testo, scritto nell’originale in spagnolo, nel quale il Pontefice offre un contributo di riflessione al percorso sinodale deciso dalla Chiesa tedesca nell’assemblea plenaria tenutasi lo scorso marzo, invitando a considerare «la centralità dell’evangelizzazione e del sensus Ecclesiae come elementi determinanti del nostro dna ecclesiale» ed esortando ad «allargare lo sguardo» per «riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi».

Pubblichiamo di seguito, in una traduzione italiana dall’originale in spagnolo, il testo della «Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania» scritta da Papa Francesco e resa nota nella mattina di sabato 29 giugno.

Lettera del Santo Padre 
al Popolo di Dio 
che è in cammino in Germania

Cari fratelli e sorelle,

La meditazione delle letture del libro degli Atti degli Apostoli che ci è stata proposta nel tempo pasquale mi ha spinto a scrivervi questa lettera. Lì incontriamo la prima comunità apostolica impregnata di quella vita nuova che lo Spirito le ha donato trasformando ogni circostanza in una buona occasione per l’annuncio. I suoi membri avevano perso tutto e alla mattina del primo giorno della settimana, tra la desolazione e l’amarezza, hanno ascoltato dalla bocca di una donna che il Signore era vivo. Nulla e nessuno poteva fermare l’irruzione pasquale nella loro vita ed essi non potevano tacere quello che i loro occhi avevano contemplato e le loro mani toccato (cfr. 1 Gv 1, 1).

In questo clima e con la convinzione che il Signore «sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità»1, desidero avvicinarmi e condividere la vostra preoccupazione riguardo al futuro della Chiesa in Germania. Siamo consapevole che non viviamo solo un tempo di cambiamenti ma un cambiamento di tempo che risveglia nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi. Situazioni e interrogativi di cui ho potuto parlare con i vostri pastori nella passata visita Ad limina e che sicuramente continuano a risuonare in seno alle vostre comunità. Come in quella occasione, vorrei offrivi il mio sostegno, stare più vicino a voi per camminare al vostro fianco e promuovere la ricerca per rispondere con parresia alla situazione presente.

1. Con gratitudine guardo questa rete capillare di comunità, parrocchie, cappelle, scuole, ospedali, strutture sociali che avete tessuto nel corso della storia e che sono testimonianza della fede viva che li ha sostenuti, nutriti e vivificati durante varie generazioni. Una fede che ha attraversato momenti di sofferenza, confronto e tribolazione, ma pure di costanza e vitalità e che si dimostra ancora oggi ricca di frutti in tante testimonianze di vita e opere di carità. Le comunità cattoliche tedesche, nella loro diversità e pluralità, sono riconosciute in tutto il mondo per il loro senso di corresponsabilità e una generosità che ha saputo tendere la mano e accompagnare l’avvio di processi di evangelizzazione in regioni abbastanza sommerse e carenti di possibilità. Tale generosità si è manifestata nella storia recente non solo come aiuto economico-materiale, ma anche condividendo, nel corso degli anni, numerosi carismi e persone: sacerdoti, religiose, religiosi e laici che hanno svolto, in modo fedele e instancabile, il loro servizio e la loro missione in situazioni spesso difficili2. Hanno donato alla Chiesa universale grandi santi e sante, teologi e teologhe, come pure pastori e laici che hanno contribuito a far sì che l’incontro tra il Vangelo e le culture potesse raggiungere nuove sintesi capaci di risvegliare il meglio di entrambi3 ed essere offerte alle nuove generazioni con lo stesso ardore degli inizi. Il che ha comportato un notevole sforzo per individuare risposte pastorali all’altezza delle sfide che si presentavano loro.

È degno di nota il cammino ecumenico che stanno realizzando e del quale abbiamo potuto vedere i frutti durante la commemorazione del 500° anniversario della Riforma, un cammino che permette d’incentivare le istanze di preghiera, di scambio culturale e l’esercizio della carità, capace di supere i pregiudizi e le ferite del passato, permettendo di celebrare e di testimoniare meglio la gioia del Vangelo.

2. Oggi, tuttavia, concordo con voi su quanto sia doloroso constatare la crescente erosione e il decadimento della fede con tutto ciò che questo comporta a livello non solo spirituale, ma anche sociale e culturale. Situazione che è visibile e si constata, come già ha saputo segnalare Benedetto XVI, non solo «nell’Est, dove, come sappiamo, la maggioranza della popolazione non è battezzata e non ha alcun contatto con la Chiesa e, spesso, non conosce affatto né Cristo né la Chiesa»4, ma anche nelle cosiddette «regioni di tradizione cattolica [dove c’è] un calo molto forte della partecipazione alla Messa domenicale, nonché della vita sacramentale»5. Un deterioramento, certo sfaccettato e di non facile e rapida soluzione, che chiede un approccio serio e consapevole che ci spinga a diventare, alle soglie della storia presente, come quel mendicante, per ascoltare le parole dell’apostolo: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3, 6).

3. Per affrontare questa situazione, i vostri pastori hanno suggerito un cammino sinodale. Che cosa significa in concreto e come si svilupperà è qualcosa che indubbiamente si sta ancora considerando. Da parte mia ho espresso le mie riflessioni sulla sinodalità della Chiesa in occasione della celebrazione dei cinquant’anni del sinodo dei vescovi6. In sostanza si tratta di un synodos sotto la guida dello Spirito Santo, ossia camminare insieme e con tutta la Chiesa sotto la sua luce, la sua guida e la sua irruzione, per imparare ad ascoltare e discernere l’orizzonte sempre nuovo che ci vuole donare. Perché la sinodalità presuppone e richiede l’irruzione dello Spirito Santo.

Nella recente assemblea plenaria dei Vescovi italiani ho avuto l’opportunità di ribadire tale realtà centrale per la vita della Chiesa apportando la duplice prospettiva che questa opera: «sinodalità dal basso in alto, ossia il dover curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento dei laici… (cfr. ccc 469-494), incominciare dalle diocesi: non si può fare un grande sinodo senza andare alla base…; e poi la sinodalità dall’alto in basso», che permette di vivere in modo specifico e singolare la dimensione collegiale del ministero episcopale e dell’essere ecclesiale7. Solo così possiamo raggiungere e prendere decisioni su questioni essenziali per la fede e la vita della Chiesa. Il che sarà effettivamente possibile se ci decideremo a camminare insieme con pazienza, unzione e con l’umile e sana convinzione che non potremo mai rispondere contemporaneamente a tutte le domande e i problemi. La Chiesa è e sarà sempre pellegrina nella storia, portatrice di un tesoro in vasi di creta (cfr. 2 Cor 4, 7). Ciò ci ricorda che non sarà mai perfetta in questo mondo e che la sua vitalità e la sua bellezza stanno nel tesoro del quale è costitutivamente portatrice8.

Gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono, affinché ne possa derivare un sano aggiornamento, «una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni»9. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come Popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati.

4. In tal senso, avvolti in serie e inevitabili analisi, si può cadere in sottili tentazioni alle quali ritengo necessario prestare attenzione e cura, poiché, lungi dall’aiutarci a camminare insieme, ci manterranno aggrappati e installati in ricorrenti schemi e meccanismi che finiranno col snaturare o limitare la nostra missione; e per di più con l’aggravante che se non ne saremo consapevoli, potremo finire col girare attorno a un complicato gioco di argomentazioni, disquisizioni e risoluzioni che non faranno altro che allontanarci dal contatto reale e quotidiano con il popolo fedele e il Signore.

5. Accettare e sopportare la situazione attuale non implica passività o rassegnazione, e ancor meno negligenza; al contrario, presuppone un invito a prendere contatto con quello che in noi e nelle nostre comunità è necrotico e ha bisogno di essere evangelizzato e visitato dal Signore. E ciò richiede coraggio perché quello di cui abbiamo bisogno è molto più di un cambiamento strutturale, organizzativo o funzionale.

Ricordo che nell’incontro che ho avuto con i vostri pastori nel 2015 ho detto loro che una delle prime e grandi tentazioni a livello ecclesiale era credere che le soluzioni ai problemi presenti e futuri sarebbero venute solo da riforme puramente strutturali, organiche o burocratiche, ma che, alla fine della giornata, non avrebbero toccato affatto i nuclei vitali che esigono attenzione. «Si tratta di una sorta di nuovo pelagianesimo, che ci porta a riporre la fiducia nelle strutture amministrative, nelle organizzazioni perfette. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria (cfr. Evangelii gaudium, n. 32)».10

Alla base di questa tentazione c’è il pensare che, di fronte a tanti problemi e carenze, la risposta migliore sarebbe riorganizzare le cose, fare cambiamenti e specialmente “rammendi” che consentano di mettere in ordine e in sintonia la vita della Chiesa adattandola alla logica presente o a quella di un gruppo particolare. Seguendo questo cammino potrebbe sembrare che tutto si risolverà e le cose si rincanaleranno se la vita ecclesiale entrerà in un “determinato” nuovo e antico ordine che metta fine alle tensioni proprie del nostro essere umani e a quelle che il Vangelo vuole suscitare.11

Seguendo questo cammino la vita ecclesiale potrebbe eliminare tensioni, stare «in ordine e in sintonia», ma significherebbe solo, con il tempo, addormentare e addomesticare il cuore del nostro popolo e diminuire, fino a farla tacere, la forza vitale ed evangelica che lo Spirito vuole donare. «Questo sarebbe il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano anti-evangelico».12 Si avrebbe un buon corpo ecclesiale ben organizzato e persino “modernizzato”, ma senza anima e novità evangelica; vivremmo un cristianesimo “gassoso”, senza sapore evangelico.13 «Oggi siamo chiamati a gestire lo squilibrio. Non possiamo fare qualcosa di buono, evangelico se abbiamo paura dello squilibrio».14 Non possiamo dimenticare che ci sono tensioni e squilibri che hanno sapore di Vangelo e che è imprescindibile mantenere perché sono annunciò di vita nuova.

6. Per questo mi sembra importante non perdere di vista quello che «la Chiesa ha insegnato numerose volte: che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa».15 Senza questa dimensione teologale, nelle diverse innovazioni e proposte che si realizzeranno, ripeteremo ciò che oggi sta impedendo, alla comunità ecclesiale, di annunciare l’amore misericordioso del Signore. Il modo in cui si affronterà la situazione attuale determinerà i frutti che si svilupperanno in seguito. Per questo chiedo che si faccia in chiave teologale affinché il Vangelo della Grazia, con l’irruzione dello Spirito Santo, sia la luce e la guida per affrontare queste sfide. Ogni volta che la comunità ecclesiale ha cercato di uscire da sola dai suoi problemi, confidando e focalizzandosi esclusivamente sulle proprie forze o i propri metodi, sulla sua intelligenza, la sua volontà o prestigio, ha finito con l’aumentare e perpetuare i mali che cercava di risolvere. Il perdono e la salvezza non sono qualcosa che dobbiamo comprare o «che dovremmo acquisire con le nostre opere o i nostri sforzi. Egli ci perdona e ci libera gratuitamente. Il suo donarsi sulla croce è qualcosa di così grande che noi non possiamo né dobbiamo pagarlo, dobbiamo soltanto accoglierlo con immensa gratitudine e con la gioia di essere amati così tanto prima di poterlo immaginare».16

Lo scenario presente non ha il diritto di farci perdere di vista il fatto che la nostra missione non poggia su previsioni, calcoli o indagini ambientali incoraggianti o scoraggianti, né a livello ecclesiale, né a livello politico o economico o sociale. E neanche sui risultati positivi dei nostri piani pastorali.17 Tutte queste cose è importante valorizzarle, ascoltarle, rifletterci sopra e prestare loro attenzione, ma di per sé non esauriscono il nostro essere credente. La nostra missione e ragion d’essere consiste nel fatto che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). «Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo».18

Quindi la trasformazione da operare non può rispondere solo in reazione a dati o esigenze esterne, come potrebbero essere il forte calo delle nascite e l’invecchiamento delle comunità, che non permettono di visualizzare un ricambio generazionale. Cause oggettive e valide, che viste però isolatamente, fuori dal mistero ecclesiale, favorirebbero e stimolerebbero un atteggiamento reazionario (tanto positivo quanto negativo) dinanzi ai problemi. La vera trasformazione risponde e comporta anche esigenze che nascono dal nostro essere credenti e dalla stessa dinamica evangelizzatrice della Chiesa; esige la conversione pastorale. Ci viene chiesto un atteggiamento che, cercando di vivere e di far trasparire il Vangelo, rompa con «il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità».19 La conversione pastorale ci ricorda che l’evangelizzazione deve essere il nostro criterio-guida per eccellenza, in base al quale discernere tutti i passi che siamo chiamati a compiere come comunità ecclesiale; l’evangelizzazione costituisce la missione essenziale della Chiesa.20

7. È pertanto necessario, come hanno ben segnalato i vostri pastori, recuperare il primato dell’evangelizzazione per guardare al futuro con fiducia e speranza perché «evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore».21

L’evangelizzazione, così vissuta, non è una tattica di riposizionamento ecclesiale nel mondo di oggi o un atto di conquista, dominio o espansione territoriale; non è neppure un “ritocco” che l’adatta allo spirito del tempo, ma che le fa perdere la sua originalità e profezia; e non è neppure la ricerca di recuperare abitudini o pratiche che davano un senso in un altro contesto culturale. No. L’evangelizzazione è un cammino discepolare di risposta e conversione nell’amore a Colui che ci ha amati per primo (cfr.1 Gv 4, 19); un cammino che renda possibile una fede vissuta, sperimentata, celebrata e testimoniata con gioia. L’evangelizzazione ci porta a recuperare la gioia del Vangelo, la gioia di essere cristiani. È indubbio, ci sono momenti duri, tempi di croce, ma nulla può distruggere la gioia soprannaturale, che si adatta, si trasforma e rimane sempre, almeno come un’esplosione di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amati, al di là di tutto. L’evangelizzazione genera sicurezza interiore, una serenità speranzosa che offre la sua soddisfazione spirituale incomprensibile ai parametri umani.22 Il cattivo umore, l’apatia, l’amarezza, il disfattismo, come pure la tristezza, non sono buoni segni né buoni consiglieri; non solo, ci sono volte in cui «la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio».23

8. Ecco perché la nostra preoccupazione principale deve incentrarsi su come condividere questa gioia aprendoci e andando incontro ai nostri fratelli, soprattutto a quelli che sono abbandonati sulla soglia delle nostre chiese, in strada, in carceri e ospedali, piazze e città. Il Signore è stato chiaro: «Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più» (Mt 6, 33). Uscire a ungere con lo spirito di Cristo tutte le realtà terrene, nei loro molteplici crocevia, soprattutto lì «dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città».24 Contribuire a far sì che la Passione di Cristo tocchi in modo reale e concreto le molteplici passioni e situazioni in cui il suo Volto continua a soffrire a causa del peccato e dell’iniquità. Passione che possa smascherare le vecchie e nuove schiavitù che feriscono l’uomo e la donna, specialmente oggi che vediamo rinascere discorsi xenofobi, e promuovono una cultura basata sull’indifferenza e la chiusura, come pure sull’individualismo e l’espulsione. E, a sua volta, sia la Passione del Signore a risvegliare nelle nostre comunità e, soprattutto nei più giovani, la passione per il suo Regno.

Questo ci chiede di «sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo».25

Dovremmo pertanto domandarci che cosa lo Spirito di oggi dice alla Chiesa (Ap 2, 7), riconoscere i segni dei tempi,26 il che non è sinonimo di adattarsi semplicemente allo spirito dei tempi e basta (Rom 12, 2). Tutte queste dinamiche di ascolto, riflessione e discernimento hanno come obiettivo rendere la Chiesa ogni giorno più fedele, disponibile, agile e trasparente, per annunciare la gioia del Vangelo, base sulla quale possono pian piano trovare luce e risposta tutte le questioni.27 Le sfide ci sono per essere superate. Dobbiamo essere realisti ma senza perdere la gioia, l’audacia e la dedizione speranzosa. «Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!».28

9. Il Concilio Vaticano II ha segnato un importante passo nella presa di coscienza che la Chiesa ha sia di se stessa sia della sua missione nel mondo contemporaneo. Questo cammino, iniziato più di cinquant’anni fa, continua a spronarci nella sua ricezione e sviluppo, e non è ancora giunto a termine, soprattutto rispetto alla sinodalità che si deve operare ai diversi livelli della vita ecclesiale (parrocchia, diocesi, nell’ordine nazionale, nella Chiesa universale, come pure nelle diverse congregazioni e comunità). Tale processo, specialmente in questi tempi di forte tendenza alla frammentazione e alla polarizzazione, esige di sviluppare e vegliare affinché il Sensus Ecclesiae viva anche in ogni decisione che prendiamo e nutra tutti i livelli. Si tratta di vivere e di sentire con la Chiesa e nella Chiesa, il che, in non poche situazioni, ci porterà anche a soffrire nella Chiesa e con la Chiesa. La Chiesa universale vive in e delle Chiese particolari,29 così come le Chiese particolari vivono e fioriscono in e dalla Chiesa Universale, e se si ritrovano separate dall’intero corpo ecclesiale, si debilitano, marciscono e muoiono. Da qui il bisogno di mantenere sempre viva ed effettiva la comunione con tutto il corpo della Chiesa, che ci aiuta a superare l’ansia che ci rinchiude in noi stessi e nelle nostre particolarità, al fine di poter guardare negli occhi, ascoltare o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto sul ciglio della strada. A volte questo atteggiamento si può manifestare in un minimo gesto, come quello del padre verso il figliol prodigo, che lascia le porte aperte affinché, quando tornerà, possa entrare senza difficoltà.30 Ciò non è sinonimo di non camminare, avanzare, cambiare e persino non dibattere o dissentire, ma è semplicemente la conseguenza del saperci costitutivamente parte di un corpo più grande che ci vuole e ci aspetta, e che ha bisogno di noi, e che anche noi vogliamo e aspettiamo, e di cui abbiamo bisogno. È il gusto di sentirci parte del santo e paziente Popolo fedele di Dio.

Le sfide che abbiamo tra le mani, le diverse questioni e domande da affrontare non possono essere ignorate o dissimulate: devono essere assunte, ma facendo attenzione a non restare intrappolati in esse, perdendo prospettiva, limitando l’orizzonte e frammentando la realtà. «Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà».31 In tal senso, il Sensus Ecclesiae ci dona un orizzonte ampio di possibilità, da dove cercare di rispondere alle questioni urgenti, e inoltre ci ricorda la bellezza del volto pluriforme della Chiesa.32 Volto pluriforme non solo da una prospettiva spaziale nei suoi popoli, razze, culture,33 ma anche dalla sua realtà temporale, che ci permette di immergerci nelle fonti della più viva e piena Tradizione, la quale ha la missione di mantenere vivo il fuoco più che di conservare le ceneri34 e permette a tutte le generazioni di riaccendere, con l’assistenza dello Spirito Santo, il primo amore.

Il Sensus Ecclesiae ci libera dai particolarismi e dalle tendenze ideologiche per farci assaporare la certezza del Concilio Vaticano II quando affermava che l’Unzione del Santo (1 Gv 2, 20 e 27) appartiene alla totalità dei fedeli.35 La comunione con il santo Popolo fedele di Dio, portatore dell’Unzione, mantiene viva la speranza e la certezza di sapere che il Signore cammina al nostro fianco ed è Lui a sostenere i nostri passi. Un sano camminare insieme deve far trasparire questa convinzione, cercando i meccanismi affinché tutte le voci, specialmente quella dei più semplici e umili, abbiano spazio e visibilità. L’Unzione del Santo che è stata effusa su tutto il corpo ecclesiale «distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui (1 Cor 12, 11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: “A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio” (1 Cor 12, 7)».36 Ciò ci aiuta a stare attenti a quell’antica e sempre nuova tentazione dei promotori dello gnosticismo che, volendo farsi un nome proprio e diffondere la loro dottrina e fama, cercavano di dire sempre qualcosa di nuovo e di diverso da quello che la Parola di Dio donava loro. È ciò che san Giovanni descrive con il termine proagon, colui che va oltre, l’innovatore (2 Gv, 5. 9), il quale pretende di andare al di là del noi ecclesiale che preserva dagli eccessi che attentano alla comunità.37

10. Pertanto vegliate e siate attenti dinanzi a ogni tentazione che porta a ridurre il Popolo di Dio a un gruppo illuminato, che non permette di vedere, assaporare e ringraziare per quella santità effusa, e che vive «nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere… In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio».38 Questa è la santità che protegge e che ha sempre salvaguardato la Chiesa da ogni riduzione ideologica scientificista e manipolatrice. Santità che evoca, ricorda e invita a sviluppare quello stile mariano nell’attività missionaria della Chiesa capace di articolare la giustizia con la misericordia, la contemplazione con l’azione, la tenerezza con la convinzione. «Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti».39

Nella mia terra natale, esiste un suggestivo e potente detto che può illuminare: «I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge; siano uniti veramente in ogni momento perché se lottano tra di loro li divoreranno quelli di fuori».40 Fratelli e sorelle, prendiamoci cura gli uni degli altri e facciamo attenzione alla tentazione del padre della menzogna e della divisione, al maestro della separazione che, spronando a cercare un apparente bene o risposta a una determinata situazione, finisce col frammentare di fatto il corpo del santo Popolo fedele di Dio. Come corpo apostolico, camminiamo e camminiamo insieme, ascoltandoci a vicenda sotto la guida dello Spirito Santo, anche se non la pensiamo allo stesso modo, a partire dalla sapiente convinzione che «la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».41

11. La prospettiva sinodale non cancella gli antagonismi o le perplessità, né i conflitti restano subordinati a risoluzioni sincretiste di “buon consenso” o risultanti dall’elaborazione di censimenti o indagini su questo o quell’altro tema. Ciò sarebbe molto riduttivo.

La sinodalità, con lo sfondo e la centralità dell’evangelizzazione e delSensus Ecclesiae come elementi determinanti del nostro dna ecclesiale, esige di assumere coscientemente un modo di essere Chiesa in cui «il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma… Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti… Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia».42

12. Questo richiede in tutto il Popolo di Dio, e specialmente nei suoi pastori, uno stato di veglia e di conversione che permetta di mantenere vive e operanti tali realtà. Veglia e conversione sono doni che solo il Signore ci può regalare. A noi basta chiedere la sua grazia per mezzo della preghiera e del digiuno. Mi ha sempre colpito come, durante la sua vita, specialmente nei momenti delle grandi decisioni, il Signore sia stato particolarmente tentato. La preghiera e il digiuno hanno avuto un posto speciale nel determinare tutto il suo agire successivo (cfr. Mt 4, 1-11). Neanche la sinodalità può sfuggire a questa logica, e deve essere sempre accompagnata dalla grazia della conversione affinché il nostro operato personale e comunitario possa rappresentare e assomigliare sempre più a quello della kenosis di Cristo (cfr. Fil 2, 1-11). Parlare, agire, e rispondere come Corpo di Cristo significa anche parlare e agire alla maniera di Cristo, con i suoi stessi sentimenti, modi e priorità. Pertanto la grazia della conversione, seguendo l’esempio del Maestro che «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 7), ci libera da falsi e sterili protagonismi, ci allontana dalla tentazione di rimanere in posizioni protette e agevoli e c’invita ad andare nelle periferie per incontrarci e ascoltare meglio il Signore.

Questo atteggiamento di kenosis di consente anche di sperimentare la forza creativa e sempre ricca della speranza che nasce dalla povertà evangelica a cui siamo chiamati, che ci rende liberi per evangelizzare e testimoniare. Così permetteremo allo Spirito di rinfrescare e rinnovare la nostra vita liberandola dalle schiavitù, inerzie e convenienze circostanziali che impediscono di camminare e specialmente di adorare. Perché adorando l’uomo compie il suo dovere supremo ed è capace d’intravedere la luce futura, quella che ci aiuta ad assaporare la nuova creazione.43

Senza questa dimensione, corriamo il rischio di partire da noi stessi e dall’ansia di autogiustificazione e autopreservazione che ci porterà a realizzare cambiamenti e aggiustamenti, ma a metà strada, i quali, lungi dal risolvere i problemi, finiranno con l’avvolgerci in una spirale senza fine che uccide e soffoca l’annuncio più bello, liberatore e promettente che abbiamo e che dà senso alla nostra esistenza: Gesù Cristo è il Signore. Abbiamo bisogno di preghiera, penitenza e adorazione che ci rendano capaci di dire come il pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc18, 13); non come atteggiamento ingenuo, puerile o pusillanime, ma con il coraggio di aprire la porta e vedere ciò che normalmente è celato dalla superficialità, dalla cultura del benessere e dall’apparenza.44

In fondo, questi atteggiamenti, vere medicine spirituali (la preghiera, la penitenza e l’adorazione), permetteranno di sperimentare di nuovo che essere cristiano è sapersi beato e, pertanto, portatore di beatitudine per gli altri; essere cristiano è appartenere alla Chiesa delle beatitudini per i beati di oggi: i poveri, quanti hanno fame, quanti piangono, sono odiati, esclusi e insultati (cfr. Lc 6, 20-23). Non dimentichiamoci che «Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina… Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente».45

13. Cari fratelli e sorelle, so della vostra costanza e di quello che avete sofferto e soffrite, senza venir meno, per il nome del Signore; so anche del vostro desiderio e voglia di ravvivare ecclesialmente il primo amore (cfr.Ap 2, 1-5) con la forza dello Spirito, che non spezza la canna incrinata, né spegne uno stoppino che arde debolmente (cfr. Is 42, 3), affinché nutra, vivifichi e faccia fiorire il meglio del nostro popolo. Desidero camminare e camminare al vostro fianco, con la certezza che, se il Signore ci ha ritenuti degni di vivere questo momento, non lo ha fatto per mortificarci o paralizzarci di fronte alle sue sfide, ma per far sì che la sua Parola, ancora una volta, provochi e faccia ardere il cuore come lo ha fatto con i vostri padri, di modo che i vostri figli e le vostre figlie abbiano visioni e i vostri anziani tornino a fare sogni profetici (cfr. Gl 3, 1). Il suo amore «ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!».46

E, per favore, vi chiedo di pregare per me.

Vaticano, 29 giugno 2019

Francesco

La Chiesa in Australia interviene su nativi e rifugiati. Sforzo comune contro ogni ingiustizia


L’Osservatore Romano 

In Australia parte del successo di una politica a favore del bene comune dipende anche dal modo in cui la società tratta due specifiche minoranze: gli aborigeni e i rifugiati, cioè i primi e gli ultimi ad arrivare in questa isola, sottolinea una responsabile dell’Australian catholic social justice council (Acsjc). 
Sandie Cornish, docente all’Australian catholic university, sottolinea con favore come il tema dell’annuale Settimana della riconciliazione nazionale — «Walk together in courage» — abbia ricordato «l’importanza fondamentale della verità nelle nostre vite spirituali e nella vita della nostra società». In particolare, spiega la Cornish, «il riconoscimento del nostro peccato personale e sociale e del danno che abbiamo fatto, precede e apre la strada al pentimento, agli sforzi per rendere le cose giuste, alla conversione e all’impegno per il cambiamento».
Il 97 per cento della popolazione in Australia è di origine europea o asiatica: gli aborigeni, cioè gli antichi abitanti prima della colonizzazione, sono il restante tre per cento. Essi soffrono dei maggiori tassi di disoccupazione, carcerazione e abuso di droghe. Nel 2001 Giovanni Paolo II aveva chiesto perdono agli aborigeni per le «vergognose ingiustizie» subite, in modo particolare dalla «generazione rubata», ovvero le decine di migliaia di bambini sottratti ai loro genitori per essere affidati a famiglie bianche, dove non pochi subirono abusi. Sette anni dopo, nel maggio del 2008, il primo ministro Kevin Rudd, appena eletto, aveva presentato delle scuse ufficiali agli aborigeni per le storiche ingiustizie subite dopo che numerose organizzazioni di nativi avevano chiesto il riconoscimento ufficiale dei torti commessi nei confronti del loro popolo.
Il fatto che gli aborigeni continuino a essere «protagonisti in negativo di così tanti indicatori socioeconomici e sanitari», afferma la Cornish, «ha radici nelle ingiustizie storiche che devono essere riconosciute e affrontate al fine di apportare cambiamenti duraturi». I popoli indigeni e i rifugiati ci ricordano che «tutti devono essere inclusi nel bene comune, che dopo tutto è il bene di tutti noi», conclude la responsabile dell’Acsjc, secondo la quale «la misura in cui questo è vero è la misura della giustizia della nostra società».
Pochi giorni fa erano stati i servizi sociali cattolici del paese a ricordare che «il successo di una nazione non è misurato dalla ricchezza di pochi, ma dalla prosperità di tutti». «Nonostante i numerosi traguardi raggiunti dal nostro paese, la tutela della dignità di ogni australiano non è tra questi — sottolineava l’istituzione in una nota — ed esortiamo pertanto i cittadini a utilizzare il proprio voto per affidare il prossimo mandato a politici che si impegnino nell’attuazione di misure sociali ed economiche eque e giuste, per migliorare la vita dei più deboli e proteggere la dignità di tutti gli australiani». Nel documento si chiedeva tra le altre cose una maggiore attenzione dei politici a favore della responsabilizzazione e dell’autodeterminazione dei nativi, attraverso una collaborazione e una vera partnership con le popolazioni aborigene e gli indigeni dello Stretto di Torres, oltre al reinserimento di tutti i rifugiati rimasti sulle isole di Manus e Nauru.
La questione delle politiche pubbliche sui rifugiati e gli aborigeni è stata anche al centro della Dichiarazione sulla giustizia sociale 2018-2019 della Conferenza episcopale australiana, che si è concentrata in particolare sul problema dell’alloggio. Nel testo, i vescovi ricordano che gli aborigeni rappresentano il 20 per cento dei senza fissa dimora. Molti indigeni australiani spesso sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni sul mercato degli affitti privati. Inoltre, la mancanza di alloggi accessibili e appropriati spesso porta al sovraffollamento. I rifugiati o richiedenti asilo sono altrettanto vulnerabili. Sono tanti ad arrivare in Australia con poche risorse finanziarie. La discriminazione, combinata a una scarsa padronanza della lingue inglese e alla disoccupazione, rendono anche più difficile la ricerca di una casa.
L’Osservatore Romano, 1° – 2 luglio 2019

Lettera pastorale sui suicidi tra gli aborigeni. Per arginare il dolore

L’Osservatore Romano 

L’aumento dei suicidi tra gli aborigeni, soprattutto giovani, ha spinto i vescovi australiani a dedicare loro una lettera pastorale in occasione della giornata per le popolazioni indigene e gli isolani dello Stretto di Torres che si svolgerà il 7 luglio, in cui si esortano tutti, laici e cattolici, a fare il possibile per arginare questo tragico fenomeno.
«Il suicidio è spesso l’ultima goccia di un accumulo di infelicità e dolore — è scritto nella lettera — conseguenza di espropriazioni, deportazioni e violenze subite dagli aborigeni e dagli isolani dello stretto di Torres che non può lasciarci indifferenti ma ci spinge all’azione». Per questo esistono molte realtà in Australia che si adoperano per fronteggiare la situazione, tra cui enti governativi, comunità, organizzazioni della Chiesa e altri gruppi. Con una tale sinergia, spiegano i presuli nel documento, è possibile porre un freno ai suicidi, seguendo anche cinque principi-chiave: l’incoraggiamento alla collaborazione per ottimizzare i risultati da parte delle organizzazioni già coinvolte; un reale rispetto del principio di autodeterminazione; il primato del bene comune al centro di tutti gli sforzi; una reale motivazione a migliorare le condizioni di questi popoli, senza secondi fini; la consapevolezza che prevenzione e cura sono entrambe necessarie. Una parte della lettera è stata inclusa all’interno di un video, pubblicato sulle principali piattaforme social dei network cattolici, al fine di garantire una maggiore diffusione del messaggio.
L’Osservatore Romano, 1° – 2 luglio 2019 

Che pace sia. Il Consiglio nazionale delle chiese in Corea sta promuovendo una nuova Campagna di sensibilizzazione per giungere a un vero Trattato di pace


riforma.it 

Il Consiglio nazionale delle chiese in Corea sta promuovendo una nuova campagna di sensibilizzazione per giungere al più presto a un vero di Trattato di pace e per chiedere che questo sia esteso a Costantinopoli, alla Russia e a tutta l’Europa orientale nell’arco del 2019. L’obiettivo, è mettere la parola «fine» alla «guerra di Corea»

Una chiesa fresca dove pregare, altro che i centri commerciali

Il post che commento oggi è lieve quanto un filo di vento. Dice testualmente: «In questi giorni in cui si sfiorano i 40 gradi la nostra chiesa si mantiene sui 25 gradi. È possibile recitare una preghiera rimanendo anche un po’ al fresco». È comparso sulla pagina Facebook (tinyurl.com/yxpc7p7d ) della chiesa della Salute di Torino lo scorso 27 giugno (me lo ha segnalato la collega Francesca Lozito, piemontese di ritorno). La chiesa in questione è un santuario costruito all’inizio del Novecento, ma ben piantato, per ubicazione e per vocazione, dentro alla storia della città. Si trova a Borgo Vittoria, zona che vide sventata nel 1706 la minaccia dell’assedio francese. È dei Giuseppini, la congregazione fondata da san Leonardo Murialdo, “prete sociale” del XIX secolo, del quale custodisce da quasi 50 anni le spoglie mortali. Oggi, come raccontano sia i social network sia il sito ( tinyurl.com/y2rthv2d ), è una parrocchia molto viva. Che, a quanto pare (la foto che accompagna il testo mostra inequivocabilmente un vecchio termometro da ambiente inchiodato sulla temperatura promessa), può vantare anche una chiesa fresca. La bellezza del post, nella sua semplicità, sta nel fatto che non si accontenta di fare una battuta: vieni qui che stai al fresco. Chi entrerà nella chiesa non potrà esimersi dal pregare, perché quella è la casa del Signore. Tuttavia, aggiungendo all’invito alla preghiera la promessa di un po’ di sollievo dalla straordinaria calura di questi giorni, è come se volesse sottolineare che la salute fisica che si troverà sarà un anticipo di quella spirituale (non c’è forse la «salute» nel titolo mariano del santuario?). Mi vengono in mente, per contrasto, i grandi centri commerciali, veri e propri templi del consumo, laddove anche il fresco è frutto di artificiali climatizzatori sparati “a palla”, e dai quali difficilmente, malgrado i carrelli pieni, si esce più sollevati, fisicamente e spiritualmente, di come si è entrati. Meglio allora rifugiarsi tra i vecchi muri, spessi e solidi, di una chiesa.

avvenire

Il convegno. La Fai Cisl: occorre sostenere la montagna

A Dobbiaco inizia la due giorni di lavoro. Il segretario Rota: “Serve una fiscalità differenziata per le persone e le imprese che vivono e operano nei territori di montagna, altro che flat tax”

Il logo della manifestazione

Il logo della manifestazione

da Avvenire

Si è svolta oggi la prima sessione della due giorni voluta dalla Fai Cisl per fare il punto sul lavoro ambientale e il sistema della montagna. Il meeting, in corso a Dobbiaco, Bolzano, si è aperto con i saluti del Segretario generale della Fai Cisl Alto Adige,
Stefan Federer, e con un intervento del Segretario generale della Fai Cisl nazionale, Onofrio Rota, che parlando del comparto forestale ha subito espresso il pieno sostegno allo sciopero regionale che si terrà in Campania il 12 luglio: “La dignità dei lavoratori – ha detto Rota – non può essere calpestata, alcuni non percepiscono lo stipendio da un anno, saremo in piazza nella mobilitazione unitaria per ribadire che ai 4 mila lavoratori coinvolti non bastano più le tante promesse fatte dalla Regione”.

Il leader della federazione agroalimentare ha parlato anche del rinnovo contrattuale: “Per gli operai idraulico-forestali vogliamo valorizzare la riapertura del tavolo di trattativa con l’Uncem, finalmente avvenuta dopo anni di blocco istituzionale. Occorre avviare al più presto una negoziazione e rinnovare il contratto nazionale, bisogna capire che il contratto non è solo stipendio, è anche
welfare, è crescita degli enti bilaterali, è democrazia, è fonte di ricchezza per tutti, e questo vale per i forestali così come per gli allevatori e per tutte le altre categorie”.

Spiegando le diverse proposte del sindacato per il sostegno alla montagna, il leader della Fai ha commentato anche il dibattito sulla flat tax: “Serve una fiscalità differenziata per le persone e le imprese che vivono e operano nei territori di montagna, altro che flat tax. Anziché tagliare le tasse con aliquote separate con l’accetta, mortificando il principio di progressività, che è anche inscritto nella nostra Costituzione, si dovrebbe agire per modulare in maniera più mirata una fiscalità di vantaggio per chi sta nei territori più impervi e vulnerabili, contrastando lo spopolamento delle aree interne e l’abbandono delle terre”.

Un momento del convegno di Fai Cisl, con l'intervento del segretario Onofrio Rota

Un momento del convegno di Fai Cisl, con l’intervento del segretario Onofrio Rota

È intervenuto poi Stefano Lucchini, Vicepresidente Uncem Friuli Venezia Giulia, che ha ricordato alcune delle principali difficoltà delle amministrazioni locali nelle zone montuose, sottolineando le grandi opportunità occupazionali derivanti dalle risorse boschive, troppo spesso concepite più come problema che come ricchezza. Un sollecito da Lucchini è stato fatto rispetto ai tavoli aperti con gli stati generali della montagna, che “rischiano di rimanere impantanati dentro qualche ministero”.

Valerio Rossi Albertini, ricercatore del Cnr e divulgatore scientifico, ha condotto invece una dimostrazione scientifica per spiegare l’effetto serra e ha ricordato i molti aspetti che confermano i cambiamenti climatici e smentiscono i negazionisti del surriscaldamento del pianeta.

È intervenuto poi Alberto Orioli, Vicedirettore del Sole 24 Ore, che ha spiegato il lavoro svolto dal quotidiano per la redazione del supplemento “L’economia della montagna”. “Abbiamo notato tante cose rilevanti sulle connessioni tra agroindustria, energia, turismo”, ha detto Orioli, “tutti fattori di sviluppo molto importanti per la montagna, che non è soltanto il luogo della meditazione, ma anche un patrimonio enorme dal punto di vista economico. Pensiamo alle potenzialità offerte dall’assegnazione dei giochi olimpici a Milano e Cortina, oppure al fatto che la bike economy muove quasi 11 miliardi l’anno, che l’agrifood di qualità abbinato ai prodotti di montagna vale 9 miliardi e mezzo, o che le settimane bianche valgono 8 miliardi”. “È fondamentale immaginare la montagna come luogo delle reti – ha aggiunto Orioli – e in questo senso c’è un forte bisogno di un’agenda politica orientata sul potenziamento delle reti digitali e delle infrastrutture”.

Gabriele Calliari, Presidente nazionale di Federforeste, ha sottolineato il bisogno di politiche forestali più appropriate di quelle attuali: “Oggi abbiamo il 40% della superficie nazionale costituita da boschi, è un dato positivo, ma non pensiamo che a un aumento di questa percentuale corrisponda automaticamente un miglioramento, abbiamo bisogno di un bosco ben gestito e non abbandonato a se stesso”. Positiva la ripresa del tavolo sulla filiera legno, secondo Calliari, ma vanno fatti i decreti attuativi del Testo Unico approvato un anno e mezzo fa: “Il testo va reso operativo perché finalmente restituisce un’idea di coltivazione dell’ambiente e non di pura conservazione museale”. Il presidente di Federforeste ha anche richiamato l’attenzione sul mercato illegale del legno, frutto di tagli abusivi effettuati in diverse parti del mondo con lo sfruttamento anche di lavoro minorile.

Hanno inviato i propri contributi audiovisivi anche l’On. Filippo Gallinella, Presidente della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, e il climatologo Luca Mercalli. Il meeting, moderato dalla giornalista Elena Mattiuzzo, proseguirà domani con gli interventi della climatologa del Cnr Marina Baldi, il Prof. Antonio Ciaschi, docente alla Lumsa, Enrico Petriccioli, Segretario Generale Fondazione Montagne Italia e vicepresidente FederBim, Mauro Broll, Direttore Ripartizione Foreste della Provincia Autonoma di Bolzano, Francesca Gallo, artigiana e musicista, Pierantonio Salvador, Presidente API, Associazione Piscicoltori Italiani, Andrea Fabris, esperto di acquacoltura e ittiopatologia, Stefania Rota, AD dell’azienda San Vincenzo, Giacomo Boninsegna, Scario della Magnifica Comunità di Fiemme, il Prof. Alberto Tamburini, docente dell’Università della Montagna, e l’imprenditrice agricola Agitu Idea Gudeta.

Eventualità sempre più rara, ma possibile. Bocciature, i consigli per i genitori\e

«Ci spiace comunicarle che suo figlio non è stato ammesso alla classe successiva ». È la formula di rito per avvisare le famiglie in caso di bocciatura. Una comunicazione che, se si manterranno le percentuali dello scorso anno, in questi giorni riceverà circa il 7% delle famiglie con figli alle superiori. Poche ( cinque anni fa la percentuale dei bocciati era del 9,8%), ma comunque alle prese con un fallimento che, oggi più che mai, sembra faticosissimo affrontare.

In questi casi, le reazioni più frequenti dei genitori sono tre: c’è chi se la prende con la scuola e con i singoli insegnanti, chi piange e sprofonda nella ‘vergogna sociale’ e chi opta per severe misure punitive. Tre reazioni diverse ma sempre figlie di una fragilità educativa oggi diffusa e con ricadute pesanti sui figli. Perché, chiariamolo subito, una bocciatura è solo una bocciatura, non è un dramma e non è un giudizio sull’intelligenza o sulla vita del ragazzo. Nell’immedesimazione che oggi c’è tra genitori e figli, frutto di un investimento narcisistico che non ha precedenti nella storia, finisce infatti che l’insuccesso scolastico venga amplificato, drammatizzato, finché non appartiene più solo al vissuto degli alunni ma a quello dei genitori che si sentono loro stessi ‘bocciati’, segnati dal marchio del fallimento.

Certo, perdere l’anno non è una cosa positiva, infatti io auspico una scuola che esca dalla logica del giudizio. Perché la bocciatura rallenta il percorso del ragazzo, ne prolunga la dipendenza, ne ritarda la conquista dell’autonomia. In più, sul piano psicoevolutivo, un insuccesso come questo lascia sempre una sensazione di inadeguatezza contro la quale i genitori devono rimboccarsi le maniche: ecco perché, nuovamente, è molto importante che la reazione famigliare sia quella giusta. Altrimenti, lo dicono le statistiche, ci sono altissime probabilità che un alunno bocciato ripeta l’esperienza anche l’anno successivo. Occorre quindi tenere a bada l’emotività, non punirlo (la bocciatura è già una punizione) e cominciare subito a ragionare insieme a lui sull’opportunità di cambiare scuola o, magari, sezione, per indirizzarsi su un percorso più adatto e, soprattutto, per non prolungare nel tempo il peso di questo giudizio, cosa inevitabile se si resta nella stessa scuola, con gli stessi insegnanti. Se la famiglia reagisce nel modo giusto, una bocciatura si supera e per il ragazzo può iniziare un percorso di maturazione. Non per niente sono numerosi i casi di ‘bocciati illustri’, persone che poi hanno raggiunto ottimi risultati nello studio e nella professione. Ma questo può accadere solo se non ci facciamo travolgere dall’emotività e dalla rassegnazione.

avvenire

Nota della penitenzieria. La Santa Sede: il segreto in confessionale è inviolabile

Ribadendo l’inviolabilità del segreto confessionale, la Penitenzieria reagisce ai tentativi politici o legislativi in vari Paesi, ad esempio in Australia, per indebolirlo

Confessioni Ansa

Confessioni Ansa

Avvenire

Il segreto del confessionale, il sigillo sacramentale, è assoluto: non ammette deroghe di sorta. E la sua difesa da parte del confessore, «se fosse necessario usque ad sanguinis effusionem», rappresenta «una necessaria testimonianza – un “martirio” – resa direttamente all’unicità e all’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa». È questa la dottrina cattolica di sempre, che viene ribadita ora in una nota della Penitenzieria apostolica, approvata dal Papa e firmata dal penitenziere maggiore, il cardinale Mauro Piacenza, e dal reggente monsignor Krzysztof Nykiel.

La nota nasce in un contesto particolare: le pressioni intensificatesi in questi anni da parte di diversi Stati, a seguito degli scandali per gli abusi sessuali in ambito ecclesiale, affinché i sacerdoti denuncino crimini o violenze su minori appresi in confessionale. Il Paese che si è spinto più in là recentemente è l’Australia. Una legge approvata lo scorso febbraio nel territorio federale di Canberra prevede fino a due anni di carcere per chi non riporti crimini sui minori, senza alcuna “esenzione” per quanto appreso dai ministri di culto cattolici o ortodossi in confessionale.

Ma sul sigillo sacramentale «nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla» ricorda la nota vaticana. La Chiesa ha infatti sempre insegnato «che i sacerdoti, nella celebrazione dei sacramenti, agiscono “in persona Christi capitis”, ossia nella persona stessa di Cristo capo». Il sacramento non è quindi a loro disposizione. Il Codice di diritto canonico ha fissato tutto ciò in modo chiaro: al confessore non è consentito, mai e per nessuna ragione, «tradire il penitente con parole o in qualunque altro modo», così come è proibito al confessore «far uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del penitente». Il sigillo sacramentale comprende «tutti i peccati sia del penitente che di altri conosciuti dalla confessione del penitente, sia mortali che veniali, sia occulti sia pubblici». E ciò vale anche «qualora la confessione fosse invalida o per qualche ragione l’assoluzione non venisse data».

Non solo, ma «per la sua peculiare natura il sigillo sacramentale arriva a vincolare il confessore anche “interiormente”, al punto che gli è proibito ricordare volontariamente la confessione ed egli è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo di essa». Così «al segreto derivante dal sigillo è tenuto anche chi, in qualunque modo, sia venuto a conoscenza dei peccati della confessione». 
Il sacerdote, inoltre, non può fare parola del contenuto della confessione con lo stesso penitente, fuori del sacramento, «salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente». A sua volta il penitente, celebrato il sacramento, «non ha il potere di sollevare il confessore dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio».

La nota riafferma poi che tali condizioni «non potranno mai costituire una qualche forma di connivenza col male, al contrario rappresentano l’unico vero antidoto al male che minaccia l’uomo e il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi all’amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore, imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita».

E se «non è mai consentito porre al penitente, come condizione per l’assoluzione, l’obbligo di costituirsi alla giustizia», al contempo «appartiene alla “struttura” stessa del sacramento della Riconciliazione, quale condizione per la sua validità, il sincero pentimento, insieme al fermo proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso». Ovvero «qualora si presenti un penitente che sia stato vittima del male altrui, sarà premura del confessore istruirlo riguardo ai suoi diritti, nonché circa i concreti strumenti giuridici cui ricorrere per denunciare il fatto in foro civile e/o ecclesiastico e invocarne la giustizia».

La nota precisa infine come i colloqui in foro interno tra un fedele e un direttore spirituale comportino una «speciale riservatezza», costituendo qualcosa di analogo alla dinamica sacramentale. Mentre il «segreto pontificio» che vincola in determinati uffici al servizio della Sede Apostolica, ha «quale ratio ultima il bene pubblico della Chiesa e la salus animarum», correttamente interpretati «dalla sola Sede Apostolica, nella persona del Romano Pontefice».