Anniversario. Kant: tre secoli sull’abisso della filosofia

Il 22 aprile del 1724 nasceva il filosofo di Königsberg. Un ospite scomodo e oggi purtroppo inascoltato: basti pensare alla riflessione sulla pace dal forte tono evangelico
Un ritratto (1790 circa) del filosofo Immanuel Kant

Un ritratto (1790 circa) del filosofo Immanuel Kant – archivio

La “rivoluzione copernicana” che Immanuel Kant (di cui il 22 aprile ricordiamo i trecento anni dalla nascita) intendeva attuare col suo progetto speculativo non poteva non interpellare la teologia e sollecitarla in rapporto alle grandi tematiche che il filosofo di Königsberg ha affrontato nelle tre critiche e nelle opere di filosofia della religione. In realtà, Kant è un ospite scomodo per il pensiero cattolico e per la teologia

in particolare, tanto che l’apologetica neoscolastica ebbe a coniare la formula del “venenum kantianum”, dal quale cercava di tenere lontane le giovani menti di quanti venivano introdotti agli studi teologici.

La stessa apologetica si incaricava altresì di annoverare fra i pensatori poco affidabili, se non addirittura nocivi, colui che Bertrando Spaventa prima e la critica neoidealista poi avevano denominato il “Kant italiano”: il beato Antonio Rosmini. Questi in età giovanile, aveva letto le opere kantiane in una edizione latina (Lipsia 1816) e sul frontespizio aveva scritto di suo pugno la lapidaria espressione “vorago orribilis!”.

Prudenza speculativa suggerirebbe di tenersi a distanza dalla voragine kantiana, invece quanti, a partire dal Roveretano, l’hanno affrontata non senza spirito critico, ma anche senza pregiudiziali aprioristiche, insegnano a noi tutti che tale incontro può, a lungo andare, risultare catartico per il pensiero credente e la stessa teologia. Allorché, infatti, si riemerge dall’abisso, innanzitutto si può scoprire un pensatore molto diverso da quello che la manualistica apologetica tende, ancora oggi a proporre. Colui che ha indicato nell’illuminismo un processo attraverso il quale il mondo e l’uomo raggiungono lo stato adulto, aveva, in diverse occasioni, pensato i limiti della pura ragione persino in rapporto alla conoscenza della natura delle cose (= noumeno) e, quanto al problema dell’esistenza di Dio, si era fatto carico di smascherare i “paralogismi” caratterizzanti i diversi tentativi di dimostrazione, finendo con l’assumere una sorta di prospettiva apofatica, non lontana da quanto Tommaso d’Aquino, nel famoso quaresimale del 1273 aveva segnalato, dicendo: «La nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare fino in fondo la natura di una semplice mosca».

Certo tale apofatismo non potrà essere condiviso da esponenti del neotomismo che si incaricarono di contrastare i tentativi, peraltro proficui, di adottare il metodo trascendentale in teologia messi in atto, ad esempio, da Joseph Maréchal (contro cui si scagliò Réginald Garrigou-Lagrange) e da Karl Rahner (contro la cui “svolta antropologica” lanciò i suoi strali Cornelio Fabro). Eppure, il tentativo di padre Maréchal di pensare un “tomismo trascendentale”, capace di attualizzare il pensiero dell’Aquinate, proprio nel confronto con quello kantiano ha certamente avuto il grande merito di rivitalizzare la lezione tommasiana. I cinque cahiers, sul punto di partenza della metafisica, editi a Bruges-Lovanio fra il 1922 e il 1947 costituiscono il grembo da cui muovono il modello antropologico-trascendentale di Karl Rahner e quello metodologico-trascendentale di Bernard Lonergan. Rimaniamo così nell’ambito della Compagnia di Gesù e dei grandi teologi che l’ordine ignaziano ha consegnato al Novecento.

Le grandi questioni attraverso cui orientarsi nel pensiero kantiano: che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Chi è l’uomo? entrano a pieno titolo nel sapere teologico e contribuiscono ad aprirlo alla modernità, pur nella consapevolezza delle sue criticità. Un aspetto particolarmente intrigante della riflessione di Kant riguarda il terribile problema del male radicale e del suo senso. Da tale questione prende le mosse La religione nei limiti della semplice ragione (1793-94), preceduta dal testo Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791). il Kant che da un lato si misura con il tentativo leibniziano e dall’altro con la tragedia del sisma di Lisbona, che aveva suggerito l’irridente satira voltairiana verso il migliore dei mondi possibili, imposta non soltanto la propria riflessione sulla teodicea, ma oseremmo dire la propria “filosofia della religione” a partire dal “male radicale”, sviluppandola nei termini dell’antagonismo con il principio del bene, la cui vittoria non solo auspica, ma ritiene possibile, per il tramite dell’impegno morale dell’uomo.

Affermando l’impossibilità di ogni teodicea razionale (o dottrinale), Kant rimanda di fatto alla necessità di postularne almeno i principi, allorché il discorso si sposta dal piano puramente teoretico della ragion pura a quello dell’etica e quindi della ragion pratica. Ritenere, il divieto kantiano, interpretandolo nei termini scettici di una radicale chiusura al soprannaturale e alla trascendenza, aprirebbe le porte al nichilismo, ossia farebbe sì che l’itinerario filosofico del pensatore tedesco si affacci su quella orribile voragine, che il Roveretano aveva intravisto, e che – secondo un suggestivo passaggio heideggeriano – Kant stesso avrebbe percepito, ritraendosi inorridito dal compiere l’ultimo passo cui l’avrebbe condotto l’esercizio dell’immaginazione trascendentale: l’abisso del nulla e del non senso nel quale rischia di soccombere (e del quale oggi spesso si nutre) ogni pensiero che non tenga conto, oltre che delle proprie immense potenzialità, anche dei propri limiti o confini.

Ecco come Kant esprime l’invalicabilità del limite: «[…] solo colui che si spinge sino alla conoscenza del mondo soprasensibile (intelligibile) e a capire il modo in cui sta a fondamento del mondo sensibile, giunge però a comprenderla. Solo su questa conoscenza si può fondare la prova della saggezza morale del Creatore nel mondo sensibile, poiché quest’ultimo ci presenta soltanto l’apparenza di quello soprasensibile: ma ad essa nessun mortale può giungere ». Sarà necessario il “salto” della fede perché sia superato il fossato orrendo e ci raggiunga la comprensione del senso del dolore innocente, di cui Giobbe, con la sua teodicea apofatica, è figura emblematica e decisiva (per Kant). «Giobbe parla come pensa e secondo i sentimenti che prova e che ogni altro uomo al suo posto proverebbe. I suoi amici invece parlano come se segretamente fossero uditi da quell’Onnipotente, la cui causa essi giudicano, e come se stesse loro a cuore più il ricevere il favore di Dio per il loro giudizio che non la verità. Questa loro perfidia, di affermare solo per l’apparenza cose che essi debbono confessare che non hanno comprese e di simulare una convinzione che non hanno, urta contro la franchezza di Giobbe così lontana dall’adulazione, che sebbene sia al limite dell’arroganza, finisce con il tornare a suo vantaggio.

Egli dice: «Volete forse difendere Dio ingiustamente? Volete far parzialità per Lui? Volete parlare per Lui? Egli vi punirà se in segreto farete parzialità! Nessun ipocrita verrà al suo cospetto! ». La conclusione della storia conferma effettivamente queste ultime parole. Infatti, Dio apprezza Giobbe e gli pone di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile ». Torniamo così alla prospettiva apofatica del pensiero kantiano. Certo non sappiamo se e quanto i modelli teologici sopra evocati e che Kant ha senz’altro ispirato possano reggere, data la loro tendenza all’antropocentrismo, all’impatto con l’antropocene oggi dominante. Di qui l’inattualità del pensiero kantiano che si mostra altresì a partire dall’inascoltato testo Per la pace perpetua (1795), di cui invece avremmo dovuto fare tesoro e a cui la teologia, che si arrampica sugli specchi per giustificare i conflitti armati, dovrebbe guardare: «Gli eserciti permanenti ( miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto» e «Non devono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato»: ideali più che teologici, che oserei chiamare semplicemente evangelici, oltre che razionali.

avvenire.it

Lunedì dello spirito. Invece di spettegolare, prova a pregare

È facile cadere nella tentazione di parlare male degli altri, specie quando pensiamo di aver subito un torto. I maestri dello spirito ci guidano su un’altra via. Ma com’è difficile frenare la lingua
Una parola detta male può rovinare un'amicizia

Una parola detta male può rovinare un’amicizia – ICP

Il tradimento che più ci fa soffrire è quello dell’amico. Scoprire che la nostra fiducia era mal riposta ci lascia dentro ferite difficili da far rimarginare. Ma vale anche il discorso opposto: noi che amici siamo? Fra Ignacio Larrañaga (1928-2013) sacerdote francescano nato in Spagna ma vissuto a lungo in America Latina, noto per la proposta dei cosiddetti “Incontri di esperienza di Dio” ed originali “Scuole di preghiere” ci insegna a chiedere il dono della benevolenza, allontanando il chiacchiericcio e il pettegolezzo:

«Signore Gesù, metti un lucchetto alla porta del nostro cuore, per non pensar male di nessuno, per non giudicare prima del tempo, per non sentir male, per non supporre, né interpretar male, per non profanare il santuario sacro delle intenzioni.
Signore Gesù, legame unificante della nostra comunità, metti un sigillo alla nostra bocca per chiudere il passo ad ogni mormorazione o commento sfavorevole.
Dacci di custodire fino alla sepoltura, le confidenze che riceviamo o le irregolarità che vediamo, sapendo che il primo e concreto modo di amare è custodire il silenzio.
Semina nelle nostre viscere fibre di delicatezza. Dacci uno spirito di profonda cortesia, per riverirci l’uno con l’altro, come avremmo fatto con te.
Signore Gesù Cristo, dacci la grazia di rispettarci sempre.
Così sia».

avvenire.it

Prodi. «Il centrosinistra parta dai contenuti. Un’etica profonda per l’Europa»

Intervista al fondatore dell’Ulivo ed ex presidente della Commissione Ue: «Temo per le guerre. L’Unione fondata da tre cattolici. Trump? Un elefante»
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undefined – IMAGOECONOMICA

Di questi tempi, fra guerre sempre più laceranti, e frizioni che non mancano mai nella politica nostrana, Romano Prodi ha quasi un solo motivo di consolazione: i successi calcistici del suo Bologna. «Mi sta facendo gioire come per la vittoria dell’Ulivo», dice al telefono dalla sua casa di via Gerusalemme. Il tempo di un sorriso, poi l’attualità incalza nel dialogo con il fondatore dell’Ulivo, ex premier e presidente della Commissione Europea.

Partiamo dal Pd: Elly Schlein ha rinunciato a mettere il nome nel simbolo. Bene così?

Io non ho affatto toccato questo tasto perché il problema è interno al partito: occorreva riflettere se il nome nel simbolo poteva essere o no un fattore più inclusivo, se evidenziare una storia personale o un fatto politico collettivo. Sarebbe stata una scelta che ritenevo dubbia, ma non ho espresso pareri perché questa scelta è priva di quella valenza etica che hanno invece le candidature plurime di leader che poi non andranno a Bruxelles, al Parlamento Europeo.

Per le candidature dei leader non è eccessivo aver parlato di «ferita alla democrazia»?

No. Perché l’elettore ha il diritto che il suo voto conti e che sia eletto davvero colui a cui accorda la preferenza. Altrimenti è un inganno, che alimenta la disaffezione al voto e l’astensionismo, ormai elevatissimo. È anche così che s’indebolisce la democrazia. Va però detto che mentre a destra sembra quasi naturale che Meloni e Tajani si candidino e tutti applaudono, nel centrosinistra almeno è positivo che si sia aperta una discussione sul punto.

La campagna per le Europee sarà una personalizzazione Schlein contro Meloni?

Questa campagna elettorale si sta palesando purtroppo come una campagna interna italiana. C’è sempre tempo per redimersi, ma la tendenza è questa. Non vedo nei partiti italiani la volontà di mettere al centro un programma europeo meditato, spero che avvenga in questi 50 giorni.

Ha sempre detto che il centrosinistra vince se si unisce e che Conte deve decidere da che parte stare. Ne è un’altra prova la Basilicata, dove c’è stato pure un tonfo di M5s?

I fatti dicono questo. Quanto ai 5 stelle, sono un partito che è nato e ha avuto successo sull’onda di un’emozione, quella di dare una spallata alla cosiddetta politica della “casta”. Oggi, però, di emozioni ne abbiamo anche troppe. Dinnanzi a quel che succede nel mondo, servono al contrario delle rassicurazioni, rispetto a una politica che salvi la sanità, che rimetta al centro la scuola, il problema della casa e del lavoro, che operi per un fisco più equo. Io noto che quando c’è da costruire, da pensare in positivo il Movimento non c’è, ancora latita, diventa forza evanescente. Se il Pd ha dei problemi oggi, M5s ne ha dieci volte di più. Se avessero buon senso, i leader del centrosinistra costituirebbero una comune squadra di lavoro che analizzi i problemi che riguardano tutti i cittadini. Ma non lo si fa.

Non è che per costruire l’alternativa al centrodestra serve anche una figura terza, come fu lei ai tempi dell’Ulivo?

Il problema è così complicato che ci vorrebbe una figura quarta, più che terza… Va detto che anche Calenda e Renzi ci mettono del loro: se una volta guardano a destra e un’altra a sinistra, questo non aiuta la composizione del quadro. Con l’Ulivo si cominciò a lavorare dal programma, nel 2006 fummo anche accusati di averlo fatto troppo lungo. D’altronde i partiti riformisti vivono sulle riforme, che vanno discusse prima. Se non c’è un processo di avvicinamento sui temi, le distanze alla fine restano.

Non c’è anche un problema generale di leadership, di Schlein e Conte?

Io registro solo che finora nessuno è riuscito ad avviare il percorso dei contenuti. Mi colpisce che un programma comune non sia stato neanche messo all’ordine del giorno. La gente attende un anno per un esame medico, nelle città non si trova casa e le persone soffrono per queste cose. Peraltro, sarebbe anche più facile farlo per il centrosinistra, dove ci sono meno legami con le categorie che hanno particolari interessi da tutelare.

Veniamo al caso Scurati, bloccato dalla Rai: rischiamo davvero un nuovo regime o c’è un eccesso di allarmi?

Intendiamoci: l’allarme serve a stare svegli, è la sua funzione. Scurati, poi, non è mica l’ultimo arrivato: il suo testo è perfetto anche se ovviamente qualcuno non riesce a condividerlo, ma non ha nulla di censurabile. C’è da stare preoccupati che abbia creato tutto questo scompiglio in Rai.

È stato un errore cancellarlo?

Ma gli errori non vengono mai per caso. Delle due l’una: o è stato un ordine dall’alto – cosa che non credo – o in quell’azienda è maturata un’attitudine più spiccata all’obbedienza. E questo mi preoccupa molto perché apre spazi a una dialettica impari. Insomma, è stato un evento gravido di pericoli.

Nella prossima Commissione Ue vede ancora un futuro per Ursula von der Leyen alla presidenza? E come valuta l’ipotesi Draghi?

Non faccio previsioni sui nomi. Penso che dalle urne verrà fuori comunque una maggioranza non troppo dissimile dall’attuale. Più che la guida, occorrerà lavorare sulla priorità che è una soltanto: costruire sempre più l’Europa, smettendola col diritto di veto affinché sia sempre più democratica. Occorre lavorare per una politica estera e di difesa comuni, capitoli essenziali anche per costruire quella capacità di mediazione che oggi manca all’Europa.

Eccoci alle due guerre. Non si registrano passi avanti verso una soluzione.

Sì, restano situazioni terribili. Continuo purtroppo a pensare che fino a dopo le elezioni Usa non si vedranno vie d’uscita. La politica estera è sempre frutto anche della politica interna e se poi arriva un elefante…

Si riferisce a Donald Trump?

Vedo che continua a dire, non si sa con quali argomenti, che lui farà la pace in Ucraina. Il conflitto a Gaza è poi, in particolare, un problema serissimo per l’amministrazione Usa. L’America gioca con un doppio pedale: critica Netanyahu e vota contro la nascita dello Stato palestinese. E peraltro nessuno si pone il problema di cosa può succedere dopo Netanyahu, che non è nemmeno classificabile come l’estrema destra in Israele. La società americana si trova divisa da tensioni nuove: i ragazzi delle università manifestano pro Palestina e i genitori degli studenti ebrei minacciano di ritirare i figli dalle stesse università. Il presidente Biden si trova attaccato da due mondi tradizionalmente vicini ai democratici: questo genera una politica estera ancora più oscillante. Così come mi preoccupa che le democrazie si trovino oggi in una situazione più complicata rispetto ai governi autoritari davanti a queste grandi questioni: come sapremo uscirne?

Il 9 maggio, giornata dell’Ue, sarà pubblicata una “Lettera sull’Europa” firmata congiuntamente dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e da monsignor Mariano Crociata, presidente della Comece, l’organismo che raccoglie gli episcopati dell’Unione. Quale contributo si aspetta?

Non sono un cardinale e non so cosa scriveranno, però il loro compito è facilitato dal pensiero che l’Europa è stata creata da tre cattolici che più cattolici non si può: non solo De Gasperi, ma anche Schuman e Adenauer, tutti animati da un’etica comune. L’Europa è nata dal profondo richiamo alla pace che veniva soprattutto dal mondo cattolico. C’era una comunanza di pensiero, che è la stessa che ho poi ritrovato ad esempio nei miei primi colloqui con Helmut Kohl, quando ci ritrovammo, nonostante le diverse appartenenze politiche, a riflettere sulle comuni letture fatte di Romano Guardini, filosofo che sapeva cogliere i legami della vita spirituale con la realtà quotidiana. Essere il lievito nella società è essenziale in questa fase di sbandamento ideologico. E i vescovi possono interpretare al meglio questa missione.

avvenire.it

Il patriarca di Gerusalemme: «Costruire la pace partendo dai popoli»

Il cardinale richiama alla responsabilità internazionale e al ruolo delle comunità locali. Il porporato si era anche offerto in ostaggio in cambio della liberazione dei bambini israeliani
Il cardinale Pizzaballa

Il cardinale Pizzaballa – foto Marco Calvarese

I caccia che fanno rotta sulla “confrontation line” tra Israele e Libano, attraversano il cielo di una Gerusalemme che la guerra sta inesorabilmente cambiando. Le minacce da Nord, gli scontri in Cisgiordania, la campagna militare a Gaza. E’ il tempo del tutti contro tutti. Pochi sembrano guardare al presente tenendo conto di quali ricadute avrà sulle generazioni future.

Incontriamo nella Città Vecchia il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Il Patriarca di Gerusalemme si concede alle domande di “Avvenire” e “Osservatore Romano”. Una intervista lunga, in equilibrio tra le emozioni e la razionalità che sono richieste ai leader nei momenti peggiori. Merce rara, da queste parti. E’ il giorno di guerra numero 200 quando nella sede del Patriarcato Latino il porporato ci riceve insieme a Roberto Cetera, l’inviato dell’ “Osservatore” in Terra Santa. Dalle finestre nella penombra del pomeriggio si osservano minareti, campanili, il “Muro del Pianto” caro agli ebrei. E le strade nascoste tutte in salita della Via Crucis.

«Vivo in questa che oramai è la mia terra da 34 anni. Ne abbiamo viste: guerre, intifade, scontri. Ma non ho dubbi: stiamo affrontando la prova più difficile. L’incertezza è quanto durerà ancora la guerra, e cosa succederà dopo, perché una cosa è sicura: nulla sarà più come prima». Il cardinale Pierbattista Pizzaballa si era anche offerto ad Hamas perché lo prendessero in ostaggio in cambio della liberazione dei bambini israeliani. Un gesto che nessuno ha dimenticato

La guerra cosa sta già cambiando?

Non penso solo alla politica. La guerra ci cambierà tutti. Per metabolizzarla ci vorranno tempi lunghi, che tuttavia qui sono l’ordinario. E la pazienza, nel bene e nel male, qui non manca mai. Altrimenti non si spiegherebbe una guerra che in varie forme dura comunque da 76 anni.

Gaza, le tensioni in Cisgiordania, l’intero quadrante Mediorientale in subbuglio, quante possibilità ha il dialogo?

È difficile e soprattutto faticoso. Il dolore tende spesso ad essere egoistico: “È il mio dolore che tu non puoi capire, è il mio dolore che comunque è sempre superiore al tuo”. La fatica allora consiste nel facilitare questo confronto inducendo ognuno a riconoscere il dolore dell’altro. Non lo dico per “buonismo” cristiano, ma perché non vedo alternative: si può uscire da questo dramma in un altro modo?

Perché ogni processo di pace, anche quando costruito dai leader, alla fine si infrange?

In questa terra nel passato qualcuno più coraggioso ha tentato la strada politica della pace. Ma sono sempre stati tentativi dall’alto verso il basso: accordi, negoziati, compromessi. Tutti miseramente falliti. Pensiamo agli accordi di Oslo, per esempio. È il momento di invertire la direzione e avviare un percorso dal basso verso l’alto. Ripeto: sarà faticoso ma non vedo altra strada.

Queste considerazioni ribaltano la lettura che si fa anche in Occidente?

Certamente. Perché fuori da questa terra si offre prevalentemente una lettura tutta polarizzante. Oltre che dannoso, è sciocco. Le ragioni del conflitto sono molto complesse, stratificate nei decenni. Anche in Occidente c’è bisogno di parlarsi, confrontarsi, documentarsi. Oltre ovviamente a pregare insistentemente per la pace.

Si dice che il Patriarca svolga anche una funzione di “relazione con e tra le istituzioni delle due parti”. In cosa consiste?

La Chiesa non svolge un ruolo di mediazione, non è nelle sue funzioni e competenze. La Chiesa può essere di “facilitazione”: facilitare il dialogo e il riconoscimento reciproco. E questo noi lo svolgiamo innanzitutto nella società, e tra le istituzioni in quanto espressioni delle società.

Quali notizie riceve dai rifugiati nella parrocchia di Gaza?

Lunedì sono arrivati due container carichi di cibo e finalmente nella parrocchia possono mangiare qualcosa di più sostanzioso. La situazione rimane difficile per l’equilibrio psicologico, che ovviamente vacilla dopo sei mesi di cattività nei locali della chiesa. Ma tutti loro sono coinvolti in un qualche lavoro per il bene di tutta la comunità, e questo è importante perché così sono distolti dal pensiero fisso sul loro stato attuale, dai pericoli che corrono, e dal ricordo di quelli che non ce l’hanno fatta. Che non sono solo quelli morti ammazzati da bombe e fucili, ma anche quanti non sono sopravvissuti alla mancanza di medicinali e cure.

Lei continua a viaggiare per la Terra Santa. Cosa chiede la gente che incontra?

Sono appena tornato dalla Galilea, da una visita pastorale a Jaffa di Nazareth, dove ho voluto incontrare anche i capi locali delle altre religioni. Ascoltare le loro ragioni non significa necessariamente condividerle. Ma è molto importante, perché se la gente vede che i leader tra di loro si parlano, è portata a fare lo stesso e a vincere le diffidenze. Oggi più che mai la prima forma di carità qui è l’ascolto.

Le religioni non di rado sono però adoperate come arma per perpetuare i contrasti.

È cominciata Pesach (la Pasqua ebraica, ndr), e da poco è terminato il Ramadan: le feste religiose sono un’occasione importante per riconoscersi e per dialogare. Non c’è bisogno di grandi discorsi: insieme consumare un pasto, bere qualcosa, per abbattere i muri che ci separano. Una cena insieme può fare più di un convegno o di un documento sul dialogo interreligioso.

Qui i cristiani sono circa il 3%. Ma le parole del Papa, del Patriarca, del Custode suscitano sempre interesse, anche critiche, ma in generale attenzione sia in Israele che in Palestina.

È vero. Io c’entro poco. Forse proprio il fatto di essere una piccola minoranza che non è arruolabile de facto in nessuno schieramento, ci consegna questo peso specifico superiore alle percentuali. E conta il nostro schierarci sempre e comunque con chi soffre, che fa breccia tra tutti quelli – e sono la maggioranza – che indipendentemente dal credo religioso, si ispirano ai valori dell’umanesimo. E poi c’è Papa Francesco.

In altre parole?

Gli interventi del Papa in questa guerra hanno avuto un grande peso. Anche quando la sua parola è stata oggetto di critiche da entrambi gli schieramenti, anzi forse proprio quando è stata oggetto di critiche, si è manifestata la sua autorevolezza. I ripetuti moniti al rilascio degli ostaggi e per un immediato cessate il fuoco nella Striscia sono entrati di peso nella storia di questa guerra. Oggi in tanti invocano un cessate il fuoco, ma a novembre lo reclamava soltanto la voce solitaria e coraggiosa di papa Francesco.

Cosa le dice il Papa durante i vostri colloqui?

Sono un bergamasco di poche parole, ma sento di doverlo ringraziare dal profondo del cuore, e per la fiducia che mi ha voluto esprimere. Non solo i cristiani di Gaza ma anche il Patriarca ha beneficiato della fattiva presenza del Papa. Non è solo una vicinanza di parole e di affetti quella che papa Francesco ha voluto far giungere alle nostre comunità, ma anche di aiuti concreti che ci sono giunti direttamente e con le visite dei cardinali Krajewski, Filoni e nei giorni scorsi Dolan.

Quali sono stati i suoi momenti più difficili in questi 200 giorni?

Sicuramente i primi. Eravamo scioccati, non riuscivo a mettere a fuoco quale dovesse essere il mio impegno prioritario, perché all’inizio non riuscivamo a capire neanche quale fosse la vera portata degli accadimenti, quale tragedia immane avessimo di fronte. E poi sicuramente i giorni del Natale. La privazione della gioia natalizia, della festa del Cristo che nasce per portare la pace, per i nostri cristiani è stata terribile. Specie per i piccoli. Le immagini della desolazione di Betlemme a Natale non si scorderanno facilmente negli anni a venire. Non rinnego nulla di quello che è stato fatto. Anche gli errori fanno parte della realtà In una vicenda così complessa non puoi non fare errori. Ma penso di poter rivendicare che la nostra posizione sia sempre stata molto chiara, trasparente ed onesta.

Ha scontato momenti di solitudine nel corso di questi mesi?

La preghiera è un grande sollievo alla solitudine perché ti fa sentire la permanente presenza del Signore. Però sarei insincero se lo negassi. Certo, la solitudine è ineliminabile quando hai delle responsabilità, e quando queste sono così gravi da ricadere anche sulla vita della gente che ti è attorno e a cui vuoi bene. Però la solitudine ha anche un vantaggio: quello di preservarti una posizione di libertà. Godo del dono dell’amicizia di molti, ma un certo distacco mi consente di non lasciarmi influenzare anche emotivamente nelle mie decisioni. Anche in questo caso è uno stile che ho mutuato dagli insegnamenti di san Francesco.

Vale anche per i cristiani?

Questo vale per tutti, anche per noi. Dobbiamo ripensare come si abita questa terra da cristiani. Sicuramente da testimoni della storia e della “Geografia della Salvezza”. Ma c’è anche qualcosa di più da comprendere, perché essere cristiani è innanzitutto uno stile di vita. Improntato al Vangelo.

E la Chiesa che lei guida?

Anche noi abbiamo un grande bisogno di parlarci. Ci sono state dopo il 7 ottobre, e ci sono ancora, sensibilità diverse. Anche radicalmente diverse. E non penso che ora sia il momento di portarle a sintesi. E’ il momento di ascoltarle. E di parlarne anche all’interno delle diverse sensibilità e posizioni che sono emerse. Ognuno deve analizzare con sincerità e coraggio la consistenza delle proprie posizioni. E quali sono stati i processi mentali che le hanno indotte. Per fare questo ci vuole coraggio. Il coraggio di ammettere che anche noi siamo cambiati. E capire il come e il perché. E’ un processo che può avvenire – come ci insegna san Francesco- solo attraverso una decisa apertura della mente e del cuore. La mente da sola non basta. E il cuore da solo non basta. E’ solo in una sincera relazione con l’altro che possiamo definirci al meglio e in verità.

A cominciare dal Patriarca?

E’ un processo ovviamente che mi riguarda anche personalmente. Nessuno può avere la presunzione di rimanere lo stesso. In questo senso credo che abbiamo bisogno anche di rivedere un po’ la narrativa cristiana che, come dicevo, può rinascere solo dalla coscienza di cos’è realmente costitutivo della nostra identità, partendo sempre dalla realtà, dall’esperienza concreta, dalla realtà della nostra fede. Che in quintessenza è la speranza che si fonda sull’esperienza della Resurrezione. Possiamo poi definire la costituzione della nostra identità anche guardando alla nostra ricca storia passata.

In che modo?

Nel passato la nostra presenza si è realizzata nella costruzione di chiese, di scuole, di ospedali. Oggi non siamo più chiamati a costruire strutture, ma relazioni. Relazioni con gli “altri” da noi, nella consapevolezza di essere i loro “altri”. Questo con riguardo alle altre religioni, ma anche in relazione alla ricca diversità della composizione della comunità cattolica di Terra Santa, tenendo presente il carattere arabo-cristiano come elemento insostituibile.

E per i cristiani di terra Santa cosa significa?

Se penso in particolare ai cristiani di Gaza. Il sollievo che gli hanno arrecato le telefonate pressoché quotidiane del Papa è stato enorme, ed ha significato molto anche per quelli che fuori di Gaza seguivano e seguono con ansia la loro sorte. E’ commovente il coraggio e la dedizione, in modo particolare delle tre suore di Madre Teresa che non hanno mai smesso di occuparsi dei bambini disabili. Spero che presto ci sia consentito di raggiungere questi nostri fratelli e sorelle e portargli di persona gli aiuti che necessitano.

Anche lei si sente cambiato?

Sicuramente. Sento per esempio molto più che in passato la necessità dell’ascolto. Saper leggere i tempi alla luce del Vangelo è il compito prioritario di un pastore. E questo si può fare solo tramite un ascolto pieno. Sento che la mia gente, e non solo loro, esprime un grande bisogno di ascolto. Ognuno ha una sua narrazione, un suo dolore, una sua sofferenza, che lamenta non essere abbastanza ascoltata, compresa, confortata. Oggi più che mai la prima forma di carità qui è l’ascolto.

La guerra prima o poi dovrà finire. Mentre pensate a come contribuire perché le armi tacciano, come immagina il dopo a Gaza, in Palestina e Israele?

Il dopo sarà difficile, durissimo. Intanto spero che chi è uscito da Gaza possa e voglia ritornare. Ricostruire Gaza richiederà decenni. Non c’è più niente: case, strade, infrastrutture. Occorrerà un enorme sforzo internazionale. Non è immaginabile che la gente dorma in una tenda per anni. Ma credo che, più in generale, tutto dovrà essere rifondato non solo lì, anche in Palestina e in Israele.

In che modo?

Occorre mettere un punto alla storia. E ricominciare tutto daccapo e su basi nuove, diverse dal passato. Intanto penso che tutto quello che è successo in questi sei mesi abbia mostrato in modo evidente l’ineluttabilità della soluzione dei “due stati”. Non c’è alternativa ai “due stati” che non sia il permanere della guerra. Ma i due stati devono cambiarsi dal di dentro. Le due società -che pure negli ultimi anni sono cambiate radicalmente e rapidamente, devono avere il coraggio di ripensarsi. Non sarà facile perché entrambe si presentano con un alto grado di eterogeneità al loro interno, sono poliedriche. Occorre che entrambe le popolazioni si dotino di un nuovo orizzonte di valori, perché non può perpetuarsi l’idea che l’unico collante sociale, per entrambe, sia il difendersi dal “nemico”. Se non lo fanno comprometteranno seriamente il loro futuro.

Servirà una spinta della comunità e delle opinioni pubbliche internazionali?

In tutto il mondo non tira una buona aria, in molti Paesi si vede una parcellizzazione degli interessi, una crescita dell’egoismo sociale, un delirio di potenza e sopraffazione che genera conflitti. Sicuramente questo non aiuta. Mi si accusi pure di partigianeria, ma in senso opposto oggi sento solo la voce di Papa Francesco.

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