Dal 22 al 26 giugno si terrà il decimo Incontro mondiale delle famiglie. Facciamo il punto su cosa rende speciale una famiglia

La società post-familiare. È a dir poco eloquente il titolo dell’ultimo rapporto del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia), datato 2020. Francesco Belletti, che ne è il direttore, spiega: «Assistiamo a una grande trasformazione in corso da anni: l’affermarsi di una tendenza culturale – della gente comune e non solo degli intellettuali – per cui si pensa di poter fare a meno della famiglia come luogo di regolazione delle relazioni. Ciò si traduce in un processo di “privatizzazione” della famiglia, che diventa un ambito dove si giocano solo la libertà e l’affettività dei soggetti, mentre resta sullo sfondo tutto quanto ha a che fare con la dimensione istituzionale, ossia con l’impegno e il progetto di vita». Il nostro è un tempo nel quale sembra prevalere la soddisfazione di esigenze e bisogni immediati, senza prospettive di lungo termine. Sottolinea Belletti: «L’appiattimento sul presente è uno dei problemi principali: di conseguenza sta vacillando l’idea che dentro la famiglia si costruiscano i progetti futuri di vita. E ciò espone la famiglia a grande vulnerabilità».

CIÒ CHE RENDE TALE UNA FAMIGLIA
Sfogliando il Rapporto CISF 2020 si incontrano differenti tipologie di realtà familiari: da un lato una famiglia “quasi tradizionale”, più anziana, meno istruita, meno tecnologica, più centrata sui legami; dall’altro una famiglia “quasi-liquida”, di giovani e adulti, più istruiti e smart, più centrata sull’autorealizzazione degli individui. In mezzo: “famiglie aperte e pro-sociali”, «che potrebbero prendere il meglio dei due poli (centralità dei legami, attenzione alla persona), evitandone i rischi (rigidità moralistica o evaporazione dei legami)». Ma se questi sono alcuni dei nuovi volti della famiglia di oggi, quali possiamo individuare, invece, come “invarianti” fondamentali della famiglia? «Le qualità che rendono tale la famiglia umana – è la risposta – sono innanzitutto la conciliazione delle differenze radicali della persona: l’altro da me, il maschile e femminile, generante-generato. Tutto questo», sottolinea Belletti, «è sfidato dalla mentalità contemporanea, quando ad esempio considera famiglie tout court anche le relazioni affettive fra persone dello stesso sesso».

EDUCARSI ALLA RESPONSABILITÀ

C’è una parola che andrebbe riscoperta, per rilanciare il ruolo della famiglia ed è “responsabilità”. «Se una coppia decide di generare un figlio è, anche, perché è consapevole del proprio ruolo all’interno della società. Del resto, questo è il medesimo motivo per il quale i genitori si fanno carico dell’educazione dei figli, in quanto avvertono la missione di formare cittadini orientati al bene comune». Come, allora, generare nelle persone e nelle coppie un desiderio di bene comune, attenzione ai bisogni degli altri e non solo ai propri interessi? «È una delle sfide più calde oggi, in un tempo in cui sono enfatizzati i diritti, spesso mettendo tra parentesi i doveri. Tant’è che oggi assistiamo al paradosso di genitori che chiamano l’avvocato per protesta contro il voto negativo assegnato da un prof al figlio».

Allargando ulteriormente lo sguardo, ci accorgiamo che la famiglia oggi viene interpellata anche dal confronto con altre culture e altre religioni. «Da un lato, in Italia, ci dobbiamo necessariamente misurare con persone provenienti da altri Paesi e modelli culturali, che hanno valori di riferimento diversi, ad esempio un’immagine della donna o dei diritti dei bambini differente: il che comporta un cammino, se vogliamo un’integrazione effettiva degli stranieri nel nostro Paese. Dall’altra parte, siamo oggettivamente provocati quando, ad esempio, taluni di loro ci propongono forti valori di solidarietà intrafamiliare, quando ci “rinfacciano” che spesso affidiamo a persone pagate, quali le badanti, i nostri anziani anziché accudirli di persona, perché ci costa troppo tempo e fatica».
L’ALLARME DENATALITÀ E LE SFIDE CULTURALI

Tra i fenomeni cui oggi assistiamo – descritti anche nel Rapporto CISF – allarmano la forte riduzione della natalità e lo spostamento notevole, in avanti, dell’età in cui si cerca il primo figlio. Tutto questo, a monte, ha ragioni specifiche (culturali ed economiche) e provoca conseguenze sociali non da poco. Commenta Belletti: «Una funzione naturale come la procreazione, da sempre gestita in autonomia dalla famiglia, è in crisi: se alcune coppie mettono al mondo un figlio in più, la loro situazione economica ne risente, in qualche caso facendo scivolare la famiglia al di sotto della linea della povertà. Tuttavia sarebbe riduttivo leggere la denatalità in chiave meramente economica e noi cattolici, per primi, dovremmo condurre una battaglia differente su questo. Il punto vero è educare al bene comune. Per dirla con una battuta: se uno sceglie di metter su famiglia deve mettere in conto dei sacrifici e quindi, ad esempio, non potrà più fare – che so? – l’happy hour tutte le sere come quando era single». Aggiunge Belletti: «La famiglia, quando “funziona”, rappresenta il punto di incontro fra la libertà delle persone e la “sostenibilità” di un popolo. La questione è che oggi la società ha scelto una mappa di valori diversi dal passato: se un tempo la donna senza figli era quasi stigmatizzata, oggi una mamma con tre figli passa per essere “strana” e si sente chiedere “Ma chi te lo fa fare?”».

IL CAMBIAMENTO PASTORALE IN ATTO
Rispetto al mutamento in atto nel tessuto familiare, come si sta ponendo la Chiesa? «Il magistero e lo stile pastorale di papa Francesco parlano di accoglienza, vicinanza, ascolto e dialogo. Bergoglio propone una Chiesa di famiglie e non una Chiesa che si occupa della famiglia: una conversione che non è partita da zero. Basti pensare ai tanti movimenti di spiritualità coniugale e familiare sorti negli ultimi decenni.

Per la Chiesa la famiglia è una “buona notizia” e questo la sta portando sempre di più a farsi compagna di viaggio nei suoi confronti. Tant’è che anche i consacrati e le consacrate cominciano ad alimentarsi dalle relazioni di amicizia con coppie e famiglie». Puntualizza Belletti: «Va detto però che, parlando di valorizzazione della famiglia dentro la Chiesa, siamo in presenza di un processo lungo e che procede a macchia di leopardo. Senza dimenticare che già i pastori precedenti (su tutti Giovanni Paolo II) avevano dedicato un’attenzione pastorale specifica alla famiglia, rilanciandone con forza la dimensione spirituale».

Conclude il direttore del CISF: «Fare famiglia, ossia voler bene a un uomo o una donna per sempre, decidere di mettere al mondo un figlio per dare un futuro all’umanità sono elementi che fanno diventare l’uomo più uomo e più felice. Il richiamo della Chiesa sulla dimensione sacramentale della famiglia si innesta su questa base profondamente umana, così che la famiglia è davvero buona notizia per ogni uomo e donna sulla terra»
Famiglia Cristiana

Studiosi a confronto sul cinema e l’audiovisivo nella storia del cattolicesimo

Il convegno a Roma organizzato da Cast

In corso fino al 10 giugno a Roma il convegno internazionale “La storia del cattolicesimo contemporaneo e le memorie del cinema e dell’audiovisivo”, organizzato dal centro di ricerca Cast “Catholicism ad audiovisual studies”. Presentati gli studi in corso per la catalogazione e la conservazione di un patrimonio storico fondamentale

Offrire un primo “stato dell’arte” sulle fonti audiovisive e le pratiche di ricerca per lo studio della storia del cattolicesimo contemporaneo.  Questo si propone il convegno internazionale su “La storia del cattolicesimo contemporaneo e le memorie del cinema e dell’audiovisivo” organizzato oggi e domani a Roma, nel Centro Studi Americani di Palazzo Antici Mattei, dal Centro di ricerca Cast – “Catholicism and Audiovisual Studies” dell’Università Telematica Internazionale UniNettuno, con la collaborazione, tra l’altro, della Direzione generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura.

Le sfide aperte dalla svolta digitale

Oltre quaranta relatori, da questa mattina, si stanno confrontando sulle sfide “e le frontiere aperte dalla svolta digitale sia per le politiche di conservazione del patrimonio storico legato all’audiovisivo, sia però anche per le scelte metodologiche che caratterizzano i nostri progetti di ricerca accademica” ha spiegato nel discorso introduttivo il fondatore e presidente di Cast, monsignor Dario Edoardo Viganò, vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e di quella delle Scienze Sociali. Nel pomeriggio di giovedì, infatti, i direttori delle più importanti istituzioni cinetecarie italiane, dall’Archivio storico Luce alla Cineteca del  Centro sperimentale di cinematografia, moderati dal vicedirettore editoriale del Dicastero per la Comunicazione Alessandro Gisotti, dibattono proprio su questi argomenti in una tavola rotonda dal titolo “Il patrimonio cinematografico sul cattolicesimo: tecnologie digitali tra conservazione e descrizione, restauro e filologia del film”.

Protagoniste le istituzioni che conservano audiovisivi

Un importante appuntamento internazionale che ha chiamato anche a raccolta le istituzioni piccole e grandi di varia tipologia (cineteche, archivi, biblioteche) che conservano materiale audiovisivo legato a realtà cattoliche ed enti ecclesiastici “con l’intento – chiariscono gli organizzatori – di mappare l’esistente e procedere a un raffronto teorico e tecnico sulle pratiche d’archivio audiovisivo”.

Il caso mediatico di Don Vesuvio

Già nella mattina di giovedì, Massimiliano Gaudiosi, dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa ad esempio, ha presentato la ricerca avviata su documentari e programmi televisivi italiani e internazionali dedicati a “Don Vesuvio”, il soprannome del sacerdote napoletano Mario Borrelli, scomparso nel 2007, che nel secondo dopoguerra si travestiva da “scugnizzo” per vivere per alcuni mesi in mezzo ai senzatetto, fino a creare la “Casa dello scugnizzo” per aiutare almeno i più giovani ad inserirsi nella società. Di lui si occuparono a lungo media italiani e stranieri, aiutandolo così a raccogliere fondi per le sue opere benefiche. La ricerca di Gaudiosi, su documenti inediti dell’archivio privato del sacerdote, mira a far luce “su una figura il cui impatto sull’immaginario cattolico del dopoguerra è stato troppo trascurato”. “L’attenzione – spiega il ricercatore – sarà posta in particolare sulla grande disinvoltura con la quale un rappresentante del clero”, diventato rapidamente uomo di copertina e protagonista di film ed inchieste per cinema e tv, “sia riuscito a portare al centro dell’attenzione mediatica i problemi di Napoli e dei suoi giovani, mostrando però anche i progressi di un efficiente modello assistenziale”.

Vaticana News

Brasile: le Chiese dell’Amazzonia tornano a riunirsi a Santarém a cinquant’anni dal primo incontro.

Cinquant’anni dopo le Chiese dell’Amazzonia si ritrovano a Santarém, in Brasile. Nella città che sorge lungo il Rio delle Amazzoni si svolse, nel 1972, il primo Incontro della Chiesa dell’Amazzonia legale, mettendo le basi per un lungo cammino, proseguito nei decenni, sfociato nel Sinodo del 2019 e nella successiva esortazione apostolica di Papa Francesco Querida Amazonia. Dopo la celebrazione d’avvio di lunedì sera, ieri sono entrati nel vivo i lavori del quarto Incontro della Chiesa dell’Amazzonia legale, che si concluderà domani. Tra i messaggi giunti in occasione dell’incontro quello di Papa Francesco, che ha invitato le Chiese dell’Amazzonia a essere “coraggiose e audaci”. Il card. Pedro Barreto, presidente della Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia (Ceama) e della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), ha definito l’incontro di questi giorni “un’esperienza pasquale, un cammino che la Chiesa cattolica sta facendo, passando dal locale al globale, dall’Amazzonia alla Chiesa universale”. Ha poi richiamato tre verbi proposti da san Giovanni Paolo II: ricordare, vivere e guardare. Ricordare “con gratitudine il passato” e i 50 anni di Santarém; vivere con “passione, con entusiasmo, con parresia, questo momento della storia che viviamo nella Chiesa dell’Amazzonia”, insistendo sul fatto che l’entusiasmo, che viene da Dio, deve essere contagioso; guardare al futuro con speranza, e farlo “a partire dal bioma amazzonico, per l’umanità. Uno stile presente nella Repam, con le sue denunce davanti alle organizzazioni internazionali, segno che qualcosa che sta cambiando la mentalità, anche dei grandi imprenditori, che vedono l’Amazzonia con altri occhi”.
L’incontro di Santarém contribuisce “a ravvivare più fortemente in tutti noi l’impegno assunto dalla nostra Chiesa 50 anni fa”, secondo dom Walmor Oliveira de Azevedo, presidente della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, che ha inviato un videomessaggio. Il presidente dei vescovi brasiliani ha sottolineato l’importanza del Concilio Vaticano II e della Conferenza di Medellín, vedendo nel Documento di Santarém “uno strumento per un’evangelizzazione dell’Amazzonia che rispetti le culture dei popoli originari e sia al servizio della conservazione dell’Amazzonia”.
L’arcivescovo di Manaus, dom Leonardo Steiner, che sarà creato cardinale nel prossimo Concistoro, in relazione a Querida Amazonía, ha insistito sul fatto che “i sogni sono dimensioni di un’unica realtà, di un tutto, un invito alla Chiesa a essere presente in ciascuna realtà, a inculturarla, ad andare incontro a essa per scoprire ciò che è il più significativo”.

Sir

Cammino sinodale: appunti in corso d’opera

chiesa italiana

di: Brunetto Salvarani in Settimana News

A neppure un anno dall’avvio del Cammino sinodale in Italia, senza nessuna pretesa di completezza, ecco alcuni appunti sparsi, raccolti da un osservatorio quanto mai periferico, e non certo privilegiato.

«L’avvenimento ecclesiale più importante e strategico dopo il Concilio Vaticano II», lo definisce Piero Coda. Papa Francesco, che tanto ha insistito con la Chiesa italiana perché lo mettesse in agenda, lo considera decisivo per la vita e per la missione dei cristiani: «proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».

Un impegno, quello connesso al Cammino sinodale, va detto onestamente, da far tremare i polsi, pur limitandoci al versante organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte di laici, presbiteri, vescovi, non è per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

Il Cammino sinodale, una non-notizia?
Per orientarci, tra le mani abbiamo però, dal 2013, una bussola non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che il papa ha scritto come mappa di una Chiesa capace di uscita. Eppure, a prima vista il Sinodo parrebbe una non-notizia: di Sinodo i media non hanno parlato, neppure tangenzialmente. Perché? Azzardo: non è che l’obiettivo non sia stato ancora chiarito a fondo? Varrebbe la pena di rifletterci…

La posta in gioco, peraltro, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale di rilievo una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa. Una generazione che – forse – può essere ancora in grado di scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani probabilmente appaiono a metà fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Ma c’è di più, ovviamente, a complicare il quadro. Lo sappiamo, è stato sufficiente un minuscolo virus a inceppare la macchina, mettendo in luce inconsistenze e squilibri che erano già in atto, a tutti i livelli della nostra vita, personale, familiare e sociale.[1] E la macchina ecclesiale non ha certo fatto eccezione.

Nel primo lockdown il granellino di sabbia detto Covid 19 ha interrotto la catena di trasmissione: ferme le celebrazioni, sospesi i catechismi, rinviate a data da destinarsi le somministrazioni dei sacramenti. Colpiti al cuore dell’anno liturgico, il triduo pasquale. Abbiamo provato la resistenza, e tentato la ripresa, rischiando peraltro la resa.

Certo, appena c’è stato uno spiraglio le parrocchie hanno recuperato le prime comunioni e le cresime arretrate, ripristinando la pastorale sacramentale: poco altro. Ma è difficile vedere oggi i ragazzi e i giovani alle nostre celebrazioni.

Il virus si sta incaricando anche di questo, di fare da spazzino. Se è vero che un terzo non è più tornato a messa (a dispetto della fame di eucaristia proclamata da una certa retorica ecclesiale), significa che questa interruzione sta facendo verità: l’adesione alla fede per tradizione ha i giorni contati. Papa Francesco sostiene che «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».

È dunque, sebbene a caro prezzo, un tempo di grazia, la fine di un mondo e, forse, se prendiamo sul serio questo tempo segnato dal Cammino sinodale, l’inaugurazione di una stagione nuova. Non tanto di una strategia nuova, ma di un nuovo cristianesimo e di una nuova Chiesa, niente di meno. Di una Chiesa messa alla prova non sulla tenuta delle sue strutture e dei suoi programmi, ma sulla sua capacità generativa. Sulla sua capacità di assumere in termini nuovi il compito che costituisce la sua identità: evangelizzare, rendere disponibile a tutti il vangelo del Regno di Dio.

Anche qui, seppure molto timidamente, siamo stati sorpresi. La Chiesa si è spostata nelle case e noi non l’avremmo mai fatto per nostra iniziativa. Non conta in quante, conta che sia avvenuto. Conta che in alcune case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile, che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore.

Ecco quanto non dovremmo più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle nostre chiese, rendendole di nuovo esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio della celebrazione comunitaria.

Prendersi cura di quanto è appena sbocciato, significa incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare quello che non faremo mai da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, perché i riti tornino a ospitare la vita e solo così liberino la loro potenza nel darle una forma nuova, redenta e salvata.

Su questo punto è significativa la testimonianza di don Ivo Seghedoni, prete di Modena e mio collega all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia, ma anche parroco di una grande parrocchia della città.

Don Ivo, camminando pensoso nella sua chiesa vuota una delle domeniche mattina del lockdown, annotava: «Non si trattava di girare pensierosi dentro una chiesa vuota, quanto piuttosto di rendersi conto che la Chiesa era da un’altra parte. Stavamo cercando tra i morti. Ciò che era vivo non era lì: non lo poteva essere, perché lì la sua presenza era preclusa, ma c’era. Era altrove. Era dentro le case dove le famiglie vivevano la preghiera domestica.

E lo facevano attivando una serie di azioni pastorali che, in chiesa, non sarebbero state possibili. Lo facevano creando uno spazio adatto dentro l’ambiente feriale, prendendosi un tempo contrattato tra i vari membri di casa secondo un orario scelto con libertà e non imposto dal negozio parrocchiale… offrendo ai giovani una testimonianza di una fede che non è fatta di osservanze stabilite, ma piuttosto di una scelta semplice, calda e bella, spoglia di rigidità e di abitudini… Abbiamo assaporato i primi timidi segni della nascita di una Chiesa radunata nelle case e raccolta insieme dagli strumenti che ora abbiamo a disposizione, sentendo il sapore buono di un pane che non ha la ricchezza e la solennità di quello benedetto nelle nostre curatissime eucarestie domenicali, ma che ha la fragranza e la schiettezza di quello condiviso in famiglia. Diverso, ma anch’esso nutriente e sufficiente a continuare il cammino».

Don Ivo conclude offrendo un’interpretazione positiva di quell’affermazione che forse un po’ ci spaventa: la fine della civiltà parrocchiale. Questa fine non lascia il vuoto, ma è già in fioritura «l’aurora di una Chiesa che lascia lo spazio sacro», «una Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre ad una nuova missionarietà».[2]

Alcune questioni (ineludibili)
A questo punto intendo sottolineare alcune questioni che mi paiono ineludibili, sempre a mo’ di appunti, a cominciare – ma qui do solo il titolo, occorrerebbe molto tempo per riflettervi – dal ruolo della donna nella nostra Chiesa sempre assai maschilista: siamo in un ritardo tremendo, bisogna fare qualcosa, altrimenti, dopo la fuga delle quarantenni constatata da don Armando Matteo,[3] avremo semplicemente la fuga delle donne tout-court, con riflessi che temo drammatici. Mi fermo qui, e non per carità di patria.

Seconda sottolineatura. Non capita spesso che si discuta pubblicamente, com’è successo nelle ultime settimane, di questioni ecumeniche. Lo si fa, naturalmente, sull’onda della catastrofe ucraina: con prese di posizione più o meno autorevoli, articoli di giornale e interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi. Talvolta, persino la conclamata inutilità se non la dannosità, visti gli esiti attuali.

Su Repubblica qualche settimana fa è comparso un titolo definitivo (“La fine dell’ecumenismo”, a firma di Alberto Melloni, secondo cui a uscirne letteralmente in macerie sarebbe «quel desiderio di unità visibile che aveva percorso il cristianesimo da fine Ottocento»); ma non mancano tonalità ironiche o sarcastiche, ad esempio, quando ci si sofferma a tratteggiare le trasparenti contraddizioni delle posizioni sostenute dal patriarca di Mosca, Kirill, con l’ideologia etnico-religiosa del Russkii mir (mondo russo).

La cosa, a ben vedere, è singolare, se pensiamo al fatto che l’ecumenismo è considerato solitamente il parente povero delle discipline teologiche, com’è facile verificare analizzando i programmi di facoltà e istituti di scienze religiose. Ma anche all’investimento rarefatto al riguardo, da parte di Chiese locali e diocesi, salvo poche felici eccezioni.

Lo evidenzio, si badi, non per accusare chicchessia di lesa maestà nei confronti del (faticoso) dialogo fra le Chiese cristiane, ma per corroborare una tesi altra. Dovremmo semmai ripartire proprio dagli eventi di questi mesi, dal mancato incontro fra Kirill e papa Francesco a Gerusalemme, previsto per giugno e annullato per ovvi motivi, ma anche e soprattutto dalle ragioni della clamorosa frattura tra le Chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, che ha causato il dramma intraecclesiale in corso, il quale aggiunge ulteriore caos alla tragedia della guerra, ha il sapore amaro dello scisma interno e le cui radici vengono da lontano: per riflettere sulla necessità – agli occhi degli addetti ai lavori, sempre più evidente – di un nuovo, più intenso e diverso slancio ecumenico.

Per intendere la portata della questione, è necessario rimarcare che si tratta di un tema cruciale per l’identità stessa della Chiesa. L’unità dei credenti in Cristo non è solo una delle fondamentali notes Ecclesiae nel primo credo cristiano stilato al concilio di Nicea nell’anno 325 («Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica»), infatti, ma anche il requisito decisivo in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale che registra l’es-culturazione del cristianesimo dagli scenari culturali europei (C. Theobald).

Come possiamo essere fratelli tutti – sulla linea dell’enciclica del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture?

Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile.

Terza spigolatura, che riguarda il nostro linguaggio ecclesialese. Mi limito a un’annotazione, apparentemente marginale. Da tempo, infatti, ritengo fondamentale, in campo cattolico, abituarsi a utilizzare la parola presbitero, in relazione alla riflessione al riguardo tracciata dal concilio Vaticano II.

In particolare, la stessa Lumen gentium se ne occupa nel capitolo 3, agli articoli 28 e 29. Qui il prete, nel testo originale latino, viene di solito chiamato presbyter (da cui deriva l’italiano prete), e solo in casi eccezionali, dove il contesto lo richieda, sacerdos.

Da questo punto di vista, con ogni evidenza, il concilio intende rendere onore al dato neotestamentario, che evita intenzionalmente la designazione del ministro della Chiesa come sacerdote.

In precedenza, del resto, lo stesso documento, al capitolo 2, dopo una fondazione trinitaria dell’idea di popolo di Dio (articolo 9), nell’articolo 10 ne sviluppa la particolarità come sacerdozio regale, spiegando in proposito in modo sorprendente – si tratta della prima volta ufficiale da parte del magistero cattolico – il sacerdozio di tutti i battezzati. La formula corretta suona: il sacerdozio comune dei fedeli, derivato dall’unico sommo sacerdote, Cristo (come spiega abbondantemente, del resto, la Lettera agli Ebrei).

Il termine Archiereus (sommo sacerdote) è riferito a Gesù Cristo nella stessa Lettera, in cui si afferma che il Figlio di Dio non ha voluto prendere forma dagli angeli, ma è stato «preso fra gli uomini, e costituito per il bene degli uomini» (5,1) per essere come uno di loro e poter capire, dall’interno della condivisione radicale, anche il loro patire.

A sua volta, il qualificativo sacerdotale o regno di sacerdoti è riferito a tutto il popolo cristiano in 1Pt 2,5 e 2,9, con citazioni esplicite e implicite di testi del Primo Testamento. Nelle Lettere paoline si riconosce una diversità di carismi/doni all’interno della comunità, e tra di essi c’è anche il governare (1Cor 12,27-31).

Parimenti, nel configurarsi del linguaggio neotestamentario, si vanno delineando tre tipi di figure, di cui nessuna ha caratteristiche sacerdotali: diaconi (servi), presbiteri (anziani), episcopi (che vegliano, sorvegliano). Ecco perché in ambito cattolico, a conti fatti, si dovrebbe ricorrere alla parola prete o presbitero in quanto più precisa, circostanziata e neotestamentaria rispetto a sacerdote.

Ultima nota. È impressionante la reticenza con cui, nel mondo cattolico, si riflette sulla situazione dell’ora di religione cattolica (tecnicamente, IRC) nelle scuole italiane. Meglio, potremmo dire non si riflette, per più di un motivo: paura di perdere un privilegio acquisito da tempo, scarsa volontà di aprire un contenzioso con lo Stato, sottovalutazione del calo progressivo di quanti aderiscono all’IRC, e potremmo continuare.

Una questione che, peraltro, s’intreccia con altre delle quali, pure, ben poco (e male) si ragiona: dal dramma cronico dell’analfabetismo religioso all’amara constatazione di quanto pesi sulla fragile identità cattolica dei nostri connazionali l’assenza della conoscenza della Bibbia nei circuiti culturali, e non solo in quelli. Fino al relativo interesse con cui pensiamo al ruolo della scuola, conclusasi la stagione gloriosa dell’associazionismo cattolico di impegno pedagogico e didattico, di cui fanno fede la moria delle riviste specializzate e dell’editoria storica non meno che delle figure di riferimento. Quella scuola che, del resto, permane l’unico ambito sociale in cui sono destinati a transitare prima o poi tutti gli italiani, in veste di discenti, docenti o genitori…

Per cogliere la necessità di uno sguardo nuovo sulla religione a scuola, basterebbe partire da un dato oggettivo: la revisione del Concordato fra Santa Sede e Repubblica italiana del 1984, quella che ha sancito l’attuale situazione dell’IRC, fu pensata e firmata in un contesto storico e culturale abissalmente distante da quello odierno, in cui – per dire – erano ancora in piedi il Muro di Berlino e le Twin Towers a New York, la secolarizzazione sembrava aver trionfato sul bisogno di sacro e con essa la sensazione che più modernità equivalesse a meno religione.

Ora, al crollo simbolico e reale di quei muri si accompagna ciò che chiamiamo post-secolarizzazione, e la convinzione diffusa che con le religioni (al plurale) non si possa non fare i conti sul piano sociale e culturale, in un quadro di religiosità fluide, porose, post-moderne.

A partire proprio da quel plurale, le religioni, che rappresenta lo scenario con cui è necessario confrontarsi per quanti intendano cogliere gli attuali segni dei tempi. Materia incandescente e delicatissima, ovvio, soprattutto in stagioni, quali la nostra, ricca di identitarismi e di sordità reciproche fra nuovi clericalismi e laicismi impenitenti, molto più che di dialogo e di ospitalità.

Proprio per questo, peraltro, l’ambito scolastico sarebbe chiamato a un supplemento di responsabilità, pena il divenire lo spazio principe per strumentalizzazioni e banalizzazioni varie. Pensiamo, ad esempio, ad annose querelle che si ripresentano stancamente ogni anno, come presepe sì – presepe no e velo sì – velo no…

L’inatteso pluralismo che ci sta attraversando è infatti destinato a mettere a dura prova la tradizionale ignoranza italiana in campo religioso, invitando l’universo della scuola e della formazione permanente a un impegno più serio e approfondito.

Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo d’influssi culturali, economici e sociali.

Come ogni novità, un panorama simile potrà provocare paure e indurre a chiusure intellettuali, e lo sta facendo, ma altresì stimolare ad un autentico salto di qualità, se sarà vissuta con la necessaria laicità (poiché la laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo).

Ecco dunque, in Italia e in Europa, in negativo, i preoccupanti indizi di un risorgente antisemitismo, di un’islamofobia e di un antiziganismo montanti, di un’intolleranza crescente nei confronti dell’immigrazione dalle nazioni più povere, e così via. Ma anche segni di speranza e buone pratiche…

Di fronte a tale scenario, in costante trasformazione, il sistema ipotizzato all’epoca dal Concordato Craxi-Casaroli appare oggi giocoforza inadeguato, complice di fatto non solo dell’odierno già ricordato stato di analfabetismo religioso ma anche dell’ignoranza quasi assoluta della Bibbia, Grande codice dell’immaginario occidentale.

Cose sotto gli occhi di tutti, volendo essere intellettualmente onesti: del resto, visto che mi capita spesso di avere a che fare con docenti di IRC non di rado preparati, dotati di professionalità e disponibili al confronto con il cambiamento, ma anche consapevoli del disagio che essi stessi vivono quotidianamente, credo si tratti di una questione di sistema, non di persone né di programmi. Inevitabilmente, la loro è una materia dimezzata… ben al di là delle statistiche.

Inoltre, il prima possibile, sarebbe importante sanare quell’increscioso vuoto culturale o insulto pedagogico, come è stato definito, creato dalla pressoché totale assenza di una qualche materia alternativa, che, per esclusiva competenza statale, dovrebbe comunque essere assicurata, nel curricolo degli alunni che non si avvalgono dell’offerta confessionale.

Compete al sistema scolastico il ruolo di alfabetizzare la totalità degli alunni sulle grandi aree dell’esperienza umana, compresa l’area dell’universale esperienza simbolico-religiosa, alla cui lettura critica si dedicano, con serietà di metodi e plausibilità di risultati, non poche scienze storiche, filologiche, ermeneutiche, teologiche.

Mi pare evidente, in tale prospettiva, che l’aspetto della confessionalità dell’insegnamento religioso in Italia risulti anacronistico, a cominciare dalla stessa sua dizione, Insegnamento della religione cattolica, come se quella cattolica fosse una religione e non una confessione cristiana accanto alle altre.

Così come il meccanismo attuale di scelta dei docenti, che registra il protagonismo dei vescovi ma sovente mette a disagio chi è coinvolto (per più di un motivo, essendo una gabbia insieme dorata e precaria).

Sarebbe un segnale importante se la Conferenza episcopale accettasse di ridiscuterlo con le autorità competenti, in un dibattito franco e aperto: ne guadagnerebbero i docenti di IRC, condannati a percepirsi necessariamente di serie B rispetto agli altri a dispetto dell’avvenuta messa in ruolo di diversi fra loro, ma anche gli studenti.

Per non parlare del regime di facoltatività dell’insegnamento religioso, che fa acqua da ogni parte e non fa giustizia del legittimo diritto degli studenti italiani di ricevere dalla scuola, tutti nessuno escluso, una seria competenza sul Fattore R, elemento decisivo per capire le dinamiche storiche del mondo ma anche la condizione geopolitica odierna.

Possiamo discuterne, finalmente, chissà, a margine dell’attuale Sinodo?

Per una metanoia ecclesiale
Tornare a pensare. Va detto, con doverosa parresìa, che, nel contesto del Cammino sinodale, sembrerebbe necessario mandare segnali al fine di superare le forme storiche del pensiero ereditate dal passato, se intendiamo stare (e risultare credibili) in tempi di pluralismo religioso.

In questo “cambiamento d’epoca” (molto più che “epoca di cambiamenti”, come ama rimarcare papa Francesco[4]) abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero, dotato di immaginazione e fantasia[5] e capace di andare oltre il modo ereditato di pensare: anche sul versante teologico. Un credere ospitale non è solo il futuro del dialogo interreligioso: è il suo oggi.

Una teologia che guardi esclusivamente alla propria comunità religiosa, alle proprie necessità e – sia concesso – al proprio tornaconto si è trasformata in quel giorno un relitto della storia, un ferrovecchio inservibile, e un autogoal insopportabile. Anche perché, alla scuola di Raimon Panikkar, nel frattempo abbiamo appreso quanto sia necessario riconoscere non tanto le sfide, bensì le interpellanze poste dal fenomeno della multireligiosità in atto: stiamo, cioè, abbandonando la classica arena del conflitto tra modernità e religione, in cui valevano le regole delle sfide tra contendenti, decidendo piuttosto di abitare l’agorà di tutti, in cui le interpellanze di uno dovrebbero interessare anche l’altro, e chiamare tutti alle responsabilità.[6]

In questo orizzonte, qui appena accennato, alle nostre latitudini (e nonostante la presenza e l’azione di un papa come Francesco) non sembra ancora darsi spazio per una reale teologia pubblica.

E dovremmo domandarcene il motivo; o meglio, i motivi. Che sono tanti. Fra gli altri, mancanza di coraggio. Paura. Carenza di stimoli. Fatica e disabitudine a lavorare in rete. Un vizio di forma che viene da lontano: una sostanziale, perdurante clericalizzazione da funzionari di Dio (E. Drewermann) che tuttora affligge la teologia che viene fatta, studiata e insegnata nelle Facoltà teologiche e negli Istituti di Scienze Religiose, con rare e benemerite eccezioni.

Eppure, lo spazio potrebbe esserci, e personalmente sono convinto si dia: oggi più di ieri. Stando all’analisi (convincente) del teologo francese Christian Duquoc, i teologi si troverebbero di fronte a un dilemma cruciale: essi non sono credibili se non hanno il coraggio di pensare da se stessi; ma essi non sono teologi se non grazie alla loro dipendenza dalla fede e alla loro fedeltà alla tradizione.[7]

La cultura moderna, e ancor più quella postmoderna, pone loro, dunque, una sfida inedita, che per troppo tempo è stata ignorata o ritenuta illusoria: ora è necessario onorarla, se i teologi stessi desiderano aver parte al dibattito pubblico in una democrazia di opinioni (diverse e plurali). La marginalizzazione, l’autoghettizzazione e l’esilio non sono necessariamente il destino ineluttabile della teologia.

Del resto, Veritatis gaudium, la Costituzione apostolica circa le università e le facoltà ecclesiastiche di papa Francesco, resa pubblica il 29 gennaio 2018, va in questa direzione, quando ammette che «la teologia e la cultura d’ispirazione cristiana sono state all’altezza della loro missione quando hanno saputo vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera».[8]

Su tale linea, sarebbe necessaria una teologia che pretenda appunto di essere pubblica, che intenda stare pienamente nella storia, intercettare i segni dei tempi (Mt 16,3) di roncalliana memoria, un’esortazione che attraversa come un filo rosso l’insieme dei lavori conciliari, e dialogare senza paura con essi. Tanto per «rendere ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3,15), quanto per favorire la crescita e la maturazione di una Chiesa che, purtroppo, ha pressoché smesso di pensare collettivamente, di interrogarsi, di suggerire piste di ricerca. Di una Chiesa in cui traspare quotidianamente un enorme bisogno di operare per la crescita di un popolo di Dio più maturo, consapevole, preparato. Che oggi non c’è, né se ne intravvede la nascita, forse appena qualche timido vagito.

Sarebbe utile interrogarsi sulle ragioni di tale situazione, collegabile con l’afonia di un’opinione pubblica ecclesiale (ma questo porterebbe troppo oltre i limiti della nostra riflessione). Ci si può limitare, perciò, a sottolineare come la crisi e la scomparsa di gloriose riviste storiche, il tonfo drammatico dell’editoria religiosa (e segnatamente quella cattolica),[9] le oggettive difficoltà di tanti movimenti e associazioni, l’assenza di riflessione da parte di troppi istituti religiosi e missionari, l’arrancare di non poche facoltà teologiche, appaiono delle con-cause di uno scenario complessivamente mortificante, rispetto al quale si potrebbe utilmente riandare a un Giorgio Gaber d’annata: «E pensare che c’era il pensiero” (disco live, a suo modo profetico, del 1994).[10] E recuperare il già citato, e troppo presto dimenticato, discorso fiorentino di papa Francesco del 10 novembre 2015, quando – nel quadro del quinto Convegno della Chiesa italiana – sostenne che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».

Occorre coraggio. Un coraggio che, anche in una stagione segnata da maggiore libertà teologica rispetto a qualche tempo fa, ancora non si scorge.

Tornare a immaginare. Sarà necessario, al riguardo, attrezzarsi con una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta eppure capace di immaginazione: queste le tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017, in vista di un servizio capace di «possedere lo sguardo di Cristo sul mondo, di trasmetterlo e testimoniarlo». Perché «la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte».[11]

Tornando a immaginare… come spiega magistralmente Timothy Radcliffe in Accendere l’immaginazione,[12] per il quale «il cristianesimo farà ardere il cuore delle persone, come avvenne ai discepoli di Emmaus, solo se vi vedranno non un codice morale bensì un vibrante stile di vita». Perché «la vita spirituale non è un gradevole modo di recuperare la calma al termine di una giornata sovraccarica, l’equivalente religioso di un aperitivo. È immergersi nell’inebriante atmosfera di Dio».

Tornare ad ascoltare. Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, rivolge ai lettori un invito diretto: «Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più di sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale». L’ascolto «ci aiuta a individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori». E «solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita» (n. 171).

Per il dialogo, l’esercizio dell’ascolto è davvero essenziale: ma ascoltare è far tacere le voci dentro di sé, è mettere tra parentesi ciò che si sa dell’altro… e di se stessi, creando in sé uno spazio vuoto, un desiderio e un’attesa dell’altro.

In effetti, se mi metto veramente all’ascolto del mio interlocutore, se lo prendo sul serio e cerco realmente di mettermi al suo posto e di vedere il mondo come lui lo vede, la mia prospettiva cambia e posso integrare realtà più numerose e più variegate nella mia visione delle cose, che in tal modo si affina.

Il dialogo – e il Cammino sinodale, di conseguenza – non può che prendere le mosse da una lettura em-patica e non pregiudiziale dell’altro: cosa che non capita troppo spesso. Purtroppo. Non siamo abituati ad ascoltarlo, l’altro.

Non siamo più abituati ad ascoltare in generale, per la verità, per la marea di rumori, brusii, avvertimenti sonori nei quali siamo quotidianamente immersi. Non siamo abituati ad ascoltare né Dio, né gli uomini, né la voce della terra; e nemmeno noi stessi, alla fine.

Certo, non ascoltare la voce di Dio è particolarmente grave, in un prospetto di dialogo interreligioso. Che non è mai unilaterale, né solo bilaterale (= io-tu), ma è tridimensionale. Dio, il divino, l’Assoluto è il terzo e decisivo partner del dialogo: è il Maestro interiore di ogni interlocutore, e l’approdo definitivo cui mira ogni ricerca religiosa autentica.

A dar retta alla parola biblica, ascoltare significa riconoscere che la voce dell’altro – invece – non è un rumore fra i tanti, ma la rivelazione di un io. La più profonda verità della Bibbia, probabilmente, è appunto che l’altro esiste, è di fronte a noi, e ci chiede di essere riconosciuto come persona, irripetibile nella sua storia unica e nelle sue potenzialità di amare: perché egli è perduto per noi, e noi per lui, se fra noi manca la parola, il dialogo o l’ascolto vicendevole.

Finalino
Mi torna in mente, per (non) concludere, la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile,[13] fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».[14]

Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducità, friabilità, provvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, come accennavo, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura delle cifre.

Potrebbe altresì rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà. «La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà». L’invito, perciò, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene».[15]

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?

[1] Cf. D. OLIVERO (a cura), Non è una parentesi, Effatà, Cantalupa 2020.

[2] I. SEGHEDONI, “Una Chiesa che non cerca tra i morti”, in Non è una parentesi, cit., p.139.

[3] A. MATTEO, La fuga delle quarantenni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.

[4] Discorso di papa Francesco al quinto Convegno ecclesiale nazionale su In Gesù Cristo il nuovo umanesimo (Firenze-Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015).

[5] Cf., ad esempio, M. VAN TREEK, “Immaginazione e fantasia: il contributo della Bibbia e la Chiesa del futuro”, in Concilium n. 4 (2018), pp.88-99.

[6] R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: il dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001.

[7] C. DUQUOC, La teologia in esilio, Queriniana, Brescia 2004 (ed.or. 2002).

[8] PAPA FRANCESCO, Veritatis gaudium, n. 5 (in Il Regno – Documenti, n. 5 [2018], p. 144).

[9] Cf. P.L. CABRI – G. MONTALDI, “Teologia pubblica ed editoria”, in Concilium n.4 (2018), pp.151-157.

[10] Si veda, al riguardo, il contributo di V. MANCUSO, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017.

[11] PAPA FRANCESCO, “Discorso alla comunità de ‘La Civiltà Cattolica’”, 9/2/2017.

[12] T. RADCLIFFE, Accendere l’immaginazione, EMI, Verona 2021.

[13] A. ROUET, La chance d’un christianisme fragile, Bayard, Paris 2001.

[14] Sono i temi del volume da me curato La fragilità di Dio. Contrappunti teologici sul terremoto, EDB, Bologna 2013.

[15] Pirkè Avot 2,18-19.

Chiesa per e tra la gente

di: Marcello Neri (a cura)

pastorale

Della Chiesa cattolica in Germania si parla molto, sovente senza conoscerla e senza prendersi la briga di informarsi a dovere. Esempio lampante sono le recenti lettere aperte di critica al Cammino sinodale, nelle quali diventa evidente che nessuno dei firmatari aveva letto i documenti discussi nella loro versione attuale. Per questo ci è sembrato opportuno offrire ai nostri lettori e lettrici un piccolo spaccato di una Chiesa locale tedesca, quella di Hildesheim. Poco si sa, infatti, anche sul rinnovamento della pastorale in atto in alcune diocesi tedesche – si tratta di esperienze che possono offrire degli spunti anche alla nostra Chiesa italiana. Abbiamo quindi raccolto il racconto di alcune persone impegnate nella diocesi di Hildesheim. Si ringraziano Peter Abel, Carmen Diller, Christian Hennecke, Carolin Herbke, Marina Seidel e Peter Wirth per aver condiviso con noi le loro esperienze pastorali che qui presentiamo.

La diocesi di Hildesheim si sta muovendo controcorrente rispetto alle procedure di accorpamento delle parrocchie in unità pastorali sempre più ampie o in mega-parrocchie, che stanno caratterizzando la risposta delle diocesi tedesche alla diminuzione di preti in attività e delle vocazioni al ministero presbiterale nella Chiesa.

Continuare a vincolare l’esistenza di una comunità cristiana al numero di preti disponibili per assumersi l’incarico di parroco  significa mettere in atto una sorta di ingegneria pastorale artificiosa e artificiale, che non tiene conto delle pratiche e dei vissuti quotidiani della fede in ambito locale che ci sono, e continuano a esistere, a prescindere dalla presenza in loco del ministero ordinato.

Dopo che negli anni passati, sotto il precedente vescovo, si era proceduto ad accorpare parrocchie tra di loro, ora la diocesi di Hildesheim, guidata dal dehoniano Heiner Wilmer, ha collegialmente deciso di non continuare in questa maniera, ma di lasciar esistere le parrocchie indipendentemente dalla disponibilità numerica di preti diocesani e religiosi

Si afferma così un modo di intendere la pastorale che parte dalle comunità cristiane esistenti, che hanno una loro dignità di essere e una sussistenza che va oltre la dimensione puramente canonica del ministero ordinato.

Parrocchia come comunità di comunità cristiane

In tal modo, si inverte anche il modo di pensare il ministero stesso, e i molti ministeri nella Chiesa: non più vincolando le comunità a esso, ma pensando la ministerialità di una Chiesa locale a partire dai vissuti, dalle pratiche, dalle abilità della fede delle comunità cristiane.

Questo comporta anche un ripensamento della parrocchia stessa: passando da un concetto di accentramento a una visione di parrocchia diffusa sui territori del vivere umano, nei luoghi e tempi del quotidiano, che si realizza nelle e mediante le diverse comunità cristiane che la compongono.

Non più una parrocchia come comunità monolitica e onnicomprensiva, ma la parrocchia come comunità di comunità cristiane diverse e complementari tra di loro. Una visione che si avvicina pastoralmente all’ecclesiologia di una Chiesa di Chiese proposta anni addietro da J.-M. Tillard.

Tenere questa aderenza di una comunità cristiana pluriforme ai luoghi, tempi, spazi, del vivere umano rappresenta una sfida che chiede una nuova e diversa immaginazione pastorale. Ed è proprio in questa aderenza che fanno capolino percorsi inediti possibili, nuove forme di presenza della comunità cristiana in mezzo ai vissuti degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Davanti a queste domande pastorali che emergono dal vissuto della gente, e dallo stare a contatto con esso, per una comunità parrocchiale fatta di diverse comunità cristiane è importante concedersi un tempo giusto e adeguato di confronto, discussione e discernimento condiviso.

A partire dai vissuti della gente

Questo modo di essere comunità davanti alle domande che vengono dalle esperienze di vita, dal territorio in cui si vive tutti insieme, è molto importante per dare forma alla parrocchia nel suo complesso: in primo luogo, perché essa si edifica così mediante processi di apprendimento e ascolto; poi, perché le impedisce di pensarsi come realtà a se stante impermeabile a ciò che avviene intorno e in essa.

Quando più persone di una comunità cristiana convengono insieme con questo stile, è inevitabile che prima o poi si trovino davanti a domande che interpellano la fede: che cosa sta emergendo nella nostra comunità cristiana? Cosa è oggi necessario per essa? E poi: come possiamo realizzare tutto questo nell’ambito territoriale ed esistenziale in cui si colloca anche nostra comunità cristiana? Come viene percepito il nostro agire pastorale davanti alle domande che la gente porta con sé, magari anche in maniera non pienamente consapevole?

Mettersi davanti a queste domande che vengono dalla vita, e iniziare a pensare la pastorale a partire da esse, dice di un’idea di Chiesa che non è autoreferenziale, di una parrocchia che non è fine a se stessa: mostra la volontà comunitaria di essere Chiesa per gli altri.

Una diocesi deve farsi carico di accompagnare questi cammini delle comunità che compongono una parrocchia. In prima battuta si tratta di trovare, insieme alle persone che partecipano al processo di sviluppo pastorale, una immagine guida nella quale possano convergere le domande da cui si è partiti e le risposte che si cerca di dare insieme a esse. Questa immagine mostra dove si vuole andare come comunità cristiana, qual è l’orizzonte verso cui ci si muove come luogo ecclesiale immerso nei vissuti della gente.

Immagine, poi, che diventa un primo elemento di un più ampio quadro pastorale comunitario delineato insieme che può orientare il discernimento delle persone che, al suo interno, sono disponibili ad assumersi responsabilità pastorali per realizzare concretamente una comunità parrocchiale che sussiste in molte comunità cristiane legate fra di loro.

La comunità generatrice

Ed è all’interno di questo processo comunitario di discernimento, confronto, dialogo, ascolto, di immaginazione pastorale a partire dalla vita concreta della gente, che le persone che vi partecipano possono trovare quello che è il loro compito all’interno della comunità.

Non è cosa semplice, certo – anche perché si tratta di apprendere insieme un modo nuovo di essere comunità cristiana, di organizzarne le pratiche e le attenzioni, di pensare la propria fede e il suo compito non a partire da sé ma dalle esigenze che la vita pone davanti alla comunità stessa.

Da registrare anche resistenze in corso d’opera, dovute per lo più a un vecchio modello di parrocchia che ancora non si è riusciti a superare collettivamente. Questo, soprattutto quando si tratta di compiti di guida e leadership all’interno delle comunità cristiane che vengono riconosciuti da essa e assunti da laici e laiche che vi appartengono.

Ma proprio qui risiede uno dei rilievi maggiori nel pensare ed edificare la parrocchia come comunità di comunità cristiane: là dove un compito di guida esiste di fatto all’interno di una di queste comunità, riconosciuto e legittimato da esse, allora bisogna anche chiamarlo per nome e attestarlo a livello diocesano.

Le comunità, infatti, sono luoghi generativi: qui si deve cercare il ministero di guida perché è nelle sue pratiche quotidiane che esso si profila. In questo modo, la guida di una comunità cristiana nasce fin dal principio come una realtà collettiva, condivisa – ed è per questo che nelle comunità e nelle parrocchie della diocesi di Hildesheim il compito di guidarle è collegiale, affidato a un team di persone con competenze e incarichi diversi all’interno delle comunità. E queste forme di guida collettiva diventano, naturalmente, anche il luogo in cui si articola quella comunità di comunità cristiane che è la parrocchia.

Attenzione alle persone

Il discernimento nella comunità cristiana significa attenzione per le capacità e il carattere umano di coloro che in essa assumono, o potrebbero farlo, delle responsabilità pastorali. Si tratta di un aspetto importante, perché queste capacità pastorali devono essere percepite, accompagnate e sostenute – nella comunità e da parte della diocesi.

Questa attenzione rende realistica la pastorale stessa, che non parte da dei concetti o da ideali ma dalle abilità effettive della fede presenti nella comunità cristiana. Ma vi è un secondo versante di questa attenzione che è altrettanto importante: essa è dovuta per non sovraccaricare in maniera eccessiva le persone che svolgono dei compiti pastorali nella comunità cristiana per gli altri – tutti gli altri.

Questa duplice attenzione sulle persone e cura nei confronti delle loro capacità pastorali è una grande sfida quando si opera in ambiti più ampi come i decanati. Perché chiede la capacità di non correre dietro  a tutte le urgenze, di modificare o lasciare modelli di attività pastorale che chiedono troppo alle persone e non portano frutti che meritano gli sforzi messi in campo. L’assunzione di compiti pastorali nelle comunità cristiane non deve essere un peso che oscura la gioia e la volontà di mettersi a servizio dei vissuti umani presenti sul territorio.

Parrocchie pluriformi

Vi sono altri due riferimenti che vengono a completare il quadro pastorale complessivo della parrocchia: quello all’anno liturgico, con i suoi tempi e le sue celebrazioni, e quello alle tre note fondamentali della Chiesa – ossia, liturgia, diaconia e annuncio. Riferimenti che ogni comunità cristiana che compone la parrocchia declina a partire dalla sua storia, dal suo vissuto, dalle capacità pastorali presenti al suo interno.

In questo modo, vi è la possibilità che le comunità cristiane che compongono una parrocchia si sviluppino in maniera diversa tra loro, ognuna con il suo accento e le sue caratteristiche proprie. Questo non deve essere visto come un pericolo ma, al contrario, come un punto di forza della pastorale a livello locale e diocesano – perché consente l’emergere di un’immagine di Chiesa e di parrocchia pluriforme e variegata.

Ed è proprio la circolazione di questi diversi modi e stili di essere una comunità parrocchiale fatta di molte comunità cristiane che consente alla gente, a partire dalla loro esistenza e dalle loro domande, di trovare più punti di incontro possibile con la vita della parrocchia stessa.

Insieme per strada

La diocesi di Hildesheim ha introdotto nelle parrocchie e comunità cristiane la possibilità di organizzare un laboratorio pastorale per il futuro. Raccogliamo l’esperienza che viene dalla parrocchia di San Gottardo nel decanato di Göttingen.

Si tratta di una parrocchia composta da quattro luoghi e comunità ecclesiali, nella quale si è partiti con questo tipo di laboratorio a cui hanno preso parte persone che avevano interesse alla cosa o erano disponibili a impegnarsi a livello di attività pastorali.

Il laboratorio per il futuro è durato più settimane, con diversi tipi di incontri: l’elemento centrale era quello di arrivare ad elaborare una immagine di comunità cristiana che facesse da riferimento per gli sviluppi futuri della pastorale parrocchiale. Si è partiti osservando quello che accadeva non solo nelle comunità cristiane che compongono la parrocchia, ma anche sul territorio in cui esse si trovano e vivono.

Già questa è stata una scelta di un certo tipo di pastorale attenta alla più ampia dimensione sociale della realtà concreta dei vissuti umani.

Una prima nota di questo sguardo è stata la constatazione che sul territorio della parrocchia erano presenti un centro Caritas, diversi asili e una scuola elementare cattolica. A partire da qui, si è deciso di fare della pastorale giovanile il nucleo primario delle attività comunitarie. Data la presenza sul territorio di un Centro di avviamento al lavoro per i giovani, si è iniziato a collaborare con questa realtà.

D’altro lato, si è riscontrata la domanda da parte di coloro che fanno parte della parrocchia nelle diverse comunità cristiane di avere un punto di incontro, un luogo comune in cui ritrovarsi, confrontarsi, conoscersi. E questa è stata una seconda opzione su cui lavorare come orizzonte futuro della pastorale.

Al termine dei lavori del laboratorio, alcuni dei partecipanti si sono resi disponibili per impegnarsi come volontari nel team di guida pastorale che tenesse conto di queste due priorità emerse in ambito di analisi e confronto.

In tutto questo processo è stato particolarmente prezioso l’accompagnamento e il sostegno da parte del personale del decanato di Göttingen: sia nel suggerire possibilità di formazione inziale e permanente per le persone che compongono il team di guida pastorale, sia nel mediare i suoi lavori quando all’interno o nella comunità cristiana sorgevano dei problemi.

Sempre a partire da questi laboratori pastorali per il futuro nel decanato di Göttingen si è sviluppata una comunità (chiamata compagni e compagne di strada) a cui è affidata la animazione pastorale in ambito liturgico.

Si potrebbe dire che si tratta di un modello trasversale di comunità cristiana, non legata a un ambito territoriale preciso e univoco, ma formata in vista della celebrazione nelle diverse comunità del decanato. Ambito primario di questa comunità è la preparazione e la celebrazione della liturgia della Parola nelle comunità. Questo comporta scegliere in quali luoghi ecclesiali questa celebrazione si dovrà tenere e quale forma di liturgia della Parola è più adeguata alla comunità in cui viene celebrata.

Le persone che vi fanno parte sottolineano come un’opportunità e un arricchimento il fatto di non essere legati a un’unica comunità cristiana, trattandosi infatti di un ministero itinerante che le porta nel tempo in ciascuna di esse.

In questo modo, la comunità liturgica del decanato di Göttingen rappresenta un punto di riferimento importante per conoscere il polso delle diverse comunità cristiane e parrocchiali, ma soprattutto è la comunità che consente alle altre comunità di pregare e celebrare nel luogo in cui sono, vivono e praticano la fede.

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Dialogo vero tra scienza, economia e etica: lo promuove – con relatori da tutto il mondo – il convegno alla Gregoriana dedicato a un’ecologia integrale

Tre giorni di dibattiti sull'ecologia integrale all'Università Gregoriana

Da tutto il mondo alla Gregoriana per parlare di ecologia

Sinergia è la parola chiave della Conferenza che richiama per tre giorni all’Università Gregoriana esperti da tutto il mondo. Si discute di transizione ecologica e dell’indispensabile collaborazione tra discipline, tra accademici di diversi Paesi, tra specialisti e società civile. Occuparsi di ecologia integrale richiede una visione olistica, spiega il docente di Teologia morale padre René Micallef
“Transitioning to Integral Ecology? Transdisciplinary Approaches for the Grounding and Implementation of a Holistic Worldview”. E’ questo il tema scelto per la Conferenza che si è aperta oggi pomeriggio all’Università Gregoriana per parlare di passaggio all’ecologia integrale e di approcci interdisciplinari e transdisciplinari.

Padre Micallef sottolinea che arrivano studiosi da varie parti del mondo tra cui l’America del Nord e l’America del Sud. C’è una crescente consapevolezza ecologica in tutto il mondo – ricorda – ed è in corso una transizione verso una società che deve basarsi sulla nozione di ecologia integrale. Affinché questa transizione abbia successo infatti – afferma – deve prevedere una collaborazione tra esperti in diverse discipline accademiche, società civile, politici, leader religiosi e tutti coloro che influenzano la cultura popolare.

Dialogo tra discipline: metodo e obiettivo

Padre Micallef offre uno spunto preciso di riflessione affermando che l’interdisciplinarietà e la transdisciplinarietà sono un metodo di confronto, cioè quello di accostare discipline, come si fa in questo convegno, ma sono anche un obiettivo nel senso che devono creare un vero dialogo in cui gli esperti si  confrontino davvero. Precisa: deve essere rispettata l’autonomia di ogni disciplina ma senza la paura – sottolinea – di dover dire soltanto cose che attengono alla propria disciplina. Piuttosto – aggiunge – gli studiosi devo esprimere anche qualcosa che può stimolare l’altro a rispondere altrettanto liberamente per ottenere delle vere sollecitazioni per il pensiero, perché poi si arrivi a offrire riflessioni serie che dal piano della natura e da quello socioeconomico arrivino al livello dei politici che sono quelli che prendono decisioni. Ci vuole – raccomanda il professor Micallef – un dialogo vero e profondo tra scienze naturali e scienze sociali e economiche e poi con l’etica. E’ fondamentale, secondo lo studioso, il dialogo tra scienze e etica perché sui temi ambientali la scienza evolve e i processi vanno compresi e seguiti con quella responsabilità morale che caratterizza l’essere umano tra gli esseri viventi. Dunque, non è solo questione di dialogo tra scienza e etica ma di un cammino insieme.

La sollecitazione di Papa Francesco

Padre Micallef cita Papa Benedetto XVI e Papa Francesco per parlare di un magistero che da anni propone l’idea di una ecologia integrale. Richiama alla mente naturalmente l’Enciclica Laudato sì di Papa Francesco, pubblicata nel 2015, e in particolare il punto n.137 dove si legge: “…al momento che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale, propongo di soffermarci adesso a riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali”. Ed è da vari anni – chiarisce padre René – che si lavora per preparare questo convegno.

Il significato di economia integrale

Padre René racconta anche di aver compiuto studi scientifici oltre a quelli che lo hanno portato a insegnare teologia morale  e confessa di avere qualche perplessità quando si parla di ecologia così come viene intesa normalmente e cioè i per parlare dei  fenomeni ambientali problematici, che possono essere  cambiamenti climatici o disastri naturali. Ma non è questo il punto più importante. Afferma infatti che stabilito questo significato per ecologia, è interessante comprendere l’aggettivo integrale. Secondo padre Micallef significa non pensare all’ecologia solo su piani come quello biologico, chimico, climatico ma aprire piuttosto a riflessioni su come tutto questo tocchi l’essere umano. Non si può pensare un’ecologia – ribadisce – senza guardare all’umano e alle relazioni umane. Dunque, l’obiettivo è mettere al centro l’uomo ma padre Micallef specifica che non si tratta di farne il re dell’universo ma di ricordare che l’essere umano ha una responsabilità morale particolare da svolgere. L’aggettivo integrale richiama dunque, sono infine le sue parole, all’impegno a integrare tutti questi aspetti pensando  ai più poveri e ai più vulnerabili, rispetto a qualunque fragilità.

Vaticano impone sospensione delle ordinazioni a Tolone/ Caso rarissimo: i motivi…

Papa, diplomatici Vaticano

Il Vaticano ha imposto la sospensione delle ordinazioni diaconali e sacerdotali che erano previste nella diocesi di Tolone il prossimo 26 giugno. I quattro futuri diaconi e sei futuri preti che avrebbero preso parte, dunque, dovranno attendere fino a data da destinarsi. La decisione della Santa Sede è stata annunciata in un comunicato firmato dal vescovo, mons. Dominique Rey.

Il motivo di questa presa di posizione, come riportato da Aleteia, sarebbe da ricondurre al fatto che il seminario di Castille, fra Toulon e Hyères, accoglie numerosi giovani da comunità nuove ed anche stranieri provenienti da paesi lontani. L’apertura verso una rinnovata evangelizzazione ha dato luogo a degli interrogativi in diversi dicasteri romani, seppure non sia stata richiesta alcuna misura di ristrutturazione del seminario né tantomeno siano stati presi dei provvedimenti disciplinari.

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Vaticano impone sospensione delle ordinazioni a Tolone:
Da Roma ci si continua a interrogare sul valore del discernimento e della formazione in un seminario in cui convivono circa settanta seminaristi tanto disparati per formazione come quello di Castille. La Santa Sede, come riportato da Aleteia, per rispondere a queste domande, ha dunque incaricato mons. Aveline, arcivescovo di Marsiglia (nominato cardinale la settimana scorsa), di condurre una «visita fraterna» sul posto. Il Vaticano nell’attesa ha però preso un provvedimento tanto importante quanto raro, imponendo la sospensione delle ordinazioni diaconali e sacerdotali previste per la fine di giugno a Tolone. Una data per il rinvio non è stata neanche fissata.

“Accogliamo questa richiesta con dolore ma con fiducia, consapevoli della prova che essa rappresenta soprattutto per coloro che stavano per ricevere l’ordinazione. Avremo a cuore di portarli nella preghiera e di continuare ad accompagnarli nel loro cammino (che va avanti da ben sette anni, ndr). Incoraggio ciascuno di voi a pregare anche per la nostra diocesi, in attesa che la situazione si chiarisca per il bene di tutti”, ha scritto mons. Dominique Rey nel comunicato.