Il canto nella bellezza della liturgia

di: Renato Borrelli

liturgia

Il canto liturgico è parte integrante della liturgia solenne (SC 112) perché favorisce la partecipazione di tutta l’assemblea dei fedeli. Difatti, «non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede… L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo» (SC 13).

Il canto, adeguato alla nobiltà della liturgia, fa parte dell’ars celebrandi a servizio della bellezza; non va considerato come un’aggiunta ornamentale in vista di una maggiore solennità, ma appartiene alla forma simbolico-rituale propria della celebrazione eucaristica, in cui il Risorto si fa presente nella sequenza del rito che dispiega, nel tempo e nello spazio, ciò che, avvenuto nel Cenacolo e sul Calvario, si fa Evento che, nella fede, i cuori amanti e oranti possono intuire e sperimentare nello Spirito, attraverso i segni.

L’arte del celebrare si apprende “in ginocchio”, frutto e riflesso di una intensa vita spirituale, di un rapporto intimo col Signore, di comprensione teologica e orante di ciò che si sta compiendo nella celebrazione col popolo. Lo stile di celebrare, «sebbene bisognoso – come tutte le arti – anche di formazione tecnica, affonda le sue radici nel cuore amante di coloro che con l’ordinazione, l’istituzione o di fatto sono stati chiamati a manifestare e a comunicare il mistero di Dio e il dono della sua salvezza» (Silvano Sirboni, RPL 4/2020).

Il popolo di Dio accorreva alle messe celebrate dai santi attratta più dallo stile di vita e dalla fede ben riflessi nel modo di celebrare, che da regie liturgiche molto elaborate.

Ciò comunque non significa che si debba prescindere dall’esigenza di curare la bellezza, che è frutto di quella «nobile semplicità» che deve coinvolgere anche il canto, grazie al quale la celebrazione «acquista un’espressione più gioiosa, gli animi si innalzano più facilmente alle cose celesti» (Musicam sacram, 16).

«La ricerca della sobrietà, contro la artificiosità di aggiunte inopportune si unisce ad un fondamentale rispetto per il linguaggio singolare della liturgia, che non confonde la semplicità con la sciatteria e che non rinuncia alla ricerca di un linguaggio degno della grandezza del Signore, attento alla qualità “poetica” di un linguaggio, che proprio come la poesia, si presenta come una “differenza che attrae”» (CEI, Un messale per le nostre assemblee, pag 34).

Criteri per discernere un canto liturgico

Il canto, che esprima la lode perenne, dev’essere dotato di autentiche qualità artistiche, di bellezza nella forma, ma anche di verità espressiva e autenticità di coinvolgimento.

Non sarebbe né autentico né vero liturgicamente se fosse contaminato da motivazioni ambigue e fuorvianti, come certe pretese, per celebrazioni particolari, di repertori suggeriti dal cattivo gusto; o avesse connotazioni che vanno dal festaiolo leggero al solenne lordo e pesante. Tutto ciò crea interferenza, disturba, confonde, dissocia, devia l’attenzione dai messaggi fondamentali e dagli atteggiamenti primari e diventa retorica pesante, ridondanza ingombrante, cicaleccio intemperante.

Tutte queste precisazioni non intendono certo suggerire una liturgia compassata, seriosa, guidata da un criterio perfezionista. Karl Barth diceva: «Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano la musica di Bach; sono certo, invece che, quando si trovano fra loro, suonano Mozart e allora anche il Signore trova particolare diletto ad ascoltarli».

L’atmosfera della celebrazione deve essere dunque di gioiosa festività, evitando due estremi: una celebrazione vissuta all’insegna di una perenne allegria a fronte di tanti drammi, oppure seriosa e ingessata e quindi opprimente.

Al riguardo, François Varillon diceva senza mezzi termini: «L’eucaristia deve essere una festa, ma non sarà mai un musical» (Gioia di credere e gioia di vivere, p. 287)

Il clima di festa sarà frutto di uno svolgimento sereno e di interventi canori del celebrante in dialogo cantato con l’assemblea e canti propri dell’assemblea. Partiamo da questa.

Interventi canori dell’assemblea

Già il canto all’ingresso segna l’inizio della celebrazione, e per l’assemblea serve da “camera di decompressione” perché gli animi siano introdotti nella celebrazione che prevede il canto del Kyrie e del Gloria che non siano riservati al solo coro. È opportuno cantare almeno il ritornello del salmo responsoriale, l’acclamazione al vangelo sia prima che dopo. È importante il dialogo con il celebrante al prefazio.

Il Santo, non essendo classificato tra i canti, ma tra le acclamazioni, deve essere eseguito da tutti. Il Messale offre la possibilità di interventi all’anamnesi, all’acclamazione dopo la dossologia, al Padre nostro, dopo l’embolismo.

L’Agnello di Dio dev’essere cantato interamente dall’assemblea, così pure il canto che accompagna la processione per la comunione eucaristica. Non è previsto un canto allo scambio della pace.

La celebrazione liturgica è armonica quando al canto del celebrante risponde l’assemblea con interventi brevi previsti dal rito e tali da coinvolgere tutti nell’azione liturgica e per tutta la sequenza del rito.

Le parti destinate al canto del presidente iniziano con il segno di croce e il saluto iniziale e il canto della colletta, proseguono col il dialogo prima e dopo la proclamazione del vangelo, il dialogo e il canto al prefazio, il canto dell’anamnesi – anche se non si è cantato al racconto della Cena –, come pure quello della dossologia al termine dell’anafora, l’invito alla preghiera del Signore, la preghiera del Signore, l’embolismo e la successiva preghiera per l’unità e la pace (quest’ultimo intervento cantato è una novità introdotta nella nuova edizione del Messale).

Anche i riti di conclusione prevedono il canto di tutte le parti. Per favorire e facilitare il canto del celebrante, sono state inserite nelle pagine dell’ordinario le parti in canto (nell’edizione precedente erano relegate in appendice), con una particolare attenzione ad alcuni tempi e solennità.

Questa corrispondenza speculare tra il celebrante principale e l’assemblea che celebra fa sì che il Messale non sia del solo prete, ma di tutta l’assemblea.

È chiaro però che non si può infarcire la celebrazione con tutti gli interventi suindicati riguardanti sia il celebrante che l’assemblea: tutto sta nel saper dosare, scegliendo in maniera oculata gli elementi da mettere in evidenza di volta in volta, tenendo presente il grado di solennità, il criterio dell’alternanza e del giusto equilibrio fra le varie parti della celebrazione.

Nel caso si voglia solennizzare utilizzando molte parti cantate, è importante però che quelle del popolo siano musicalmente brevi, incisive e non tortuose, in modo che non distraggano dal clima orante, finendo con l’appesantire la celebrazione per saturazione.

Ciò che è scritto nel messale allora prende forma, diventa vita, partecipazione attiva sentita, carica anche di pathos dell’assemblea, che non è più uditrice passiva di parole, a volte in eccesso.

Tutti i linguaggi e i sensi per coglierli sono interessati e coinvolti: parole, canti, gesti, colori, luci, odori, sapori, movimenti. Anche il linguaggio del silenzio, che facilita l’interiorità e accompagna l’offerta (il sacrificio) della vita ordinaria espressa in vari momenti del rito e significata dal rito delle gocce d’acqua versate nel calice.

Gli interventi e il dialogo canoro, se condotti con la semplicità e la naturalezza che sanno evitare toni stentorei, surreali ed enfatici, non metteranno tra parentesi, in quell’oasi temporale che è la messa, la cruda realtà di chi soffre, muore di fame, non sa dove sbattere la testa, vive ore di angoscia. Si sta celebrando il mistero pasquale che è risurrezione, ma attraverso la passione e la morte.

La liturgia poi diventa «trasgressiva» (A. Grillo) nella misura in cui perde di vista la concretezza dell’evento che celebriamo nel mistero: Cristo capofila degli emarginati, il servo sofferente. E aiuta a trarre le conseguenze per la vita personale e sociale.

Per una riuscita fusione tra canto e liturgia

Il repertorio dei canti sia prima di tutto appropriato al momento liturgico che si sta vivendo: si eviti perciò la genericità e la banalità. Ogni celebrazione (battesimo, confermazione, matrimonio, funerali…) richiedono canti che le si addicono.

Fonti sicure a cui attingere sono il Repertorio nazionale e La famiglia cristiana nella Casa del Padre: entrambi forniscono l’indice dei canti tenendo presente lo svolgimento del rito della messa, i vari tempi liturgici e gli altri sacramenti. Questi sussidi sono dei punti fermi in cui si potranno scoprire di anno in anno nuovi canti, senza dover necessariamente ricorrere a quanto viene sfornato di continuo, spesso all’insegna dell’effimero, senza una dignità letteraria e una nobiltà musicale.

Tuttavia, su fascicoli e riviste musicali si possono trovare canti pregevoli dal punto di vista musicale e linguistico.

Per la scelta di canti appropriati Amelio Cimini giustamente fa notare che «un canto va calato realisticamente nel momento rituale; oltre che avere una corrispondenza interna ad esso, deve anche permettere di partecipare alla coralità dell’azione liturgica. È semplicemente assurdo, ad esempio, considerare intercambiabili un canto d’ingresso e un salmo responsoriale, come non è logico utilizzare durante la processione di comunione un canto che richiede particolare attenzione per contenuto ed esecuzione tecnica.

La veloce usura di certi canti deriva proprio dal loro impiego ossessivo e indiscriminato (vedi i cosiddetti canti per tutte le stagioni come lo sono stati Al tuo santo altar, Resta con noi, Esci dalla tua terra, Symbolum ’77 ecc., canti benemeriti, ma eseguiti con disinvoltura a Natale, Pasqua, funerali, matrimoni, cresime e prime comunioni). I tempi forti e le grandi solennità dovrebbero avere i loro canti caratteristici, non intercambiabili con quelli di altri tempi o feste».

Ci sono infatti i “canti segnale” per i tempi forti che devono essere necessariamente presenti durante la celebrazione perché le danno una coloritura particolare in sintonia col tempo liturgico, liberi ovviamente di introdurne altri, evitando però di celebrare per esempio le messa del tempo natalizio prescindendo dai canti che il popolo conosce e ama cantare.

Nella scelta del repertorio spesso si punta sull’effetto, affidando il tutto a un gruppo particolare, trascurando però l’assemblea e lasciando sguarniti, da un punto di vista liturgico-canoro, alcuni snodi fondamentali del rito, con una conseguente estrema povertà liturgica pur in tanto fasto canoro.

I canti saranno scelti tenendo presenti le possibilità dall’assemblea, il contenuto con riferimenti biblici e in linea con la grammatica e la sintassi. Siano tali da rasserenare gli animi, favorendo la calma e la preghiera interiore che scaturisce dal rito stesso, e senza che l’assemblea venga ferita con lagne o al contrario con toni troppo esaltati per essere veri. In medio stat virtus.

Più che essere preoccupati di cambiare continuamente, è consigliabile «un’acquisizione di materiali agili, come dialoghi-risposte, acclamazioni, ritornelli di benedizione o di supplica, litanie. Una regia che sa organizzare con proprietà simili elementi, solo in apparenza poveri, ottiene a volte vantaggi non inferiori a quelli legati all’impiego di materiali laboriosi in fase sia di apprendimento che di esecuzione… Una messa parrocchiale di una comunità volenterosa e fedele ai valori profondi, benché povera di possibilità musicali, può essere più solenne di celebrazioni spettacolari, fascinose, ricche di apparati tali da attirare l’attenzione della cronaca e i consensi della critica» (F. Rainoldi). La nuova edizione del Messale favorisce questo criterio.

Nelle celebrazioni con prevalenza di fanciulli si utilizzeranno canti adatti per loro e all’estensione vocale dell’età. Non mancano al riguardo delle belle composizioni.

Tuttavia, volendo al riguardo allargare il discorso, credo opportuno riportare le severe osservazioni di Giuliano Zanchi: «La questione dei bambini nella liturgia per esempio è sotto questo profilo emblematica. Ha persistito la convinzione che iniziare i bambini alla liturgia significasse buttarli nel cuore dell’azione, a leggere, a cantare, a fare musica, a diventare protagonisti di gesti escogitati ad hoc, producendo pazientemente le condizioni per una infantilizzazione della liturgia di cui non si è capaci di mettere in conto il serio effetto deteriore sull’insieme della vita comunitaria.

Il furore dadaista prodotto dall’effetto combinato di questi equivoci ha soffiato su ogni tipo di strategia additiva, di innesto emotivo, di supplemento didattico, di integrazione ludica, finiti a comporre quel senso comune della cura liturgica che ha gaiamente perseguito la strada di espedienti al ribasso, più vicini alla logica dell’intrattenimento che ai processi della mistagogia» (Rimessi in viaggio, p. 56).

La corretta esecuzione dei canti

A questo punto è chiamata in causa la competenza musicale degli animatori del canto liturgico i quali, invece di affidarsi acriticamente alle esecuzioni offerte dai media o alle deformazioni ormai consolidatesi, dovrebbero essere capaci di una corretta interpretazione della partitura, rispettando il solfeggio e tenendo presente la regola d’oro: cantare come si parla. Si elimineranno così progressivamente pronunce e accentuazioni sbagliate di stampo provinciale, liberando la modalità del canto liturgico dal forte condizionamento da parte dei cantautori e dei doppiaggi di certe fiction.

Va corretta pure la tendenza alla lentezza e al portamento arbitrario tra una nota e l’altra: deformazioni che creano il patois tipico di un certo modo di cantare in chiesa che facilmente si presta al birignao da parte del comico di turno che ben sa imitare tutte le deformazioni, a partire dall’alleluia pasquale gregoriano, nobile ed agile fluire di crome secondo arsi e tesi, diventato un monstrum musicale di semiminime, con un assurdo e accentuato rallentando in un’acclamazione di sole tre battute.

La cura dell’agilità e dell’eleganza nel ritmo e nel fraseggio, l’adesione delle parole alla musica e viceversa, senza sdolcinature o forzature, il giusto rilievo dato ad ogni accento nell’ambito della stessa battuta, il leggero crescendo o diminuendo sia nel tono che nel fraseggio, una corretta articolazione orale nell’emissione dei suoni, una corretta respirazione che segua il senso compiuto di una frase, sono tutti elementi che danno le ali al canto che, espresso con decoro, diventa una vera lode che fa trasparire lo splendore e la misteriosa bellezza della liturgia.

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Una spiritualità per chi presiede la liturgia

di: Matteo Ferrari

liturgia presidenza

Certamente la figura di Giovanni Battista come ce lo presenta il quarto Vangelo riguarda ogni cristiano. In qualche modo, egli viene presentato come un modello del discepolo di Gesù. Giovanni è “testimone della luce”, ha il compito nel mondo di ridestare quel desiderio di vita che il creatore ha posto nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, cercando di contrastare le tenebre, per preparare una via per il Signore.

Tuttavia, se è vero che il Battista è modello di ogni cristiano, potremmo anche prenderlo come modello del ministero nella celebrazione liturgica e, in particolar modo, di chi vive il servizio della presidenza.

È sempre un servizio complesso quello di presiedere, che coinvolge tante dimensioni, competenze, sensibilità. Non è certamente auspicabile “uniformare” tutto. Questo, oltre che essere impossibile, sarebbe la morte della liturgia. La diversità dei doni, degli stili, delle sensibilità non è un limite, ma una ricchezza. Tuttavia, occorre anche una cura del modo di svolgere i vari ministeri nella liturgia e la presidenza della celebrazione in particolare. Potremmo dire che occorre una “spiritualità” del ministero e della presidenza liturgica che, pur non cancellando le particolarità di ognuno, permetta un rispetto del senso fondamentale della liturgia e del mistero celebrato.

«Un uomo mandato da Dio»

Nel prologo poetico (Gv 1,6) l’evangelista in un solo versetto ci presenta la “carta d’identità” di Giovanni. Egli è innanzitutto un uomo. Non è distinto da tutti gli uomini e le donne: è un fratello. Questo comporta che Giovanni, «il più grande tra i nati di donna» (Mt 11,11), condivida le ricchezze e i limiti della condizione umana. Giovanni può essere modello, proprio perché non si presenta come “separato” o “diverso” dagli altri, ma ne condivide la condizione, le attese di ogni uomo e donna.

In secondo luogo, il Battista è «mandato da Dio». Egli non porta né un messaggio, né una missione propria, ma è stato inviato da Dio. Giovanni si pone sulla scia di tutti i profeti: mandati da Dio, servi appassionati della sua Parola. Come i profeti, egli è un uomo, ma la sua missione è quella di “stare in mezzo” tra Dio e gli uomini, condividendo sia la sorte della Parola del Signore, sia quella del popolo.

Infine, l’evangelista riferisce il nome di quest’uomo: Giovanni. Il Battista è un uomo, ma non è un uomo generico: ha un nome ben preciso, ha una sua singolarità e personalità. Il significato del suo nome è «Dio fa/ha fatto misericordia». Il nome dice anche l’identità e la missione: egli deve essere testimone della misericordia di Dio.

Queste prime tre caratteristiche del Battista sono come i primi tre ingredienti da curare per una “spiritualità” del ministero e della presidenza liturgica.

Chi svolge un ministero o presiede la celebrazione liturgica è innanzitutto “un uomo”. Sembra banale, ma non ce lo dobbiamo mai dimenticare. C’è una umanità da curare. La radice di un’autentica ars celebrandi è la nostra umanità. Tanto più si vive una umanità libera, matura, vera e serena, tanto più è possibile vivere il ministero nella liturgia. Questa prima caratteristica del Battista dice a chi presiede che è un uomo come gli altri, è un fratello tra i fratelli e le sorelle. Questo è un atteggiamento molto importante nell’arte di presiedere, nel rapporto con l’assemblea.

La seconda caratteristica del Battista che può illuminare il ministero e la presidenza è il fatto di essere portatori di un messaggio e di un ministero che viene da Dio. La consapevolezza di non svolgere un compito in proprio, ma di essere inviati, deve far comprendere che chi presiede non è “padrone” di ciò che amministra, ma unicamente un inviato da Dio. Anche l’atteggiamento di non essere ministri “a titolo proprio”, ma come “inviati di Dio”, è ciò che imprime uno stile nel rapporto tra presidente/ministri e assemblea.

Infine, chi presiede o chi svolge un ministero ha “un nome proprio”. Chi presiede non è una persona generica, ma una persona con un nome, una storia, delle relazioni, un inserimento nella comunità cristiana. Come il Battista, ognuno ha un nome proprio e quindi una propria identità, una propria particolare missione. Non ci si può annullare nel ministero, non si può essere “un’altra persona”. Anche la spersonalizzazione, l’essere altri, a volte avere anche un’altra voce, altri atteggiamenti, non giovano all’ars celebrandi, alla capacità di presiedere un’assemblea liturgica. Occorre essere capaci di evitare il protagonismo, senza rinunciare alla presenza e alla vicinanza.

Ma “Giovanni” è anche un po’ il nome di ogni ministro, in quanto chiamato ad annunciare che «il Signore fa misericordia». Soprattutto chi presiede la celebrazione porta in qualche modo sempre il nome di “Giovanni” perché è ministro della misericordia di Dio per ogni uomo e donna. Uno stile fondamentale per chi presiede!

«Egli non era la luce»

Sia nella parte del prologo poetico (Gv 1,6-8.15), sia in quello narrativo (Gv 1,19-34), il quarto Vangelo ci presenta la testimonianza del Battista. La prima presentazione che l’evangelista fa è tutta al negativo.

Prima di tutto si dice chi Giovanni non è. Innanzitutto nel prologo poetico si afferma che il Battista “non è la luce”. Egli è testimone della luce, ma non si identifica con essa. La luce nel Vangelo di Giovanni è lo splendore della vita, che il creatore ha desiderato fin dalla creazione del mondo. Non c’è altro progetto di Dio al di fuori della vita in pienezza. E per “vita” non si indica solamente la vita biologica, ma quella che non viene meno e non teme la morte.

Il Battista, pur non essendo la luce, cioè la manifestazione della vita che Dio desidera per l’umanità, ne è il testimone. Cioè, in un tribunale dove si affrontano la luce e le tenebre, egli è chiamato a parlare in favore della luce: deve ridestare nel cuore degli uomini e delle donne il desiderio della vita, l’anelito alla luce. Questa è la missione di Giovanni tutta decentrata da sé, per indicare un altro, che è – secondo quanto sottolinea il prologo stesso – «la luce vera, che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).

Nel prologo narrativo continua questa presentazione “in negativo” del Battista. Interrogato da coloro che sono mandati da Gerusalemme per chiedere conto della sua identità, egli afferma di non essere né il Cristo, né Elia, né il profeta. Egli non è il Messia, cioè non è lui l’atteso di Israele, quella figura futura nella quale si concentrano tutte le speranze del popolo. Lui non è nemmeno Elia, il profeta atteso, secondo quanto affermano Malachia (Mal 3,1-3.23-24) e il Libro del Siracide (48,9-11), per predicare la conversione prima del giorno del Signore. Giovanni non si riconosce come la figura definitiva, che precede il giorno del Signore.

Inoltre, egli non si riconosce nemmeno nel “profeta”, cioè nel «profeta simile a Mosè» annunciato nel Libro del Deuteronomio (Dt 18,15.18).

Giovanni Battista quindi non si riconosce nel “futuro” rappresentato dal Messia, né nel passato raffigurato da Elia e dal profeta simile a Mosè. Egli dice non sono io né il passato né il futuro, per indicare «colui che è che era e che viene».

Ecco un secondo passo: un ministro, chi presiede la celebrazione, deve saper dire come Giovanni “non sono io”. Il suo compito è quello di indicare un altro, l’Agnello di Dio che porta su di sé il peccato del mondo (cf. Gv 1,19.36). Come per Giovanni, compito di chi presiede la celebrazione, come di tutti gli altri ministri, è quello di indicare Cristo, senza attirare l’attenzione su di sé. Anche in questo caso c’è un rischio molto insidioso: quello di sentirsi i protagonisti della situazione.

Giovanni insegna a dire: “non sono io”. Quindi, questa presentazione “in negativo” del Battista, non è altro che il puntare il dito su un altro, come dirà alla fine della sua testimonianza. Interrogato nuovamente sulla sua identità e sulla sua autorità, il Battista risponde: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È questo il compito di chi presiede la celebrazione nei confronti dell’assemblea liturgica! Annunciare: «In mezzo a voi sta uno che non conoscete!».

Presiedere la celebrazione, svolgere in essa un ministero, significa ultimamente sempre annunciare la presenza del Signore risorto e vivente nell’assemblea di coloro che sono radunati nel suo nome. D’altra parte, è anche il senso dell’abito liturgico: indossare un abito particolare significa dire “non sono io!”, dovete guardare un altro.

«Voce che grida nel deserto»

Dopo la risposta in negativo, ecco quella in positivo. Giovanni, citando un passo del profeta Isaia, afferma di essere «voce che grida nel deserto» (Gv 1,23; Is 40,3). Egli afferma di essere “voce”. Origene commenta: «è mediante una voce che la Parola viene resa presente». C’è quindi un rapporto tra voce e parola, ma la voce non è la Parola. La Parola/Verbo è Gesù il Cristo, Giovanni è solo voce che fa risuonare la Parola. In qualche modo Giovanni riferisce a sé una caratteristica che appartiene anche alla Scrittura: quella di essere voce della Parola di Dio, in un rapporto di identità e differenza nello stesso tempo.

Il deserto è il luogo nel quale la voce grida, è anche il posto nel quale Dio incontra il suo popolo e lo educa. Come in un nuovo esodo il Signore incontra il suo popolo e lo accompagna verso la terra promessa.

Inoltre, nel deserto Israele è nato: è come se si trattasse di un nuovo inizio, una nuova possibilità offerta da Dio al suo popolo per ristabilire la relazione con lui e l’alleanza. Giovanni distoglie ancora una volta l’attenzione da sé, dice di essere unicamente la voce della Parola e afferma che il suo compito è quello di «rendere diritta la via del Signore»: la meta non è l’incontro con lui, ma egli ha solo il compito di rendere diritta la via per l’incontro con il Signore.

Anche questa autopresentazione in positivo del Battista può dire qualche cosa ha chi esercita il ministero della presidenza nell’assemblea liturgica. I ministeri nella liturgia devono essere consapevoli di non essere la Parola, ma di essere voce della Parola. Come Giovanni essi dovrebbero rivestirsi «della magnifica dignità della Scrittura» (X. Léon Dufour). Anche la Scrittura, infatti, non è “la Parola”, ma è voce e sacramento della Parola di Dio (cf. DV 24).

Chi ha il compito della presidenza o del ministero nella liturgia dovrebbe essere così in ascolto della Parola di Dio da diventare “scrittura” vivente, una Bibbia non scritta sulle pagine di carta di un libro, ma nella viva carne della nostra esistenza. Per questo, come sollecita anche Dei Verbum, l’ascolto della Parola nella sacra Scrittura dovrebbe appartenere in modo particolare a chi che nella Chiesa vive il ministero pastorale e liturgico.

Parlando di quanti «attendono legittimamente al servizio della parola», il Concilio afferma che essi «devono essere attaccati alle Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio assiduo» (DV 25). Pensiamo a quanto sia importante questo aspetto per il servizio della predicazione e dell’omelia.

«Ho visto e ho reso testimonianza»

Circa l’autopresentazione del Battista, l’evangelista Giovanni afferma che è una «confessione» (Gv 1,20). Si tratta di un termine tecnico per indicare la professione di fede nel Messia. Egli parla di sé, ma in fondo confessa la fede nel Messia, per giungere a parlare dello sposo al quale non è degno di sciogliere il laccio dei sandali (cf. Gv 1,27). Giovanni ha visto e ha reso testimonianza: «ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Egli ha fatto esperienza diretta di Gesù Messia. Per questo può essere suo testimone e indicarlo ad altri come l’Agnello di Dio.

Giovanni parla a chi svolge il compito della presidenza e del ministero nella liturgia per dirgli che solo chi ha fatto esperienza di Gesù Messia può poi testimoniarlo e far sì che altri lo incontrino: «si tratta di una sorta di dato teologico generale: ogni accoglienza del “mistero” apre su un “ministero”» (L.-M. Chauvet).

Il ministero della presidenza, l’ars celebrandi, non è allora solamente, né forse principalmente, una questione di competenza, ma di spiritualità. Il desiderio stesso della formazione e della competenza – che sono comunque essenziali – nasce dall’amore, dal percepire che una realtà così centrale per la vita cristiana come l’eucaristia e la liturgia hanno prima di tutto senso per me. Senza amore non c’è nemmeno competenza.

Giovanni Battista ci insegna questo e diventa modello per tutti coloro che svolgono un ministero nell’assemblea liturgica. Giovanni è “un asceta”, che vive nel deserto. Anche presiedere una celebrazione, necessita un’ascesi: quella di saper dire, come il Battista: “non sono io!”.

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Ricominciare dalla preghiera dei fedeli

Nel clima di dibattito attorno alla nuova traduzione del Messale pubblichiamo un contributo comparso come editoriale sul sito della Rete delìi Viandanti (www.viandanti.org) il 29 novembre scorso. (fonte Adista)

lo ha scritto Roberto Boggiani, Medico, operatore in una comunità di accoglienza a Parma.

La preghiera dei fedeli fu ripristinata dal Concilio Ecumenico Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium (n. 53), riguardante la riforma liturgica. Sembrava essere il primo strumento messo in mano ai laici per dar loro voce in seno alla celebrazione eucaristica, in ossequio al riscoperto carattere sacerdotale di tutto il popolo di Dio.

Di spontaneo è sortito ben poco

Si tratta di una sequenza di invocazioni, di richieste di aiuto, di ispirazione, di grazie, posta giusto al termine della Liturgia della Parola e appena prima della Liturgia Eucaristica.

Essendo, almeno in linea di principio, a disposizione dei fedeli poteva assumere il carattere della spontaneità come, per fare un paragone un po’ ardito, l’omelia è a discrezione del singolo celebrante o comunque del presbitero o del diacono demandato. Come per l’omelia, ancor più per le preghiere dei fedeli è naturale che esistano delle linee guida.

Le intenzioni di preghiera seguono uno schema fisso, cui possono essere aggiunte altre a discrezione, spazio di solito poco utilizzato, se non in circostanze particolari. Lo scopo è di pregare per le necessità della Chiesa e del mondo e la successione di solito è la seguente: la Chiesa universale nella varietà dei ruoli e dei carismi, i governanti che presiedono alle sorti degli abitanti della terra, le categorie di persone in circostanze particolarmente critiche, l’assemblea eucaristica particolare e la comunità locale.

Come possa essere successo che, in oltre cinquant’anni, di spontaneo sia sortito ben poco e che le varie assemblee particolari preghino solitamente seguendo delle formulazioni preconfezionate diffuse mediaticamente, seppur da più fonti, lascia allibiti ma è nella realtà dei fatti.

Le preghiere dei “foglietti”: aride acrobazie linguistiche

Una generazione come la mia non riesce tanto a digerire le formulazioni auliche, prolisse, con sintassi spesso articolata, a contenuti sempre molto elevati, che ci propinano i foglietti distribuiti fra i banchi, i quali hanno sì lo scopo di favorire una migliore partecipazione personale, soprattutto alle letture, e di poterne fare memoria lungo la giornata o magari lungo la settimana, ma nessuno ripeterà le preghiere dei fedeli ivi riportate.

Sentirsi esclusi dall’esternazione orante personale è forse per la maggioranza una rassegnazione: è sempre stato così. Alla faccia dei segni dei tempi che vedono l’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana, sempre meno frequentata e, fuori, una società sempre più secolarizzata.

La posta in gioco è la vita di fede dei fedeli stessi. Se essi vedono così contratta la loro possibilità di espressione dentro l’Eucaristia, come potranno prorompere nell’annuncio alla gente di fuori, in mezzo a chi non conosce, non accetta, non può godere della bella notizia che i cristiani non annunziano più, che si tengono gelosamente per loro, che non ha più attrattiva, specialmente per le giovani generazioni?

Liberare la preghiera dei fedeli

Esprimendo se stessi nella preghiera, arricchirebbero pure la visuale del pastore sui fedeli affidati alle sue cure. Ciò fungerebbe di verifica di quanto da essi raccolto dall’ascolto della Parola di Dio, dentro e al di là dalla sua personale predicazione, e della risonanza da essa provocata.

Si pensa che il pastore conosca già le sue anime nella confessione. Nulla di più vero. O forse no? Ma le anime poi si conoscono spiritualmente fra di loro? Ho l’impressione che le espressioni di fede, con tutto il corteo verbale e gestuale che comportano, restino troppo confinate allo spazio intimo pastore/fedele. Mi pare che all’interno della comunità, e nella celebrazione eucaristica in particolare, non si riesca ad apprezzare quello spirito di apertura reciproca che dovrebbe sommamente rappresentarla. Le relazioni tra i fedeli sempre riguardano più il da farsi che l’essere autentici testimoni.

Non sarà certo la preghiera universale restituita ai fedeli a riempire di nuovo le chiese per la messa, ritengo, però, che la restituzione al popolo della preghiera dei fedeli sarebbe già una notevole conquista.

Condividere anche la Parola

Nell’ottica di una rivitalizzazione della celebrazione eucaristica, bisogna pensare anche ad ulteriori spazi partecipativi, senza possibilmente stravolgere l’attuale assetto.

Ultimamente un accorato intervento di Enzo Bianchi su Jesus del marzo scorso si domandava: “Quanti presiedono l’eucaristia dovrebbero porsi una domanda: l’assemblea che sta loro di fronte, di quale azione liturgica ha bisogno per potervi partecipare? Come quest’assemblea può riconoscere in ciò che celebra la Pasqua del Signore e la sua presenza viva di Kýrios, di Signore su di essa? Le domande sono molte, a partire da quella che ripeto spesso: quando la chiesa permetterà a dei fedeli, uomini e donne, preparati, scelti e riconosciuti nel carisma di spezzare la Parola, di intervenire con ordine nell’omelia presieduta dal presbitero?”. Personalmente lo vedo un traguardo lontano, stando così chiuse e sedimentate le cose.

Penso piuttosto al dopo-comunione quale momento opportuno, vorrei dire, di Condivisione della Parola (ma ben più forte è lo “spezzare la Parola” di Enzo Bianchi!), ben spaziato temporalmente dal Ministero della Parola (l’omelia presbiterale). Si potrebbe dare seguito al silenzio (spesso troppo breve) di preghiera intima individuale che segue la comunione con più voci che comunicano ai fratelli il proprio messaggio di entusiasmo personale, di incoraggiamento, di vita, in un particolare momento in cui forte è l’ardore di fede, l’anelito di speranza, il vigore di carità che la comunione suscita.

Muti in chiesa, loquaci sul sagrato

Ciò potrebbe creare una bella aspettativa nell’assemblea, che altrimenti opta per una conclusione rapida e il passaggio alle esternazioni sul sagrato. Quel che di empatico e informale, di faceto e – perché no – di profano, che fa seguito ad una scena sostanzialmente muta durante la celebrazione. Che resta ordinariamente muta nel seguito.

Al più si indugia in apprezzamenti generici della performance omiletica del celebrante, dove fra la mitizzazione e la squalifica solitamente non esiste nulla. Forse si sovrapporrebbero dei preziosi richiami a quel che l’uno o l’altro ha espresso, spunti anche di meditazione che poi emergerà nella condivisione successiva, con un’auspicabile progressione sia qualitativa che quantitativa della partecipazione.

Due pratiche (la spontanea preghiera dei fedeli e la condivisione della Parola) che, credo, sarebbero di aiuto per essere lievito che fa fermentare tutta la pasta, per renderci capaci di dare sapore a questa società spiritualmente scipita.

BIBBIA E LITURGIA Desiderio di assenza per un Natale di attesa e gioia

Mentre questo Natale duemilaventi un po’ squinternato ci sta cadendo addosso con il suo carico di incertezze, domande e paure, penso al pastore della meraviglia, alla zampogna che suona felice nella notte di Betlemme, ai flauti che intonano melodie mediorientali, alle massaie che arrivano di corsa fino alla grotta, con le mani impastate di acqua e farina.

C’è poco da fare. Il Natale è il giorno dei poveri, degli ultimi della terra. È la notte santa, eppure laicissima, in cui i dimenticati e i lontani sorridono alla buona notizia. Un Natale plebeo, seppure l’Occidente ricco lo riduce a merce da asporto.

La veglia di Natale corregge, in una sola notte, le storture delle democrazie del mondo, assumendo come vincolo etico il diritto di presenza di questa moltitudine di gente che, come canta Fabrizio De André in Smisurata Preghiera, «viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione». E che pure sorride alla vita che viene. E, almeno per un santissimo e laicissimo giorno, fa festa.

Ecco perché non mi appassiona per niente il dibattito sugli orari delle messe per la veglia di Natale. Trovo discrasia tra l’affanno della ricerca del buon orario e i contenuti di una veglia che è “altro”, che può essere “altro”, tra le disposizioni una tantum per igienizzare il luogo di culto e un’accoglienza al Tempio che dovrebbe invece essere attenzione quotidiana e percezione comune.

Dal punto di vista liturgico – non me ne vogliano gli appassionati del tema che guardano al Triduo Santo come l’apice della liturgia cristiana – io scelgo sempre la veglia di Natale. Perché è attesa di vita. Senza complotti, tradimenti, miracoli, resurrezioni. Attesa di vita che sorride.

La grande tradizione musicale classica e sacra ci ha regalato opere maestose e indimenticabili durante il Triduo Santo, ma qui vince Sant’Alfonso Maria de’ Liguori con Tu scendi dalle stelle, la versione italiana della napoletana Quanno nascette Ninno. La semplicità e lo stupore di “quella” notte, anzi, di “questa” notte, è il tributo massimo all’attesa del bello, senza scorciatoie.

La veglia di Natale – e non le messe del 25 dicembre che sono già numerose con ampie possibilità di scelta – vale il diritto di presenza, ma proprio per questo non sopporterei un altolà sulla soglia del Tempio, probabile per i luoghi di culto piccoli, perché magari i fedeli si sono barricati al loro posto striminzito dal Covid, occupando i disponibili. Non sopporterei nemmeno la possibilità (alternativa) di prenotare la messa on line, per paura di rimanere fuori, come già succede in tante parrocchie per le messe domenicali. Se la liturgia diventa atto burocratico perde il suo senso.

Di fronte a questo diritto di presenza, inviolabile e allo steso tempo personale e comunitario, vale allora il dovere di assenza. Un’assenza che in questa notte benedetta mette a nudo l’assenza del Tempio, delle persone care, dell’amicizia, di una tavola imbandita che almeno in questo ventiquattrosera conoscerà sobrietà e silenzio, trovando posto comunque per allegria e gioia.

Questo ventiquattroduemilaventi è il Natale dell’assenza. Uno stravolgimento del rito che pian piano diventa però desiderio di assenza, desiderio di rito, desiderio di relazione, desiderio di fraternità. Il sacro viene a cercarci proprio quando sembra in letargo.

Lasciarsi accarezzare da questo desiderio di assenza è la scommessa di questo Natale di attesa di vita vera. Un’assenza che apre la porta per un Natale denso. Di attesa e sorriso.

vinonuovo.it

Alle origini del culto cristiano

di: Francesco Bonomo

culto antico

Il merito di un’opera scientifica è l’obiettività nella ricerca e la capacità dell’autore di poter spaziare il più possibile tra discipline di aree differenti senza dare per scontate acquisizioni precedenti. Il lavoro di Andrew Brian McGowan Il culto cristiano dei primi secoli (tit. or. Ancient Christian worship) corrisponde a questo quadro e si distingue per pregio nel panorama liturgico e nell’ambito delle case editrici cattoliche.

Già il titolo circoscrive il lavoro che non si estende oltre il V secolo e con questa soglia di chiusura il volume non esita a entrare, spesso nel dettaglio, in una storia complessa e non sempre libera da precomprensioni. Il sottotitolo però, uno sguardo sociale, storico e religioso (Early Church practices in social, historical and theological perspective) focalizza ancora di più lo sforzo dell’autore della Yale Divinity School nell’affrontare la formazione della liturgia nei secoli iniziali del Cristianesimo.

Seguendo le novità editoriali degli ultimi dieci anni abbiamo avuto modo di constatare il “fiorire” di numerose pubblicazioni, spesso di taglio storico, che hanno affrontato il periodo in oggetto al volume, segno di un rinnovato impegno della ricerca a scrutare con attenzione un gruppo di secoli troppo sovente liquidati da alcune voci della teologia e della liturgia in un iperuranio romantico di idee affascinanti ma raramente aderenti a quanto si può verificare oggi. McGowan invece si pone scientificamente sulla linea della ricerca metodica elaborando un testo che ha le caratteristiche del manuale che necessita di essere consultato specialmente da chi vuole accedere alle radici della formazione e dello sviluppo del culto, adatto quindi a ogni studente o cultore di liturgia.

Affermiamo questo perché nel susseguirsi dei capitoli l’autore tratta ogni aspetto del culto cristiano, procedendo dal generale al particolare, e il taglio sociale è proprio la chiave di lettura scelta per affrontare il periodo indicato e analizzare la storia della liturgia che si radica in un contesto e in una cultura, alveo di nascita e incremento di liturgie che promanano da un particolare tipo di società, quelle romane e orientali del nostro Mediterraneo, ergo è decisiva la comprensione e la conoscenza dettagliata di quei contesti sociali per poter capire che cosa sia stato, il più realisticamente possibile, l’atto di culto con cui il Cristianesimo si esprimeva a partire dai dati dell’Antico e del Nuovo Testamento (capitolo primo).

battistero

Così l’autore studia il periodo subapostolico ritornando con precisione sui testi principali della nascente letteratura cristiana, quali la Didaché, la Traditio apostolica, le Costituzioni apostoliche e le opere dei Padri, il tutto con l’obiettività e la chiarezza del ricercatore, attento e assiduo frequentatore delle fonti. Il testo si ferma sull’Eucaristia (capitolo secondo) e cercando di far chiarezza sulle sue origini distinguendo tra banchetto, sacrificio e i “pasti” descritti nel Nuovo Testamento oltre a considerare le sue diverse forme per quanto riguarda gli spazi (case, aule o basiliche, o l’ecologia del rito) gli atti linguistici, gli oggetti e i celebranti (etologia); in questa parte oltre le interessanti acquisizioni sui testi delle preghiere eucaristiche – con alcuni rilievi originali sulla Didaché – si possono leggere le chiarificazioni sul bacio di pace nella liturgia inteso a partire dal valore che ha come segno di relazione ecclesiale e non come gesto di cortesia tra individui.

Nell’ultima parte del secondo capitolo, a proposito del luogo di culto, si riscontra il passaggio da un’assenza di luogo “sacro” nei primi tre secoli alla basilica. Non sono certo mancati luoghi di riunione ma come ricorda Metzger nel suo L’église dans l’empire romain (2015) parafrasando Paolo (1Cor 3,16-17) il vero tempio di Dio sono state le assemblee dei credenti raccolte in luoghi funzionali alle celebrazioni cui si sono sostituiti i cantieri imperiali per la costruzione delle basiliche martiriali e il successivo passaggio verso la formazione del concetto di luogo consacrato ed esclusivo come ha approfondito Anne Marie Yasin nel volume Saints and church spaces in the late antique mediterranean. Architecture, cult and community (2009).

Giustamente l’autore sottolinea che le necessità logistiche e le possibilità teologiche che si stavano sempre più approfondendo sono state l’elemento che ha permesso il cambiamento del pasto, riconoscibile come tale nelle case originariamente alla presenza di gruppi contenuti, in un culto organizzato in un luogo consacrato.

ambone

Di grande importanza per lo studio del lezionario e dell’organizzazione delle letture per la Messa è il terzo capitolo in cui si fanno delle puntualizzazioni necessarie sui rapporti tra ecclesia e sinagoga in quanto alla pratica delle letture bibliche durante la liturgia cristiana e le presunte dipendenze del cristianesimo dall’ebraismo.

Sempre grazie alla lente di ingrandimento costituita dal sociale, acquista particolare valore lo studio della musica e della danza nelle prassi liturgiche primitive per le quali si arriva a comprendere che il canto non è un orpello necessario a solennizzare un atto sacerdotale, di una persona in un giorno di festa, ma che esso, fuori da impostazioni moderne e contemporanee, è manifestazione di amore e di gioia nell’essere participes del mistero della Redenzione. Una voce che sgorga dall’esultanza dello spirito e che si caratterizza come il “canto nuovo” che coincide con la vita nuova del redento.

Sulla linea delle ricerche di P.F. Bradshaw, McGowan si impegna nello studio del Battesimo nei primi quattrocento anni di storia cristiana e se da una parte, per la scarsezza di fonti, il Nostro non supera di molto quanto affermato da Bradshaw nell’altro grande studio sulla liturgia dei primi secoli, The search of the origins of Christian worship, dall’altra ha messo a punto un sistema di metodo critico per affrontare il tema, poterlo inquadrare e ottenere quasi una “purificazione” della mens liturgica e non di meno di quella theologica.

Altre due dipendenze dell’autore riguardano il capitolo sesto sulla preghiera, in cui si sentono gli echi di R. Taft, The Liturgy of the Hours in East and West, e il settimo sulla formazione dell’anno liturgico, legato agli studi di Talley e in particolare al noto volume di Bradshaw e M.E. Johnson, The origins of feasts, fasts and seasons (Liturgical Press 2011), ma questo più che essere un difetto è un pregio dell’opera che si appoggia sul lavoro degli studiosi citati per proseguirlo con l’obiettivo primo di contribuire a che la scienza liturgica si accresca soprattutto su due ambiti come la preghiera ecclesiale e la formazione dell’anno liturgico che necessitano continuamente di nuovi approcci.

culto antico

Al contributo di questi maestri, si aggiungono le precisazioni che McGowan offre alla comunità scientifica perché riesce a decodificare diversi elementi, a epurare visioni distorte e profondamente antistoriche sulla liturgia ma che continuano a essere ripetute in modo acritico in pubblicazioni anche recenti.

Ragionando secondo la categoria delle differenze che non servono a dividere ma ad arricchire, crediamo non sia superfluo sottolineare che questo manuale sul culto cristiano dei primi secoli del Cristianesimo è stato composto da un presbitero della chiesa anglicana d’Australia. Si percepisce spesso il background della formazione del Nostro, soprattutto per lo spirito obiettivo con cui egli affronta sia autori del passato come Dix, sia alcune caratteristiche della liturgia così come è concepita fuori dal mondo cattolico e in particolare nelle chiese della riforma.

E proprio questo è l’arricchimento che giunge dall’editoria italiana: avere accesso in italiano a un mondo di ricerca sulla liturgia che di solito non ha molto rilievo nelle nostre aule universitarie ma che merita invece una osservazione costante; il fine è acquisire un metodo che non esclude ma include visioni differenti di una realtà, poiché la liturgia cristiana ha le caratteristiche del diamante sfaccettato e non di una lastra liscia e levigata di un qualsiasi metallo nobile. Va quindi riconosciuto il merito anche a don Francesco Pieri della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e dell’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina a Padova per aver saggiamente provveduto all’edizione italiana del manuale di McGowan e anche se l’inglese è ormai lingua strumentale alla ricerca, avere un testo di questo spessore disponibile in italiano è certamente un agio da dover sfruttare.

Andrew Brian McGowanIl Culto cristiano dei primi secoli. Uno sguardo sociale, storico e teologico, a cura di F. Pieri, EDB, Bologna 2019. ISBN 978-88-10-41648-8, pp. 400, € 42,00. Recensione pubblicata su Ecclesia Orans XXXVII(2020)2, 372-375.

Dalla prima Domenica di Avvento la nuova edizione del volume sarà utilizzata nella maggioranza delle parrocchie italiane

In attesa del «nuovo» messale. Come accogliere la terza edizione italiana del Messale Romano

Dalla prima Domenica di Avvento la nuova edizione del volume sarà utilizzata nella maggioranza delle parrocchie italiane. Il cardinale Bassetti: molti gli arricchimenti e con un linguaggio attuale

Una Messa al tempo del Covid

Una Messa al tempo del Covid – Ansa

Avvenire

È un libro in cui entra l’«esperienza maturata nelle nostre Chiese particolari», che contiene «arricchimenti» da scoprire passo dopo passo e che soprattutto vuole essere «maggiormente rispondente al linguaggio e alle situazioni pastorali delle nostre comunità». Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, riassume in maniera efficace lo “spirito” del nuovo Messale Romano in italiano che da domenica prossima, prima Domenica d’Avvento e inizio dell’Anno liturgico, sarà sugli altari della maggioranza delle parrocchie della Penisola. Lo scrive in apertura del volume, nella disposizione dove stabilisce che sarà obbligatorio usarlo dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021.

Sarebbe, comunque, riduttivo considerare il rinnovato libro per celebrare l’Eucaristia soltanto una «raccolta di testi da comprendere e proclamare». Perché la liturgia è «luogo privilegiato di trasmissione dell’autentica tradizione della Chiesa e di accesso ai misteri della fede, in un collegamento sempre più stretto con le diverse dimensioni della vita», si legge nell’introduzione al volume firmata dalla Cei. Quanto si celebra deve tradursi in vita, in «impegno quotidiano», chiarisce. Infatti nella Messa si «mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito» e il Messale «indica anche gesti da porre in atto e valorizzare» con cui «si è coinvolti nel mistero celebrato», ricorda la Cei. Del resto, il culto liturgico «non è anzitutto una dottrina» ma «sorgente di vita e di luce per il nostro cammino di fede».

 

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei – Avvenire

 

Il libro è anche segno di «unità della Chiesa orante». Quindi, ammonisce la Conferenza episcopale, il sacerdote non deve «togliere o aggiungere alcunché di propria iniziativa». E avverte: la «superficiale propensione a costruirsi una liturgia a propria misura» non solo «pregiudica la verità della celebrazione ma arreca anche una ferita alla comunione ecclesiale». Poi ricorda le parole pronunciate da Paolo VI alla vigilia dell’entrata in vigore del Messale Romano riformato dal Concilio: no a tendenze che possano «costituire una fuga, una rottura; e perciò uno scandalo, una rovina». Tuttavia la Cei consente «opportune e brevi monizioni», ossia spiegazioni durante il rito. Con un’accortezza però: la «parola umana non soffochi l’efficacia della Parola di Dio e del gesto liturgico». Insomma, non bisogna esagerare. Perché tutto ciò mina la «nobile semplicità» della liturgia che deve essere «insieme seria» e «bella». Inoltre non va dimenticato che il Messale offre «diverse possibilità di scelta e di adattamento» che non necessitano di ulteriori integrazioni.

I vescovi spiegano le novità del volume: dalla traduzione revisionata ai nuovi formulari, soprattutto i prefazi; dall’aggiornamento delle agiografie nel Proprio dei santi all’utilizzo dei testi biblici secondo l’ultima traduzione della Scrittura approvata nel 2007. La Cei chiarisce che «nessuna modifica è stata introdotta nelle risposte e nelle acclamazioni del popolo». Con tre eccezioni: il Gloria e il Padre Nostro che sono stati rivisti recependo la più recente versione della Bibbia; e il Confesso con la formula inclusiva «fratelli e sorelle». Ampio spazio viene riservato al canto che l’introduzione definisce «non mero elemento ornamentale ma parte necessaria e integrante della liturgia solenne». Da qui la scelta di inserire «nel corpo del testo» del Messale «alcune melodie che si rifanno alle formule gregoriane» della precedente edizione del libro datata 1983.

 

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei – Avvenire

 

Benché «la migliore catechesi sull’Eucaristia sia la stessa Eucaristia ben celebrata», l’episcopato italiano incoraggia «un’azione pastorale tesa a valorizzare la conoscenza e il buon utilizzo del libro liturgico». Se il Messale rimane «il primo ed essenziale strumento» per «la celebrazione dei misteri», è anche il «fondamento più solido di un’efficace catechesi liturgica». Ecco il richiamo a una «conoscenza attenta e partecipe» che va favorita nelle parrocchie. Nell’introduzione la Cei sottolinea inoltre che la liturgia è «scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto» e permette al credente di «imparare a “gustare com’è buono il Signore”». Per questo le Commissioni liturgiche diocesane o regionali sono chiamate a lanciare alleanze formative con famiglie, parrocchie, associazioni, movimenti o gruppi ecclesiali.
Le nozze dell’agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale

Infine i vescovi tengono a ricordare che il Messale di Paolo VI, di cui questa edizione della Cei è la terza tradotta in italiano, rappresenta «uno dei fulcri portanti» della riforma liturgica scaturita dal Vaticano II che è «ormai irreversibile». Una riforma che non va ripensata «rivedendone le scelte» ma della quale occorre «conoscere meglio le ragioni sottese». E il Messale lo permette in maniera potente.

Il Sussidio Cei sul Messale per aiutare le parrocchie ad accoglierlo

 

«Un Messale per le nostre assemblee» è il titolo del sussidio Cei predisposto dall’Ufficio liturgico nazionale e dall’Ufficio catechistico nazionale che vuole accompagnare l’arrivo della terza edizione italiana del Messale Romano nelle parrocchie del Paese. Uno strumento per permettere a sacerdoti, animatori liturgici e catechisti ma anche a tutti i fedeli di conoscere meglio il libro liturgico e metterne in atto tutte le potenzialità. Il Sussidio, nato su richiesta del Consiglio episcopale permanente, vuole favorire l’accoglienza del volume e suggerire itinerari di formazione per celebrare e vivere meglio l’Eucaristia. Il testo può essere scaricato dalla pagina dell’Ufficio liturgico del sito della Cei.

Sospendere le celebrazioni?

Settimana News

di: Marco Gallo

celebrazioni

A parte qualche allusione polemica a ridosso della chiusura dei teatri e dei cinema con il Dpcm del 25 ottobre, stupisce che non emerga un dibattito significativo nel nostro paese sull’opportunità o meno che le liturgie rimangano sempre pubbliche e aperte, durante questa seconda ondata della pandemia. Mentre in Francia e in Inghilterra le celebrazioni sono sospese per decisioni dei governi, rispettivamente dal 3 e dal 6 di novembre, in Italia l’aggravarsi preoccupante della situazione non ha portato alla medesima decisione da parte delle autorità pubbliche.

È cosa evidente che nella Penisola ogni territorio sia alle prese con situazioni molto diversificate, ma anche nelle province più in difficoltà e nelle regioni in zona rossa è dunque questa decisione condivisa da tutti, ad intra e ad extra della Chiesa? Perché non se ne discute?

Ci sembra utile, in queste considerazioni assolutamente prive di ogni vis polemica, più che caldeggiare qualche scelta particolare, provare a suscitare un dibattito che ci pare invece necessario e significativo, in settimane in cui il tono emotivo delle comunità, dei pastori e dei teologi, non è certamente d’entusiasmo. In esso apparirebbero questioni significative relative alla questione liturgica, al significato della presenza dei cristiani nella società, al loro rapporto con l’autorità civile e, non ultimo, la questione della comunicazione adeguata.

In chiesa nessun cluster

Non ci sono notizie in Italia di cluster nati in contesto di assemblea liturgica. Questo è l’argomento che sembra chiudere ogni dibattito sull’opportunità di continuare o meno il culto in assemblea: si veda in merito la reazione dei vescovi cattolici inglesi e gallesi, che chiedono al governo britannico di «produrre le prove che giustifichino la cessazione degli atti pubblici del culto».[1]

In effetti, non diversamente da tanti responsabili di luoghi aperti al pubblico, ma con uno sforzo davvero significativo, le liturgie sono state riaperte con protocolli estremamente sicuri. I riti cristiani ne sono usciti profondamente trasformati, ma questo metterebbe ora al riparo da ogni contestazione. Le regole di contingentamento, l’accoglienza alla porta con l’offerta del liquido igienizzante, i posti ben segnalati, la scrupolosa e regolare pulizia dei luoghi e la tipica ampiezza degli edifici permette ora di celebrare con una significativa tranquillità.

Non c’è stato nessun controesodo

In aggiunta, si potrebbe dire che tutto questo è stato in un certo senso tragicamente facilitato dal fatto che le assemblee da nessuna parte hanno visto il ritorno di tutti coloro che abitualmente le frequentavano prima del Covid. Mancano alcuni anziani, persone che con più probabilità vivrebbero la malattia come minaccia mortale: diversi fedeli d’età più avanzata, tuttavia, hanno scelto con coscienza di correre qualche rischio pur di poter tornare alla celebrazione in presenza, quasi subito. A non tornare sono state senza dubbio le famiglie con bambini piccoli, più difficili da controllare (da sempre) durante i riti.

Se prima un infante che veniva vicino rendeva tutto più umano e simpatico, oggi anche questo ci fa notare la povertà umana di questi tempi, in cui la corporeità di cui vive la liturgia è una delle minacce da cui abbiamo nostro malgrado dovuto imparare a difenderci.

Oltre a queste famiglie giovani, ai bambini, ai giovani (già non così numerosi in precedenza), si segnala la mancanza di una fetta considerevole di credenti che non si sente sufficientemente sicuro, a suo agio, capace di interrompere il digiuno che dura ormai dal mese di marzo. A volte, a causa di alcune scene di poca scrupolosità da parte di celebranti o altri credenti, altre volte per il comprensibile disagio di pregare in una situazione più ingessata e meno libera e ricca d’espressività.

Più spesso, perché il vissuto generale si è arricchito di ansia, di paura, di poca propensione agli ambienti con molta gente.

La liturgia post Covid: delicatezza e pudore

Questa pandemia mina la liturgia, più intensamente di un terremoto, di una guerra, di una crisi. Nel pericolo, gli uomini sanno stringersi tra loro, far corpo coeso. In questi mesi, sappiamo che è esattamente questo che favorisce la diffusione del virus. Eppure, così come la festa, i pasti comuni, i gesti della cordialità, dell’amicizia, dell’affetto e dell’amore, così anche la liturgia cristiana non sa esistere con naturalezza senza una certa prossimità dei corpi.

In ogni attività, si tratta di vivere quasi in un ossimoro tra vicinanza e distanziamento necessario, per le comunità cristiane già anticipato nei mesi del primo lockdown dalla persistenza delle azioni della carità fraterna. Le assemblee finalmente riaperte ci hanno restituito il ruolo del corpo comunitario celebrante con tutti i sensi, unico luogo in cui il gesto liturgico cristiano può davvero esistere. La pretesa della riforma liturgica post-conciliare, infatti, chiede un’integrazione ecclesiale dei vissuti, esponenzialmente più intensa del dispositivo celebrativo della precedente ritualità del Vetus Ordo, che prevedeva una fruizione interiore, quasi individuale.

Abbiamo egregiamente imparato a celebrare tenendo sempre le distanze, a cantare con le mascherine, a sospendere il gesto di pace, le processioni alla comunione, l’intrattenersi tutto eucaristico alla fine dei riti. In questa situazione si potrebbe dire che abbiamo appreso a celebrare in modo più delicato, con più pudore, tenendo insieme la preziosità dei corpi con la loro vulnerabilità, in cui abbiamo reimparato ad onorare i visi dei presenti e degli assenti, quelli dei cari accompagnati con esequie rispettose e intense.

Come parroco, non nascondo anche una certa commozione per assemblee arricchite di inedite ministerialità d’accoglienza generose e non clericali, l’entusiasmo per un confronto davvero inedito nei consigli di partecipazione, la bellezza delicata dei gesti, dei ritmi più attenti, delle parole più pesate, la consapevolezza del dono di ogni celebrazione concessa, la speranza della vita spirituale ad oggi ancora sommersa e che non è indispensabile che la parrocchia intercetti o faccia propria.

Liturgia e fiducia

La liturgia, tuttavia, vive (o muore) come atto di fiducia reciproco. Senza questa tranquillità interiore, non è possibile celebrare “lasciando il controllo”, perché il rito avvenga liberamente davanti a Dio. Il rito cristiano è principalmente un atto in cui permettiamo che avvenga qualcosa che non è nostro, lasciamo fare.

La fiducia minima scaturisce dalla scelta consapevole che è bene esser dove siamo, ora e qui, in questa assemblea che celebra, perché stare qui è meglio che stare altrove, perché la Parola che risuona è per noi vitale e non inutile o a noi ostile, perché la presenza sacramentale del Signore è efficace e buona, non accessoria.

Se manca questo, nascono gli atteggiamenti che ben conosciamo di partecipazione oltre la soglia, distante, fredda, non fruttuosa. La fiducia si costruisce, si offre, ma non si può pretendere, nemmeno da se stessi. La sensibilità di credenti che non riesce a lasciare le preoccupazioni va accolta con rispetto, accompagnando la loro scelta di non tornare in presenza ai sacramenti, fruendo dell’offerta di trasmissioni televisive o in streaming.

E la fiducia va anche custodita rispetto a chi vive di preoccupazioni per la propria attività chiusa, magari dopo sforzi non minori rispetto a quelli delle chiese, con un’empatia fraterna che vinca ogni sospetto d’esser dei privilegiati.

Autocertificazione e responsabilità

Per partecipare alle celebrazioni nelle regioni in zona rossa sarebbe oggi formalmente necessario portare con sé l’autocertificazione prevista, sulla quale si dichiara di «essere a conoscenza delle misure normative di contenimento del contagio […] concernenti le limitazioni alla possibilità di spostamento delle persone fisiche».

I credenti sono quindi nella necessità di assumersi la responsabilità di ritenere la loro uscita di casa fondamentale, di fronte alla situazione in alcuni luoghi davvero drammatica. Certo, con riferimento a queste zone e non a tutto il territorio nazionale, davvero è sufficiente dire che le chiese sono luoghi comunque di comprovata sicurezza rispetto al contagio?

Non tutti i servizi commerciali (e soprattutto le preziose scuole!) sono stati chiusi perché in sé pericolosi, ma perché la loro pur sicura apertura offriva comunque ai cittadini un ulteriore motivo per uscire di casa e per rischiosi contatti nel tragitto o nei loro pressi.

L’8 novembre, il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO), Filippo Anelli, ha dichiarato senza giri di parole: «Considerando i dati di questa settimana come andamento-tipo e se li proiettiamo senza prevedere ulteriori incrementi, la situazione fra un mese sarà drammatica e quindi bisogna ricorrere subito ad una chiusura totale. O blocchiamo il virus o sarà lui a bloccarci perché i segnali ci dicono che il sistema non tiene e anche le regioni ora gialle presto si troveranno nelle stesse condizioni delle aree più colpite».[2]

Non dovremmo ora riflettere, non dico sulla decisione di fermare di nuovo le celebrazioni pubbliche, ma comunque sul valore di non farlo da nessuna parte? Quale messaggio darebbe una chiesa che, pur sapendo quanto è essenziale il suo culto libero, eppure lo sospende da sola in alcune sue comunità, quando il rischio di far ammalare qualche persona fragile o di pesare su tutta la collettività è più chiaro?

Quanto hanno pesato i toni della nota dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI del 26 aprile, che parlava di una Chiesa che «esige di poter riprendere la sua azione pastorale» e citava il principio di libertà di culto e della vita sacramentale come sorgente del servizio ai poveri oggi ancora più necessario ai tanti in difficoltà?

Non il diritto ma la sapienza

Prima che debba imporlo il governo o quale vescovo più prudente con un decreto canonico, sarebbe opportuno condividere almeno una forte raccomandazione nelle comunità, che aiuti a percepire la responsabilità dei cristiani in questo tempo.

La libertà di culto non è un bene assoluto, ma vive in equilibrio con una presenza evangelica nei territori e nei contesti. Soprattutto, per riportare alla questione liturgica, la libertà di culto non coincide con il culto pubblico ad ogni costo. Bisogna aver fiducia nella liturgia, che sa aspettare i tempi opportuni, trasformarsi in gesti ancor più discreti, in contatti differenti. Si comprende il desiderio di preservare fino all’ultimo questo ambito vitale, ma è bene discuterne, senza lasciare il tema agli isterismi mai sufficientemente argomentati.

Accettare le proprie pause

Ci rendiamo conto che la carità, la catechesi e (ora forse nuovamente) la liturgia sono sfidate a decostruire e riorganizzare tutto il loro strumentario.

  • La carità: abbandonando l’assistenza, per farsi lettura e profezia spirituale e politica, mai paternalistica e sostitutiva nel territorio.
  • La catechesi: lasciando il linguaggio comodo della convocazione, per farsi primo annuncio “sprogrammato”, sostegno ai contesti domestici per i quali non ha ancora né strumenti né linguaggi adeguati.
  • La liturgia: spogliandosi del sacramentalismo intimista, individuale, cosificante, per farsi mai scontato e gratuito gesto del corpo mistico, fraterno, prossimo, fiducioso.

In un certo senso, è atto di fede nella potenza sacramentale della liturgia saper accettare questo tempo con il suo “minore”, rispetto ad un “maggiore” che vorremmo sempre suonare, nel contrappunto armonico del vissuto. “BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!”: così, in maiuscolo, con tre punti esclamativi, scrive Etty Hillesum, il mattino presto del 13 ottobre 1942[3]. Pause, e non paure. «Una volta facevo pazzie in situazioni simili», confessa. Poi apprese che prima si accettano i momenti non creativi, avendo il coraggio di fermarsi, di essere talvolta vuoti e persino scoraggiati, prima tornerà la forza d’esser balsamo per molte ferite.


[1] Dichiarazione del card. Nichols e del vescovo McMahon, riportata in L. Prezzi, Virus e libertà di culto, in SettimanaNews.

[2] Post dell’8/11/2020 sulla pagina Facebook ufficiale della federazione.

[3] E. Hillesum, Diario, Milano 2013, 797.

Liturgia. Non solo il «Padre Nostro». Ecco tutto ciò che cambia con il nuovo Messale

Molte le novità del libro. Nel Confesso arriva la formula «fratelli e sorelle». E il prete dirà: «Scambiatevi il dono della pace». Un nuovo saluto finale: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore»
Il volume del nuovo Messale Romano la cui tradizione è stata curata dalla Cei

Il volume del nuovo Messale Romano la cui tradizione è stata curata dalla Cei – Avvenire

Non solo il Padre Nostro. Sarebbe limitante ridurre la ricchezza di novità che contiene la terza edizione italiana del Messale di Paolo VI a un’unica preghiera. Che è senz’altro quella di maggior impatto sul “popolo delle parrocchie” ma che non esaurisce la portata della rinnovata traduzione del volume per celebrare l’Eucaristia. La “gentile” rivoluzione che inciderà sulla vita delle comunità è di fatto cominciata. Con l’arrivo del testo sull’altare delle chiese d’Italia, le “nuove parole” della Messa entrano nel quotidiano. Perché il libro liturgico può già essere utilizzato, anche se diventerà obbligatorio a partire dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021, quando verrà abbandonata la precedente edizione che ha scandito la liturgia per quasi quarant’anni, dal 1983. Molte le diocesi o le regioni ecclesiastiche che hanno deciso di adottare la nuova traduzione dalla prima domenica d’Avvento, il 29 novembre. La revisione italiana del Messale scaturito dal Concilio arriva a diciotto anni dalla terza edizione tipica latina varata dalla Santa Sede nel 2002 che contiene non pochi cambiamenti. La complessa operazione coordinata dalla Cei ha visto numerosi esperti collaborare con la Commissione episcopale per la liturgia fino a giungere nel novembre 2018 all’approvazione del testo definitivo da parte dell’Assemblea generale dei vescovi italiani. Poi, dopo il “via libera” di papa Francesco, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha promulgato il libro l’8 settembre 2019. E lo scorso 29 agosto la prima copia è stata donata al Pontefice.

La maggior parte delle variazioni riguarda le formule proprie del sacerdote. I ritocchi che dovranno essere imparati dall’intera assemblea sono pochi: così ha voluto il gruppo di lavoro che ha curato la traduzione per evitare “scossoni” destinati a creare eccessive difficoltà. Sarà comunque necessario fare l’orecchio alle modifiche. Già nei riti di introduzione dovremmo abituarci a un verbo al plurale: «siano». Non sentiremo più «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi», ma «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». È stato rivisto anche l’atto penitenziale con un’aggiunta “inclusiva”: accanto al vocabolo «fratelli» ci sarà «sorelle». Ecco che diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…». Poi: «E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle…». Inoltre il nuovo Messale privilegerà le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà». Si arriva al Gloria che avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Una revisione che sostituisce gli «uomini di buona volontà» e che vuole essere più fedele all’originale greco del Vangelo.


CONFESSO

Fratelli e sorelle parole inclusive
L’atto penitenziale ha un’aggiunta “inclusiva”. Così diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…».

SIGNORE, PIETÀ
Così prevale il «Kýrie»

Sono privilegiate le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà».

GLORIA
Gli «amati dal Signore»

Il Gloria avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore» che sostituisce gli «uomini di buona volontà».

CONSACRAZIONE 1
La «rugiada» dello Spirito

Dopo il Santo, il prete dirà: «Veramente santo sei tu, o Padre…». E proseguirà: «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito».

CONSACRAZIONE 2
«Presbiteri e diaconi»

Nella consacrazione si ha «Consegnandosi volontariamente alla passione ». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi».

AGNELLO DI DIO
La «cena dell’Agnello»

Il prete dirà: «Ecco l’Agnello di Dio…. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello ».

LA CONCLUSIONE
Più sobrio il congedo

Al termine ci sarà la formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore ».


​La liturgia eucaristica vede fin dall’inizio alcuni ritocchi. Dopo l’orazione sulle offerte, il sacerdote, mentre si lava le mani, non sussurrerà più sottovoce «Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato» ma «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Poi inviterà a pregare dicendo (anche in questo caso con piccole revisioni): «Pregate, fratelli e sorelle, perché questa nostra famiglia, radunata dallo Spirito Santo nel nome di Cristo, possa offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente».

Un discorso a parte meritano le Preghiere eucaristiche e i prefazi. Sono ben sei i nuovi prefazi: uno per i martiri, due per i santi pastori, due per i santi dottori (che possono essere utilizzati anche in riferimento alle donne dottore delle Chiesa per le quali finora mancavano testi specifici), uno per la festa di Maria Maddalena. Inoltre, conformandosi all’edizione latina, finiscono in appendice all’Ordo Missae le Preghiere eucaristiche della Riconciliazione insieme alle quattro versioni della Preghiera delle Messe “per varie necessità” già presente nell’edizione del 1983 con il titolo Preghiera eucaristica V: la loro traduzione è stata rivista recependo le varianti presenti nel testo latino. La Preghiera eucaristica II, quella fra le più utilizzate, non manca di cambiamenti. Dopo il Santo, il sacerdote dirà allargando le braccia: «Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità». E proseguirà: «Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». Tutto ciò sostituisce la precedente formulazione: «Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito». L’inizio del racconto sull’istituzione dell’Eucaristia si trasforma da «Offrendosi liberamente alla sua passione» a «Consegnandosi volontariamente alla passione». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi». Varia anche la Preghiera eucaristica della Riconciliazione I dove si leggeva «Prese il calice del vino e di nuovo rese grazie» e ora troviamo «Prese il calice colmo del frutto della vite».

I riti di Comunione si aprono con il Padre Nostro. Nella preghiera insegnata da Cristo è previsto l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Quindi il cambiamento caro a papa Francesco: non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». In questo modo il testo contenuto nella versione italiana Cei della Bibbia, datata 2008, e già inserito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entra nell’ordinamento della Messa. È uno dei criteri che ha ispirato la revisione del Messale: recepire la più recente traduzione della Sacra Scrittura nelle antifone e nei testi di ispirazione biblica presenti nel libro liturgico.

Il rito della pace conterrà la nuova enunciazione «Scambiatevi il dono della pace» che subentra a «Scambiatevi un segno di pace». E, quando il sacerdote mostrerà il pane e il vino consacrati, dirà: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». Una rimodulazione perché nel nuovo Messale «Beati gli invitati» non apre ma chiude la formula e si parla di «cena dell’Agnello», non più di «cena del Signore». Per la conclusione della Messa è prevista la nuova formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore». Ma i vescovi danno la possibilità di congedare la gente anche con le tradizionali parole latine: Ite, missa est.

 

Il volume del nuovo Messale Romano

Il volume del nuovo Messale Romano – Avvenire

 

Altre novità sono legate al formato del libro, alla veste grafica e all’apparato iconografico: infatti la pubblicazione è arricchita dagli “schizzi” d’arte nel segno della semplicità realizzati dal maestro campano Mimmo Paladino. Il volume intende coniugare fedeltà all’edizione latina e comprensibilità per rendere il rito più accessibile possibile. Come evidenzia la presentazione Cei, il nuovo Messale deve diventare un’opportunità per tornare a riscoprire la bellezza della liturgia, i suoi gesti, i suoi linguaggi ed è necessario che si trasformi in «occasione di formazione del popolo a una piena e attiva partecipazione». Ecco la principale sfida per le parrocchie.

I “ritocchi” del Messale Romano entrano anche nel rito ambrosiano: in vigore dal 29 novembre

Anche nel rito ambrosiano entrano alcune delle novità presenti nel Messale Romano “numero 3”. Saranno il “nuovo” Gloria e il “nuovo” Padre Nostro. Poi la riformulazione «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». E anche le variazioni delle Preghiere eucaristiche: ad esempio «Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità. Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». «Queste parti che cambiano nel Messale promosso dalla Cei verranno recepite anche nelle celebrazioni dell’arcidiocesi di Milano, mentre i prefazi e le orazioni proprie del rito ambrosiano resteranno tali e quali», spiega monsignor Fausto Gilardi, responsabile del Servizio per la pastorale liturgica a Milano. E annuncia: «L’arcivescovo Mario Delpini ha stabilito che cominceremo a usare le nuove formule con la terza domenica dell’Avvento ambrosiano, ossia dal 29 novembre, che coincide con la prima domenica d’Avvento nel rito romano». Comunque nelle chiese dell’arcidiocesi di Milano non arriverà un nuovo volume. «Non ristamperemo l’intero Messale. Ripubblicheremo solo la parte comune della Messa – afferma Gilardi –. Si tratta di novità significative che intendono adeguare la parola pregata al linguaggio attuale». Di fronte alla nuova traduzione italiana del testo per celebrare l’Eucaristia, il liturgista chiarisce: «Anche noi stiamo verificando alcuni passaggi del Messale ambrosiano, ma non saremo certo pronti a una revisione per il prossimo 4 aprile. Perciò le nostre celebrazioni continueranno con l’attuale Messale».

Lo spartito del Padre Nostro “aggiornato”

La modifica che più coinvolgerà il “popolo delle parrocchie” è quella del Padre Nostro. Nel nuovo Messale la preghiera insegnata da Cristo prevede l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Poi non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». La nuova traduzione del Padre Nostro ha richiesto anche una revisione della musica che accompagna la preghiera. Per la prima volta nel Messale entrano le partiture accanto ai testi della liturgia. Per il Padre Nostro la Cei ha passato al vaglio diversi adattamenti della melodia. I tre prescelti sono stati testati in parrocchie, case di spiritualità o Seminari. La versione confluita nel Messale è quella risultata più “naturale” alle assemblee. Qui lo spartito inserito nel nuovo libro liturgico.

 

Lo spartito del Padre Nostro tratto dal nuovo Messale Romano

Lo spartito del Padre Nostro tratto dal nuovo Messale Romano – Avvenire