È il culto della e nella vita che invera il culto del momento sacramentale e rituale. «Non servirebbe a nulla offrire il sacrificio di Cristo se non ci fosse da parte nostra un’adeguata corrispondenza interiore»

postille

In un recente incontro di confratelli, il semplice accenno al nuovo Messale ha provocato questo unanime parere: Pessimo!

Non me la sento di condividere appieno quel parere, perché dietro la terza edizione c’è tutto un lavoro iniziato nel 2002 da parte di teologi, liturgisti, biblisti, musicologi, italianisti, patrologi da non liquidare con un giudizio così tranchant, anche se in parte comprensibile, perché coglie qualche increspatura dovuta alla laboriosità del percorso che ha conosciuto varie tappe: ripensamenti, aggiustamenti, rielaborazioni.

Non so se, dal 2012 al 2014, il tutto è stato sottoposto al parere e alla sperimentazione previa anche da parte di liturgisti-parroci di lungo corso che avrebbero potuto dare utili suggerimenti.

Comunque, se i nuovi Lezionari si sono rivelati di debole costituzione quanto alla rilegatura, il messale ha una forte rilegatura, ma è “fragile” per il resto. Mi riferisco ai rilievi già fatti circa il formato, lo spessore della carta e il conseguente tipo di carattere che si è scelto: tutto ciò comporta una certa difficoltà.

L’edizione precedente al riguardo era perfetta da quel punto di vista. Il Messale d’altronde non è da asporto; deve avere una sua consistenza e bellezza grafica, tale da non creare difficoltà a chi avesse qualche problema di vista.

Queste osservazioni sono state già fatte da altri e hanno avuto risposte esaurienti da Paolo Tomatis, Il Messale 2020: struttura, grafica, immagini (RPL 4/2020).

Mi permetto tuttavia di far notare alcuni dettagli con qualche osservazione di critica costruttiva, ben consapevole che non ci si può soffermare sulle piccole innovazioni o modifiche trascurando l’impianto generale. Sarebbe «riduttivo infatti limitare la novità del Messale Romano ai piccoli cambiamenti di linguaggio e di traduzioni. La vera novità della terza edizione italiana consisterà nella consapevolezza con cui riceviamo il libro liturgico come testo da tradurre in un gesto eloquente e condiviso, espressivo e insieme performativo» (Paolo Tomatis, RPL1/2021).

Per iniziare

L’aver posto le indicazioni musicali per il segno di croce e il saluto iniziale non più in appendice ma nel corpo della pagina, da l’impressione che si sia inteso dare un chiaro messaggio: diamo alla celebrazione della Messa un tono, una modalità che orienti ad un certo stile di partecipazione che sia consapevole dello svolgimento di un’azione sacra che, per quanto la si voglia stemperare, non può e non deve degenerare. Sembra quasi una doccia fredda con un messaggio ben preciso: «Il sacrificio della messa ha pertanto la forza di renderci contemporanei con l’azione salvifica di Cristo, di collocarci nella presenza immediata dell’opera di Cristo» (Odo Casel, Il mistero del culto cristiano, pag, 168). Questa perlomeno è una mia impressione.

D’altronde, i linguaggi della preghiera liturgica debbono comunque caratterizzarsi anche per elementi di discontinuità, al fine di garantire lo scarto simbolico proprio della liturgia, pur restando comunque l’esigenza di dare alla celebrazione un tono vivo e festoso che erompa da tutto il contesto: canti che infondano gioia e fiducia e siano veramente una preghiera raddoppiata; movimenti, suoni, colori, clima generale che infonda serenità, che interrompa il ritmo dei giorni, riaccenda la speranza e la fiducia nella vita, senza tuttavia dimenticare, mentre intoniamo i nostri canti, il grido di dolore che si eleva dal mondo.

L’introduzione del Kyrie non ha creato grandi difficoltà, specialmente dove si era già abituati a cantarlo con le semplici e belle melodie gregoriane presenti Nella casa del Padre. Adottare però il Kyrie della messa gregoriana De Angelis appesantirebbe di molto lo svolgimento agile dell’atto penitenziale.

Dopo la preparazione dei doni, il celebrante esorta i partecipanti dicendo Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente. Nell’Ordinamento del 2004, al n. 146, era previsto che i fedeli nel rispondere si alzassero in piedi: populus surgit et respondet (Editio tipyca del 2000).

Nella terza edizione del Messale la Conferenza episcopale italiana ha pensato di modificare l’atteggiamento dei fedeli che sono invitati ad alzarsi solo all’inizio della preghiera sulle offerte. Non si quale sia stata la ragione di tale decisione.

Il terzo formulario Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo ad offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente si riferisce al culto spirituale che il cristiano esercita nella vita di ogni giorno vivendo il suo impegno mondano nella volontà di Dio, donando tutto sé stesso (gioie, dolori, fatiche e speranze nel sacro calice noi deponiamo, come suggerisce un canto), il che equivale alla parola sacrificio che, a sua volta, si concretizza nella gratuità della comunione fraterna attraverso il dono di sé.

Ed è proprio quel dono che il popolo presenta nella sua risposta Il Signore riceva dalle tua mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome… Si parla qui della liturgia che il credente svolge nella sua vita ordinaria, liturgia espressa dalla sua umanità. Poco prima il celebrante ha infuso nel vino poche gocce d’acqua che simboleggiano la nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana: “nostra unione”, cioè del popolo, a partire dal mistero dell’Incarnazione, del battesimo e nella vita quotidiana.

Quel pane e quel vino, dopo la consacrazione divenuti calice della salvezza e pane della vita, vengono offerti dall’assemblea in rendimento di grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.

È il culto della e nella vita che invera il culto del momento sacramentale e rituale. «Non servirebbe a nulla offrire il sacrificio di Cristo se non ci fosse da parte nostra un’adeguata corrispondenza interiore» (Rinaldo Falsini).

Il momento dell’offerta che segue l’anamnesi rimanda quindi al precedente dialogo tra il presidente e l’assemblea dopo la preparazione dei doni.

Venendo al dunque, non vedo perché il popolo debba stare seduto nel momento rituale in cui viene invitato a esplicitare il proprio sacerdozio!

E qui si insinua il sospetto, il pensiero malizioso: vuoi vedere che, vista la confusione che si creava durante la celebrazione in quel momento (chi continuava a stare comodamente seduto durante la preghiera sulla offerte e perfino durante il prefazio, chi si alzava dopo aver risposto all’invito e chi invece correttamente si alzava e rispondeva), si è deciso di invitare ad alzarsi solo all’inizio della preghiera sulle offerte, non tenendo conto del n. 146 dell’Ordinamento, anzi, modificandolo?

Se è vero che i riti educano nel loro svolgersi fatto di parole, di gesti e di movimenti, non è indifferente optare per una o l’altra scelta per le implicazioni teologiche che ho evidenziato e non certo per una pignoleria rubricistica. È il caso di dire che la forma si sposa con la sostanza.

Per Cristo Signore nostro?

Un’altra novità è stata introdotta nel Prefazio. Esso è «come una presentazione sintetica, ma ogni volta diversa del mistero di morte e risurrezione del Signore Gesù e introduce, all’interno della solennità del Canone, una dinamica storico salvifica in cui prevale, rispetto alla linearità di uno sviluppo, la ripetizione di un tema con variazioni. In esso la storia della salvezza entra nella Preghiera eucaristica, con tutte le sfumature dei racconti ascoltati» (cf. Grillo-Conti, La messa in 30 parole, pag. 120.122).

Come ogni racconto avvincente, il Prefazio non ammette quindi interruzioni, così come una sinfonia non prevede applausi ad ogni movimento.

In alcuni Prefazi al termine di un enunciato di fede o di storia della salvezza, viene nominato Cristo nostro Signore. Nella terza edizione vi è questa modifica: Per Cristo Signore nostro! Però nella colletta e in tutte le orazioni si è conservata la forma Per Cristo nostro Signore, e non poteva essere diversamente, perché lì deve seguire la risposta Amen.

Ed ecco il sospetto malizioso: visto che la maggioranza dei celebranti recitava quelle parole in una maniera tale da sollecitare una risposta che veniva spontaneamente al popolo, ecco che si è optato per una forma che grammaticalmente non sta in piedi, salvo motivazioni conosciute forse dagli Accademici della Crusca.

Eppure basta poco ad evitare confusione. Come chi proclama il salmo responsoriale deve stare attento alle strofe con sei versi collegando subito il quarto verso con i seguenti se vuole evitare che il popolo in automatico risponda col ritornello, così sarebbe bastato (e basterebbe) poco che il prete avesse collegato subito, dopo la brevissima pausa logica, il Per Cristo nostro Signore con ciò che segue.

Un’assemblea educata in tal senso non interverrà con un intempestivo Amen, dovesse pure prolungarsi più di tanto quella pausa. È questione anche di riflessi condizionati indotti dalle buone abitudini.

Sempre a proposito del Prefazio, lodevolmente si è voluto offrire per esteso la forma musicale in gregoriano per le solennità e i tempi forti per incoraggiarne il canto. L’edizione precedente, per facilitare il canto anche in altre circostanze sia col modulo gregoriano che con l’altro di felice inventiva melodica riportato in appendice, aveva allegato un foglio plastificato. Esso manca nella terza edizione.

Per cantare il Prefazio nell’una e nell’altra forma anche in altri momenti, in mancanza di rigo musicale nella pagina, è necessario comunque avere sott’occhio un sussidio. Aver relegato in appendice lo schema di canto per il Prefazio significa scoraggiarne il canto, a meno che uno non voglia utilizzare il precedente sussidio, visto che ne manca la ristampa in formato giusto.

Aggiungo che si sarebbe potuto offrire almeno un’altra melodia, visto che ci sono fior di compositori capaci di creare altre melodie agili, gioiose pur nello stile della cantillatio.

La rugiada

A proposito della rugiada, darò l’impressione di cantare extra chorum. Nell’editio typica del 1975 e in quella del 2021 è adottata la formula Spiritus tui rore. L’immagine della rugiada come segno della presenza e dell’azione di Dio è presente nel Primo Testamento e i Padri, e con loro la liturgia, vi hanno visto la presenza e l’azione dello Spirito Santo. Ci si è attenuti ad una traduzione letterale del testo latino, non tenendo forse in debito conto indicazioni diverse al riguardo (cf. A. Grillo in Munera del 23 ottobre 2021).

Siamo in presenza della poetica di un linguaggio che, proprio come la poesia, si presenta come una «differenza che attrae». Tuttavia, questa osservazione di Giuseppe Lorizio lascia qualche dubbio: «Chissà chi, tranne qualche funzionario condiscendente, sarebbe del parere di dire che rugiada dello Spirito piuttosto che effusione, è attualizzante o non piuttosto un malinconico ricordo di epoche in cui la natura era ancora incorrotta» (SettimanaNews, 2 settembre 2020).

Comunque, il nuovo incipit della seconda preghiera eucaristica è bellissimo e da solo impone una pausa ulteriore dopo il Santo.

Nelle messe per i defunti si è voluto conservare la formula «il defunto che hai chiamato a te da questa vita»: certo, alla fin fine è così, però in certe circostanze quella dizione è inopportuna e potrebbe suscitare più domande su Dio che sentimenti di fede.

Dossologia

Nella precedente edizione veniva indicata una melodia gregoriana bella e lineare. Però – e qui subentra il mistero – dappertutto quella melodia veniva cantata diversamente, con delle note aggiunte e con una cadenza finale non in linea con il tono o modo. Ho cercato invano nell’edizione del 1962, in quelle di Paolo VI e nel Messale Romano di Pio V una formula canora che autorizzasse a modificare quella presente nel messale di Paolo VI. Non ce n’è traccia. Nel Messale di Pio V il sacerdote pronunciava per conto suo la dossologia insieme a segni di croce e poi concludeva in canto Per omnia saecula saeculorum.

Ecco allora il sospetto: vuoi vedere che si è optato per l’altra formula inesatta, ma stranamente diffusa dappertutto, ma non presente nemmeno nel Messale di Paolo VI?

Per scrupolo di ricerca, su YouTube ho trovato un video in cui uno eseguiva la dossologia esattamente nella maniera difforme da quella indicata nel Messale ma affermatasi nella prassi per vie misteriose.

Non è stata comunque una bella soluzione riscrivere il canto della dossologia adeguandosi in parte all’andazzo di storpiare la melodia.

Immagino a questo punto che qualche benevolo lettore penserà che non è proprio il caso di perdersi in tante sottigliezze rituali quando nella Chiesa e nel mondo ci sono problemi ben più gravi. D’accordo. Se però c’è una qualche menda a cui nel tempo si potrebbe rimediare, sarà valsa la pena tanta pignoleria.

Un professore di liturgia all’inizio del corso consigliava ai suoi alunni di fare prima il mestiere di camionista almeno per dieci anni. Essere parroco da alcuni decenni in un quartiere periferico e popoloso, con una chiesa al rustico e priva di strutture a cui aver dovuto provvedere, penso che valga bene quei dieci anni da camionista.

Voglio concludere con alcuni paragoni musicali per indicare come utilizzare il Messale, che potremmo assimilare ad uno spartito che prevede una creatività originale e intelligente al contempo, in grado di dare vitalità rituale a ciò che è nella pagina. Le note nello spartito sono inerti: prendono vita prima nella mente del direttore che studia la partitura e poi attraverso i suoni dei vari strumenti.

La nona sinfonia di Schubert (la Grande) nel primo movimento ha un terzo tema solenne e misterioso emergente dalla compagine orchestrale in pianissimo e affidato ai tromboni. Mentre Willem Mengelberg tirava dritto con lo stesso tempo e senza attenuare la dinamica dell’orchestra, Klemperer e Furtwängler invece rallentavano alquanto all’inizio del tema, mettevano in sordina gli archi preparando a quell’aura di mistero resa bene dal suono solenne degli ottoni. Si trattava quindi di trovare equilibri e dosaggi che facessero emergere quel momento particolare.

Ciò vale anche nella celebrazione liturgica, nella quale bisogna saper dare un rilievo ben calibrato nell’insieme a particolari che parlino all’Assemblea con il linguaggio dei segni. Lo Spirito Santo fa sì che tutto nella liturgia colpisca, muova e formi il cuore dei credenti.

Herbert von Karajan aveva un modo di dirigere ieratico e molto concentrato, frutto di intenso studio e meditazione sullo spartito. Con i suoi gesti parchi ma tecnicamente perfetti ed eloquenti per gli esecutori e i presenti, riusciva a contagiare alla partecipazione interiore.

Padronanza del rito unita a plasticità plausibile e vera dei gesti liturgici di chi presiede e dell’Assemblea possono essere solo frutto di riflessione e di consapevolezza del mistero.

Settimana News

Il Signore è vicino! C’è ancora qualcosa che non si può vendere e comprare, la gioia

“Domenica Gaudéte”, così viene tradizionalmente chiamata la terza domenica di Avvento a motivo dell’invito alla gioia presente nelle letture. Dobbiamo ammettere che, salvo forse papa Francesco, è cosa abbastanza rara trovare qualcuno che inviti alla gioia, più facile sentire parlare di felicità: c’è chi la cerca, chi la sogna, chi la vende e chi la compra. Nella Bibbia la felicità, intesa come condizione ideale, rassicurante e appagante, semplicemente non esiste. Troviamo invece la gioia per il pane e il vino, i pascoli e le messi, per il calore di una casa, per l’amore e l’amicizia, per la salvezza del bue, della pecora e della propria anima: la gioia che obbedisce alla vita, cioè a Dio. E vive della sua gratuità.
Da sempre Israele ha attribuito al soffio dello Spirito di Dio il potere della vita: “Tutti da te aspettano… Se tu togli il tuo soffio, muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo Spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (dal salmo 104).

Al tempo di Gesù era convinzione comune che il dilagare del male e del peccato avesse estinto lo Spirito e che Dio parlasse ormai solo attraverso l’eco della sua voce. Possiamo allora capire cosa significasse l’attesa del Messia, che le Scritture annunciavano come colui “sul quale sarebbe disceso lo Spirito in tutta la sua forza, e vi sarebbe rimasto”: era l’attesa del ritorno della vita, il ritorno della giustizia, della libertà, dell’unità, della pace. Giovanni il Battista aveva investito tutto in questa attesa. Se fosse stato in cerca della sua felicità, a coloro che volevano onorarlo come Messia probabilmente avrebbe risposto “Sì, lo sono”, invece obbedì allo Spirito che lo aveva fatto sussultare di gioia per la presenza di Gesù nel grembo di Maria (Lc 1,44), e lo Spirito lo rese “più che profeta, il più grande tra i nati da donna”, uno strumento di giustizia e di pace tra la gente, che veniva a lui per sapere “cosa doveva fare”.

Non è stato facile per Giovanni, che desiderava vedere il male spazzato via con un colpo di pala, riconoscere Gesù come il Messia. Cosa può averlo convinto se non la potenza dello Spirito che operava in lui? “Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitato, ai poveri è annunciato il vangelo”. La gioia, che per Giovanni ebbe inizio con Gesù, si compirà in Gesù (Gv 3,29), non perché vedrà il male e la morte spazzati via, ma perché conoscerà il vangelo dell’amore, più forte del male e della morte.

La gioia obbedisce alla vita, che gratuitamente viene e cresce, si perde e si ritrova, si dona e si moltiplica: la troviamo all’alba della creazione, nella notte del Natale a Betlemme, alla vigilia della pasqua di Gesù, quando l’amore, da parola astratta, diventa “dare la vita”. “Rimanete nel mio amore, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Il Signore è vicino! Vuole che tutti abbiano la vita in abbondanza, e che tutti abbiano anche la gioia.

Perciò c’è bisogno della nostra “amabilità verso tutti”, c’è bisogno di condividere l’abbondanza della vita tra tutti, c’è bisogno che l’amore dello Spirito in noi non diventi una parola astratta.

vinonuovo.it

Foglietto, Letture e Salmo III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C) – 12 Dicembre 2021

III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C)

Grado della Celebrazione: DOMENICA
Colore liturgico: Viola o Rosaceo

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L’annuncio profetico di Giovanni Battista trova un’eco in quelli che lo ascoltano. Vanno da lui per domandargli: “Cosa dobbiamo fare?”. Giovanni si rifà alla tradizione dei profeti e risponde che la condizione necessaria è il compimento del comandamento dell’amore del proprio prossimo, espressione reale dell’amore di Dio. Giovanni non esige la durezza della vita che egli conduce, non disapprova neanche le attività proprie ai laici che vanno verso di lui. Tuttavia, egli sa indicare a ognuno quello che deve convertire in se stesso, e come realizzare i propri doveri verso il prossimo, e nello stesso tempo indicare loro chiaramente dove risiedono l’ingiustizia e l’errore che devono essere superati.
Quando gli si domanda se egli è il Messia, Giovanni Battista risponde di no, e non accetta alcun legame alla sua persona, nessuna adesione personale qualunque essa sia. Con umiltà proclama che il Messia si trova sulla terra, che lui solo possiede il battesimo vero. Questo non si farà con l’acqua, ma con lo Spirito Santo e il fuoco, per tutti coloro che vorranno vivere la conversione completa. Solo il Messia potrà riunire il frumento e bruciare la paglia in un rogo, dettare il giudizio della misericordia. Giovanni non è neanche degno di slegare i suoi sandali; a lui, Giovanni, è stato solo chiesto di preparare il cammino del Signore.

Foglietto Letture e Salmo Prima Domenica Avvento (Anno C)

Grado della Celebrazione: DOMENICA
Colore liturgico: Viola

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Il Vangelo di Luca è indirizzato ai cristiani della sua epoca ma anche a quelli di tutti i tempi, che devono vivere nella fede del Signore in mezzo al mondo. Sono parole di consolazione e di speranza, di fronte alle tribolazioni e alle tristezze della vita.
Gli stessi avvenimenti che disorientano gli uomini saranno per i cristiani il segno che l’ora della salvezza si avvicina. Dietro tutte le peripezie, per quanto dolorose possano essere, essi potranno scoprire il Signore che annuncia la sua venuta, la sua redenzione, e l’inizio di una nuova era.
La venuta del Signore non è considerata come una cosa vicina nel tempo. I cristiani devono pensare che la storia duri a lungo, fino alla creazione definitiva del Regno di Dio. È necessario dunque che essi abbiano un’attitudine paziente di fronte alle avversità, e perseverante nel cammino che li conduce alla vita piena.
Così, il vangelo mette in guardia contro il pericolo di rilassarsi nel quotidiano. Bisogna restare vigili, in preghiera, e chiedere forza, perché ogni affanno terreno smussa i cuori, distrae il pensiero e impedisce di vivere, senza angoscia né sorpresa, l’attesa gioiosa del Signore che è misericordia e vita nuova.

Consiglio Pastorale della Comunità di Santo Stefano – San Zenone convocato a distanza il 25 novembre 2021 alle ore 21

ll Consiglio Pastorale della Comunità di Santo Stefano – San Zenone è convocato a distanza sulla piattaforma Google Meet al link  https://meet.google.com/vxh-hmnz-qjn , unitamente al gruppo liturgico, ai catechisti, e a quanti partecipano alla vita comunitaria.

Giovedì 25 novembre 2021 alle ore 21.00

All’O.d.G.

– Liturgie e iniziative Tempo di Avvento e Tempo di Natale
– Varie ed eventuali

Auspicando la più ampia partecipazione, chiediamo a tutti di diffondere l’invito attraverso i propri contatti, chat e mailing list.

Grazie per la collaborazione

Foglietto, Letture e Salmo XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – 22 Novembre 2021

 XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Grado della Celebrazione: Solennità
Colore liturgico: Bianco

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Per festeggiare Cristo, re dell’universo, la Chiesa non ci propone il racconto di una teofania splendente. Ma, al contrario, questa scena straziante della passione secondo san Giovanni, in cui Gesù umiliato e in catene compare davanti a Pilato, onnipotente rappresentante di un impero onnipotente. Scena straziante in cui l’accusato senza avvocato è a due giorni dal risuscitare nella gloria, e in cui il potente del momento è a due passi dallo sprofondare nell’oblio. Chi dei due è re? Quale dei due può rivendicare un potere reale (Gv 19,11)? Ancora una volta, secondo il modo di vedere umano, non si poteva che sbagliarsi. Ma poco importa. I giochi sono fatti. Ciò che conta è il dialogo di questi due uomini. Pilato non capisce niente, né dei Giudei, né di Gesù (Gv 18,35), né del senso profondo del dibattito (Gv 18,38). Quanto a Gesù, una sola cosa conta, ed è la verità (Gv 18,37). Durante tutta la sua vita ha servito la verità, ha reso testimonianza alla verità. La verità sul Padre, la verità sulla vita eterna, la verità sulla lotta che l’uomo deve condurre in questo mondo, la verità sulla vita e sulla morte. Tutti campi essenziali, in cui la menzogna e l’errore sono mortali. Ecco cos’è essere re dell’universo: entrare nella verità e renderle testimonianza (Gv 8,44-45). Tutti i discepoli di Gesù sono chiamati a condividere la sua regalità, se “ascoltano la sua voce” (Gv 18,37). È veramente re colui che la verità ha reso libero (Gv 8,32).

Foglietto, Letture e Salmo XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – 7 Novembre 2021

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Grado della Celebrazione: Domenica
Colore liturgico: Verde

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Gesù contrappone qui due tipi di comportamento religioso. Il primo è quello degli scribi pretenziosi che si pavoneggiano ed usano la religione per farsi valere. Gesù riprende questo atteggiamento e lo condanna senza alcuna pietà. Il secondo comportamento è invece quello della vedova povera che, agli occhi degli uomini, compie un gesto irrisorio, ma, per lei, carico di conseguenze, in quanto si priva di ciò di cui ha assolutamente bisogno. Gesù loda questo atteggiamento e lo indica come esempio ai suoi discepoli per la sua impressionante autenticità. Non è quanto gli uomini notano che ha valore agli occhi di Dio, perché Dio non giudica dall’apparenza, ma guarda il cuore (1Sam 16,7). Gesù vuole che guardiamo in noi stessi. La salvezza non è una questione di successo, e ancor meno di parvenze. La salvezza esige che l’uomo conformi le azioni alle sue convinzioni. In tutto ciò che fa, specialmente nella sua vita religiosa, l’uomo dovrebbe sempre stare attento a non prendersi gioco di Dio. Scrive san Paolo: “Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato” (Gal 6,7).
Il Signore chiede che si abbia un cuore puro, una fede autentica, una fiducia totale. Questa donna non ha nulla. È vedova, e dunque senza appoggio e senza risorse. È povera, senza entrate e senza garanzie. Eppure dà quello che le sarebbe necessario per vivere, affidandosi a Dio per non morire. Quando la fede arriva a tal punto, il cuore di Cristo si commuove, poiché sa che Dio è amato, e amato per se stesso. L’avvenire della Chiesa, il nostro avvenire, per i quali le apparenze contano tanto, è nelle mani di questi veri credenti.