I FILM PIÙ BELLI IN TV PER RIVIVERE LA VITA E LA PASSIONE DI GESÙ


Da “Gesù di Nazareth di Zeffirelli” a “L’inchiesta Anno XXXIII” di Giulio Base, da “The Chosen” a “The young Messiah” passando per i classici come “Ben Hur” e “Il re dei re”: ecco una selezione di film e serie, disponibili sulle tv generaliste e sulle piattaforme, che raccontano la Pasqua e il messaggio di Cristo.
Entrare nello spirito della Pasqua attraverso un libro o una serie: l’offerta, soprattutto nelle piattaforme, è tanta. Come orientarsi tra tante pellicole prediligendo quelle di qualità? Immancabile, e sempre apprezzabile Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (su Tv2000 in prima serata 28-29-30 marzo) uscito in sei puntate in tv nel 1977 e poi riproposto come film ridotto alla durata di 4 ore, ripercorre la vita di Gesù dalla nascita fino alla risurrezione, con grande adesione ai testi evangelici e un cast d’eccezione, da Robert Powell nei panni di Gesù, Olivia Hussey in quello di Maria, e ancora Peter Ustinov (Erode il Grande), Anne Bancroft (Maria Maddalena), Claudia Cardinale (l’adultera), Valentina Cortese (Erodiade), Laurence Olivier (Nicodemo), Renato Rascel (il cieco nato), Rod Steiger (Ponzio Pilato), Anthony Quinn (Caifa)..
Sempre su TYv2000 domenica 31 marzo in prima serata Il Risorto, un film del 2016 diretto da Kevin Reynolds con Joseph Fiennes nei panni di Clavio, un tribuno militare romano di alto rango a cui a Ponzio Pilato ha ordinato di assicurarsi che i seguaci i di Gesù non rubino il suo corpo e in seguito dichiarino la sua risurrezione. Entrare in contatto prima con gli apostoli o e poi con Gesù stesso, farà vacillare le convinzioni di Clavio fino alla sua conversione.
Per chi ama rivedere un classico Hollywoodiano, sabato su Rete 4 alle 21,25 viene riproposto Il re dei re, del 1961, di Nicholas Ray. La vita di Gesù è al centro della serie di Netflix in otto puntate The Chosen.
A carattere religioso, ma non legata espressamente alla settimana santa, la nuova docu-serie in tre episodi disponibili da mercoledì 27 sempre su Netflix, Testament: La storia di Mosè, che ripercorre con interventi di teologi ed esperti di storia l’incredibile vita di Mosè da principe a profeta.

Su Sky segnaliamo The Young messiah, dal romanzo di Anne Rice, una pellicola del 2016 che ripercorre l’infanzia di Gesù. A 7 anni il futuro Messia lascia l’Egitto per tornare a Nazareth dove scopre le sue vere origini: e La passione di Cristo, la controversa opera di Mel Gibson, con Jim Caviezel e Monica Bellucci, che racconta le ultime dodici ore della vita di Gesù. Dalla preghiera nell’Orto degli Ulivi alla Crocifissione.

Tra i film più belli della storia del cinema che hanno raccontato la passione di Gesù ricordiamo Ben Hur, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e Jesus Christ superstar, che sono disponibili a pagamento su diverse piattaforme.
Su Rai play tre i film che segnaliamo:

L’inchiesta anno Domini XXXIII, regia di Giulio Base, del 2006, con Penelope Cruz e Daniele Liotti, L’imperatore Tiberio, turbato da dicerie e fenomeni astrologici, richiama dall’esilio l’investigatore Tito Valerio Tauro e gli affida il compito di scoprire la verità sulla morte di Gesù di Nazareth, un predicatore galileo il cui cadavere sembra misteriosamente scomparso.

Barabba, del 2012, regia di Roger Young, con Billy Zane, Cristiana Capotondi, Filippo Nigro, Anna Valle, Hristo Shopov. Barabba è un malfattore, condannato a un’esistenza bruta di violenza e sopruso. L’amore di una donna e l’incontro con gli Zeloti, col loro impegno politico, aprono ai suoi occhi un orizzonte nuovo e gli insegnano un nuovo rispetto di sé. Fino al momento in cui il suo destino incrocia quello di Gesù.
Jesus, del 1999, regia di Roger Young, con Jeremy Sisto, Jacqueline Bisset, Armin Mueller-Stahl, Luca Zingaretti, Elena Sofia Ricci, Stefania Rocca, Gabriella Pession, Luca Barbareschi, Claudio Amendola, Gary Oldman. La vita di Gesù raccontata nella sua piena umanità, dagli anni della formazione all’esperienza delle tentazioni di satana quando il nazareno capisce fino in fondo l’importanza della sua Missione. Un Uomo che vive rivelando il messaggio del Padre e che affronta il sacrificio della crocifissione accogliendo la Sua volontà per la salvezza del mondo.
Famiglia Cristiana

Italia. Migliore film su Gesù non è mai stato girato

(Giovanni Maria Vian – Domani) La sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer pubblicata da Iperborea. Sono tanti i film su Gesù, spesso suggestivi, alcuni memorabili, ma il più bello è rimasto sulla carta di una sceneggiatura coinvolgente e può essere soltanto immaginato.
A pensarlo e a documentarsi sin dall’inizio degli anni Trenta, poi a scriverlo fu colui che – a ragione – è da molti considerato il regista più grande della storia del cinema, il danese Carl Theodor Dreyer, scomparso settantanovenne nel 1968, quando il progetto sembrava ormai alla vigilia della realizzazione. Dunque, davvero “il film di una vita”, come recita il sottotitolo di Gesù (Iperborea), che pubblica per la prima volta la versione più ampia della sceneggiatura, tradotta in italiano a metà degli anni Sessanta. La storia del testo, curato da Marco Vanelli e con una postfazione di Goffredo Fofi, è tormentata e resta il desiderio di saperne di più. La sceneggiatura fu data a Vanelli dal gesuita Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico della Civiltà Cattolica.
Questi a sua volta aveva avuto il testo dal confratello Carlo Maria Martini al quale «era stato consegnato dalla Rai per un parere di coerenza biblica e di opportunità ecclesiale», parere di cui però non vi è traccia.
Ma come si arrivò a questo punto? L’approdo in Italia, suggerito da amici, dipese dal venir meno della fiducia in un impresario statunitense, Charles Blevins Davis, che Dreyer conobbe nel 1949. Il rapporto però si trascinò per sedici anni perché Davis trattava il regista «come un postulante importuno, rinnovando ogni tanto vaghe promesse». Si tradusse allora dall’inglese la sceneggiatura completa – il cui dattiloscritto con interventi autografi di Dreyer è sul sito dedicato al regista (carlthdreyer) – ma alla Rai se ne parlò soltanto nel 1967, troppo tardi. Già nel 1969 comunque, un anno dopo la morte del regista, Einaudi pubblicò un testo più breve di quello edito dall’attuale curatore, che ha comunque confrontato le due versioni.
Dialogo aspro
Luterano non praticante, Dreyer fu sempre affascinato dalla figura di Gesù: «Credeva in un Dio cosmico, presente nelle cose e in noi, un Dio da raggiungere faticosamente, duramente. Una entità con la quale stabilire un dialogo che si sa a priori contorto, aspro, contraddittorio», raccontò poco dopo la morte del regista il figlio Erik.
Questi sottolineò il «bisogno di religiosità e di spiritualità» del padre che emergeva «da tanti frammenti della sua vita, dalla sua silenziosa lezione morale, dal senso profondo di giustizia da cui era animato, dai rapporti severi che aveva con le persone, da come ama¬va serenamente – da saggio – la vita, da come voleva non andasse sciupata. Dalla concezione quasi monastica che aveva del suo lavoro, dal disprezzo per il denaro, dall’odio per i filistei». Una descrizione che spiega implicitamente le difficoltà trovate nel realizzare i suoi capolavori. Dreyer affrontò il lavoro nel modo più difficile, non scegliendo uno dei quattro vangeli canonici (come Pasolini, che decise di rappresentare il racconto secondo Matteo), ma combinandoli insieme – così avrebbe poi fatto Zeffirelli – in un tessuto attendibile che il regista danese ricostruisce con rigore storico e intuizioni artistiche sorprendenti.
Come l’evangelista Marco, autore del vangelo più breve, e come Giovanni, il testo che più riflette sulla figura di Cristo, la sceneggiatura si apre con il suo battesimo nel Giordano, ignorandone la nascita e i trent’anni vissuti a Nazareth.
Un solo cenno è riservato a uno dei vangeli dell’infanzia. Durante l’entrata trionfale a Gerusalemme – dove Gesù viene accolto come il messia, l’unto di Dio destinato a regnare, pochi giorni prima di venire arrestato e messo a morte – «tre vecchi stanno ai bordi della strada. Potrebbe¬ro essere i “tre saggi d’Oriente”. Quando Gesù li avvicina, si gettano in ginoc¬chio, chinando la testa».
Sono ovviamente i magi, che secondo Matteo, si erano prostrati e avevano adorato il bambino nato a Betlemme.
È una presenza suggestiva, che ricorda quella immaginata di uno dei magi, Baldassare, che figura tra i protagonisti nel famosissimo «racconto del Cristo» portato al cinema da Wyler sulla base del Ben-Hur di Wallace.
Un altro cenno è riservato alla popolarissima leggenda apocrifa della Veronica, la donna che durante la salita di Gesù al Golgota, impietosita, chiede a un soldato: «Guarda com’è sudato. Posso asciugargli il viso?». Il regista commenta: «Poiché la donna ha un aspetto piacevole e benevolo, il soldato acconsente». Nulla di più.
Un lavoro lungo
Lo scenario è infatti quello segnato dall’occupazione romana, paragonata a quella hitleriana dei paesi invasi prima e durante la seconda guerra mondiale, e dal movimento di resistenza degli zeloti che cercano di utilizzare ai loro fini il predicatore di Nazareth e il consenso che riscuote tra il popolo. Su questo sfondo Dreyer intreccia con cura e sapienza la narrazione dei quattro vangeli, e la ravviva evocando diverse parabole. E ci si può solo immaginare come il regista – sicuramente in bianco e nero, come tutti i suoi film dove l’alternanza tra la luce e le tenebre è resa da una fotografia abbagliante – avrebbe rappresentato quanto descrive con asciutta emozione. Come nella chiamata degli apostoli: «Pietro lo guarda sorpreso. Come poteva quest’uo¬mo sapere il suo nome? Sta per chiederlo al fra¬tello, ma Andrea scuote la testa a indicare che non può aiutarlo. In quel momento, Gesù si vol¬ta verso Pietro e tra i due nasce un legame che non si spezzerà mai».
O, ancora, in una scena dove «Pietro s’arrampica per la salita e vede Gesù nella pianura sottostante, inginocchiato e assorto in preghiera. Pietro è profondamente scosso alla vista di Gesù, e una forza interiore sembra tra¬sformare il rozzo pescatore. Una luce interiore illumina l’uomo e riflette la nuova purezza che ha trovato. Avanza ancora brevemente e si distende sull’erba aspettando Gesù». Nella sceneggiatura non vi sono tracce del lavoro preparatorio, ma questo deve essere stato lungo e accuratissimo, perché profonda è la conoscenza dei testi biblici e delle loro interpretazioni più probabili. Gesù era già in uno dei primi film di Dreyer, Pagine dal libro di Satana, del 1921, ed è alla fine del decennio, dopo La passione di Giovanna d’Arco, che il regista inizia a scrivere questa sceneggiatura, mai più abbandonata. Nella sua visione il maestro di Nazareth è un giudeo vicino ai farisei ma la sua predicazione si staglia unica nell’ebraismo del tempo, perché lo rinnova e lo allarga. Soprattutto, lo apre alla considerazione delle donne – che ritornerà nel suo ultimo film, Gertrud – e all’amore dei nemici. Le parabole s’intrecciano al racconto, spiegate meglio che in tanti commenti. Così la parabola della moneta perduta – mai raccontata in un film – che viene collocata dopo la chiamata di Levi e l’incontro di Gesù con altri esattori delle tasse.
Amico dei peccatori
Questa vicinanza ai peccatori stupisce i farisei, che Dreyer considera comunque con simpatia: «Lo scopo di questa parabola è di darci la sensa¬zione di come una piccola moneta sia divenuta il centro di attenzione per il fatto di essere stata persa e ritrovata. Come la donna si rallegrò mol-tissimo del fatto di averla ritrovata, così Gesù si rallegra enormemente per ogni peccatore che torna a lui. E come la donna trovò la moneta nel buio e nello sporco, così Gesù cerca i peccatori nello sporco e nel buio di questo mondo».
Molti sono i miracoli, che il vangelo di Giovanni chiama «segni» e che Dreyer tiene a spiegare sempre come disturbi psichici. Ma nell’episodio della trasfigurazione parlano sorprendentemente sia Mosè – come nella statua di Michelangelo, il cui nome è annotato dal regista – che Elia.
«In verità, tu sei il solo Figlio di Dio, scelto per stabilire il regno di Dio in terra» dice il primo, «e forza ti sarà data per affrontare tutto quello che verrà» aggiunge Elia. E, come la trasfigurazione, viene raccontata senza tentare spiegazioni di tipo razionale la resurrezione di Lazzaro. Consapevole di non poter rappresentare la resurrezione, al centro nel 1955 dello sconvolgente Ordet («La Parola»), Dreyer sceglie di concludere il film con la crocifissione: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera che aveva iniziato in vita. Il suo corpo fu ucciso, ma il suo Spirito viveva. I suoi insegnamenti immortali portarono agli uomini di tutto il mondo la buona novella di amore e di carità preannunciata dagli antichi profeti ebrei». 

La vera storia del Crocifisso di don Camillo

Settant’anni fa usciva il primo film della saga ispirata ai racconti di Giovannino Guareschi diretta dal regista francese Duvivier. Quello utilizzato sul set stava a Cinecittà, ora si trova a Brescello ed è una copia del Cristo custodito nella chiesa di Busseto: «I fedeli vengono qui e si confidano con lui, proprio come nel film», racconta il parroco don Luigi Guglielmoni

in Famiglia Cristiana

Della saga di don Camillo e Peppone si sa molto. Del “Crocifisso parlante” con il quale dialoga il pretone burbero e generoso inventato da Giovannino Guareschi in Mondo piccolo assai meno. Il 15 marzo 1952, settant’anni fa, usciva il primo film della saga che portò al cinema la bellezza di oltre 13 milioni di spettatori, risultando una delle pellicole più viste di tutti i tempi. Un successo che ben presto varcò i confini italiani sbarcando in Francia, Germania, Svezia, Stati Uniti, Inghilterra (dove la voce narrante era quella di Orson Welles) fino ad arrivare al Don Kamiro proiettato nel 1954 in Giappone.

E pensare che nessun regista italiano contattato dalla produzione accettò di girare Don Camillo: troppo controverso in termini politici, troppo rischioso in un periodo dove l’opposizione tra Pci e Democrazia Cristiana era all’apice della tensione. Dissero di no Mario Camerini, Vittorio De Sica, Luigi Zampa e Renato Castellani. Venne sondata anche Hollywood, dove la sceneggiatura fu molto apprezzata. Frank Capra si disse interessato ma era troppo impegnato in quel periodo. La scelta, alla fine, cadde sul francese Julien Duvivier che cambiò in parte la sceneggiatura, scatenando le ire di Guareschi che non era mai soddisfatto di come le sue indicazioni venivano realizzate nelle riprese.

Lo scrittore diceva che «il mio pretone e il mio grosso sindaco li ha creati la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto». Logico che il film dovesse essere girato nella Bassa parmense, bagnata dal Po e terra di grandi italiani, a cominciare da Giuseppe Verdi. Guareschi volle aprire il suo ristorante proprio accanto alla casa natale del Maestro, a Roncole di Busseto, per poter stare, diceva, “all’ombra di un grande”. Ora è sede dell’Archivio curato con grande dedizione dal figlio Alberto, custode tenero della memoria del padre che riposa nel piccolo cimitero di fronte insieme alla moglie Ennia (la Margherita dei suoi racconti) e la figlia Carlotta (la Pasionaria).

Dove girare dunque il film? Julien Duvivier non era convinto dei paesi indicati da Guareschi, come Fontanelle, Roccabianca (dove lo scrittore era nato nel 1908), Polesine, Busseto e decise di far perlustrare il circondario alla ricerca del paese giusto. «Ici, Ici voilà le pays», esclamò entusiasta il regista francese quando vide piazza Matteotti a Brescello, Reggio Emilia, dove è ancora possibile ammirare la campana Sputnik, il carro armato americano e la bicicletta di Don Camillo.

E il celebre Crocifisso che ora si trova nella chiesa ma arriva da Cinecittà come materiale di scena della saga e che qualche anno fa l’allora parroco di Brescello don Evandro Gherardi, ispirandosi proprio ai racconti di Guareschi, decise di portare in processione dal centro del paese fino alle rive del Po per chiedere a Dio la protezione dagli effetti devastanti delle piene del fiume e dalla siccità, un problema che quest’anno è diventato particolarmente drammatico. «Poi», racconta, «l’ho portato in processione, da solo, in una piazza vuota, nella Via Crucis del Venerdì Santo, durante il lockdown del 2020».

Duvivier nel suo peregrinare nella Bassa aveva visto il Crocifisso conservato nella Collegiata di San Bartolomeo a Busseto, la chiesa dove nel 1836 Verdi sposò la sua prima moglie, Margherita Barezzi, e se ne innamorò perché lo trovava perfetto per il film. Perché il Cristo ha la testa lievemente girata sul lato destro, come se stesse interloquendo con don Camillo e volesse voltare la testa quando il prete gli dice qualcosa su cui non è d’accordo, e un corpo longilineo e dalle lunghe braccia sottili, quasi per abbracciare tutti. Oggi svetta nella prima cappella a sinistra risalente al 1642 e restaurata nel 1846. Per questo sul sagrato della chiesa di Busseto ci sono i cartonati di don Camillo, interpretato dal mitico Fernandel, e Peppone, Gino Cervi.

«Si tratta», spiega il parroco di Busseto, don Luigi Guglielmoni, «di un Crocifisso ligneo, di grandi dimensioni, degli inizi del 1400, ottimamente conservato. Forse in origine era il Crocifisso dell’altare maggiore della bella chiesa iniziata nel 1339 per volere del marchese Uberto Pallavicino, poi ampliata e riconosciuta “Collegiata” con Bolla papale del 9 luglio 1436». Davanti all’icona c’è un cartello che spiega cos’ha a che fare con i film su don Camillo e Peppone.

«Il Crocifisso resta lì, in alto e silenzioso, invitando a sostare un momento e ad alzare lo sguardo oltre l’immediato», riflette don Luigi, «Guareschi è stato geniale nel far dialogare il Crocifisso con don Camillo. Ma quel Cristo in croce continua a “parlare” a quanti ogni giorno vengono ad accendere un cero, a consegnargli la propria croce e a cercare speranza».

Per girare il film, Vivier fece scolpire un Crocifisso sul modello di quello di Busseto in legno di cirmolo, un legno leggero perché Fernandel faceva fatica a portare pesi, con le teste di legno intercambiabili a seconda che nel film Gesù dovesse ridere, piangere o arrabbiarsi nei dialoghi con il prete. Finito il film, se ne erano perse le tracce. Poi è stato ritrovato in un magazzino di Cinecittà. I cittadini di Brescello hanno voluto riportarlo nella loro città, dove è stato restaurato e pulito e da cinquant’anni si trova nella chiesa parrocchiale, dove molti vanno a pregare e accendere un cero.

Busseto ha ispirato, Brescello ha conservato. Da oggetto di scena a oggetto di culto e di devozione popolare. Una storia che sarebbe piaciuta a Guareschi al quale San Giovanni XXIII, lettore avidissimo dello scrittore, voleva affidargli di scrivere un commento al Catechismo. Giovannino conobbe di sguincio l’idea papale. E se ne stupì.

“The Oratory”: dalle strade di Lagos il grido dei poveri e della terra

Presentato in anteprima in alcune sale cinematografiche d’Europa, il lungometraggio prodotto e diretto dal regista nigeriano Obi Emelonye che narra le vicende di un gruppo di ragazzi di Lagos la cui sopravvivenza, non di rado, si lega alla criminalità. Dietro uno scenario a tinte fosche, segnato dal degrado e dalla povertà, la luce della Laudato si’ nella moderna rivisitazione della figura di san Giovanni Bosco e nel desiderio dei giovani di contribuire alla causa dell’ambiente

Giovani in formazione al Don Bosco Child Protection Centre

“Entrerete molto in sintonia con questo film, perché stiamo promuovendo proprio la causa di Papa Francesco”. Così don Cyril Odia, salesiano originario della Nigeria, attualmente direttore del “Centro Santa Caterina” di Maynooth, Irlanda, e produttore esecutivo del lungometraggio ‘’The Oratory, St. John Bosco African Story’’, ha voluto subito mettere l’accento sulla connessione che esiste tra questo racconto e l’enciclica Laudato si’.  Si tratta di una rivisitazione moderna della figura di don Bosco e del carisma salesiano calato in una rete di relazioni e paesaggi africani. Uno spaccato sulla situazione di povertà e degrado presente oggi a Lagos, la città più popolosa della Nigeria, nella quale la cura per la Casa comune e per la legalità si rivelano invece tracce di salvezza umana e cristiana.

Nigeria: una terra dai mille volti

Collocato nella zona centro-occidentale dell’Africa, suddiviso in 36 stati, la Nigeria, tra i dieci più popolosi al mondo, è un Paese dai mille volti: si stima infatti una popolazione di 211 milioni di abitanti, ripartiti in circa 250 gruppi etnici ed è caratterizzato dalla presenza di oltre 500 lingue locali. Questa nazione, pur non essendo territorialmente la più vasta, si è ricavata una posizione di rilievo nell’Africa occidentale, per la sua vivacità culturale. Si tratta inoltre di uno dei pochi Paesi africani che ospita agenzie di produzione cinematografiche di rilievo, come la The Nollywood Factory, casa produttrice di “The Oratory”. La Nigeria com’è noto, risente anche di un sensibile squilibrio economico: secondo quanto dichiarato dal Nigerian Nation Bureau of Statistics nel 2020, il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, dato questo, che potrebbe crescere in conseguenza alle difficoltà indotte dalla pandemia. Risuona ancora forte l’appello che monsignor Ignatius Kaigama, arcivescovo di Abuja, ha lanciato dalla parrocchia di San Matteo nel marzo 2021: “dare da mangiare agli affamati è un imperativo etico e una potente forma di preghiera” e la Chiesa è in prima linea per ascoltare questo grido. In un Paese già sofferente per lotte intestine, attacchi terroristici e rapimenti che minano costantemente la convivenza civile e i delicati equilibri di politica interna, si aggiunge l’emergenza ambientale, segnata negli ultimi 50 anni, da una folle corsa all’estrazione del petrolio, totalmente incurante del rispetto degli ecosistemi e dell’ambiente. Da terra incontaminata e rigogliosa, la Nigeria, si sta trasformando in uno scenario molto preoccupante dal punto di vista ambientale: le foreste sono state deturpate dalle opere al seguito del passaggio degli oleodotti, l’aria inquinata dalla tecnica del gas flaring e le acque contaminate al punto da compromettere l’intero settore dell’alimentazione.  In questo contesto si inserisce anche l’opera dei Salesiani in Nigeria, impegnati sulla scia tracciata dalla Laudato si’ sul fronte dell’ecologia integrale che richiede tanto la tutela della dignità dell’uomo, quanto quella dell’ambiente che lo ospita.

La missione salesiana a Lagos

La società nigeriana però appare molto dinamica e determinata a partecipare al cambiamento. D’altra parte l’età media della popolazione è piuttosto bassa, ma la gran parte dei giovani sembra non avere un grande futuro, anche se molti sono quelli che desiderano offrire le proprie energie e talenti alla cura della Casa comune. Lagos, pur non essendo la capitale, oltre ad essere la città più grande e popolosa, è anche il centro commerciale ed economico dello Stato. Per questo motivo, come ha spiegato don Augustine Okeke, direttore dell’opera salesiana, molti giovani lasciano le proprie case, attirati dalla possibilità di lavoro, denaro e benessere ma una volta arrivati qui “si rendono conto di essere soli e di non aver nulla, finendo a vivere per strada”. È proprio nella difficoltà che i ragazzi incontrano la presenza dei Salesiani, grazie ai quali trovano aiuto, sostegno morale e psicologico. Successivamente, attraverso l’aiuto degli enti pubblici, il supporto si sposta nel Centro salesiano per la protezione dei minori (DBCPC), all’interno del quale i religiosi vengono affiancati da operatori professionali, nell’opera di formazione e prevenzione. I Salesiani sono impegnati, in Nigeria, anche nel dialogo interreligioso con l’obiettivo di costruire, soprattutto attraverso l’apporto delle nuove generazioni, una società più inclusiva e improntata al dialogo.

La trama

“The Oratory” è un film che racconta la storia di don Michael Simmons, interpretato dall’attore Rich Lowe Ikenna. Don Michael è un prete salesiano di origini statunitensi che viene inviato nella parrocchia di Ikoyi, a Lagos, frequentata da gruppi di fedeli benestanti che non vedono di buon occhio che il loro parroco desideri occuparsi anche dei ragazzi di strada. Don Michael si interessa, in particolare, alle condizioni dei bambini di una baraccopoli chiamata Makoko, intrappolati in un sistema criminale che non permette loro di riscattare la propria esistenza e si prodiga per salvarne quanti più possibile fondando poi un oratorio, ispirato completamente all’opera di don Bosco. Va evidenziato, per comprendere meglio il contesto nel quale è stata ambientata buona parte del film, che nel 2012, alcuni ufficiali del governo nigeriano hanno tentato di eliminare l’insediamento di Makoko, ritenuto “imbarazzante per l’immagine della città”, attuando uno sgombero forzato e incendiando la baraccopoli, azioni che hanno innescato un effetto domino di disagi con ricadute pesanti sull’intera comunità cittadina. “La scelta di questa location – ha affermato don Odia, produttore esecutivo e consulente del film – è stata funzionale a mettere in evidenza le condizioni ambientali critiche, dovute all’inquinamento e alla povertà, tali da peggiorare ulteriormente la situazione di chi vive la precarietà in questo ambiente”. La pellicola è stata realizzata dalla The Nollywood Factory, una casa cinematografica nigeriana, in collaborazione con i Salesiani Don Bosco, ed è stata diretta dal regista pluripremiato Obi Emelonye, originario della Nigeria e ora residente nel Regno Unito. Il cast ha visto recitare insieme attori professionisti e decine di bambini provenienti proprio dalla baraccopoli di Mokoko: un’idea proprio di don Odia, secondo il quale le opportunità e le esperienze positive offerte ai giovani possono rafforzare l’autostima e orientare trasformazioni positive. La prima assoluta del film è avvenuta nel settembre 2021 a Dublino, suscitando interesse per la singolare iniziativa e riscontri di critica molto incoraggianti. In Italia il lungometraggio è stato proposto in anteprima nazionale nell’ ottobre 2021 all’interno del teatro di Valdocco, il luogo dal quale ha avuto origine e si è propagata nel mondo l’opera di don Bosco, e nel mese successivo è stato proiettato per la prima volta nelle sale di Lagos e Abuja, capitale della Nigeria.

Annaud: «La mia star è Notre-Dame»

Nel tardo pomeriggio del 15 aprile 2019 il mondo restò attonito e col fiato sospeso davanti all’incendio che stava devastando la Cattedrale di Notre-Dame di Parigi, simbolo della cristianità e capolavoro dell’arte mondiale. Nelle strade di Parigi, il traffico impazzito e migliaia di parigini e turisti con il naso all’insù di fronte alle fiamme, nel fondato timore di vederla crollare da un momento all’altro. A ricostruire le 24 ore che precedettero la mattina del 16 aprile 2019, quando finalmente l’incendio venne dichiarato sotto controllo, è il regista francese Jean-Jacques Annaud nello spettacolare film Notre-Dame in fiamme. Non un documentario, ma un vero e proprio film molto documentato che, con il taglio del thriller e i mezzi di un kolossal, ricostruisce dettagliatamente la impari lotta dei servizi di emergenza e l’eroismo dei pompieri contro la potenza devastante del fuoco, fra ritardi, imprevisti e difficoltà.

Ma il regista de Il nome della rosa e Sette anni in Tibet, racconta anche la sofferenza dei fedeli e l’avventura dei responsabili della cattedrale parigina e dei sacerdoti che rischiarono anch’essi la vita per salvare le preziosissime reliquie custodite nella cattedrale. Si arriva così a un gran finale epico e mistico, con le grandi campane che suonano mosse dai getti d’acqua dei pompieri, sostenuti dall’Ave

Maria cantata dai fedeli nelle strade. Finché all’alba un raggio di sole illumina il volto della celebre statua della Madonna con bambino che pare sorriderci davvero.

Prodotto da Wildside, Pathé, TF1 Film Production, Jérôme Seydoux e François Pinault, il film Sky Original sarà al cinema dal 28 marzo e dal 15 aprile su Sky Cinema e in streaming su Now, a tre anni esatti dal tragico rogo che scoppiò proprio all’inizio della Settimana Santa.

Maestro Annaud, lei dov’era allora?

Ero nella regione della Vandea, in una casa in cui la televisione era guasta. Accendendo la radio, ho scoperto il dramma in corso a Notre-Dame. Non ho visto la tragedia quella sera, ma l’ho immaginata. Conosco molto bene la cattedrale. Da bambino ho inaugurato la mia prima macchina fo- tografica ritraendo la Strige della Galleria delle Chimere.

Come è venuta l’idea di farne un film?

Alla fine del 2019 Jérôme Seydoux, il presidente di Pathé, mi ha chiamato per fare un film di montaggio con materiali d’archivio. Leggendo i documenti ho scoperto un’affascinante catena di contrattempi, ostacoli e malfunzionamenti. C’erano tutti gli elementi per una sceneggiatura di finzione: nel ruolo di protagonista, una star internazionale come Notre-Dame. L’antagonista: un demone spaventoso e carismatico, il fuoco. Fra i due, delle persone umili pronte a sacrificare la propria vita per salvare delle pietre. Ho deciso di fare un film: l’8% per cento sono immagini d’archivio (abbiamo ricevuto 6000 fra video e foto da soccorritori e passanti) che si integrano con la fiction. L’interno di Notre-Dame era inaccessibile, ma ho avuto il permesso di girare sul sagrato e, alla fine, anche se con grandi restrizioni di sicurezza, pure al suo interno: un’esperienza commovente. Così abbiamo ricostruito in studio a grandezza naturale una gran parte della navata principale, le scale a chiocciola, i corridoi esterni, la struttura del transetto nord e l’interno del colossale campanile. Le scene dell’incendio sono state spettacolari, complesse e anche rischiose.

Nel film si intrecciano tante storie, fra cui quelle di chi ha rischiato la vita per salvare le reliquie.

Ci sono molti eroi, tutti personaggi commoventi. Fra questi vediamo il personale della cattedrale che mise in salvo la Corona di spine di Cristo, che rimase per 10 secoli nelle mani dell’impero romano d’Oriente, acquisita da re Luigi IX nel 1239 per una cifra esorbitante, il budget del funzionamento della Francia. Eppure la maggior parte dei francesi ignoravano che a Parigi ci fosse una delle più preziose reliquie della cristianità come la Sindone.

Una curiosità, nei titoli di coda nel cast appare fra gli attori la statua della vergine Maria.

La statua della Madonna è l’incarnazione del personaggio centrale, la cattedrale. Notre- Dame per me è una donna sublime, la più celebre delle attrici. Io abito a pochi metri dalla cattedrale, le passo davanti tutti i giorni e le parlo. Le chiedo «come stai?», «stai meglio? », «penso che questo incidente ti renderà più bella di prima». La adoro.

Lei è un non credente che però riesce a raccontare come se lo fosse il senso della fede.

Ho molto rispetto per le religioni in generale e per il cattolicesimo, per il raccoglimento e la fede che provano gli altri. Sono battezzato anche se vengo da una famiglia atea, laica e repubblicana, ma ricordo come intorno ai 10-12 anni abbia sentito una sorta di mancanza. L’ho compensata sviluppando un amore per l’architettura medievale delle chiese gotiche e romaniche che da ragazzo ho fotografato migliaia di volte: i miei genitori erano sorpresi. Quando entro in una cattedrale, piccola o grande, qualcosa dentro mi attira. Io non ho la fede e mi dispiace per questo.

Lei per preparare il film ha girato anche in altre cattedrali.

Ho girato in alcune delle cattedrali dello stesso periodo o dello stesso stile: Sens, la prima cattedrale gotica al mondo, Saint-Denis, costruita con lo stesso calcare, Amiens e soprattutto Bourges. Ho avuto una relazione di tenerezza e affetto straordinari con le autorità religiose, sono le prime persone che ho incontrato, e dal personale laico, a partire da quelle di Notre-Dame. La cosa bella è che i sacerdoti venivano sul set, e mi faceva piacere che vedessero che tutti avevano rispetto per le loro cattedrali. Ho beneficiato del loro sostegno morale e amicale senza nessuna restrizione.

Come è stata l’accoglienza del film in Francia?

Eccezionale, soprattutto da parte della stampa cattolica. Sono molto toccato di avere onorato la religione e la spiritualità, perché penso che sia tanto necessario nel mondo di odio intorno a noi. In un un mondo di differenze sociali sempre più accentuate, amo vedere che esistono ancora dei posti di preghiera e di meditazione. Non possiamo vivere in un mondo di violenza, odio e non rispetto per gli altri. La prima libertà è offrire la libertà agli altri. Sono felice di avere fatto un film che ci unisce nella speranza.

Il film è soprattutto un grande omaggio al sacrificio dei vigili del fuoco e alla loro competenza.

La maggior parte dei pompieri mi ha parlato di vocazione, parola che per me è associata ai voti religiosi. I pompieri sono gli eredi di coloro che non vogliono solo avere successo, la vita non è solo una bella auto: ho trovato in loro una specie di serenità. La felicità non sono i soldi, ma sentirsi in comunione con gli altri e sapere di essere utili. C’è bisogno di riformare questo mondo che da un secolo in qua ci sta portando sulla cattiva strada e alla catastrofe totale.

Cos’è per i francesi Notre-Dame?

Per i francesi è la cattedrale della capitale, per i turisti uno dei monumenti più visitati al mondo. È il simbolo dell’Europa cristiana, della civilizzazione dominante dopo la cultura grecolatina. Questo incendio ha turbato il mondo. È il simbolo di una civiltà che crolla? Il sacro aggiunge enorme significato. Se brucia Versailles è un peccato, ma non è un luogo di preghiera sin dai tempi del neolitico. Ma i francesi non avevano completamente realizzato quanto questa cattedrale fosse importante per l’umanità.

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Dal 28 marzo nelle sale e dal 15 aprile su Sky Cinema lo spettacolare film di Jean-Jacques Annaud “Notre-Dame in fiamme” che ricostruisce l’incendio di tre anni fa. «Adoro le cattedrali, sento nostalgia della fede»

Il film “Notre Dame in fiamme” racconta l’incendio del 15 aprile 2019. Al cinema a e su Sky Cinema

Jean-Jacques Annaud

Il Dio nascosto (nei film)

Un titolo impegnativo, «Il Dio nascosto: quando il sacro si traveste da profano», per indagare quella spiritualità segreta, talvolta confusa e contraddittoria, ma spesso sorretta da una fede autentica, che un certo cinema contemporaneo ha indirizzato verso l’Alto, pur prelevandola da una quotidianità fragile, ambigua e provocatoria. Attraverso quattro saggi critici sul tema, il nuovo numero di Filmcronache, la rivista dell’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani), si muove dunque lungo le tracce di quei film (e di quegli autori) in cui la presenza di Dio appare spesso offuscata dalle seduzioni, dagli inganni e dalle miserie dell’incompiutezza umana.

Nel suo intervento, Tomaso Subini, docente di Cinema, fotografia, televisione e nuovi media all’Università degli Studi di Milano, si interroga su «Che cos’è un film religioso?», ponendo una domanda di fondo alla quale, dagli anni ’50 e ’60, hanno cercato di rispondere studiosi, ricercatori e istituzioni, esplorando nel contempo le liste ’ufficiali’ dell’epoca, contenenti opere controverse come

Francesco giullare di Dio o Il Vangelo secondo Matteo. «Dietro le divise: il ‘mestiere’ della fede» è invece il contributo del direttore di Filmcronache, Paolo Perrone, che in un’ampia panoramica, sospesa tra la beatitudine celeste e il precipizio terreno, rintraccia in alcuni recenti film come Corpus Christi, Agnus Dei, Maternal, Gli occhi di Tammy Faye e Beginning la veicolazione di una fede nutrita di preghiera e testimonianza, ma anche, non di rado, affaticata da sofferenze interiori e crisi vocazionali.

Nel suo intervento, intitolato «Imago Dei, fra natura e mito», Francesco Crispino, docente di cinema, film-maker e scrittore, evidenzia poi come un universo di simboli, mitologie e memorie ancestrali (e film come La vita nascosta-Hidden life, The Book of Vision, Non cadrà più la neve, Valley of the Gods, Piccolo corpo e Re Granchio) rimandino ad un Dio immanente e pervasivo, capace di manifestarsi in tutta la sua potenza a chi si dispone ad accoglierlo. Infine, con «Titane: un viaggio nuovo (e antichissimo) nella vita», padre Guido Bertagna, gesuita, già direttore del Centro culturale San Fedele di Milano, analizza a tutto campo il film di Julia Ducournau, Palma d’oro di Cannes 2021: una parabola postmoderna e postumana su un amore capace di accogliere l’altro oltre ogni ragionevole attesa. Il numero di

Filmcronache in uscita in questi giorni (disponibile gratuitamente in versione digitale negli store Apple e Google) sarà la base teorica per organizzare rassegne tematiche nei Cinecircoli e nelle Sale della Comunità.

Grandi film in prima serata su Tv2000

Persuasione (dal romanzo di Jane Austen)
Domenica 13 febbraio ore 21.20

Claret (Prima tv)
Lunedì 14 febbraio ore 21.10

Il figlio dell’altra (ciclo ‘Terre lontane’)
Giovedì 17 febbraio ore 21.10

Una prima serata tutta da vivere su Tv2000 con grandi film d’autore e registi internazionali. Questa settimana segnaliamo Persuasione (domenica 13 febbraio ore 21.20) per il ciclo di film dedicato alla scrittrice Jane Austen, figura di spicco della narrativa neoclassica, è una delle autrici più famose del panorama letterario del Regno Unito e mondiale.
Tratto dal romanzo del 1818 della scrittrice inglese Jane Austen, pubblicato postumo dal fratello e composto tra il 1815 e il 1816. La scrittrice inizierà a lavorare a questo romanzo immediatamente dopo aver finito Emma. È l’ultima opera completa scritta poco prima dell’aggravarsi della malattia di Addison che la porterà alla morte nel luglio del 1817.
Cast: con Sally Hawkins, Alice Krige, Rupert Penry-Jones, Anthony Head, Julia Davis, Michael Fenton Stevens, Mary Stockley, Peter Wight.
Tra le prime tv c’è invece Claret (lunedì 14 febbraio ore 21.10) film del regista spagnolo Pablo Moreno, in cui viene raccontata la vita straordinaria e la forza spirituale di Antonio María Claret, fondatore dell’ordine dei missionari claretiani ed eroe dei diritti umani.
E per il ciclo ‘Terre lontane’ da non perdere il film Il figlio dell’altra (Giovedì 17 febbraio ore 21.10). La regista francese Lorraine Lévy racconta uno scambio di identità già drammatico, acuito dal conflitto economico e religioso. In un territorio segnato dalla guerra, al confine tra Israele e Palestina, all’ombra del muro che separa Tel Aviv dai territori arabi della Cisgiordania, due neonati, uno ebreo e l’altro musulmano, vengono scambiati per errore alla nascita. Diventati ragazzi, vivono inconsapevolmente uno la vita dell’altro.

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Storie di madri e di vite carcerate

Il carcere apre le sue porte al cinema per raccontare, fra tanto dolore, anche la speranza, che sia la luce portata dalla nascita di un figlio, l’amicizia con un volontario, il rispetto umano fra una guardia e un condannato. Tutto questo si vede in questi giorni al Lido fra le pieghe più scintillanti del glamour che circonda la 78ª Mostra del Cinema di Venezia. Ad aprire la carrellata è stato ieri 107 madri, fortissimo docufilm del regista ungherese Peter Kerekes girato in presa diretta in un carcere femminile di Odessa in Ucraina. Centosette sono le madri carcerate che Kerekes ha intervistato e immortalato in un film che sembra un album fotografico, nitido, vero e umanissimo. Un film verità in cui donne che hanno commesso anche delitti atroci, raccontano le loro paure, il loro pentimento o la loro durezza, trovando un momento di riscatto e di libertà interiore nelle poche ore quotidiane concesse per stare con i loro bambini. Si segue in particolare la storia vera di Lesya (l’unico ruolo interpretato da un’attrice) condannata a 7 anni per aver ucciso il marito per gelosia. Ha appena partorito il suo primo figlio in carcere, e ora sta entrando un mondo popolato solo da donne: detenute, infermiere e guardiane, donne incinte e donne con bambini.

«La prima idea era quella di seguire la vita di una guardia carceraria – spiega il regista – . Poi ci siamo ritrovati ad incontrare centinaia di mamme e bambini, seguendo le loro giornate. Quest’esperienza mi ha cambiato la vita, non sono più lo stesso». Lo sguardo del film è quello di Irina che lavora come direttrice del carcere femminile. Lei è un guardiano, confidente, e amico, ma anche pubblico ufficiale incaricato di amministrare la pena. «Dall’altra parte di questo microcosmo vivono le madri e i loro figli – aggiunge Kerekes – . Le loro vite sono state distrutte. Hanno destini diversi e futuri incerti, ma l’unica cosa tenerle a galla sono le loro relazioni con i loro figli, qualche ora di beatitudine autorizzata ogni giorno. Ma c’è anche il dramma di cosa succederà a questi bambini quando avranno compiuto 3 anni, destinati in molti all’orfanotrofio. Abbiamo trascorso diversi anni con loro cercando di filmarle non come oggetti passivi, ma piuttosto come soggetti partecipanti».

Le guardie carcerarie sono anche al centro di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, girato nel carcere dismesso San Sebastiano di Sassari, che verrà presentato domani Fuori concorso e sarà nelle sale dal 14 ottobre. Un vecchio carcere ottocentesco è in dismissione. Per problemi burocratici i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti rimane, con pochi agenti, in attesa di nuove destinazioni. Toni Servillo è l’ispettore di Polizia Penitenziaria Gaetano Gargiulo, accanto a lui Silvio Orlando (i due attori recitano assieme per la prima volta). In un’atmosfera sospe- sa, le regole di separazione si allentano e tra gli uomini rimasti si intravedono nuove forme di relazioni. Come scrive il regista Di Costanzo questo è «un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Poi, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. Ariaferma è forse un film sull’assurdità del carcere ». L’umanità emerge anche in Rebibbia Lockdown nato da un’idea di Paola Severino con la regia di Fabio Cavalli che verrà presentato all’interno di Venice Production Bridge. Quattro universitari sono incaricati dalla Luiss Guido Carli di seguire i detenuti-studenti del carcere romano nel percorso universitario verso la laurea in Giurisprudenza. Il virus all’improvviso blocca ogni incontro. Nasce un fitto rapporto epistolare. Per mesi i ragazzi e i carcerati si svelano gli uni agli altri per i tortuosi sentieri del dolore, fra paure e speranze. Si incontreranno, infine, ragazzi e carcerati, nel luogo del sapere: l’aula universitaria di Rebibbia. La realtà del carcere di San Vittore a Milano sarà invece al centro di Exit, il docufilm diretto da Stefano Sgarella con Loris Fabiani, Daria Bignardi e Alessandro Castellucci che racconta le realtà del reparto La Nave di San Vittore e del Refettorio Ambrosiano di Milano. L’impegno del volontariato, la cultura, la musica e la bellezza come “chiave” per la libertà, il blocco traumatico causato dal Covid, la fiducia e la volontà della ripresa. Il tutto attraverso lo sguardo di Alex, un ragazzo che ha perso il fratello per una storia di droga e che al recupero di chi ha sbagliato non crede affatto, almeno all’inizio. Exit sarà presentato in anteprima a Venezia alle 11 del 9 settembre 2021, presso la sede della Fondazione Ente dello Spettacolo. Parteciperà in diretta streaming il ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

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Dopo l’intenso docufilm “107 madri” dell’ungherese Kerekes, al Lido sbarcano altre pellicole ambientate nei penitenziari: da “Ariaferma” a “Rebibbia Lockdown”, fino al San Vittore di “Exit”

Una scena del film di fantascienza “Dune” diretto da Denis Villeneuve

Nella foto il docufilm “107 madri” del regista ungherese Peter Kerekes, presentato ieri alla Mostra di Venezia