Gli studenti e le studentesse del Liceo A.F. Formiggini di Sassuolo, insieme al loro insegnante di religione, si sono impegnati in un “Sinodo a scuola”

In un clima sereno e di fruttuoso confronto, hanno dialogato partendo da alcune domande-guida che hanno orientato gli interventi di ciascuno e il dibattito in classe:

Come senti o ti senti nella Chiesa?
Ti senti ascoltato dalla Chiesa? Secondo te, la Chiesa sa ascoltare?
Che cosa la Chiesa può imparare dalla società in cui viviamo? Che atteggiamento dovrebbe avere?
Che cosa chiedi tu alla Chiesa oggi? Come potrebbero rinnovarsi, guardando al futuro?
Com’è la Chiesa che sogni? Quali passi compiere per arrivarci?
Frequenti la parrocchia? Come ti senti al suo interno? Che cosa funziona o non funziona?
Quali sono i punti da confermare, le prospettive di cambiamento, i passi da compiere? Quali strade si stanno aprendo per la nostra Chiesa locale?
Hai altri temi sui quali vorresti dialogare con la Chiesa cattolica?

Un primo tema emerso dalla discussione in classe è quello della mancanza di giovani all’interno del contesto ecclesiale. Gli studenti, inoltre, rilevano anche una certa “indifferenza” da parte dei responsabili di comunità davanti a questo vuoto. Quei pochi, poi, che continuano a frequentare sono considerati dai loro coetanei dei veri e propri “alieni”.

Un secondo tema è quello del bigottismo dilagante e della rigidità del contesto parrocchiale, che porta ad un allontanamento maggiore delle giovani generazioni: parroci e catechisti che incutono timore, con il loro imporsi, pur di avere delle assidue presenze al catechismo. Dall’altro canto, però, va rilevata anche la pigrizia dei bambini e dei giovani a partecipare agli incontri previsti, perché attratti da cose che passano (vestiti, successo, denaro…) e anche dal desiderio di bruciare le tappe.

È emersa anche la considerazione che la Chiesa si presenta sempre cauta e lenta nei cambiamenti; in più vuol far vedere che è accogliente, ma in realtà non lo è.

Qui si inserisce anche tutto un discorso sul modo di fare catechismo, il quale non dovrebbe essere assimilato ad una lezione scolastica e che dovrebbe avere catechisti più preparati e non grossolani, capaci di far innamorare e non destare timore con rigidità e giudizio. Alcuni arrivano a dichiarare che così il catechismo non serve a niente, non lascia nessun ricordo e né tantomeno alcun concetto.

Un terzo tema che è venuto fuori molte volte è quello della mancata comprensione della liturgia: molti hanno confessato che per loro la celebrazione eucaristica è considerata noiosa proprio perché nessuno ha mai loro spiegato il senso dei gesti e la bellezza dei significati celati in essi. Si ravvisa, inoltre, una mancata preparazione del celebrante nel tenere l’omelia e nel rendere i temi religiosi vicini e affascinanti, per destare il senso del sacro. A volte si affrontano temi attuali, ma con atteggiamento giudicante, sintomo di ignoranza e di poca accoglienza.

Un quarto tema è quello dei sacramenti, il più delle volte visti come tappe obbligate, elargiti senza convinzione ma solo per convenzione. Molti li celebrano, ma pochi hanno consapevolezza di cosa stanno celebrando. Il più delle volte sono solo un alibi per fare festa.

Un quinto tema è quello dell’operato dei presbiteri: alcuni – cito testualmente le parole degli studenti – “sono veramente insostenibili”, altri non vivono quello che celebrano, altri ancora non si interessano delle situazioni e dei vissuti della loro comunità, tanto che alla richiesta di un aiuto rispondono di rimandare l’appuntamento per via del loro giorno libero.

Accanto ad alcuni che sono seri e che vivono la loro vocazione con impegno, fede e onestà, si stagliano altri molto innamorati del potere, ricercatori ossessionati dei propri interessi, che predicano la povertà, ma vanno a braccetto con i ricchi e i potenti.

Molti studenti, guardando al loro operato, dichiarano con tristezza e rabbia che “la Chiesa purtroppo non è un posto sicuro”.

Suggerimenti pratici
Accoglienza: vorremmo una Chiesa che sappia accogliere concretamente le diversità, che sia più aperta nei confronti delle persone appartenenti ad ogni orientamento sessuale. Si evitino atteggiamenti esclusivi e si sposino quelli inclusivi, per fare della Chiesa una comunità e non una elitè. La Chiesa, inoltre, non dovrebbe aspettarsi che siano i giovani ad andare da lei, bensì il contrario, se è veramente missionaria.

Ascolto attivo e dialogo: vorremmo una Chiesa che sappia ascoltare – prima di parlare – le ragioni altrui, considerando l’altro non un sacco da riempire o un ostacolo da eliminare, ma come una ricchezza da cui anche imparare.

Fare la differenza: significa cambiare mentalità, fare in modo che la gente sia attratta guardando la fede e lo stile di bene dei cristiani. Solo così la Chiesa tornerà ad essere ancora un punto di riferimento per la società. Va limitata, poi, l’istituzione, senza però sradicarla completamente.

Riprogettazione del percorso sacramentale: siano dati da adulti e dopo un percorso di fede consapevole e ricco di esperienza.

Valorizzazione della cultura: si investa in cultura per dare contenuto e sostanza alla fede anche con l’apporto del pensiero razionale, in una reciproca complementarietà.

Auspichiamo che lo scopo di tale cammino sinodale sia veramente non la produzione di fogli o documenti che non leggerà quasi nessuno, ma la volontà di – così come si scriveva già dai tempi del Sinodo dei giovani – «far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani».

Cosa trarre dall’esperienza
Consapevole della complessità e della varietà dei temi in gioco, vorrei – alla luce della discussione condotta con gli studenti e dell’esperienza di servizio mia personale all’interno del contesto ecclesiale – fare alcune considerazioni, che possono servire da stimolo e provocazione.

Come molti studiosi hanno ripetuto, viviamo in un tempo in cui è finita la cristianità, ma non il cristianesimo. Papa Francesco, dal canto suo, più volte ha ripetuto che stiamo vivendo “non un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca”.

Di solito, dinanzi alla complessità e alle difficoltà, la prima tentazione in cui si può cadere è quella di lamentarsi. Già Agostino metteva in guardia gli adulti del suo tempo da questo pericolo quando scriveva: «Voi dite: sono tempi difficili, sono tempi duri. Vivete bene e, con la vita buona, cambiate i tempi: cambiate i tempi e non avrete di che lamentarvi».

Ecco, Agostino pone l’attenzione sulle proprie responsabilità. È da queste che dobbiamo ripartire.

Lo stesso Instrumentum laboris del Sinodo dei giovani (2018) confessava: “molti giovani non ci chiedono nulla perché non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza”. Di più. Alcuni “chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante”.

Dinanzi a questi graffianti giudizi, la Chiesa non può rimanere indifferente, ma cercare di fare la differenza.

Lungi dal fare di tutta l’erba un fascio, visto che molti sono coloro che operano nel silenzio della carità, ma a volte va constatata la motivazione “la Chiesa è fatta di uomini”, perché può essere usata come alibi per lasciare le cose come stanno o per non vedere i problemi.

Fare la differenza vuol dire che – per usare le parole del teologo francese Yves Congar – “non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa”.

I giovani chiedono una Chiesa autentica e non di facciata; una Chiesa che ha il coraggio di cambiare le carte in tavola, pur rimanendo fedele al suo Cristo; una Chiesa che ponga un freno ai banchetti per tornare al grande banchetto dell’Eucarestia; una Chiesa che diviene sempre più comunità e sempre meno comitiva.

È importante avvicinare il messaggio evangelico, ma bisogna anche stare attenti a non scontarlo.

Chi non abita il corpo ecclesiale sarà sicuramente più attratto da una Chiesa che vive relazioni autentiche e durature piuttosto che una Chiesa che fa a gara per preparare feste, serate, sagre (con tanto di sponsor), dimenticando il Festeggiato.

La Chiesa non dovrebbe essere una pagina di Facebook che tenta d’accaparrarsi il maggior numero possibile di “like” cercando d’essere “moderna” o “alla moda”; la Chiesa dovrebbe essere madre e maestra di Verità. Il modo più efficace per danneggiare o addirittura distruggere la fede nei giovani è quello di promuovere una falsa e fuorviante distorsione della verità in un tentativo di acquisire popolarità.

Un gruppo di giovani, non ascoltati, in una lettera pubblica sul Sinodo dei giovani ebbero a scrivere: “Noi desideriamo che la Chiesa sia popolare, perché tutti conoscano l’amore di Cristo. Tuttavia, se dobbiamo scegliere tra popolarità e autenticità, scegliamo l’autenticità”.

A volte sembra che la Chiesa viva la parabola della pecorella smarrita al contrario: pur di non perdere le novantanove pecore rimaste nel recinto, ha paura di correre dietro a quella perduta per salvarla. Eppure la “Chiesa in uscita”, tanto cara a papa Francesco, chiede la missionarietà e non chiusura nella propria comfort-zone.

Certamente, praticando lo stile missionario, bisogna mettere in conto il rischio di perdere, almeno all’inizio. Ma è comunque necessario rischiare, consci del fatto che – per dirla con le parole di papa Paolo VI – “il cristianesimo non è facile, ma è felice”.

Un ultimo aspetto su cui il sinodo dovrebbe riflettere e lavorare è quello del ruolo della leadership nelle comunità, evitando con fermezza gli abusi di potere. Tornare alla ricchezza dei contributi offerti dal Concilio Vaticano II – come per esempio, quello della corresponsabilità dei laici – può essere molto salutare.

Un appello
A suggello di queste considerazioni, anche io mi unisco a queste giovani voci degli studenti e con amore di figlio impegnato nella Chiesa rivolgo ai vescovi che si riuniranno in assise questo semplice e schietto appello:

Noi giovani non vogliamo dei vescovi o ministri amiconi, ma amici.
Non vogliamo vescovi e ministri bravi nel fare analisi sociologiche, ma pastori di cui fidarci.
Noi giovani non vogliamo vescovi e ministri che indichino con il loro indice la via vera, buona e bella, ma rimangono al palo.
Non vogliamo vescovi e ministri come farisei che “legano pesanti fardelli sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”, ma come Cristo che sapeva guardare e amare il giovane anche se ricco e triste.
Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”.
Settimana News

Notizie attualità 2 Luglio 2022


Movimenti ecclesiali e nuove comunità

I giovani nei movimenti ecclesiali, evangelizzati ed evangelizzatori - Nuovi Orizzonti

In Settimana News
Non occorre spendere parole per sottolineare come la galassia di aggregazioni che, in seno al Popolo di Dio, va sotto il nome di “movimenti ecclesiali e nuove comunità”, stia vivendo oggi un passaggio cruciale nel suo cammino.

È una “pasqua”, in Gesù, che chiede conversione, discernimento e nuovo slancio per «vivere e far fruttificare – ha chiesto papa Francesco – quei carismi che lo Spirito Santo, per il tramite dei fondatori, ha consegnato a tutti i membri delle vostre realtà aggregative, a beneficio della Chiesa e di tanti uomini e donne a cui vi dedicate nell’apostolato».[1]

Un invito a fare memoria – scrive la lettera agli Ebrei – dei «giorni dell’inizio», quando s’è ricevuta la luce di Cristo e a lui s’è con gioia consegnata la vita (cf. Eb 10,32), per aprirsi nella fede e nella speranza che «non delude» (Rom 5,5) al sempre nuovo e al sempre di più dell’opera di Dio: con parresia e hypomoné (cf. Eb 10,35-36).

In sintonia con il cammino della Chiesa
Tale sfida è una grazia che, come ogni grazia, non è “a buon mercato”. Perché invita a un triplice impegno: mettere in luce la perla preziosa che lo Spirito ha consegnato alla Chiesa attraverso chi ha fondato ognuna di queste realtà, per curarne con intelligenza d’amore lo sviluppo come un tralcio della vite destinato a essere opportunamente potato perché porti «più frutto» (cf. Gv 15,2); spendendosi, con disponibilità a ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa (cf. Ap 2,7), in questa «nuova tappa dell’evangelizzazione» che papa Francesco ci addita (cf. EG 287); perfezionando con attenzione e apertura quelle dinamiche anche istituzionali che siano atte di più in più a fungere da “otre” nuovo per il “vino nuovo” (cf. Mc 2,22) veicolato dai carismi di fondazione.

Si tratta – cito Linda Ghisoni – di «non rimanere imbrigliati in una sequela infantile e nostalgica di eventi o scelte passate, che non liberano quella intelligente individuazione dei segni che via via accadono e che, nel solco della fedeltà al carisma di fondazione, indicano la sua concreta incarnazione nel tempo».[2]

Questo triplice impegno va declinato entro il contesto del processo sinodale in cui è convocato tutto il Popolo di Dio. Non si tratta semplicemente d’essere coinvolti e farsi attivamente coinvolgere in esso, né soltanto d’offrire un contributo specifico. Si tratta di discernere, accogliere e implementare la «cosa nuova» (cf. Is 43,19) che Dio sta facendo con il suo Popolo.

Gesù risorto – così papa Francesco – c’invita a «fare alleanza con il tempo, a saper attendere il dipanarsi di una storia sacra che non si è interrotta ma che va sempre avanti […] a non “fabbricare” da sé la missione, ma ad attendere che sia il Padre a dinamizzare i loro cuori con il suo Spirito, per potersi coinvolgere in una testimonianza missionaria capace di irradiarsi».[3]

Il processo sinodale è la messa in movimento di un dinamismo di apertura allo Spirito che impegna a camminare avanti nel solco tracciato dal Vaticano II. Non immaginando un’altra Chiesa, ma una Chiesa “altra”, ha auspicato papa Francesco.[4]

Il Vaticano II ha tracciato le linee maestre dell’ecclesiologia del Popolo di Dio e della comunione e partecipazione, che chiama la Chiesa a gestire con nuovo slancio e nuovo stile la sua missione di «sacramento, in Cristo, e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).

I movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono nati, o si sono sviluppati, in concomitanza con l’onda del rinnovamento conciliare. Oggi la Chiesa è entrata in una tappa inedita di questo evento: ed essi sono interpellati a mettersi in gioco, ri-comprendersi e ri-configurarsi – in fedeltà creativa al carisma di fondazione – integrandosi nel processo in cui la Chiesa tutta è chiamata a uscire «verso di Lui, fuori dell’accampamento» (cf. Eb 13,13).

Questo il passaggio cruciale: «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».[5] Non è un modo di dire, con enfasi retorica, un particolare tra gli altri. È l’appello a proseguire l’esodo dalla forma di Chiesa dell’epoca di cristianità (forgiata in Europa, nel disegno della Provvidenza, in e per un’epoca storica ormai giunta a compimento, e di fatto ovunque poi esportata come paradigma di riferimento), per una forma altra, esigita dai segni dei tempi e propiziata dal soffio dello Spirito.

Che non è già data bell’e pronta: ma è custodita come seme e ispirazione nell’esperienza della prima comunità cristiana a partire dall’incontro fondante con Gesù risorto. E che è trasmessa dal Nuovo Testamento come Parola viva di Dio da incarnare, nella dýnamis dello Spirito Santo, lungo il corso dei tempi e in rapporto alle diverse situazioni e culture. Ora, come ha auspicato il card. Farrell, proprio «per realizzare […] tutto ciò che il cammino sinodale della Chiesa vi propone, è necessario intraprendere un processo che conduca progressivamente a un cambio di mentalità».[6]

È qui il kairós da acciuffare. «Sentiamo – così papa Francesco – che i nostri piccoli passi sinodali sono il “grande kairós”», ma «ben presto scopriamo la nostra piccolezza e la necessità di una più grande conversione personale e pastorale»[7].

Il processo sinodale è un evento in fieri volto ad attivare uno spazio di “inter-ascolto” in cui la Chiesa si apra a ciò che lo Spirito le dice. Un invito, per i movimenti ecclesiali e alle nuove comunità, a esercitare il discernimento comunitario in riferimento alla loro identità e al loro inserimento nella missione ecclesiale. Collocandosi tra due fuochi: ciò che lo Spirito dice attraverso lo specifico carisma a servizio di tutti loro confidato, e ciò che lo Spirito dice attraverso il cammino di tutto il Popolo di Dio.

Scrive Matteo Visioli: «Il carisma di fondazione è affidato alla comunità tutta, la quale è interprete del carisma e lo riconosce […], vigila su di esso, lo promuove, ne corregge le eventuali deviazioni, ne interpreta gli sviluppi. Per “comunità” si intende non solo l’aggregazione laicale, ma la Chiesa tutta».[8]

In questo quadro, propongo alcuni spunti di meditazione a partire da due icone offerte dagli Atti degli Apostoli. Vi contempliamo infatti lo start – sempre attuale e sempre nuovo – del viaggio del Vangelo nella storia, grazie al «meraviglioso connubio tra la Parola di Dio e lo Spirito Santo che inaugura il tempo dell’evangelizzazione»,[9] in cui tutti siamo chiamati a specchiarci.

La Chiesa come soggetto comunionale
Innanzi tutto, il sommario di Atti 2,42-47. Vi si descrive come «i cristiani ascoltano assiduamente la didaché cioè l’insegnamento apostolico; praticano un’alta qualità di rapporti interpersonali anche attraverso la comunione dei beni spirituali e materiali; fanno memoria del Signore attraverso la “frazione del pane”, cioè l’eucaristia, e dialogano con Dio nella preghiera».[10]

Ciò che viene in rilievo in quest’icona «di una fraternità che affascina e non va mitizzata ma nemmeno minimizzata»,[11] è – nelle parole di papa Francesco – «l’alta qualità dei rapporti interpersonali». Il Nuovo Testamento la definisce koinonía: prender parte tutti e insieme al dono ricevuto da Dio in Gesù, che ci fa un solo corpo in Lui, «membra gli uni degli altri» (cf. Rom 12,5). I discepoli sperimentano così «una nuova modalità di essere tra di loro»[12]: perché «Dio, in Cristo, non redime soltanto la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini» (Evangelii gaudium, 178).[13]

Questa, con accenti diversi, è una qualifica dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità: sul livello – se non sempre della prassi, costantemente soggetta all’umana fragilità e all’insidia del peccato – dell’ispirazione operante nei carismi di fondazione. Come lo è stato di tutte le correnti di rinnovamento nello Spirito lungo i secoli. Con una peculiarità che il Vaticano II ha propiziato: l’«alta qualità dei rapporti interpersonali» non è riservata a qualcuno, ma è grazia e responsabilità di tutti nel Popolo di Dio, in ogni stato e condizione di vita.

Ciò risalta a partire dal capitolo II della Lumen gentium sul Popolo di Dio in quanto Popolo messianico che, in ogni suo membro e comunitariamente, esercita il sensus fidei, dal capitolo V sulla vocazione universale alla santità, dalla presentazione della rivelazione al n. 2 della Dei Verbum come dialogo di amicizia da Dio con ciascuno e con tutti intrattenuto, per partecipare in Gesù alla comunione trinitaria. Di qui la natura innanzi tutto laicale, universale, “nel” mondo senza essere “del” mondo (cf. Gv 17,11-14) del Popolo di Dio. Nella consapevolezza – cito papa Francesco – che «l’evangelizzazione è un mandato che viene dal battesimo […]. Voi avete risvegliato questo con i vostri movimenti, e questo è molto buono».[14]

Questa irrinunciabile acquisizione e questo iniziale risveglio vanno rilanciati e declinati nel processo sinodale in cui tutto il Popolo di Dio è impegnato. «Lo Spirito Santo e noi …»: con queste parole gli Atti degli Apostoli trasmettono la deliberazione maturata attraverso il discernimento svolto da tutta la comunità di Gerusalemme (cf. Atti 15,28).

In questa formula, il “noi” esprime il “soggetto comunionale” che è convocato dal Risorto, cammina, si riunisce in assemblea, discerne e decide;[15] mentre il riferimento allo Spirito ne dice l’identità specifica nella sequela di Gesù che ha promesso: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo ad essi» (Mt 18,20). Due le conseguenze.

La prima: c’è un carattere peculiare – d’incontro in Gesù e nello Spirito tra il dono che viene da Dio e la nostra responsabilità storica – che qualifica l’assemblea del Popolo di Dio: non solo nella celebrazione liturgica del mistero della Pasqua, l’eucaristia, che ne plasma l’identità; ma anche, in modo analogo e scaturente dalla sorgente eucaristica, nell’assemblea che la vede riunita per discernere il cammino della missione.

La seconda conseguenza: il soggetto comunionale che la Chiesa è non è uniforme e amorfo. È un Corpo dalle molte e diverse membra. La cui radicale uguaglianza deriva dal fatto che ciascuno è rivestito del medesimo Cristo (cf. Gal 3,27), gode cioè della stessa dignità ed exousía filiale (cf. Gv 1,12); e la cui diversità è frutto del dono dello Spirito, con l’attivazione attraverso molteplici carismi e ministeri, di diverse competenze e funzioni: tutti per il bene comune.

Così che «camminare insieme – sottolinea papa Francesco – scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole, Cristo»:[16] proprio con ciò portando a pieno frutto il costitutivo significato ecclesiale dei sacramenti e del ministero ordinato in seno al Popolo di Dio.[17]

Non è cosa né scontata, né facile vivere secondo questa specifica logica e prassi sinodale. Occorrono conversione, purificazione del cuore e della mente, esercizio. Perché l’accesso a un’«alta qualità dei rapporti interpersonali» è opera dello Spirito: nel rispetto della libertà e singolarità di ognuno, nel riconoscimento dei tempi di Dio e del cammino di maturazione di tutti, nella cura delle immancabili ferite e nella gestione degli inevitabili conflitti, con la consapevolezza che portiamo un tesoro prezioso in «fragili vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria dýnamis appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Occorre impratichirsi con umiltà e pazienza in quella «spiritualità della comunione» di cui Giovanni Paolo II parlava nella Novo millennio ineunte, invitando la Chiesa a diventarne casa e scuola (cf. n. 43).

Senza questa mistagogia il processo sinodale non può portare frutti significativi e duraturi. Si tratta – cito il documento della CTI – di «educarsi a vivere nella comunione la grazia ricevuta nel battesimo e portata a compimento nell’eucaristia: il transito pasquale dall’“io” individualisticamente inteso al “noi” ecclesiale, dove ogni “io”, essendo rivestito di Cristo (cf. Gal 2,20), vive e cammina con i fratelli e le sorelle come soggetto responsabile e attivo nell’unica missione del popolo di Dio».[18] Di ciò i movimenti ecclesiali e le nuove comunità hanno il dono e la responsabilità di farsi, con umiltà, trasparenti e rigorose palestre di allenamento.

Si tratta, esorta papa Francesco, di «promuovere sempre più la sinodalità, affinché tutti i membri, in quanto depositari dello stesso carisma, siano corresponsabili e partecipi della vita» dei movimenti e comunità ecclesiali e dei loro fini specifici.[19] Il che diventa praticabile e fruttuoso quando, con convinzione, desiderio d’imparare dagli altri, spirito di servizio, si abita l’avventura del processo sinodale di tutto il Popolo di Dio.

In questa linea, una dimensione incentivata dal processo sinodale essendo spesso presente, almeno in nuce, nei movimenti ecclesiali e nelle nuove comunità, è la partecipazione di cristiani di diverse Chiese, fedeli di diverse religioni, uomini e donne di altre convinzioni. È una grazia grande, suscitata dall’impulso dello Spirito in sintonia con il disegno di universalità e libera ordinazione di tutti al Popolo di Dio descritto nella Lumen gentium: di qui l’intrinseca apertura del processo sinodale all’ospitalità, all’ascolto e al cammino con tutti, senza esclusioni. Un passo nuovo nel cammino della Chiesa «in uscita» da non sprecare.

Doni da condividere
Seconda icona: la toccante descrizione del «gioco di sguardi» in Atti 3,1-10, con cui Pietro e Giovanni incrociano il loro sguardo con quello dell’uomo storpio dalla nascita, incontrato presso la porta del tempio detta Bella: «Fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: “guarda verso di noi”. Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”» (Atti 3,4-6).

Due cose suggerisce il racconto: «I testimoni accreditati dell’opera di salvezza di Cristo non manifestano al mondo la loro presunta perfezione ma, attraverso la grazia dell’unità, fanno emergere un Altro che ormai vive in un modo nuovo in mezzo al suo popolo […] il Signore Gesù. Gli Apostoli scelgono di vivere sotto la signoria del Risorto nell’unità tra i fratelli, che diventa l’unica atmosfera possibile dell’autentico dono di sé»:[20] e così «ci insegnano a non confidare nei mezzi, che pure sono utili, ma nella vera ricchezza che è la relazione con il Risorto».[21]

Se la novità della comunità cristiana è una «qualità alta delle relazioni interpersonali», la sua missione consiste nel prendersi cura dei fratelli e delle sorelle, nella concretezza spesso piagata della loro esistenza, offrendo l’unica cosa che i discepoli hanno ricevuto, in essa ritrovando con stupore, gioia e gratitudine il senso e lo stile della loro esistenza: la relazione col Signore risorto (cf. Mt 18,20). «Gli apostoli – sottolinea papa Francesco ­– hanno stabilito una relazione, perché questo è il modo in cui Dio ama manifestarsi, nella relazione, sempre nel dialogo, sempre nelle apparizioni, sempre con l’ispirazione del cuore: sono relazioni di Dio con noi; attraverso un incontro reale tra le persone che può accadere solo nell’amore».[22]

Il fulcro della missione è la testimonianza e l’offerta gratuita della relazione col Risorto che vive con e tra i discepoli che formano il suo Corpo, il quale – attesta l’apostolo Paolo – è presenza di lui, sua visibilità e tangibilità storica. Nell’adorazione del semper magis del suo mistero d’amore e nella consapevolezza sincera e acuta, spesso dolorosa – come ricordato – della propria fragilità.

I carismi all’origine delle nuove realtà ecclesiali sono indirizzati ad accendere e attivare l’esperienza della relazione con Gesù risorto come stile e fine della missione. Anche se talvolta l’effervescenza di un entusiasmo improprio – perché di natura meramente psicologica e sociologica e non spirituale – rischia di prendere la mano e rovesciare il significato del dono ricevuto in una autoreferenzialità che lo inibisce e persino stravolge.

È necessario sempre il distacco: da sé – come singoli e come gruppo –, senz’altro, ma anche dal dono ricevuto. E un costante cammino di rettifica dell’intenzione, di conversione, di verifica: da vivere con fede e umiltà. «Nessuno è padrone dei doni ricevuti per il bene della Chiesa – ha rimarcato papa Francesco –. Ciascuno, laddove è posto dal Signore, è chiamato a farli crescere, a farli fruttificare, fiducioso nel fatto che è Dio che opera tutto in tutti (cf. 1Cor 12,6) e che il nostro vero bene fruttifica nella comunione ecclesiale».[23]

Senza spaventarsi dei fallimenti e anche dei peccati: per la fede nella misericordia di Dio e perché la potenza della pasqua di Cristo si manifesta nella nostra debolezza (cf. 2Cor 12,9). Quello che ci è proposto è uno stile ecclesiale in sintonia con la «nuova tappa dell’evangelizzazione» a cui lo Spirito Santo spinge la Chiesa.

Non proselitismo ma attrazione. Il che si dà là e quando il nostro sguardo incrocia lo sguardo di chi cerca tante cose, forse, di primo acchito, ma in fin dei conti l’unica cosa di cui davvero c’è necessità (cf. Lc 10,42): la relazione con Dio che è Padre in Gesù. Ciò che il Vangelo, nel soffio dello Spirito, innesca attraverso la Chiesa nella storia è un «processo di “fraternizzazione”»[24] che raggiunga tutti, a partire dagli ultimi e solo apparentemente più lontani: che sono invece i primi e i più vicini, perché in loro Gesù continua a prender carne e ci viene incontro nel grido, sordo o urlato, della prova, del dolore, della ricerca, del dubbio, dell’invocazione.

Questa la frontiera della missione descritta dal Vaticano II e rilanciata da papa Francesco. Non si tratta di una strategia compromissoria nell’esercizio dell’identità cristiana: ma di attivazione della qualità propria del vivere in-Cristo, con fede matura e generativa. La fede plasmata dallo Spirito nel cuore, nella mente, nel grembo di Maria. Un incanto di bellezza tenera e forte atteso e desiderato, più o meno consapevolmente, nella temperie spirituale e culturale spesso disillusa, inquieta e incattivita, ma ricca di segrete promesse, della dopo-modernità e dopo-cristianità.

L’immaginazione e implementazione dialogica di stili spirituali e di paradigmi culturali che, da dentro, come sale e lievito (cf. Mt 5,13 e 13,33), orientino in modo condiviso e costruttivo i dinamismi sociali e comunicativi, economici e politici, è il segreto di un esercizio dell’annuncio e della testimonianza calibrato sull’asse della relazione.

Lo enuncia con chiarezza, nel solco della Gaudium et spes (n. 38), papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti: «la proposta del Vangelo […] è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti» (Evangelii gaudium, 180).

Questo spirito pulsa al cuore dei carismi che animano i movimenti e le nuove comunità. La barra del timone dev’essere però tenuta dritta sulla giusta rotta: a evitare che percorsi pensati e intrapresi senza radicale ascolto dello Spirito e docilità ai suoi impulsi s’infrangano contro gli opposti scogli di un impegno nel sociale che finisce col non essere implementazione del Vangelo del Regno, o di un fondamentalismo che non riconosce l’autonomia delle realtà terrene e il dialogo con le culture, i saperi, le arti che le esprimono e promuovono.

La strada è individuata, ma siamo agli inizi. Costata papa Francesco: si profila «una grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione».[25] L’impegno in una formazione robusta, aperta, permanente e lungimirante è una priorità per i movimenti ecclesiali e le nuove comunità.

Aperti alla guida dello Spirito
Occorre oggi riflettere a fondo – in base all’esperienza fatta e a quella in fieri, alle urgenze che si profilano nel passaggio al momento post-fondazionale, al quadro ecclesiologico offerto dal Vaticano II e oggi in fase di creativa riespressione nel processo sinodale – sulla figura carismatica e istituzionale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità in riferimento al loro riconoscimento nell’ordine canonico della Chiesa e in riferimento alle forme e dinamiche della loro missione.

S’intuisce che l’attuale configurazione, esprimendo la cura indispensabile e preziosa della Chiesa in questa tappa del loro cammino, prelude, nell’attuale contesto ecclesiale di ascolto dell’inedito dello Spirito, a nuovi e più promettenti assetti, quando i tempi si mostrino maturi.

Val la pena ricordare quanto sottolineato dall’allora card. Ratzinger nel Convegno del 1998: «Esiste la permanente forma basilare della vita ecclesiale in cui si esprime la continuità degli ordinamenti storici della Chiesa. E si hanno sempre nuove irruzioni dello Spirito Santo, che rendono sempre viva e nuova la struttura della Chiesa».[26] La struttura della Chiesa, proprio perché sempre viva, non può non essere per ciò stesso sempre aperta alla novità. Ogni «struttura ecclesiale» – auspica papa Francesco nella Evangelii gaudium – ha da diventare «un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (n. 27).

La prima attenzione che ci è chiesta è a non spegnere lo Spirito, a non disprezzare la profezia, a vagliare ogni cosa e tenere ciò che è buono (cf. 1Tess 5,19); ma, insieme a ciò, siamo chiamati – proseguendo il cammino sin qui fatto, con pazienza e in spirito di reciproco ascolto – a evitare la scorciatoia di cucire un pezzo di stoffa grezza sopra un vestito vecchio (cf. Mt 14,16). La stoffa è ancora per tanti versi grezza e come tale va lavorata: ma anche il vestito dev’essere nuovo.

[1] Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’Incontro delle Associazioni di Fedeli, dei Movimenti Ecclesiali e delle Nuove Comunità, Aula del Sinodo, Città del Vaticano, 16 settembre 2021.

[2] L. Ghisoni, L’esercizio del governo nelle associazioni di fedeli e nei movimenti ecclesiali. Criteri e orientamenti pratici, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Decreto generale “Le associazioni internazionali di fedeli”. Testi e commenti. Contiene gli Atti dell’Incontro “La responsabilità di governo nelle aggregazioni laicali. Un servizio ecclesiale [16 settembre 2021], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2021, pp. 65-80, qui p. 71.

[3] Papa Francesco, Udienza generale, 29 maggio 2019.

[4] Papa Francesco, Discorso per l’inizio del processo sinodale, Aula Nuova del Sinodo, Città del Vaticano, 9 ottobre 2021.

[5] Papa Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi, Aula Paolo VI, Città del Vaticano, 17 ottobre 2015.

[6] K. Farrell, Conclusioni, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Decreto generale “Le associazioni internazionali di fedeli”, cit., pp. 81-84, qui, p. 84.

[7] Papa Francesco, Sinodalidad y comunión, Videomensaje con motivo de la Asamblea Plenaria de la Pontificia Comisión para América Latina, 24-27 maio 2022. [trad. nostra]

[8] M. Visioli, L’esercizio ecclesiale dell’autorità. Natura, finalità, limiti, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Decreto generale “Le associazioni internazionali di fedeli”, cit., pp. 43-63, qui, p. 56.

[9] Papa Francesco, Udienza generale, 29 maggio 2019.

[10] Papa Francesco, Udienza generale, 26 giugno 2019.

[11] Ibid.

[12] Papa Francesco, Udienza generale, 21 agosto 2019.

[13] Cf. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 52.

[14] Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’Incontro delle Associazioni di Fedeli, dei Movimenti Ecclesiali e delle Nuove Comunità, cit..

[15] Cf. F. Coccopalmerio, Sinodalità ecclesiale “a responsabilità limitata” o dal consultivo al deliberativo? A colloquio con padre Lorenzo Prezzi e nel ricordo del cardinale Carlo Maria Martini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2021.

[16] Papa Francesco, Discorso ai fedeli della Diocesi di Roma, Aula Paolo VI, Città del Vaticano 18 settembre 2021.

[17] Scrive M. Visioli: «Per parlare correttamente di autorità, partecipazione e comunione, è allora necessario esplicitare il suo necessario riferimento a Cristo: è lui a operare un cambiamento di paradigma, non in chiave sociologica o democratica, bensì in quella ecclesiologica e trinitaria» (L’esercizio ecclesiale dell’autorità, cit., p. 54).

[18] Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, n. 107.

[19] Papa Francesco, Udienza ai partecipanti all’Assemblea generale del Movimento dei Focolari, in «L’Osservatore Romano», 6 febbraio 2021, p. 12; cf. anche L. Ghisoni, L’esercizio del governo nelle associazioni di fedeli e nei movimenti ecclesiali, cit., p. 79.

[20] Papa Francesco, Udienza generale, 12 giugno 2019.

[21] Papa Francesco, Udienza generale, 7 agosto 2019.

[22] Papa Francesco, Udienza generale, 7 agosto 2019.

[23] Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Decreto generale “Le associazioni internazionali di fedeli, cit., pp. 29-36, qui p. 35.

[24] Papa Francesco, Udienza generale, 16 ottobre 2019.

[25] Cf. Laudato si’, 202; Veritatis gaudium, 6.

[26] J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Pont. Consilium pro Laicis, I movimenti nella Chiesa, Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali (Roma, 27-29 maggio 1998), Città del Vaticano 1999, pp. 23-51, qui p. 25. Condivisibile senz’altro, in merito, quanto affermato dalla Lettera Iuvenescit Ecclesia della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Dal punto di vista della relazione tra doni gerarchici e carismatici è necessario rispettare due criteri fondamentali che devono essere inseparabilmente considerati: a) il rispetto della peculiarità carismatica delle singole aggregazioni ecclesiali, evitando forzature giuridiche che mortifichino la novità di cui l’esperienza specifica è portatrice. In tal modo si eviterà che i vari carismi possano essere considerati come risorsa indifferenziata all’interno della Chiesa. b) Il rispetto del regimen ecclesiale fondamentale, favorendo l’inserimento fattivo dei doni carismatici nella vita della Chiesa universale e particolare, evitando che la realtà carismatica si concepisca parallelamente alla vita ecclesiale e non in un ordinato riferimento ai doni gerarchici».

La genialità di papa Francesco: la sua fedeltà al Vangelo

La genialità, secondo il dizionario della RAE (Real Academia Española, ndt), è “l’unicità propria del carattere di una persona”. Detto ciò, la genialità di papa Francesco si distingue soprattutto per la sua fedeltà al Vangelo. E per questo è stato – e continua ad essere – un papa così sconcertante. Così lodato da alcuni e così mal visto da altri. È così, anche se suona come una bugia. Oppure può sembrare una spiegazione senza né capo né coda. Il che è ovviamente un problema che molte persone non immaginano. Come mai?

Mi sembra che il problema non consista nel fatto che i conservatori considerino questo problema in un modo, mentre i progressisti pensino il contrario. Questo può certamente influire. Ma mi sembra che il problema di fondo, posto a tutti noi da padre Jorge Mario Bergoglio, sia molto più profondo. In che cosa consiste questo problema?

Lo dirò, per come la vedo io, nel modo più semplice e breve possibile. La Chiesa, a partire dai secoli III-IV, ha fatto una svolta – tanto comprensibile quanto sconsiderata – che ha portato (questa nostra Chiesa tanto amata) a fondere e confondere la Religione con il Vangelo. Anzi, ciò è stato fatto (e continua ad essere fatto) in modo tale che il Vangelo è diventato più o meno un atto o una componente della Religione. Di più, è successo (e continua ad accadere) che nella Chiesa la Religione è più presente del Vangelo. Ecco perché (per fare un esempio) le persone che vanno a messa pensano e dicono che stanno andando ad un “atto religioso”. Cioè, un atto della Religione che dedica alcuni minuti alla lettura (o all’ascolto) del Vangelo ed alla successiva spiegazione, se il prete fa l’omelia.

E cosa ha di problematico tutto questo? Beh, qualcosa di così ovvio e sconvolgente. Tutto consiste nel fatto che, se leggiamo attentamente i quattro vangeli canonici (Mc, Mt, Lc, Gv), emerge con chiarezza che la Religione ed i suoi capi si sono scontrati con Gesù e il suo Vangelo. Quindi, se c’è qualcosa di indiscutibile, è il fatto che la Religione ha ucciso Gesù.

In realtà, il Vangelo è costituito da una raccolta di racconti, tra i quali spicca lo scontro di Gesù e del suo Vangelo con la Religione ed i suoi capi. Uno scontro sempre in crescendo. Fino al momento in cui i capi della Religione (sacerdoti, dottori della legge…), quando si sono resi conto che il Vangelo di Gesù attirava le persone più della Religione dei sacerdoti, hanno chiaramente compreso che Religione e Vangelo sono incompatibili. Il racconto più chiaro è il capitolo 11 del vangelo di Giovanni: quando Gesù ha riportato in vita Lazzaro, questo fatto ha prodotto una tale e tanta impressione che il Sinedrio si è riunito urgentemente e i capi della Religione hanno capito che dovevano uccidere Gesù (Gv 11,53).

Perché si è verificato (e continua a verificarsi) questo scontro tra la Religione ed il Vangelo? Perché la Religione mette al centro il soggetto, ciò di cui lo stesso soggetto religioso ha bisogno o che desidera (il benessere, la sicurezza, il potere, la propria salvezza…). Al contrario, il Vangelo mette al centro gli altri, ciò di cui gli altri hanno bisogno (salute, cibo, dignità, rispetto, affetto…). Sono due dinamismi opposti: ciò che è primordiale è “sé stesso” (Religione); ciò che è primordiale è “l’altro” o gli altri, e tanto più quanto più bisognosi sono gli altri (Vangelo).

Ebbene, il grande errore commesso dalla Chiesa è stato quello di fondere e confondere due realtà contrapposte. Ma ha unito queste due realtà dando più importanza e più presenza alla Religione che al Vangelo. Per questo – di fatto – nella Chiesa si vede e si avverte in modo più palpabile la presenza della Religione che la presenza del Vangelo. Per fare un esempio: perché la Chiesa ha un dicastero per la dottrina della fede (Sant’Uffizio) e non un altro dicastero per la sequela di Gesù?

Capisco che tutto questo necessiti di una spiegazione più ampia, molto più ampia. Ma, con quanto ho appena delineato, si può cominciare a capire cosa sia e in cosa consista “la genialità di papa Francesco”. Non so se padre Bergoglio “ci abbia pensato”. Ma nella vita ciò che conta non è “ciò che si pensa”, ma “ciò che si fa”. E mi sembra (e credo si avverta in maniera palpabile) che per papa Francesco quello che è decisivo non è la Religione, ma il Vangelo. Ecco perché papa Francesco non entusiasma i teologi “di mestiere”. Ma entusiasma chi ha bisogno di “rispetto e affetto”.
di José Matia Castillo – Adista

La storia. Corpus Domini: cosa significa, cosa si celebra

Originariamente in calendario il giovedì che segue la prima domenica dopo Pentecoste, lo si celebra prevalentemente la domenica successiva. Il 3 giugno il Papa a Ostia.
Papa Francesco durante il rito del Corpus Domini.

Papa Francesco durante il rito del Corpus Domini.

Avvenire

Una festa di popolo

Il Corpus Domini (Corpo del Signore), è sicuramente una delle solennità più sentite a livello popolare. Vuoi per il suo significato, che richiama la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, vuoi per lo stile della celebrazione. Pressoché in tutte le diocesi infatti, si accompagna a processioni, rappresentazione visiva di Gesù che percorre le strade dell’uomo.

Le origini nel Medio Evo, in Belgio

La storia delle origini ci portano nel XIII secolo, in Belgio, per la precisione a Liegi. Qui il vescovo assecondò la richiesta di una religiosa che voleva celebrare il Sacramento del corpo e sangue di Cristo al di fuori della Settimana Santa. Più precisamente le radici della festa vanno ricercate nella Gallia belgica e nelle rivelazioni della beata Giuliana di Retìne. Quest’ultima, priora nel Monastero di Monte Cornelio presso Liegi, nel 1208 ebbe una visione mistica in cui una candida luna si presentava in ombra da un lato. Un’immagine che rappresentava la Chiesa del suo tempo, che ancora mancava di una solennità in onore del Santissimo Sacramento. Fu così che il direttore spirituale della beata, il canonico Giovanni di Lausanne, supportato dal giudizio positivo di numerosi teologi presentò al vescovo la richiesta di introdurre una festa diocesi in onore del Corpus Domini. Il via libera arrivò nel 1246 con la data della festa fissata per il giovedì dopo l’ottava della Trinità.

Papa Urbano IV e il miracolo eucaristico di Bolsena

L’estensione della solennità a tutta la Chiesa però va fatta risalire a papa Urbano IV, con la bolla Transiturus dell’11 agosto 1264. È dell’anno precedente invece il miracolo eucaristico di Bolsena, nel Viterbese. Qui un sacerdote boemo, in pellegrinaggio verso Roma, mentre celebrava Messa, allo spezzare l’Ostia consacrata, fu attraversato dal dubbio della presenza reale di Cristo. In risposta alle sue perplessità, dall’Ostia uscirono allora alcune gocce di sangue che macchiarono il bianco corporale di lino (conservato nel Duomo di Orvieto) e alcune pietre dell’altare ancora oggi custodite nella basilica di Santa Cristina. Nell’estendere la solennità a tutta la Chiesa cattolica, Urbano IV scelse come collocazione il giovedì successivo alla prima domenica dopo Pentecoste (60 giorni dopo Pasqua).

L’inno scritto da san Tommaso d’Aquino

Papa Urbano IV incaricò il teologo domenicano Tommaso d’Aquino di comporre l’officio della solennità e della Messa del Corpus et Sanguis Domini. In quel tempo, era il 1264, san Tommaso risiedeva, come il Pontefice, sull’etrusca città rupestre di Orvieto nel convento di San Domenico (che, tra l’altro, fu il primo ad essere dedicato al santo iberico). Il Doctor Angelicus insegnava teologia nello studium (l’università dell’epoca) orvietano e ancora oggi presso San Domenico si conserva ancora la cattedra dell’Aquinate e il Crocifisso ligneo che gli parlò. Tradizione vuole infatti che proprio per la profondità e completezza teologica dell’officio composto per il Corpus Domini, Gesù – attraverso quel Crocifisso – abbia detto al suo prediletto teologo: “Bene scripsisti de me, Thoma”. L’inno principale del Corpus Domini, cantato nella processione e nei Vespri, è il “Pange lingua” scritto e pensato da Tommaso d’Aquino.

In numerosi Paesi, tra cui dal 1977 l’Italia, la celebrazione è stata tuttavia spostata alla domenica successiva. In molte Chiese locali però, tra cui obbligatoriamente a Milano, anche alla luce della recente riforma del calendario ambrosiano, la data è rimasta invariata così che la celebrazione e la processione eucaristica, rimane al giovedì. Così anche a Roma fino all’anno scorso quando il Papa ha deciso di spostare alla domenica la processione del Corpus Domini. In particolare quest’anno Francesco celebrerà il Corpus Domini a Ostia. Il 3 giugno infatti alle 18 il Pontefice presiederà l’Eucaristia nella piazza antistante la parrocchia di Santa Monica dalla quale partirà la processione che giungerà nel piazzale vicino alla chiesa di Nostra Signora di Bonaria dove il Pontefice impartirà la benedizione ai fedeli. Si interrompe così una tradizione che da oltre quarant’anni prevedeva il rito a San Giovanni in Laterano. Al tempo stesso Bergoglio, ripercorrendo i passi di Paolo VI che proprio a Ostia nel 1968 guidò la processione del Corpus Domini, sottolinea la centralità delle periferie, fisiche e esistenziali, nel suo pontificato

Uno dei siti più violenti e virali della galassia anti-bergogliana è Gloria TV

Fondamentalisti. Secondo don Ray, direttore di Gloria TV, i povero vengono dopo il proprio egoismo
Il 21 Aprile 2020 #Report è arrivata in anticipo, alle 21.10 su Rai3
Gloria TV è uno dei siti più violenti e virali della galassia anti-bergogliana. Funziona come un social network e tutti i giorni pubblica vignette contro il Pontefice. La redazione ha sede in un piccolo paese del cantone tedesco della Svizzera. Fuori c’è l’insegna, ma dentro la stanza sembra vuota. In Italia hanno ricevuto diverse denunce ma i loro server sono registrati in Moldavia

 

Il Papa: i ricatti reciproci dei potenti coprono il grido di pace dei poveri

Profughi ucraini

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri, Francesco torna a stigmatizzare la “sciagura” della guerra in Ucraina: “Una ‘superpotenza’ intende imporre la sua volontà contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli”. L’appello: “Davanti ai poveri non si fa retorica, ci si rimbocca le maniche”. Il monito contro il denaro: il troppo attaccamento offusca lo sguardo

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Poveri ed “impoveriti” dalla “tempesta” della pandemia, indigenti, profughi e sfollati a causa della guerra in Ucraina, dove “il diretto intervento di una ‘superpotenza’” intende “imporre la sua volontà contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli”. È a tutti costoro che Papa Francesco dedica il Messaggio per la VI Giornata Mondiale dei Poveri, che si celebra il 13 novembre. Un lungo documento nel quale il Papa stigmatizza sin dalle prime righe una delle principali cause di povertà del nostro tempo: la guerra. Una “sciagura”, scrive, che si è affacciata all’orizzonte poco dopo che si era aperto “uno squarcio di sereno” dopo la pandemia. Una tragedia “destinata ad imporre al mondo uno scenario diverso”.

I ricatti dei potenti e la voce dell’umanità

Il conflitto in corso ormai da oltre cento giorni, afferma il Pontefice, è andato “ad aggiungersi alle guerre regionali che in questi anni stanno mietendo morte e distruzione”, ma “il quadro si presenta più complesso”.

Si ripetono scene di tragica memoria e ancora una volta i ricatti reciproci di alcuni potenti coprono la voce dell’umanità che invoca la pace.

Colpiti i deboli e indifesi

“Quanti poveri genera l’insensatezza della guerra!”, esclama Francesco. “Dovunque si volga lo sguardo, si constata come la violenza colpisca le persone indifese e più deboli. Deportazione di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, per sradicarle e imporre loro un’altra identità”.

Sono milioni le donne, i bambini, gli anziani costretti a sfidare il pericolo delle bombe pur di mettersi in salvo cercando rifugio come profughi nei Paesi confinanti. Quanti poi rimangono nelle zone di conflitto, ogni giorno convivono con la paura e la mancanza di cibo, acqua, cure mediche e soprattutto degli affetti

Fatica nei soccorsi

In questi frangenti, “la ragione si oscura e chi ne subisce le conseguenze sono tante persone comuni, che vengono ad aggiungersi al già elevato numero di indigenti”. Non solo: “Più si protrae il conflitto, più si aggravano le conseguenze”, osserva il Papa. Lo slancio, quindi, di “intere popolazioni” che in questi anni hanno aperto le porte per accogliere milioni di profughi da Medio Oriente, Africa e ora Ucraina, come pure l’altruistismo di tante famiglie che “hanno spalancato le loro case per fare spazio ad altre famiglie”, si trova a collidere con la durezza di una realtà fuori controllo:

I popoli che accolgono fanno sempre più fatica a dare continuità al soccorso; le famiglie e le comunità iniziano a sentire il peso di una situazione che va oltre l’emergenza

Tuttavia adesso è “il momento di non cedere e di rinnovare la motivazione iniziale”, incoraggia Francesco, “ciò che abbiamo iniziato ha bisogno di essere portato a compimento con la stessa responsabilità”. La solidarietà è proprio questo: “Condividere il poco che abbiamo con quanti non hanno nulla, perché nessuno soffra. Più cresce il senso della comunità e della comunione come stile di vita e maggiormente si sviluppa la solidarietà”.

Non retorica, ma pratica

Inoltre, scrive il Papa, bisogna considerare che ci sono Paesi dove, in questi decenni, si è attuata una crescita di benessere significativo per tante famiglie che hanno raggiunto uno stato di vita sicuro: “Come membri della società civile, manteniamo vivo il richiamo ai valori di libertà, responsabilità, fratellanza e solidarietà. E come cristiani, ritroviamo sempre nella carità, nella fede e nella speranza il fondamento del nostro essere e del nostro agire”. “Agire” è infatti, per il Pontefice, la parola chiave:

Davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno

Cattivo uso del denaro

A volte, invece, sembra subentrare “una forma di rilassatezza, che porta ad assumere comportamenti non coerenti, quale è l’indifferenza nei confronti dei poveri”. Succede “che alcuni cristiani, per un eccessivo attaccamento al denaro, restino impantanati nel cattivo uso dei beni e del patrimonio. Sono situazioni che manifestano una fede debole e una speranza fiacca e miope”, annota il Papa.

Non è il problema del denaro in sé, che fa parte della vita quotidiana delle persone e dei rapporti sociali, bensì il valore che esso possiede per noi:

Un simile attaccamento impedisce di guardare con realismo alla vita di tutti i giorni e offusca lo sguardo, impedendo di vedere le esigenze degli altri. Nulla di più nocivo potrebbe accadere a un cristiano e a una comunità dell’essere abbagliati dall’idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare

Non è l’attivismo che salva

Quindi, chiosa Francesco, non si tratta di avere verso i poveri “un comportamento assistenzialistico”.

Non è l’attivismo che salva, ma l’attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto

Nuove politiche sociali

Il Papa rinnova l’invito “urgente” a trovare “nuove strade che possano andare oltre l’impostazione di quelle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli”.

C’è un paradosso che oggi come nel passato è difficile da accettare, perché si scontra con la logica umana: c’è una povertà che rende ricchi… L’esperienza di debolezza e del limite che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice

La povertà che uccide

Gesù stesso mostra che c’è “una povertà che umilia e uccide”, e c’è “un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni”. La povertà che uccide è “la miseria, figlia dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse. È la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d’uscita”.

Quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento

La povertà che libera

La povertà che libera, al contrario, è “quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull’essenziale”. “Incontrare i poveri – afferma il Pontefice – permette di mettere fine a tante ansie e paure inconsistenti, per approdare a ciò che veramente conta nella vita e che nessuno può rubarci: l’amore vero e gratuito”. I poveri, dunque, “prima di essere oggetto della nostra elemosina, sono soggetti che aiutano a liberarci dai lacci dell’inquietudine e della superficialità”.

Vatican News

L’ultima trincea di Papa Francesco

Mentre il mondo pensa alle sue dimissioni, Bergoglio rivolta la curia e il futuro Conclave. Con un unico obiettivo: evitare che si torni indietro

A Pentecoste è entrata in vigore la costituzione “Praedicate Evangelium”, che ridefinisce dopo trent’anni la struttura della curia romana. Un lavoro durato otto anni

Tratto da Il Foglio >>> https://www.ilfoglio.it/chiesa/2022/06/11/news/l-ultima-trincea-di-papa-francesco-4092146/