A Reggio Emilia chi è finito in strada ed ha perso tutto trova molto più di una casa

8xmille Chiesa cattolica: la Locanda San Francesco, è una delle opere al centro della nuova campagna informativa della CEI

Non è mai solo una firma. È di più, molto di più. Questo il claim della nuova campagna di comunicazione 8xmille della Conferenza Episcopale Italiana, che mette in evidenza il significato profondo della firma: un semplice gesto che vale migliaia di opere.

ESPERIENZE DI CHIESA Divorziati risposati: quale accoglienza?

di GIANFRANCO CHIARI
Viene da chiedersi se il vero lavoro pastorale dopo Amoris Laetitia dovesse avere al centro, oltre alle persone risposate, anche l’intera comunità.

L’articolo sulla Via Crucis delle famiglie e le poche righe scritte da papa Francesco in risposta ai quesiti posti da fra James Martin a riguardo dell’accoglienza riservata nella Chiesa alle persone LGBT mi hanno riportato al passato e a parole sentite per anni: la chiesa accoglie tutti e non fa differenze fra i suoi figli; se quindi qualche volta si incontra inospitalità o aperta ostilità, ciò deve essere imputato alle persone che fanno parte della chiesa ma non alla chiesa in se stessa.

Sono divorziato e risposato dal 1997. Il mio status, come fedele, era regolato da quanto stabilito dalla Familiaris Consortio, che, pur con toni garbatissimi, ha imposto fino a tempi recenti gravosi divieti in modo indiscriminato a tutti i risposati, senza eccezione alcuna.

In questo lunghissimo periodo, ho partecipato -prima come fedele e poi come operatore- a tante esperienze pastorali, sempre accettando le condizioni che il magistero stabiliva per me. Non accedevo ai sacramenti, pur avendo incontrato infinite volte sacerdoti pronti a somministrarmeli, ed accettando di conseguenza tutte quelle piccole e grandi discriminazioni che -di tanto in tanto- accadevano nella comunità parrocchiale. Discriminazioni non imputabili solo, soggettivamente, alle persone sbagliate -laici o presbiteri che fossero- ma soprattutto ad un magistero sfornito di misericordia e per nulla accogliente.

Però, ripeto, ho cercato di approfondire le ragioni del trattamento riservatomi, concludendo che forse era il mio orgoglio ad impedirmi di vedere correttamente la mia situazione con il distacco necessario. Del resto, la condizione particolare mia e di mia moglie -entrambi divorziati- rappresentava spesso un unicum nelle comunità frequentate e quindi spesso assumevamo il ruolo di testimoni in incontri di vario genere; quindi questo ci consentiva di avere un ruolo a tratti anche gratificante, al punto di essere coinvolti in progetti diocesani e inter-diocesani. Da un lato quindi, eravamo l’esempio di come il vivere in una oggettiva situazione di peccato grave poteva distruggere la via maestra che porta a Dio, costituita dai sacramenti e dal vivere a pieno la vita comunitaria, dall’altro lato però, fra i peccatori incalliti, eravamo i primi della classe: quelli bravi e buoni che accettavano di buon grado divieti e esclusioni.

Tutto questo è continuato fino alla pubblicazione di Amoris Laetitia. Dopo un breve percorso di discernimento, che tutto sommato avevamo fatto per tanti anni, ci è stata data la possibilità di ritornare ad accedere ai sacramenti. Paradossalmente, nella comunità, questo è stato l’inizio di una rottura.

L’essere ritornati, a pieno titolo, fra tutti i fedeli non ha più permesso alle altre persone di indentificarci come erano soliti fare e cioè un gradino comunque sempre più in basso del loro. Graziosamente, ci concedevano talvolta di salire al loro livello ma era ben chiaro chi fossero i santi e chi i peccatori; di fatto, abbiamo scoperto che la comunità non ci accoglieva a priori ma ci permetteva di farne parte solo dopo aver espresso un giudizio sulla nostra disponibilità a farci umili. E quindi sono iniziati i problemi.

Le coppie con cui si condividevano alcune esperienze pastorali hanno iniziato a porre piccole e grandi distanze. Minimi gesti d’amicizia un tempo usuali, come un caffè o un passaggio in auto, venivano respinti, sempre però con il sorriso, cosa che rendeva il tutto ancor più crudele. Un processo lento, ma che emergeva con evidenza sempre più forte e che, ad un certo punto, è diventata ostilità aperta, addirittura sfacciata, tant’è che io e mia moglie ci siamo dimessi dalle varie attività e ci siamo allontanati.

Ci sono tanti paradossi in questa vicenda: ciò che prima avrebbe dovuto allontanarci, ci ha legati alla chiesa, mentre ciò che avrebbe dovuto certificare una piena accoglienza, ha provocato il nostro ritrarci.

Sono stato diretto testimone del totale smarrimento di parecchi sacerdoti provocato da Amoris Laetitia. Chiedevano regole e manualetti da seguire per condurre il discernimento, sentendosi forse defraudati dal potere di concedere e negare. Tutto deve essere sembrato loro tremendamente liquido, così come spaventosa la prospettiva che tutto diventasse soggettivo, lontano dalla rassicurante oggettività data da norme fisse. Ed anche per questo, nell’incertezza, è stato tutto un pullulare di commissioni diocesane sul come approcciarsi ai risposati che chiedevano la riammissione ai sacramenti.

Tutto questo non ha toccato solo i sacerdoti ma anche i tanti laici impegnati, che di norma erano costituiti da coppie regolarmente sposate in chiesa, cresciute all’ombra del campanile. É stata comprensibile la loro difficoltà.

Di per sé, un risposato è una persona che ha scelto di vivere costantemente nel peccato, quindi l’accoglienza precedente ad Amoris Laetitia, rappresentava già un difficilissimo banco di prova per quelle coppie che invece sarebbero state disposte a sacrifici inenarrabili piuttosto che venir meno alla promessa matrimoniale. Si trattava infatti di vedere un fratello o una sorella in chi non si dava affatto pena di porre fine alla situazione gravemente immorale in cui si trovava e che, allo stesso tempo, chiedeva di far parte della comunità.

Peccatori non pentiti ma accolti, in pratica, un ibrido mostruoso. Però, era d’aiuto l’imporre a queste persone limitazioni e divieti: non puoi essere perdonato, non puoi comunicarti, far parte del consiglio pastorale, leggere all’ambone, essere padrino o madrina… insomma questo era il dazio da pagare che metteva bene in chiaro le differenze tra chi siede a pieno titolo nella chiesa e chi no.

Poi tutto si è confuso: i divorziati risposati, pur continuando a vivere nel peccato, potevano ritornare ad essere perdonati così come vengono perdonate le persone che si sforzano in ogni modo d’avere una vita retta. Accettare questo richiede davvero avere assorbito il vangelo fino all’ultimo iota. Ed allora, viene da chiedersi se il vero lavoro pastorale, dopo Amoris Laetitia, non dovesse avere al centro, non solo le persone risposate, ma la comunità per intero proprio in termini di discernimento personale. Comunità che però è stata abituata da sempre a ragionare in termini di merito e di demerito, anche riguardo all’accesso ai sacramenti.

Non so se l’esperienza mia e di mia moglie sia comune ad altre persone, anzi mi auguro che almeno qualcuno sia stato più fortunato di noi. Questo però ci riporta all’assunto inziale. Chi abbiamo incontrato nei tanti anni di cammino prima come utenti e poi come operatori pastorali? Abbiamo incontrato la Chiesa o abbiamo incontrato uomini di chiesa forse poco adatti ai loro compiti? Oppure questa distinzione è solo un modo per cavarsi d’impaccio, rispetto ad una chiesa che -nel suo complesso- non riesce più a leggere la realtà, al punto che da un lato predica il dovere dell’accoglienza e dall’altro si comporta, nel concreto, in modo del tutto opposto? Un tempo punendo con mille divieti i risposati e poi, dopo Amoris Laetitia, non riuscendo ad accettarli come fedeli a pieno titolo?

Affinché la Parola circoli: comunità e sinodalità

di: Marcello Neri – Settimana News

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Due anni di pandemia hanno toccato e cambiato il vissuto delle comunità cristiane. Anche per noi della parrocchia del Cuore immacolato di Maria, alla periferia nord di Bologna, non è stato altrimenti. La realtà, si sa, talvolta è rapace – toglie affetti cari e riferimenti assodati che tengono insieme legami personali e comunità umane.

Una prova comune di questi tempi, che ci permette di comprendere lo spaesamento e l’insicurezza di molti accanto a noi. Ed è in passaggi come questi che il riferimento alle Scritture si fa ancora più prezioso.

Prezioso perché esigente e, al tempo stesso, capace di far sentire la prossimità effettiva di Dio ai vissuti umani, al desiderio di costruire una forma di comunità che non catturi per sé la Parola annunciata, ma le offra come un appoggio affinché essa possa circolare nei territori della vita odierna. Dapprima, la morte di don Tarcisio, il nostro parroco, ci ha chiesto di applicare da noi quella leadership diffusa nella comunità che era stato il suo modo di esercitare il ministero della guida all’interno di essa.

Per un anno abbiamo navigato a vista, tra elaborazione del lutto, memoria che si fa stile e abbozzo di un dopo dai contorni ancora incerti. Se abbiamo attraversato questo tempo, è perché ognuno di noi ha potuto appoggiarsi e fare conto sugli altri.

Gli Atti e il discernimento di una comunità cristiana

Poi, uno dopo l’altro: il richiamo di papa Francesco a un processo sinodale della Chiesa italiana, il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità e l’ingresso di don Alberto, il nuovo parroco. Raccogliendo quanto emerso dalla verifica dell’anno prima, da un lato, e volendo dare spazio nella lectio divina anche a queste dimensioni più ampie dell’essere comunità cristiana, dall’altro, ci siamo orientati per una lettura continua degli Atti degli Apostoli.

Lo abbiamo fatto perché sentivamo l’esigenza di confrontarci con la Scrittura laddove essa custodisce la memoria di comunità nascenti, che devono inventarsi il loro modo di essere coniugando insieme la tradizione da cui provengono e l’inedito che esse stesse rappresentano.

Non si nasce mai dal nulla, ma sempre da una storia. Ma ogni nascita rappresenta, per quella storia, una cesura che apre verso un futuro possibile che, senza di essa, non sarebbe nemmeno sorto all’orizzonte. Non si nasce mai da soli, ma dentro un tessuto di legami che ci introducono alla vita nel mondo e ci consegnano la prima sapienza necessaria a renderlo umanamente abitabile.

Anche la Parola irrompe così nella storia umana, ed è sempre in cerca di compagni e compagne che la rilancino oltre le mura di una dimora che può essere sì confortevole, ma che proprio in questo rischia di ridurla a cimelio di una comunità settaria.

Lo Spirito, la testimonianza, le donne

C’è una forza dell’esperienza cristiana, plasmata dalla Parola che chiede di essere annunciata per poter essere custodita, che apre nella comunità nascente una breccia al suo interno rendendola costitutivamente ospitale di ciò che sta fuori di lei. Nella narrazione di Atti, questa forza di apertura ospitale è individuata nel dono dello Spirito a tutta la comunità riunita nel suo luogo proprio, familiare – soggetto di questo dono è la comunità nella sua interezza: gli apostoli e le donne che sono con loro (cf. At 2,1). La scena degli inizi, ispirata dall’investimento dello Spirito, abilita la comunità in quanto tale alla testimonianza di quel Gesù risuscitato da Dio (cf. At 2,32).

Il ruolo di Pietro, nel suo primo discorso alla folla, è quello del portavoce dell’esperienza comunitaria davanti a coloro che non ne fanno (ancora) parte. L’ascoltatore di Atti sa bene qual è la gerarchia lucana della testimonianza della risurrezione (cf. Lc 24): sono le donne per prime che riescono a cogliere nella mancanza (del corpo di Gesù) l’indice sufficiente del suo vivere altrimenti, nonostante la morte in croce – perché sono capaci di ricordare le parole di lui quando era ancora con loro (cf. Lc 24,8).

Gli apostoli immemori, invece, non sono in grado di accedere alla testimonianza nel modo delle donne: Pietro si assume il compito di verificare la loro parola, rigettata in toto dal gruppo apostolico, e ne esce al massimo con uno stupore incapace di ogni confessione (cf. Lc 24,12). Dopo i due di Emmaus: mentre la loro esperienza continua a essere oggetto di discussione, e la confessione del Risorto non è ancora comunitaria, “Gesù stette in mezzo a loro” (Lc 24,36).

È proprio la Parola condivisa che genera la presenza del Signore in una comunità che continua a essere incredula, proprio perché incapace di fare memoria delle parole che Gesù condivise con loro. Quando Pietro, dopo Pentecoste, si alza con gli undici, la comunità che ascolta Atti sa bene che si tratta dell’ultimo arrivato alla testimonianza confessante della risurrezione di Gesù. E sa altrettanto bene che l’accesso alla fede pasquale del gruppo apostolico non fa altro che confermare la credibilità (e quindi l’autorità) della parola delle donne che esso non era stato capace di ascoltare.

sinodalitàInsomma, nelle scene della genesi della prima comunità di Gerusalemme accanto all’autorità apostolica, come in controluce, si profila una seconda autorità testimoniale: appunto, quella delle donne che erano con loro (e con Gesù, fino alla testimonianza della sua risurrezione – criterio comunitario per l’appartenenza al gruppo apostolico secondo At 1,21-22).

Questa autorità testimoniale delle donne, che fa da sfondo a quella apostolica, è come evanescente, ma non di meno presente, nei primi capitoli di Atti.

E lo è a motivo della strategia narrativa che li organizza. La narrazione lucana della genesi della comunità di Gerusalemme è infatti centrata, da un lato, su quale sia la legittima autorità all’interno di Israele; e su questa base, dall’altro, sulla seconda offerta al popolo di Israele di riconoscimento del Messia promesso che è Gesù.

La latenza dell’autorità testimoniale delle donne, che non risalta nel momento stesso in cui è affermata, è dovuta in parte anche a questa preoccupazione narrativa che organizza l’inizio di Atti come genesi della prima comunità discepolare a Gerusalemme (di cui anche le donne fanno parte).

Rimane fermo però che l’evento che abilita alla testimonianza è un fatto comunitario, e solo a partire da qui iniziano pian piano a delinearsi dei ruoli all’interno della comunità stessa. Ma il ruolo è secondario rispetto a ciò che lo Spirito genera nella comunità – appunto, una circolazione della Parola che non ha bisogno di alcuna uniformità culturale per poter essere colta nella operosità del suo messaggio (cf. At 2,7-11).

Non solo il ruolo è secondario, ma in prima battuta non è neanche destinato alla comunità nascente, ma al suo esterno. Se è sì Pietro che parla alla folla dopo Pentecoste, egli lo fa però insieme agli altri apostoli e a rappresentanza di tutta la comunità. Qui non esercita alcun potere su di essa, ma la rappresenta al fine di poter rendere intelligibile alla folla il senso dell’esperienza comunitaria in cui anch’essa è stata coinvolta.

Dalla rappresentanza alla constatazione

Il ministero della rappresentanza, che si fa portavoce della destinazione testimoniale di tutta la comunità, non parla per sé ma a nome di quella stessa comunità – e non lo fa per se stessa, ma per declinare ad altri il senso di questa abilitazione comune alla testimonianza che deve essere resa al Risorto – prima a Gerusalemme, poi in Giudea e Samaria, e infine fino a tutti i confini della terra (cf. At 1,8).

La parola del Risorto detta agli apostoli va oltre di loro e coinvolge, nel dono dello Spirito, tutti coloro che entrano a far parte della comunità nascente. Né il gruppo apostolico né la comunità possono trattenere per loro lo Spirito, nel momento stesso in cui esso è sigillo dell’appartenenza testimoniale alla comunità del Risorto. Pietro dovrà imparare sulla propria pelle cosa significa un ministero di rappresentanza che non può avanzare alcuna pretesa di proprietà su una Parola che desidera circolare liberamente ovunque, anche dove Pietro non vorrebbe che essa circolasse (cf. At 10).

E così il ministero della rappresentanza comunitaria e testimoniale di un operare del Dio di Gesù nel tempo della sua mancanza si converte a essere semplice ministero della constatazione di una libertà dello Spirito che nessuna appartenenza può trattenere gelosamente per sé: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?” (At 10,47).

L’operosità efficace di Dio, che attraversa l’esercizio testimoniale di questo ministero della rappresentanza, può diventare per esso una fascinazione pericolosa quando messo di fronte alla potenza della sua ombra (cf. At 5,15): ed è proprio nell’eccedenza ingovernabile della Parola che Pietro è chiamato a riconoscere la differenza fra la testimonianza, che pur deve essere resa, e l’efficacia operosa dei gesti di Dio che si rende presente in essa – “anche io sono solo un uomo” (At 10,26), dovrà pur sempre confessare apertamente davanti a Cornelio.

Genesi di una comunità aperta

Come abbiamo accennato, quando Luca tratteggia i contorni della prima comunità di Gerusalemme è preoccupato di mostrare dove risiede la legittima autorità per il popolo di Israele. Ma egli sa bene che tra gli ascoltatori di questa parte iniziale di Atti oramai non vi sono più solo ebrei, ma anche pagani. Nel momento in cui cerca di chiarire le cose per i primi, quindi, non può dimenticare che anche i secondi sono in attesa di un riconoscimento della loro legittima appartenenza alla comunità del Risorto.

In un qualche modo, dunque, egli è chiamato a mettere in scena un doppio registro del discorso: disseminando indici di alterità, e alterazione, all’interno di una configurazione inziale (per la dinamica testuale interna degli Atti) della comunità nascente (oramai mista per ciò che concerne gli ascoltatori di Atti) ancora concentrata su una partita interna al popolo di Israele.

Fin dalla prima aggregazione, come esito dell’evento comunitario di Pentecoste, la nascente comunità di Gerusalemme, ancora osservante delle pratiche religiose di Israele, si caratterizza per un cosmopolitismo inusuale: i primi ascoltatori della Parola sono infatti ebrei della diaspora, che possono percepirla nella loro lingua materna. La lingua non è solo una tecnica del linguaggio, ma un mondo e un modo di abitare il mondo.

La recezione della Parola non chiede quindi alcun sradicamento da questo universo familiare, intorno al quale si plasma l’abitabilità del mondo e le sue relazioni fondamentali: l’edificazione della nascente comunità credente va di pari passo e a braccetto con essa – pur nella sua esteriorità culturale rispetto all’ambiente in cui quella Parola risuona per mezzo del gruppo apostolico e delle donne che erano con loro.

È così che un fatto riguardante “giudei osservanti” (At 2,5) diventa significativo anche per i gentili che fanno parte della comunità del Risorto. Il mantenimento della differenza non pregiudica la coesione della nuova collettività che si va lentamente edificando. Né l’unità richiede una omologazione culturale che decontestualizza i vissuti effettivi dalla storia che li ha plasmati. Così, poco più avanti, quando Luca tratteggia il profilo della prima comunità individua nei beni collettivi e nella messa in comune del proprio uno dei suoi tratti maggiori.

Figura questa ideale per la politica della città greca, e quindi orizzonte comune alla koinè di allora, che viene innestata ad arte nella configurazione della prima comunità di Gerusalemme. Uno stile pratico di vita che risulta immediatamente comprensibile anche da parte di coloro che non ne fanno parte e che possono, in tal modo, apprezzare lo stimolo pubblico che essa rappresenta per la più ampia collettività umana.

Troviamo un’altra di queste inserzioni nei due episodi di chiamata in correo davanti al sinedrio (prima Pietro e Giovanni, poi tutto il gruppo degli apostoli). Quello che colpisce anche i membri del sinedrio è la parresia (franchezza/libertà di parola) mostrata da Pietro e Giovanni (cf. At 4,13)  anche qui, il modo di essere che caratterizza la fede testimoniale nel Risorto è descritto ricorrendo a un termine comune della tradizione filosofica cinica.

Luca fonde insieme l’immagine profetica dell’esercizio apostolico della fede e un’immagine filosofica del modo di affrontare le dialettiche e le tensioni che possono sorgere nella piazza del vivere umano – dove la seconda può funzionare anche da decodificatore della prima per coloro che non erano culturalmente in grado di comprendere tutta la sua portata e il suo significato nell’orizzonte della tradizione biblica di Israele.

E poco più avanti, quando questa parresia diventa confessione testimoniale esplicita davanti al sinedrio, che marca la distanza fra le istituzioni religiose di Israele e la fedeltà messianica dei testimoni del Risorto, Pietro (e poi nella seconda scena gli apostoli tutti insieme) afferma il dovere religioso di obbedienza a Dio con parole che richiamano quelle pronunciate da Socrate davanti ai giudici ateniesi (cf. At 4,19 e At 5,29). La confessione del Risorto viene così inscritta nella tradizione dell’opposizione religiosa, in nome di Dio, al potere dei tiranni e dei despoti, rendendo intelligibile ben al di là di Israele dove si trova la giustizia desiderata da Dio.

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Il collettivo

Grazie all’agire pubblico degli apostoli aumentano sempre più coloro che, come “credenti al Signore” (At 5,14), vengono aggregati alla comunità nascente – uomini e donne. Abbiamo visto come l’indice profetico di quell’agire è orientato alla conferma dell’autorità apostolica all’interno di Israele, che si impone nella sua legittimità davanti a quella delle istituzioni tradizionali del popolo eletto. La fine del precedente regime di autorevolezza religiosa è necessaria per la possibilità di includere Israele stesso nella comunità messianica del Risorto.

Confermando così che la promessa di Dio fatta ai padri di Israele rimane tuttora valida e operante. Luca è attento a costruire agganci narrativi che consentano agli ascoltatori di cogliere come l’agire profetico di Gesù si renda ora presente nei gesti e nelle parole degli apostoli, a garanzia di un’offerta messianica dell’Alleanza che è più forte delle potenze del mondo e della religione.

E il riconoscimento dell’autorità degli apostoli da parte della nascente comunità si lega esattamente all’individuazione di questo transito della profezia messianica di Gesù, del suo farsi presente nonostante la dipartita di lui (cf. At 2,43). È proprio questo riconoscimento interno alla comunità che dà valore alla pretesa degli apostoli, nel confronto con le istituzioni religiose di Israele, di essere i legittimi rappresentanti del Dio della promessa e dell’Alleanza davanti a tutto il popolo eletto.

Se guardiamo ai due brevi sommari iniziali che descrivono la comunità del Risorto, ci accorgiamo che il peso della narrazione di Atti ricade sulla condivisione dei beni e sull’avere tutto in comune. Immagine di quel collettivo a cui aspirava l’ideale dell’amicizia come forza politica nell’edificazione della polis greca. Insomma, come abbiamo già accennato, il tratto distintivo del vissuto comune del collettivo che nasce con la Pentecoste dice immediatamente qualcosa di significativo per tutta la koinè del tempo: “per un momento, la primitiva comunità di Gerusalemme realizza gli ideali più alti dell’ellenismo e del giudaismo per ciò che concerne la vita comune” (L.T. Johnson).

La funzione apostolica all’interno della prima comunità si lega esattamente alla custodia del collettivo comunitario: “Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,34-35).

Insomma, tutto sembra ruotare intorno a pratiche collettive – e anche Pietro, come portavoce della comunità, non è mai solo quando prende la parola. Ed è interessante notare che se nel primo discorso davanti al sinedrio, dove compare insieme a Giovanni, è solo lui a parlare, nel secondo è tutto il collettivo apostolico che fa proprio il discorso socratico delle doverosa obbedienza a Dio come resistenza e opposizione al potere costituito.

Una conferma della centralità del collettivo, con le sue pratiche di messa in comune e condivisione, la troviamo anche nel drammatico racconto del sotterfugio architettato da Anania e Saffira – che cercano di dare una parvenza di condivisione, ma rimangono attaccati al possesso privato. Imbrogliare, quando ne va del collettivo, sancisce la morte dell’appartenenza comunitaria di chi se ne rende colpevole (cf. At 5,1-11).

Di contro, l’onestà nella partecipazione collettiva dei beni, come esemplarmente fa Barnaba (cf. At 4,36-37), diventa poi garanzia della sua parola di fronte alla comunità di Gerusalemme quando diventerà compagno di Paolo nella missione ai gentili – garanzia a favore di Paolo e di una circolazione della Parola che ha oramai varcato i confini del giudaismo dell’epoca.

La salvaguardia del collettivo non è cosa facile, e ben presto anche la comunità nascente conosce tensioni significative in merito (tra cosmopolitismo dell’appartenenza e radicamento nella tradizione ebraica) nell’episodio dell’assistenza delle vedove di lingua greca (cf. At 6,1). Questa crisi del collettivo non viene però risolta ex auctoritate dagli apostoli; al contrario, la loro autorità interna si esercita esattamente nella forma di una convocazione del collettivo stesso a cui viene conferito un potere deliberativo sulla questione (cf. At 6,2).

Ma qui ci dobbiamo confrontare con un paradosso di cui generalmente non si coglie a dovere la portata. Siamo abituati a leggere la cosiddetta istituzione dei sette come origine di un ministero diaconale nella comunità cristiana. In realtà si tratta di una lettura impropria, perché “vi è una discrepanza fra ciò che la storia sembra dire e ciò che accade effettivamente nella narrazione” (L.T. Johnson).

La storia sembra dire della necessità di risolvere un problema pratico che minaccia la coesione del collettivo, ma la narrazione dice ben altra cosa: perché né Stefano né Filippo (i due dei sette di cui si racconta qualcosa in Atti) eserciteranno un ministero di servizio e assistenza quotidiana all’interno della comunità nascente. Quello che è qui in gioco è niente di meno che la continuità dell’autorità profetica di un ministero apostolico a partire dalla comunità cristiana.

Stefano è una figura chiave nello snodo della circolazione della Parola tra Gerusalemme e la diaspora, mentre Filippo porterà la Parola in Samaria (cf. At 8,5) e la annuncerà all’etiope (cf. At 8,29). È con loro che la Parola inizia a conoscere quegli allargamenti promessi e ingiunti dalla parola del Risorto.

In questo punto di svolta, così delicato e decisivo per il futuro della Parola e della comunità su cui essa si appoggia, l’individuazione delle persone adatte a ricevere un ministero profetico è affidata al collettivo comunitario – il conferimento spetterà poi agli apostoli con l’imposizione delle mani. Ma il conferimento non fa altro che confermare coloro che la comunità, in un atto deliberativo e altrettanto profetico, porta davanti agli apostoli.

Partita come una crisi del collettivo, la narrazione arriva a delineare il quadro di una crisi del ministero profetico degli apostoli stessi: un momento in cui si decide di esso guardando al futuro e a quegli ampliamenti richiesti affinché la Parola possa circolare. Crisi che non si risolve mediante un atto apostolico, ma al contrario attraverso un atto del collettivo credente che permette al ministero profetico degli apostoli di andare oltre loro stessi.

Comunità e sinodalità

Sono innumerevoli gli spunti che una comunità cristiana come la nostra parrocchia, ma anche la Chiesa più ampiamente, può cogliere nel suo lavoro di discernimento su come andare oltre la propria storia senza scordarsi di essa, anzi rimanendole fedele proprio perché cerca di attualizzarla in contesti che la trasformano e la alterano.

Ne riprendo solo alcuni che mi sembrano essere più urgenti in questo momento in cui ogni comunità e ogni Chiesa locale sono chiamate a mettere in atto processi sinodali, dai quali potranno emergere gli assi portanti di una sinodalità quale forma fondamentale e normativa della Chiesa cattolica.

Non si può che partire dagli inizi, da quell’evento dello Spirito che apre la prima comunità dei discepoli e delle discepole del Signore verso un futuro che forse neanche lei osava immaginare. Perché questo evento dichiara che la comunità è soggetto proprio e portante di quello che deve essere l’assemblea dei credenti al Signore e dei ministeri al suo interno.

Senza riconoscimento di questo principio normativo, che si attua non solo in pratiche collettive (che rimangono fondamentali) ma anche nella loro organizzazione istituzionale, la sinodalità rimarrà solo una parola cosmetica il cui fine è quello di rendere un po’ più sopportabile un modo sostanzialmente classista (e maschilista) di concepire la Chiesa cattolica.

Pensare la comunità come soggetto proprio della circolazione di una Parola che va sempre oltre di essa, è così la sorprende con quegli ampliamenti che le impediscono di arroccarsi in una mera difesa di sé, comporta un ribaltamento del nostro modo di pensare e vivere i rapporti interni nella Chiesa – abbandonando definitivamente quella ingegneria pastorale che sacrifica il vissuto effettivo delle comunità in nome di una apparente preservazione canonica e giuridica del ministero ordinato.

Per preservarlo in questa forma, ossia per non metterne in discussione il potere che gli è stato storicamente conferito, rischiamo di ottenere de facto un ministero ordinato senza comunità reale di riferimento, snaturandone così la sua funzione che proprio a quella lo destina.

È a mio avviso più semplice coinvolgere alcuni rappresentanti del popolo di Dio nella nomina del vescovo che dare rilievo istituzionale a questo essere-soggetto primo della comunità credente. Ma senza risolvere la seconda questione anche la prima si ridurrebbe a un’operazione di cosmesi senza nessun reale impatto sulle procedure e politiche decisionali nella Chiesa cattolica.

E mi rimane il sospetto che i tanti laici che aspirano a prendere la parola in sede di nomina del vescovo pensino ancora la Chiesa come una istituzione verticistica, dove una volta conquistato l’apice ne consegue per cascata una trasformazione delle relazioni di base. Un simile modo di pensare nega a mio avviso in radice quella soggettualità propria che pertiene alla comunità cristiana in quanto tale.

Non si tratta solo di mettersi in ascolto delle comunità, come atto di grazia regale concesso da un potere ecclesiastico che ne potrebbe anche fare a meno, ma di istituire quell’autorità deliberativa che spetta alla comunità in quanto soggetto proprio del dono dello Spirito e appoggio costitutivo della circolazione della Parola. L’evidente sfiducia del potere ecclesiastico nei confronti della comunità cristiana, per cui un piccolo cerchio di eletti (siano essi chierici o meno) sa meglio di essa ciò che è evangelicamente bene per lei, si rivela essere in realtà una sfiducia dichiarata nei confronti dello Spirito (e del suo discernimento) – ricordo, a margine, che Gesù è particolarmente severo nei confronti dei peccati contro lo Spirito.

Il sentire credente della comunità, peraltro arginato dogmaticamente da ogni lato per renderlo innocuo e inoperoso rispetto al potere ecclesiastico costituito, non può rimanere il pio auspicio di un pontefice un po’ strambo, ma deve diventare un vero e proprio istituto che plasma la Chiesa nella sua configurazione istituzionale – e lo può diventare solo mediante pratiche che ne attivino la sua efficacia per la Chiesa tutta.

Un simile istituto non è un mero luogo di conferma del sentire del ministero ordinato e apostolico nella Chiesa, ma la sua fonte ispiratrice che mette davanti a quel ministero quelle che sono le esigenze evangeliche della comunità. L’episodio dell’istituzione dei sette è esemplare in merito. È la comunità a sentire la necessità dell’invenzione di un ministero di servizio quotidiano e, seguendo la strategia narrativa lucana, è alla fin fine sempre la comunità (e non i dodici) a sentire l’esigenza di garantire continuità al ministero profetico degli apostoli. E alla comunità gli apostoli si rimettono, riconoscendo che quell’esigenza è normativa anche per loro – ed è per questo che la convocazione della comunità coincide con un’autorità deliberativa che spetta a lei in un tornante decisivo per la sua configurazione futura.

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Senza l’istituzione della soggettività propria della comunità, con le competenze che questo comporta, non è possibile mettere mano efficacemente alla questione della strutturazione gerarchica e dell’esercizio del potere nella Chiesa. I concetti hanno una storia, ed è un’illusione pensare di continuare a usarli senza che essi trascinino con sé quella storia e il modo di organizzare il vivere umano o il quadro di una comunità credente che essa ha configurato per secoli.

Qualcosa del genere accade quando il Vaticano II, soprattutto nella sua versione espressa dal Codice di diritto canonico del 1983, continua a usare il termine di costituzione gerarchica per indicare natura e strutturazione fondamentale della Chiesa cattolica.

Se da un lato il concetto di costituzione gerarchica ha il merito di essere immediatamente intellegibile, dall’altro esso è ben lontano dall’immaginario neotestamentario di un ministero di rappresentanza/presidenza della comunità cristiana. Per quanto imbastito dentro l’abbozzo di una ecclesiologia del popolo di Dio e di comunione, il concetto di costituzione gerarchica della Chiesa continua a operare al suo interno portandosi dietro tutte le incrostazioni che la storia ha lasciato su di esso: tanto da sembrare più una figura giuridica, derivata dalla dialettica con la modernità al tempo dell’assolutismo politico, che una propriamente teologica.

In fin dei conti, ci scostiamo ancora poco dalla visione di Bellarmino della societas perfecta inequalis – che, però, tendeva a garantire l’autonomia della Chiesa davanti alla pretesa egemonica del potere politico, nel momento stesso in cui si modulava specularmente su di esso, più che a pensare teologicamente la costituzione della Chiesa cattolica e l’esercizio del potere al suo interno. E se allora non scandalizzava affatto l’omologia speculare fra potere ecclesiastico e potere politico, anzi diventava addirittura il principio dell’architettura giuridica della Chiesa stessa, oggi non dovrebbe apparire operazione in radice eretica una modulazione della configurazione della Chiesa che attinge anche al modo in cui viene gestito il potere nel sistema democratico.

Per quanto possa apparire sorprendente, è oramai evidente che non basta il richiamo al Vangelo e alle Scritture per assorbire debitamente queste incrostazioni storiche a riguardo della costituzione della Chiesa cattolica. La loro normatività sembra funzionare poco (e male) in questo settore decisivo dell’ecclesiologia cattolica – e di fatto vale tuttalpiù come pia esortazione morale, che non riesce però a incidere nell’organizzazione complessiva del corpo istituzionale della Chiesa.

Credo che sia giunto il momento in cui teologia e diritto devono riprendere in mano la questione della stesura di una carta costituzionale (lex fundamentalis) della Chiesa cattolica – cassata negli anni che vanno dal Concilio al Codice di diritto canonico in nome dell’affermazione militante del Vangelo come legge fondamentale della Chiesa. Funzione, questa, che né le Scritture del Nuovo Testamento né il Vangelo possono ottemperare, perché non è nella loro natura.

Se l’ostacolo per una rifondazione evangelica della Chiesa, a cui dovrebbe approdare il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, è di carattere giuridico, allora è a questo livello che è necessario intervenire, sulla scorta di una teologia avveduta della questione, per rimuoverlo e creare spazi di effettiva sinodalità anche nella Chiesa cattolica.

Da questo dipende anche la possibilità di una riformulazione dell’esercizio del potere nella Chiesa, alla quale bisogna però mettere mano con urgenza almeno con degli aggiustamenti provvisori e non ancora stabilizzati. Ed è in questo ambito che molto può dare il riconoscimento dell’autorità delle donne all’interno della comunità credente.

Non solo per il fatto della differenza di genere, che avrebbe comunque il pregio di iniziare a corrodere la compattezza maschilista delle decisioni ecclesiali e delle procedure mediante le quali si arriva a esse; ma soprattutto perché rappresentano una parte di comunità cristiana messa ai margini, se non al bando, dal potere ecclesiastico – continuando a confessare la loro fede e a sentirsi parte della Chiesa nonostante questo. Quella delle donne è una (forse per molto tempo la più esemplare a cui si affianca oggi quella dei sopravvissuti e delle sopravvissute agli abusi sessuali nella Chiesa) delle molte autorità marginali che dovrebbero essere convocate al ripensamento delle pratiche e procedure di potere nella vita della Chiesa cattolica.

Senza questa convocazione, che dia spazio alle loro autorità, ogni approccio ecclesiastico volto a ridisegnare il modo di esercitare e gestire il potere nella Chiesa non ha nessuna possibilità di riuscita – e non sarebbe altro che una cortina fumogena creata ad arte per nascondere il fatto che non si vuole cambiare nulla.

In merito, credo che possiamo tutti e tutte apprendere qualcosa dalla cura faticosa che Luca mette nella strategia narrativa degli Atti per evitare ogni tentazione sostitutiva (ossia, di fare della nascente comunità cristiana il sostituto di Israele). Non si tratta infatti di sostituire un potere maschile, dichiarato oramai corroso e corrotto, con uno femminile ritenuto ipoteticamente scevro da ogni possibile deriva nel suo esercizio – come se ci fosse una sorta immunità di genere rispetto alla perversione del potere.

Si tratta piuttosto di convocare le autorità della fede emarginate ed escluse (e quindi violentate) dalla gestione ecclesiastica del potere a giudicare il suo esercizio come punto di innesto per iniziare a elaborare insieme nuove pratiche di potere nella comunità dei molti fratelli e sorelle nel Signore. Pratiche che stanno sotto il giudizio e la verifica di chi il potere lo ha subito per secoli e può quindi dire qualcosa di significativo sugli effetti e conseguenze della sua perversione.

Detta in altre parole, dobbiamo impegnarci a trovare forme di esercizio collettivo del potere ecclesiastico, che non siano modulate sulla e limitate dalla costituzione giuridico-gerarchica della Chiesa cattolica. Sulla base di queste pratiche collettive germinali potrà innestarsi il lavoro della teologia e del diritto per imbastire una non più prorogabile carta costituzionale della Chiesa cattolica, intrisa dei valori fondamentali del Vangelo, che tratteggi le coordinate fondamentali delle pratiche di potere nella Chiesa cattolica, contenendole al tempo stesso entro limiti che nessun soggetto ecclesiale può valicare.

Mettere mano a questo processo costituente, a partire dalle Chiese locali e dalle comunità cristiane sparse per il mondo, in modo di arrivare a una legge fondamentale capace di ospitare le diverse declinazioni della cattolicità della Chiesa, ossia garantendo significativi spazi di giurisdizione a ogni singola Chiesa locale, rappresenterebbe una pratica sinodale di cui abbiamo tutti urgentemente bisogno – anche fuori dalla Chiesa cattolica.

Papa Francesco: gli Stati sostengano una società “amica della famiglia”

Francesco parla alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali

Alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali il Papa parla delle fragilità presenti nei nuclei familiari e del dono della gratuità di cui essi possono essere capaci: quando una civiltà sradica dalla propria terra questo dono, il suo declino diventa inarrestabile
Adriana Masotti – Città del Vaticano

È la realtà della famiglia, intesa come “bene relazionale” al centro dei lavori della Sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, una scelta apprezzata da Papa Francesco che nel suo discorso mette in luce l’importanza del vincolo famigliare, oggi messo in discussione, di cui delinea le caratteristiche – il dono, la reciprocità, la generatività, l’accoglienza – indispensabili alla costruzione “di una società fraterna e capace di prendersi cura della casa comune”.
La famiglia è iscritta nella natura della donna e dell’uomo
Ai partecipanti alla plenaria – tra cui anche il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, che dal 2020 è membro ordinario dell’Accademia pontificia – Francesco dice che è necessario riscoprire il valore della famiglia e osserva:
La famiglia è quasi sempre al primo posto nella scala dei valori dei diversi popoli, perché è inscritta nella natura stessa della donna e dell’uomo. In questo senso, il matrimonio e la famiglia non sono istituzioni puramente umane, malgrado i numerosi mutamenti che hanno conosciuto nel corso dei secoli e le diversità culturali e spirituali tra i vari popoli.

Una relazione fondata sull’amore reciproco
Il rischio, come in parte avviene in Occidente, prosegue il Papa, è vivere il matrimonio in modo privatistico. In questo caso la famiglia risulta “isolata e frammentata” e può perdere le funzioni sociali che le sono proprie. Il Papa precisa il fondamento della vita in famiglia:

Si tratta allora di comprendere che la famiglia è un bene per la società, non in quanto semplice aggregazione di individui, ma in quanto è una relazione fondata in un “vincolo di mutua perfezione”, per usare un’espressione di San Paolo. Infatti, l’essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio, che è amore. L’amore reciproco tra l’uomo e la donna è riflesso dell’amore assoluto e indefettibile con cui Dio ama l’essere umano, destinato ad essere fecondo e a realizzarsi nell’opera comune dell’ordine sociale e della custodia del creato.

Una fonte di beni per la comunità
A costituire la famiglia, spiega ancora Papa Francesco, è un vincolo relazionale di perfezione “che consiste nel condividere delle relazioni di amore fedele, fiducia, cooperazione, reciprocità”. In questo sta la felicità dei suoi membri e non solo:

Così intesa, la famiglia, che è un bene relazionale in sé stessa, diventa anche la fonte di tanti beni e relazioni per la comunità, come ad esempio un buon rapporto con lo Stato e le altre associazioni della società, la solidarietà tra le famiglie, l’accoglienza di chi è in difficoltà, l’attenzione agli ultimi, il contrasto ai processi di impoverimento, e così via.

Francesco mette ancora in evidenza l’umanizzazione delle persone operata dalla famiglia attraverso la relazione del “noi” promuovendo nello stesso tempo “le legittime differenze di ciascuno”. E a braccio aggiunge: “Questo, attenzione, è proprio importante per capire cosa è una famiglia, che non è un’aggregazione di persone soltanto”.
La famiglia, luogo di accoglienza che va sostenuta
Il Papa sottolinea quindi la famiglia come luogo di accoglienza. E con il pensiero va alle famiglie dove sono presenti membri fragili, ammalati o con disabilità, alle famiglie adottive e affidatarie, a quelle che si prendono cura di migranti ed emarginati. E ricorda che la famiglia, quanto più è se stessa, rappresenta il principale antidoto alle povertà, al problema dell’attuale inverno demografico – realtà questa, afferma Francesco, molto seria specie in Italia – e alla maternità e paternità irresponsabile, altra cosa seria di cui “si deve tener conto affinchè non succeda”. Ma, avverte il Papa, la famiglia deve essere aiutata, “una società ‘amica della famiglia’ è possibile”:

È necessario che in tutti i Paesi siano promosse politiche sociali, economiche e culturali “amiche della famiglia”. Lo sono, per esempio, le politiche che rendono possibile un’armonizzazione tra famiglia e lavoro; politiche fiscali che riconoscono i carichi famigliari e sostengono le funzioni educative delle famiglie adottando strumenti appropriati di equità fiscale; politiche di accoglienza della vita; servizi sociali, psicologici e sanitari centrati sul sostegno alle relazioni di coppia e genitoriali.

Liberare lo sguardo da ideologie che nascondono la realtà
Se una società sradica il valore della gratuità “il suo declino è inarrestabile”, afferma ancora il Papa che ribadisce: “la famiglia è la primaria piantatrice dell’albero della gratuità”. E’ necessario dunque riscoprire la bellezza della famiglia ma, afferma il Papa, occorrono alcune condizioni:

La prima è togliere dagli occhi della mente la “cataratta” delle ideologie che ci impediscono di vedere la realtà. È la pedagogia del maestro interiore – quella di Socrate e di Sant’Agostino – e non quella che cerca semplicemente il consenso. La seconda condizione è la riscoperta della corrispondenza tra matrimonio naturale e matrimonio sacramento. (…) La terza condizione è, come ricorda Amoris laetitia, la consapevolezza che la grazia del sacramento del Matrimonio – che è il sacramento “sociale” per eccellenza – risana ed eleva tutta la società umana ed è lievito di fraternità.

Affidando ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia queste riflessioni, il Papa conclude il suo discorso con rinnovate parole di riconoscenza e di apprezzamento per le loro attività, benedicendoli di cuore.

Vatican News

Cent’anni di Ernesto Balducci, il prete che in nome della pace decise di rompere con la Dc quando sul Vietnam si schierò con gli Usa

Cent’anni di Ernesto Balducci, il prete che in nome della pace decise di rompere con la Dc quando sul Vietnam si schierò con gli Usa

POLITICA
Cent’anni di Ernesto Balducci, il prete che in nome della pace decise di rompere con la Dc quando sul Vietnam si schierò con gli Usa
Cent’anni di Ernesto Balducci, il prete che in nome della pace decise di rompere con la Dc quando sul Vietnam si schierò con gli Usa
Sacerdote pacifista, sostenitore del disarmo, amico e collaboratore di La Pira, esiliato dalla Chiesa cattolica, in un’intervista disse: “Io sono stato fedele, più che alle istituzioni, alle coscienze che sono cresciute attorno a me”. Firenze lo ricorda con una serie di incontri. Tra gli ospiti Walter Veltroni, il teologo Vito Mancuso, il fondatore di Bose Enzo Bianchi e la storica Anna Foa

di Carlo Giorni | 8 APRILE 2022 in Il Fatto

Ai suoi amici più cari padre Ernesto Balducci amava confessare, lui che da buon maremmano aveva modi timidi e spicci, che la sua rottura con la Dc avvenne ai tempi della guerra in Vietnam, anni Sessanta. “Era una questione morale schierarsi dalla parte dei vietcong contro l’aggressione americana. Sulla pace e sui diritti non si può transigere e invece il partito cattolico si era schierato dalla parte degli Usa e della Nato. Inaccettabile per me”. La battaglia per la pace, il disarmo e i diritti è stato il filo rosso che ha intrecciato la vita di Ernesto Balducci, nato cent’anni fa, il 6 agosto, a Santa Fiora, un borgo in provincia di Grosseto, e morto, in un incidente stradale, il 25 aprile del 1992. “Io sono stato fedele, più che alle istituzioni, alle coscienze che sono cresciute attorno a me”, disse in un’intervista a Tomas Angeli per Rai Tre, poco tempo prima di morire. Una sorta di testamento spirituale.

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Promossa dalla fondazione “Ernesto Balducci” e dalla rivista Testimonianze si terrà, il 9 aprile a Palazzo Vecchio, a Firenze, l’inaugurazione degli eventi per il centenario del sacerdote pacifista alla presenza, tra gli altri, dei cardinali Paolo Lojudice e Giuseppe Betori, di Walter Veltroni e del teologo Vito Mancuso mentre nel pomeriggio si terrà una tavola rotonda su “Culture e religioni di fronte alla sfida dell’età planetaria” con Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, la storica Anna Foa e la sociologa e scrittrice Sumaya Abdel Qader, con letture di Paolo Hendel.

Figlio di una Maremma povera e aspra, come quella raccontata dallo scrittore Luciano Bianciardi, Balducci ha avuto il suo primo maestro in Manfredi, il fabbro ferraio di Santa Fiora, anarchico e anticlericale, che quando Ernesto, a dodici anni, decide di entrare in seminario nei padri scolopi, si raccomandò: “Bada ragazzo, non ti fare rovinare dai preti”. Trent’anni dopo, nell’estate 1964, dopo la condanna subita per aver difeso l’obiezione di coscienza e gli obiettori al servizio militare, tornato a Santa Fiora a pregare sulla tomba del babbo Luigi, un minatore, ad un certo punto Balducci incontrò il vecchio Manfredi che lo abbracciò dicendogli: “Bravo Ernesto, non ci sono riusciti”.

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Aneddoto che racconta l’attaccamento di padre Balducci alle sue radici maremmane, a quel mondo popolare di minatori, dal quale non si è mai staccato, e la sua collocazione laica e non clericale nella Chiesa, alla quale rimase comunque fedele, tenendo contatti amichevoli con molti vescovi e cardinali, a cominciare da papa Paolo VI. Laicità che Balducci riassume nell’Uomo planetario, uscito nel 1985, con una frase suggestiva, che ha avuto molta fortuna: “Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”. Balducci chiude qui il cerchio della sua vita (non a caso nel 1986 esce Il cerchio che si chiude, libro intervista di Luciano Martini al prete scolopio). La consapevolezza di non essere che un uomo si ricollega per certi versi alla frase che il “maestro” Manfredi aveva appesa al gabinetto della sua officina: “Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si seggono, sono tutti come me”.

Dopo aver attraversato nella sua vita diversi tempi, dagli anni in cui fu stretto collaboratore di Giorgio La Pira a quelli dell’esilio (nel 1959 fu mandato per punizione a Frascati) e del Concilio Vaticano II, fino alla rottura con la Dc e con la Chiesa ufficiale per ricercare, nella diaspora, un comune sentire con gli ultimi, i poveri. Non da cristiano o da comunista, ma semplicemente da uomo tra gli uomini. Come a suo modo gli aveva insegnato il fabbro Manfredi.

Ripensare la pietà popolare

di: Giuseppe Lorizio

meridione

La notizia del manifesto funebre contro un vescovo ha fatto scalpore, ma non sembra aver sollecitato le coscienze anche dei suoi confratelli nell’episcopato, soprattutto meridionali.

Il testo recitava: «Mons. Giuseppe Giudice, Pseudo vescovo di Nocera Inferiore-Sarno, ha tragicamente con un decreto inutile ucciso e oltraggiato le nostre feste patronali. Ne danno la triste notizia le bande musicali, i fuochisti, gli ambulanti, i giostrai, le ditte delle luminarie e molti commercianti che ancora piangono un periodo buio per la crisi legata al Covid e ora continuano a lavorare per una scelta disonesta e ingiusta. Un grave lutto ha colpito il nostro Agro, ma uniti vinceremo contro il Vescovo».

Mentre è certamente utile che da parte delle forze dell’ordine si cerchi di individuare e punire non solo gli esecutori ma soprattutto i mandanti del gesto intimidatorio, mi sembra, da teologo italiano e profondamente meridionale ovvero mediterraneo, di dover denunziare il silenzio dei suoi confratelli vescovi, per non dire della latitanza teologica, a tutti i livelli assordante.

Al tempo stesso, mi sembra urgente far riflettere sul fatto che il lockdown dovuto alla pandemia, mentre ha sospeso queste espressioni di massa e popolari della religiosità, dovrebbe aver insegnato alla comunità ecclesiale la sacramentalità della Parola di Dio a fronte di forme di devozionismo pagano e superstizioso, che spesso coinvolge il Sud Italia, magistralmente raccontato da Ernesto De Martino in Sud e magia.

A chi intendesse continuare a riflettere sull’argomento segnalo il recente saggio di Massimiliano Biscuso, L’ultima Thule. Ricerche filosofiche su Ernesto De Martino, pubblicato dall’Istituto di studi filosofici di Napoli.

Teologia e pietà popolare

L’occasione può diventare propizia perché l’esodo dal “confinamento” possa consentire alla comunità ecclesiale di attivare un sano e acuto discernimento, con l’aiuto della teologia italiana, che ne avrebbe le risorse, per un processo di ripensamento/rinnovamento, poiché non bisogna semplicemente ritornare al prima del covid (lo diciamo, ma non risulta che ne siamo convinti a livello apicale-ecclesiale), ma approfittare della circostanza per purificare la nostra esperienza spirituale e comunitaria.

La questione mi sembra fondamentale per il futuro della comunità credente: che ne facciamo della pietà popolare?

Tornando al passato: la consegniamo alle mafie anche ecclesiastiche? Pensando al futuro: la abitiamo in forme educative e pastorali pensate e organizzate a livello locale?

meridioneI vescovi ne dovrebbero essere consapevoli. Se si auspica un rinnovamento o addirittura una rifondazione della teologia, mi sembra che un punto di partenza potrebbe essere proprio quello del vissuto delle nostre martoriate Chiese meridionali e mediterranee. Altrimenti i documenti sul mediterraneo rischiano di ridursi a puri e semplici flatus vocis.

Non mi sembra fuori luogo ipotizzare per la Chiesa italiana una riflessione comunitaria, in sede sinodale, in modo da disegnare linee pastorali da proporre alle comunità ecclesiali, soprattutto del meridione, per la ripresa delle diverse iniziative a livello di religiosità popolare: processioni, novene e tridui, devozioni, momenti di aggregazione popolare a diversi livelli…

Il testo del manifesto “funebre”, mentre rivela i veri interessi economici in gioco, sembra piuttosto attestare il rischio dell’appropriazione mafiosa di questi eventi, che certamente possono anche avere un riverbero a livello economico e aggregativo.

L’auspicio sarebbe quello di una lettura attenta da parte di quanti si ritengono danneggiati dalla posizione di un vescovo illuminato e coerente. Chi sta col vescovo, sta con la Chiesa e con Cristo, chi persegue interessi altri stia altrove!

Chiesa italiana e meridionale svegliati! Non possiamo continuare a tacere sulla “mafia devota” e le sue propaggini pastorali o pastorizie.

Cerchiamo di riflettere a livello sinodale su come ri-prendere le espressioni popolari della fede, senza semplicemente ritornare al passato, ma al tempo stesso senza abbandonare una risorsa importante per la trasmissione della fede nel nostro tempo e nei nostri luoghi.

settimananews

Bätzing: risposte sul Cammino sinodale tedesco

di: Marcello Neri – Settimana News

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Prima la Conferenza episcopale polacca (SettimanaNewsqui), poi quella dei paesi nordici (SettimanaNewsqui), avevano espresso tramite delle lettere aperte profonde riserve rispetto al Cammino sinodale della Chiesa cattolica tedesca.

A entrambe ha ora risposto il presidente della Conferenza episcopale, mons. Bätzing. La lettera inviata ai vescovi polacchi è rimasta confidenziale, mentre quella ai vescovi dei paesi nordici è stata pubblicata sul sito della Conferenza episcopale tedesca. Della critica giunta dalla Polonia, più che i contenuti aveva irritato la forma: il testo di mons. Gadecki era diventato di dominio pubblico prima che i vescovi tedeschi, compreso mons. Bätzing a cui era indirizzato, potessero prenderne visione.

Questo potrebbe spiegare il motivo per cui la sua risposta a Gadecki non è stata resa pubblica. È probabile, poi, che nei toni della replica il presidente della Conferenza episcopale tedesca sia stato anche più duro rispetto a quello conciliatorio usato con i vescovi nordici.

Nella lettera inviata a questi ultimi, Bätzing spiega le ragioni per cui le loro preoccupazioni e riserve non hanno ragion d’essere – in primo luogo perché “non corrispondono a quando effettivamente discusso, ai reali processi di consultazione e a quanto si trova nei documenti approvati”.

In secondo luogo, “è chiaro che il Cammino sinodale si attesta a livello della ricerca sinodale di un potenziale vitale nella vita e nell’agire della Chiesa oggi a cui papa Francesco, come dice anche lei, chiama tutta la Chiesa”. In questo senso, sia all’Assemblea dei sinodali tedeschi sia ai cattolici del paese è ben chiaro ciò che è possibile attuare a livello locale e ciò che coinvolge l’intera Chiesa cattolica sul piano universale. Distinzione adeguatamente rispettata, sia nella mentalità dei partecipanti sia nei testi che sono stati votati.

L’esperienza sinodale tedesca, che nasce dal dato di fatto del “fallimento della Chiesa nell’impedire gli abusi” al suo interno, insegna però che un “semplice andare avanti come si è sempre fatto non fa altro che distruggere la Chiesa”. Proprio questa base di partenza era ciò che nella lettera di critica di mons. Gadecki non veniva tenuto in debita considerazione per inquadrare correttamente il senso del Cammino sinodale tedesco. E su questo Bätzing si augura uno scambio fruttuoso con i colleghi polacchi: “mi piacerebbe imparare da voi, come state gestendo le cause sistemiche delle migliaia di casi di abuso che vi sono da noi in Germania, da voi in Polonia, ma anche in tutto il resto della Chiesa”.

Davanti all’accusa proveniente dai vescovi nordici di una Chiesa tedesca che butta a mare il depositum fidei, Bätzing ricorda che esso non deve venire inteso in modo tale che “ogni prassi ecclesiale, ogni regola e forma sociale della Chiesa, che si sono sviluppate nel corso della storia a partire da congiunture storiche ben determinate, siano di per sé immediatamente parte di questo depositum immodificabile”.

E sembra essere proprio il modo teologico di leggere la storia quello che separa i vescovi polacchi e nordici dalla Chiesa cattolica tedesca. Bätzing rimanda al mittente l’accusa di avere ceduto allo spirito del tempo e quella di dare alle scienze umane un rango superiore a quello della Scrittura e della tradizione. Certo, non tutto quello che avviene nella storia è indice dell’agire operoso di Dio nelle vicende umane – per questo si rende necessario un discernimento ecclesiale fondato teologicamente e competente dal punto di vista storico. Ma non si può negare che “l’agire e l’essere di Dio si fanno riconoscere anche negli eventi della storia umana” – sulla scia di Gaudium et spes.

E qui raggiungiamo uno spartiacque che non riguarda solo il Cammino sinodale tedesco, ma anche il giudizio ecclesiale sul pontificato di Francesco: ossia, quello del rilievo teologico e della normatività per l’attuazione ecclesiale della storia comunemente umana. Su questo la Chiesa tedesca e la Chiesa cattolica secondo Francesco coincidono perfettamente l’una con l’altro – e non è cosa da poco.

Gli eventi evangelici ed ecumenici del 2022

Gli eventi evangelici ed ecumenici del 2022

ROMA-ADISTA. Sinodo luterano, V sessione congiunta dell’Assemblea generale dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste, detta “Assemblea-Sinodo”. Sono alcuni degli appuntamenti nazionali e internazionali delle chiese protestanti e degli organismi ecumenici per l’anno 2022.

Ecco il calendario completo degli eventi più rilevanti, elaborato dall’Agenzia stampa Nev:

2 gennaio Celebrazione ecumenica su zoom. Organizzata, fra l’altro, dalla Federazione delle donne evangeliche in Italia (FDEI) e dal Segretariato attività ecumeniche (SAE).

18/25 gennaio Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2022.

20 gennaio Womanitarian: le donne risorse di comunità – IV edizione del Convegno Nazionale di Servizi Inclusione, con la Commissione sinodale per la Diaconia (Diaconia valdese-CSD), a Napoli.

23 gennaio Culto delle diverse denominazioni protestanti al Grossmünster di Zurigo, in Svizzera.

25/27 febbraio Assemblea preliminare regionale della Conferenza di chiese europee (KEK) a Varsavia, in Polonia.

10/12 marzo Conferenza “Wellbeing of Digitalized Societies and Work Place” della Church Action on Labour and Life (CALL), a Strasburgo, in Francia.

22/25 aprile 46^ Assemblea Generale dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI)

28 aprile/1° maggio Sinodo luterano.

Maggio Primo Comitato esecutivo della Commissione di chiese riformate (CMCR) con il nuovo Segretario generale.

5 giugno Domenica di Pentecoste e “Global Impact Day” dell’Alleanza battista mondiale (ABM).

23/30 giugno Conferenza generale della Chiesa metodista di Gran Bretagna, Telford.

27 luglio/8 agosto Conferenza di Lambeth.

Fine agosto “Assemblea-Sinodo”, V sessione congiunta dell’Assemblea generale dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste.

31 agosto / 8 settembre Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) a Karlsruhe, in Germania.

21/24 settembre Consiglio della Federazione battista europea (EBF)