5 Giugno Commento Vangelo X Domenica Tempo ordinario – Anno C

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei (…)

La donna di Nain aveva già pianto la morte del suo uomo. Adesso è inghiottita dal dolore più atroce, quello che non ha neppure un nome per essere detto: due vite, quella del figlio e la sua, precipitate dentro un’unica bara.

Quante storie così anche oggi. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Nella Bibbia cerchi invano una risposta al perché del dolore. Il Vangelo però racconta la prima reazione di Gesù: egli prova dolore per il dolore dell’uomo.
E lo esprime con tre verbi: provare compassione, fermarsi, toccare. Gesù vede il pianto e si commuove, si lascia ferire dalle ferite di quel cuore. Il mondo è un immenso pianto, un fiume di lacrime, ma invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona (donna, non piangere) e scoprire dietro un centimetro quadrato di iride vita e morte, dolore e speranza.
C’è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, un dolore: fermarsi, inginocchiarsi e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, come bambini o come innamorati. Quando ti fermi con qualcuno hai già fatto molto per la storia del mondo. Nessun segnale ci dice che quella donna fosse più religiosa di altri. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù è il suo dolore.
Quella donna non prega Gesù, non lo chiama, non lo cerca, ma tutto in lei è una supplica senza parole, e Dio ascolta l’eloquenza delle lacrime, risponde al pianto silenzioso di chi neppure si rivolge a lui. E si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Gesù vede, si ferma e tocca. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain. Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo, il mendicante, la bara. Non è un sentimento è una decisione.
Si accosta, tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati, sorgi, il verbo usato per la risurrezione.

E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all’abbraccio, all’amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d’amore nelle quali soltanto troviamo la vita.
E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande!
Gesù è il profeta della compassione, di un Dio che cammina per tutte le Nain del mondo, si avvicina a chi piange, piange insieme con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore.
E ci convoca a operare “miracoli”, non quello di trasformare una bara in una culla, come a Nain, ma quello di sostare accanto a chi soffre, accanto alle infinite croci del mondo, lasciandosi ferire da ogni ferita, portando il conforto umanissimo e divino della compassione.
Fermarsi. Per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).
Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico, e lo riempie, è un modo di amare, il modo più intimo, è il bacio. Apre una stagione nuova nelle relazioni. Come la notte comincia dalla prima stella, così il mondo nuovo comincia dal primo samaritano buono.
Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d’ora in poi niente sarà più come prima.
Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei.
Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile.
Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna.
(Letture: 1Re 17,17-24; Salmo 29; Galati 1,11-19; Luca 7,11-17)

di Ermes Ronchi

Avvenire

Ascensione, Gesù entra nel profondo di tutte le vite. Commento al Vangelo Ascensione del Signore Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Ascensione, alla ricerca con Cristo di un crocevia tra terra e cielo, di una fessura aperta sull’oltre, su ciò che dura al di là tramonto del giorno: sapere che il nostro amare non è inutile, ma sarà raccolto goccia a goccia e vissuto per sempre; che il nostro lottare non è inutile; che non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza.
Il Vangelo ci pone in bilico tra cielo e terra, in una perenne ascensione, sospinge in avanti e verso l’alto. «Tutto il cammino spirituale si riassume nel crescere verso più coscienza, più libertà e più amore. Anzi l’intera esistenza del cosmo, dai cristalli agli animali, è incamminata lungo queste tre direttrici profonde: più consapevolezza, più amore, più libertà» (Giovanni Vannucci).
Guardiamo i tre gesti ultimi di Gesù: invia, benedice, scompare.
Inizia su quell’altura la “Chiesa in uscita” (papa Francesco). Inizia con l’invio che chiede agli apostoli, un cambio di sguardo. Devono passare da una comunità, da una Chiesa che mette se stessa al centro, che accende i riflettori su di sé, da una Chiesa centripeta ad una Chiesa che si mette al servizio del cammino ascensionale del mondo, al servizio dell’avvenire dell’uomo, della vita, della cultura, della casa comune, delle nuove generazioni. Una Chiesa rabdomante del buono del mondo, che vuole captare, cogliere e far emergere le forze più belle.
Convertiteli: coltivate e custodite i semi divini di ciascuno. Come faceva Gesù che percorreva la Galilea e andava in cerca della faglie, delle fenditure nelle persone, là dove scorrevano acque sepolte, come con la samaritana al pozzo. Captava le attese della gente e le portava alla luce.
Così la Chiesa, sapendo che il suo annuncio è già preceduto dalla presenza discreta di Dio, dall’azione mite e possente dello Spirito, è inviata al servizio dei germi santi che sono in ciascuno. Per ridestarli.
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Una lunga benedizione sospesa, in eterno, tra cielo e terra veglia sul mondo. La maledizione non appartiene a Dio, lo dobbiamo testimoniare. Il gesto definitivo di Gesù è benedire. Il mondo lo ha rifiutato e ucciso e lui lo benedice. Benedice me, così come sono, nelle mie amarezze e nelle mie povertà, in tutti i miei dubbi benedetto, nelle mie fatiche benedetto.
Mentre li benediceva si staccò da loro. La Chiesa nasce da quel corpo assente. Ma Gesù non abbandona i suoi, non se ne va altrove nel cosmo, ma entra nel profondo di tutte le vite. Non è andato oltre le nubi ma oltre le forme: se prima era insieme con i discepoli, ora sarà dentro di loro, forza ascensionale dell’intero cosmo verso più luminosa vita.
(Letture: Atti 1,1-11; Salmo 46; Ebrei 9,24-28;10,19-23; Luca 24, 46-53).

Avvenire

Papa Francesco: anche i peccatori mangiano alla tavola di Dio

Dio non esclude mai nessun peccatore dal suo amore, come mostrato da Gesù “che non aveva paura di dialogare” con pubblicani e prostitute. All’udienza generale, Papa Francesco ha rievocato la figura dell’Apostolo Matteo e le parole con cui Gesù risponde alle critiche dei farisei, che non volevano che frequentasse un pubblicano. Dio non ama, ha detto il Papa, “una religiosità di facciata” ma un cuore leale capace di pentirsi. Il servizio di Alessandro De Carolis da Radio Vaticana 

A tavola con il nemico, un venduto che dissangua i suoi conterranei a favore degli odiati invasori. I farisei non lo avrebbero nemmeno sfiorato con lo sguardo, Matteo il pubblicano. Gesù invece accetta il suo invito e non solo mangia con lui ma lo accoglierà nella cerchia ristretta dei discepoli.

Chiesa non è “comunità di perfetti”
La chiamata di Matteo, indica il Papa, è lo spartiacque tra chi fa della religione una forma di decoro e chi un’esperienza di vita. “Essere cristiani – afferma Francesco – non ci rende impeccabili”:

“Tutti siamo peccatori, tutti abbiamo peccati. Chiamando Matteo, Gesù mostra ai peccatori che non guarda al loro passato, alla condizione sociale, alle convenzioni esteriori, ma piuttosto apre loro un futuro nuovo. Una volta ho sentito un detto bello: ‘Non c’è santo senza passato e non c’è peccatore senza futuro’ (…) È bello questo: questo è quello che fa Gesù. La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di discepoli in cammino, che seguono il Signore perché si riconoscono peccatori e bisognosi del suo perdono”.

Peccatori, “commensali di Dio”
Il problema di un fariseo di ieri e di oggi, osserva Francesco, è che “ha la presunzione di credersi giusto” e vive di selezioni sociali, scegliendo e scartando. Gesù invece, sottolinea il Papa, “si presenta come un buon medico” che accoglie chiunque:

“Innanzi a Gesù nessun peccatore va escluso – nessun peccatore va escluso! (…) Chiamando i peccatori alla sua mensa, Egli li risana ristabilendoli in quella vocazione che essi credevano perduta e che i farisei hanno dimenticato: quella di invitati al banchetto di Dio (…) Se i farisei vedono negli invitati solo dei peccatori e rifiutano di sedersi con loro, Gesù al contrario ricorda loro che anch’essi sono commensali di Dio”.

Ricostituenti preziosi
I “farmaci” con i quali Cristo mostra “il potere risanante di Dio” sono la sua Parola e l’Eucaristia. Entrambi, prosegue Francesco, devono “dare fiducia e aprire il nostro cuore al Signore perché venga e ci risani”:

“A volte questa Parola è dolorosa perché incide sulle ipocrisie, smaschera le false scusanti, mette a nudo le verità nascoste; ma nello stesso tempo illumina e purifica, dà forza e speranza, è un ricostituente prezioso nel nostro cammino di fede. L’Eucaristia, da parte sua, ci nutre della stessa vita di Gesù e, come un potentissimo rimedio, in modo misterioso rinnova continuamente la grazia del nostro Battesimo”.

Non fermarsi alla carta
Gesù conclude il suo incontro-scontro con i farisei che lo contestano citando il profeta Osea: “Misericordia voglio e non sacrificio”. Ovvero, conclude Francesco, un cuore sincero e non una “religiosità di facciata”:

“‘Misericordia io voglio’, cioè la lealtà di un cuore che riconosce i propri peccati, che si ravvede e torna ad essere fedele all’alleanza con Dio. ‘E non sacrificio’: senza un cuore pentito ogni azione religiosa è inefficace! Gesù applica questa frase profetica anche alle relazioni umane: quei farisei erano molto religiosi nella forma (…) È come se a te regalassero un pacchetto con dentro un dono e tu, invece di andare a cercare il dono, guardassi soltanto la carta nel quale è incartato… Soltanto le apparenze, le forme, e non il nocciolo della grazia, del dono che viene dato!”.

Gli auguri alla Polonia
Nei saluti post-catechesi a i vari gruppi linguistici, il Papa ha ricordato fra l’altro la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni di domenica prossima, invitando a chiedere “a Cristo, Buon Pastore, di mandare sempre nuovi operai al suo servizio”. Quindi, con i fedeli della Polonia in particolare, Francesco si è soffermato sui 1.050 anni del Battesimo della nazione, che vengono celebrati in questi giorni. “Chiedo a Dio – ha detto – che la generazione presente e le future generazioni dei polacchi rimangano fedeli alla grazia del battesimo, dando testimonianza dell’amore di Cristo e della Chiesa”.