Mirka Cassinadri nuova direttrice del coro Vocilassù

Il 4 maggio rassegna a Vetto, con la giovane Mirka Cassinadri direttrice per il Coro Vocilassù

Mirka Cassinadri, diplomata in flauto traverso e insegnante di educazione musicale, è la nuova giovane direttrice del Coro Vocilassù di Toano. La presentazione ufficiale a Vetto, nella rassegna corale “In… cantate Armonie” la prima di una serie di esibizioni del gruppo toanese in diversi luoghi suggestivi della provincia di Reggio Emilia e Modena.

“Il mondo dei Cori nel nostro Appennino valorizza la musica tradizionale – spiega la musicista che succede ad Armando Saielli direttore del coro per 13 anni -. Essere la nuova direttrice del Coro Vocilassù è per me motivo di grande orgoglio. Raccontare il nostro Appennino con la musica e con l’unione di voci è cosa di grande valore”.

Il Coro Vocilassù si appresta a festeggiare i 30 anni di attività nel prossimo 2025 con un progetto che mira a fare conoscere la tradizione corale alle nuove generazioni.
Il primo appuntamento della rassegna, sarà a Vetto, nella chiesa San Lorenzo, il 4 maggio 2024 alle ore 20.45 con ingresso a offerta libera, organizzato in collaborazione con l’Unità Pastorale Vettese, la Pro Loco di Vetto col sostegno dell’Amministrazione comunale.

Proprio in quell’occasione verrà presentata al pubblico di affezionati, e appassionati del canto corale, la nuova direttrice e con lei, alla codirezione, Gaetano Borgonovi. Nella rassegna vettese si alterneranno sul palco, oltre al Coro Vocilassù, il Coro Out of Time (Milano) diretto da Simone Hopes, con un repertorio vario tra musica sacra, tradizionale dal mondo, gospel e spiritual, e il Coro Cai Valmalenco (Sondrio), diretto da Carlo Pegorari, protagonista della storia corale valtellinese con brani tradizionali alpini e non solo.

“Il Coro Vocilassù deve la sua storia a un repertorio sicuramente vario di grandi autori – afferma Tiziano Albergucci, presidente della realtà toanese nata a gennaio del 1995 -, come Bepi De Marzi, che ha dato il nome al nostro gruppo, il maestro Marco Maiero, o gli autori della Sat. Abbiamo in repertorio anche diversi canti armonizzati dal maestro Saielli con testi originali di Ubaldo Montruccoli e Remo Secchi. Tra questi, il brano ‘L’Ultimo Pastore’ è diventato patrimonio di tante realtà corali italiane e non solo e questo è per noi motivo di grande orgoglio. Un canto inserito anche in un libro antologico di Montruccoli che sarà presentato all’Abbazia di Marola il prossimo 29 giugno”.

IL CORO VOCILASSU

Il Vocilassù, coro maschile a quattro voci pari, vanta una storia ricca di esibizioni e curiosità sin dalla sua nascita, nel 1995. Molti sono gli eventi a cui il gruppo ha partecipato in questi quasi 30 anni di attività, concorsi, scambi nazionali e internazionali, rassegne. Protagonista anche di due CD nel 2002 (Vocilassù) e nel 2015 (Canto alla Vita), dopo sette anni il Coro tornerà ad esibirsi al “Val Pusteria International Choir Festival” con oltre duecento cori dall’Italia e dal mondo. Prossimi appuntamenti della rassegna “Incantate… armonie” con alcune tra le più prestigiose realtà corali italiane e il Coro Vocilassù a Marola (Carpineti) il 20 luglio e Montefiorino il 21 settembre 2024, quindi il Festival dell’Appennino Reggiano il 7 luglio a Toano.

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“Storia di Mi. Lorenzino don Milani”, il libro di Alberto Melloni

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Giovedì 2 maggio alle ore 21 presso la Sala dell’Antico Portico a Guastalla, Alberto Melloni presenta il suo ultimo libro Storia di Mi. Lorenzino don Milani (Marietti1820, 2023) in dialogo con Gino Ruozzi. Chi era don Milani? La quantità e varietà di nomi con cui è stato chiamato il priore di Barbiana nell’arco di una vita lunga 44 anni sono la cifra della sua ricchezza. Se raccoglierli tutti può apparire un’impresa impossibile, allora si può provare a chiamarlo semplicemente “Mi”. Nel centenario della sua nascita, la pubblicazione di Storia di Mi. Lorenzino don Milani rende omaggio a questa figura straordinaria.

Alberto Melloni è professore ordinario di Storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia, segretario della Fondazione per le scienze religiose, e dal 2017 membro dell’Accademia dei Lincei.
Il libro di Melloni intende far luce sull’ esperienza umana e cristiana che ha vissuto don Milani, togliendogli di dosso quel marchio che lo ha trasformato in una icona buona per tutte le battaglie.

Don Milani è un prete che ha nella Parola di Dio letta e annunciata con passione il senso profondo della propria esperienza, ma è anche un profeta che soffre la condanna e le crudeltà che gli riserva la Chiesa in piena obbedienza al suo superiore. È la sua battaglia evangelica per i poveri che lo porta a fare il maestro, una professione per la quale non era preparato, per dare ad essi una dignità ed un futuro che la scuola dei suoi tempi non era in grado di dare.

Dice don Milani “I poveri non hanno bisogno dei signori. I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua, cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere quando sapranno scrivere”.
È questa libertà dal potere che li tiene sottomessi che don Milani, con la sua pedagogia della Parola, vuole dare ai poveri.

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Cattolici e cultura. Cosentino: «Essere Chiesa significa avere un’idea di futuro»

«È necessario abbandonare ogni forma nostalgica, puntare sulla formazione, prendere coscienza dei tempi nuovi e superare la logica postmoderna del provvisorio»
Il teologo Francesco Cosentino

Il teologo Francesco Cosentino – archivio

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Le domande tengono la mente inquieta mentre le risposte rischiano di farci addormentare, specialmente quando sono concepite per anestetizzare la fatica del pensare dinanzi alla complessità delle sfide odierne. Ben venga, allora, il dibattito che, a partire dalle riflessioni offerte da Pierangelo Sequeri, sta prendendo corpo in queste settimana. All’irrilevanza cristiana, intesa non tanto in senso sociologico ma come incapacità dei simboli e delle parole cristiane di toccare l’immaginario, di trafiggere il cuore e di segnare la vita dei nostri destinatari, ho voluto di recente dedicare un testo di teologia edito da San Paolo, ritenendo che la domanda già posta da Karl Rahner alcuni decenni or sono, dovrebbe essere messa al centro della riflessione teologica e dell’agire pastorale: come è possibile fare oggi una esperienza del Dio di Gesù Cristo in una società che lo ha messo ai margini? Si tratta di un interrogativo che, però, il cristianesimo deve iniziare a rivolgere a se stesso.

A poco serve, infatti, continuare ad attardarsi su analisi riguardanti il cambiamento d’epoca, la fine della cristianità, il tramonto del cristianesimo sociologico e l’avanzata del secolarismo, se non attiviamo il coraggio di un passo ulteriore che può essere così declinato: se la cultura occidentale non è più ospitale nei confronti dell’annuncio cristiano, è altrettanto vero che il cristianesimo ha smesso da tempo di essere “culturale”, di saper non soltanto ascoltare ma anche interpretare le sfide del contesto, in un dialogo scevro da manie di superiorità morale e da elementi di clericalismo. Il cristianesimo sembra essere segnato da una sorta di “cultura del declino”. Di recente, a parlarne è stato il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che ha affermato: «Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di agoniche chiamate al combattimento».

La cultura del declino, che ci impedisce di avere linguaggi, proposte e postura per abitare la cultura odierna, si manifesta in molti modi e, accennarne alcuni, significa anche individuare quelli che possono diventare luoghi della ripartenza, se ci dedichiamo a essi con una appassionata riflessione teologica e pastorale. Anzitutto, è da segnalare il rischio di una assuefazione vittimistica alla questione numerica, che genera spesso una reazione frettolosa, mancante di una lungimirante visione ecclesiale e pastorale: così, si uniscono le poche forze rimaste o ci si trincera dietro un atteggiamento difensivo, limitandosi a conservare l’esistente. Forse ci serve invece il coraggio di prendere sul serio la sproporzione esistente tra il modo in cui ancora oggi pensiamo e viviamo la parrocchia e il numero sempre più ridotto di preti e operatori pastorali, in un contesto divenuto mobile, plurale, e multiculturale.

Si tratta di una situazione che non lascia spazio ed energie per pensare una “pastorale della soglia”, centrata su un annuncio del Vangelo che possa intercettare i lontani e dialogare con le domande del nostro tempo e con le sfide culturali, magari anche stimolando al dibattito coloro che sono in vario modo impegnati negli spazi pubblici della città, della politica, della società civile. La questione implica, naturalmente, una riflessione sul ministero ordinato, una nuova lettura dell’istituzione parrocchiale, qualche serio interrogativo sull’attuale configurazione giuridica e sul Diritto canonico, così da immaginare una nuova forma e presenza di Chiesa in dialogo col territorio. Nondimeno, si ha l’impressione che anche riguardo alla proposta, il cristianesimo proceda spesso con linguaggi, formule e prassi che non tengono in conto quanto sia cambiato l’immaginario interiore e concettuale dei nostri contemporanei negli ultimi decenni. Si può continuare a parlare di salvezza, di felicità, di vita umana, di morte e di risurrezione, ma correndo il rischio di non comunicare più nulla se non si tiene conto dei cambiamenti antropologici, della diversità e pluralità di significati che ciascuno conferisce alla propria esperienza di vita, della ricerca postmoderna di un benessere psico-fisico e spirituale sganciato dalla relazione con Dio, della “fede” nell’intelligenza artificiale.

Le parole dell’evento cristiano, si pensi, per esempio, alla professione di fede nell’ormai vicino anniversario di Nicea, non andrebbero nuovamente tradotte e offerte attraverso una nuova mediazione linguistico-concettuale? Infine, rispetto alle sfide della cultura e a quelle pastorali, l’impressione è che anche il cristianesimo proceda nel solco postmoderno della logica del provvisorio: manca una visione e un pensare a lungo termine, si va avanti per singhiozzi e frammenti. In questo senso, la cultura del declino si esprime nel ripiegamento in forme di religiosità intimiste e, ancor più spesso, in forme devozionistiche che dispensano dalla fatica di pensare e dall’onere di scelte innovative e coraggiose. Sequeri ne ha parlato come «ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente connesse al mistero cristiano », mentre Righetto ha fatto giustamente riferimento alle “paccottiglie” spirituali che si trovano nelle librerie religiose, generando una sorta di “sottocultura” cattolica. Di certo, c’è un investimento che manca e, se parliamo di rapporto dialogico con la cultura, l’investimento principale dovrebbe essere quello della formazione. Mentre il secolarismo ha ormai trasformato l’immaginario interiore della vita delle persone, cambiando i simboli attraverso cui interpretano la vita e abitano il mondo, la cura per la formazione e per la preparazione culturale, biblica e teologica di laici e preti non è ancora assunta come un impegno imprescindibile delle agende pastorali.

Qualche giorno fa, sul tema, è tornato il teologo Giuseppe Lorizio, affermando che il credente non può ignorare, e anzi deve interpretare e affrontare una cultura come la nostra che si mostra nella veste di un “politeismo” dei saperi e dei valori, in una compagine quanto mai variegata e plurale di visioni. E invece, si ritiene che sia più urgente far fronte ai bisogni di oggi che investire per il domani. E sulla formazione culturale, continua a pesare l’antico e sempre nuovo pregiudizio, secondo cui studiare e approfondire non serve, perché basta stare vicini alla gente, dir Messa e presiedere qualche atto di devozione. Il rischio dell’autoemarginazione del cristianesimo diventa più che concreto, che si tratti di rifugiarsi nostalgicamente nell’idealismo dei bei tempi passati o di chiudersi in forme di cristianesimo moralista e devozionale. Qualcosa può cambiare se e quando avremo il coraggio di rimettere mano – senza timori e senza ideologiche contrapposizioni – a una nuova visione ecclesiale. Ma ciò non avviene continuando a scommettere su una generale visione pastorale, senza la fatica di pensare – e di pensare teologicamente – il futuro del cristianesimo.

Materie prime. Il prezzo del caffè sale e l’espresso al bar può arrivare a 2 euro

In sei mesi le quotazioni della varietà Robusta sono raddoppiate. Per quella Arabica +55%. Pesano la contrazione dell’offerta del Vietnam, le condizioni meteo in Brasile e il rafforzamento del dollaro
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Non solo il cacao. I rincari delle materie prime toccano ora il re per eccellenza dei bar italiani: il caffè. Una tendenza al rialzo che ha portato ormai il prezzo medio della tazzina al bar ad 1,20 euro, secondo gli ultimi dati del Mimit rielaborati da Assoutenti. E se è vero che non mancano città e caffetterie in cui si tocca ormai anche quota 1,40 euro, sotto l’euro a tazzina restano ormai poche realtà. Come Catanzaro, dove un caffè costa ancora poco meno di 1 euro, 0,99 centesimi per l’esattezza. Ma è l’eccezione, non la regola.

Quella che gli addetti del settore definiscono ormai come la “tempesta perfetta” è già realtà. Da un lato le avverse condizioni meteo in grandi Paesi produttori, come il Brasile, dall’altro il cambio euro-dollaro, l’aumento dei costi di trasporto e quelli della materia prima: i rincari, secondo i torrefattori, sono soltanto all’inizio e non è detto che la strada verso i 2 euro a tazzina di caffè sia poi così lontana. Secondo Altoga, l’associazione nazionale torrefattori, importatori di caffè e grossisti alimentari aderente a Federgrossisti-Confcommercio, negli ultimi 6 mesi le quotazioni di borsa del caffè Robusta sono praticamente raddoppiate: hanno registrato un rialzo di oltre il 90% (da 2.200 a 4.195 dollari la tonnellata), e quelle della varietà Arabica del 55%. Ma perché questa impennata? Ad incidere una forte contrazione dell’offerta da parte del Vietnam, le avverse condizioni metereologiche in Brasile, lo sfavorevole tasso di cambio per il rafforzamento del dollaro sull’euro, che ha inciso sul costo del caffè fino a un +4% negli ultimi mesi, ed infine la necessità di evitare il passaggio nel Mar Rosso a causa dei raid dei miliziani Houthi, con conseguente aumento di tempi e costi di percorrenza. Fattori che, complessivamente, incidono sui costi di importazione del caffè fino al 50% in più rispetto a 6 mesi fa.

Oggi il prezzo medio registrato ufficialmente dal ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit) di una tazzina consumata al bar si attesta a 1,18 euro nelle principali città italiane. Solo 3 anni fa, nel 2021, il costo medio dell’espresso era di 1,03 euro: questo significa che gli italiani hanno già subito un aumento del 14,9%. Tra le principali città, Bolzano è quella che detiene il primato del caro-caffè al bar, con un prezzo medio di 1,38 euro a tazzina, seguita da Trento (1,31 euro). Tra le più economiche, oltre a Catanzaro, c’è Napoli (1,05 euro). Se però si confrontano i listini odierni con quelli in vigore nel 2021, sottolinea Assoutenti, si scopre che la provicia che ha subito i rincari maggiori è Pescara, con il prezzo medio che sale da 1 euro a 1,28 euro e un aumento del +28%, seguita da Bari col +24,4%. «Temiamo che i rialzi delle quotazioni del caffè possano portare nelle prossime settimane a incrementi dei prezzi sia per le consumazioni al bar (caffè, cappuccino, ecc.) sia per il caffè in polvere venduto nei supermercati – spiega il presidente di Assoutenti, Gabriele Melluso -. Anche pochi centesimi di aumento determinerebbero una stangata sulle tasche dei consumatori, considerato che in Italia vengono serviti nei locali pubblici circa 6 miliardi di caffè all’anno per un giro d’affari dell’espresso pari a circa 7 miliardi di euro annui».

Gli esercenti, però, provano ad allontanare lo spettro dei rincari. «I costi di acquisto della materia prima caffè sono aumentati, e non solo quelli, ma la maggior parte degli imprenditori li sta assorbendo senza scaricarli sui clienti», è la posizione di Giancarlo Banchieri, presidente di Fiepet Confesercenti. «In sostanza – almeno secondo Banchieri – il caro-tazzina ancora non c’è: e se è vero che nei centri storici delle località turistiche un espresso al banco può arrivare a costare in alcuni casi 1,5 euro, nella maggior parte dei bar si trova ancora tra 1 e 1,2 euro, lo stesso prezzo del 2020. E questo nonostante i costi per gli esercenti siano aumentati in questi quattro anni anche del 20%, tra materia prima, lavoro ed energia». Secondo gli esercenti, insomma, non ci dovrebbe essere spazio per gli allarmismi, anche se il rischio di incrementi del prezzo di vendita «diventerebbe concreto», sottolineano, «se sulla scia delle tensioni internazionali i costi della materia prima dovessero aumentare ancora».

Per Ben Laidler, global markets strategist di eToro, quello del caffè «è solo l’ultimo caso di impennata nei prezzi di prodotti agricoli determinata dalle dinamiche di offerta, dopo quella relativa al succo d’arancia nel 2023 e al cacao nei primi mesi di quest’anno. L’agricoltura è diventata così il comparto delle commodity che ha registrato le migliori performance nel 2024, con un aumento del 27%, rispetto al modesto 4% delle materie prime in generale». Quello che per gli analisti (e per gli azionisti) è “performance”, però, per il consumatore si traduce in un nuovo “rincaro”. Ed è difficile che le due visioni possano mai trovarsi d’accordo. Nemmeno davanti a una tazzina di caffè.

 

Educazione. I giovani, il corpo e gli affetti: l’amore vero salva dagli abusi

La sfida oggi è formare le nuove generazioni, e i loro stessi educatori, a considerare la fisicità sempre unita alla persona che la “abita”
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«E questo mi induce a interrogarmi sulle emanazioni del corpo rappresentate dalla figura, dall’andatura, dalla voce, dal sorriso, dalla calligrafia, dalla gestualità, dalla mimica, uniche tracce lasciate nella nostra memoria da coloro che abbiamo davvero guardato». Quanta verità in questo passaggio di «Storia di un corpo» di Daniel Pennac. L’amore si riconosce da quel che si nota, e resta impresso, dell’essere amato, nella sua totalità: nel suo muoversi nel mondo, nei suoi atteggiamenti, nella luce dello sguardo, in quei piccoli difetti che diventano le perfette imperfezioni, in quella indivisibile unità tra il corpo nella sua fisicità e chi quel corpo lo fa vivere. Se è così, quanto può essere riduttivo, limitante, ristretto, un (ab)uso del corpo, considerato come disgiunto dalla persona?

Il tema della corporeità e dell’affettività, soprattutto quando parliamo di giovani e ai giovani, è qualcosa che deve interpellarci nel saper trovare parole nuove, con radici antiche, che raccontino della bellezza di una relazione sana, improntata sul rispetto reciproco e sull’importanza, necessaria, di scoprire i limiti della persona. Quando parliamo dell’esperienza dell’affettività, facciamo riferimento a una dimensione relazionale cui va riservata un’attenzione speciale, uno spazio prezioso che occorre costruire, coltivare, custodire. L’apporto educativo della tutela dei minori passa anche attraverso l’educazione a un corpo che sia soggetto e non oggetto, a un’esperienza serena dell’affettività.

Oggi il pensiero dominante, spinto da una certa pubblicistica che troppo spesso propone modelli di guadagno facile connessi alla svendita del corpo, è quello che si lega alla soggettività assoluta, in cui l’imperativo è la centratura su sé stessi e sul soddisfacimento dei propri desideri, senza dare valore e riconoscimento all’altro e nemmeno, paradossalmente, alla preziosità del sé. C’è una nuova generazione che cresce a contatto diretto con modi di pensare e di relazionarsi con la corporeità molto diretti, disintermediati, che nel tempo corrono il rischio di diventare rapporti di abuso, perché non c’è rispetto dell’altro. Quanto è importante individuare con precisione il valore del consenso e dell’essere consenzienti? Se ogni cosa è consumo, mercificazione, prestazione basata sull’aumento del gradimento, nel meccanismo perverso dei like, quanto può essere davvero libera la scelta di mettersi in vista a tutti i costi?

I meccanismi dell’abuso passano anche attraverso lo sfruttamento delle fragilità, delle insicurezze, degli smarrimenti che sono connaturati al nostro essere umani e che negli anni dell’adolescenza e della giovinezza sentiamo ancora più forti. Chi sono io? Cos’è questo corpo che si trasforma, cosa sono questi sentimenti contrastanti che si agitano nel mio animo e a cui non so dare un nome? Cosa determina la mia fame di volere essere amato, visto, riconosciuto?

Un progetto educativo che abbia a cuore una crescita autentica deve partire dalla persona, dalla sua dignità intrinseca. Chi abusa che visione ha della persona? Vede solo un essere, una cosa, che può utilizzare a suo piacimento. Nell’assenza totale di empatia e di incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni si ritrova una visione nociva della sessualità e della corporeità, mentre il primo principio di una relazione sana è quello del non usarsi e non usare, impegnandosi in scelte coerenti e corrispondenti.

Nella formazione un tema insistito è relativo alla presa di consapevolezza degli abusi. Se le segnalazioni di comportamenti ambigui (o abusanti) stanno pian piano emergendo, è perché attraverso la divulgazione delle linee guida, l’ascolto sul territorio, le pubblicazioni dei sussidi, si comprende che esistono “le parole per dirlo”. E che non abbiamo timore di usarle. La visione sistemica del fenomeno degli abusi spinge su quattro leve fondamentali: formazione, vigilanza, contrasto, accompagnamento. E tutto questo è reso possibile dal coinvolgimento della comunità tutta, perché il primo tassello di un ambiente sicuro è ruolo del contesto, che è la comunità.

La Chiesa, nelle parole di chi se ne è allontanato, è percepita come quell’entità slegata dall’attualità, che vuole soltanto proibire. Al contrario, va reso evidente che le buone prassi aiutano a vigilare su noi stessi e gli altri per riconoscere il male in tempo. I no danno fastidio, ma dovrebbero essere pronunciati a favore di quella ricerca della felicità che approfondisce il perché, il significato di ciò che è. Per questo la prevenzione non è né accusatoria né oppositiva, ma propositiva e dinamica.

I giovani hanno fame di queste cose, il problema è che trovano nutrimenti sbagliati. Scontiamo, a fronte di infiniti dibattiti, una preoccupante lacuna nella presenza di interlocutori e accompagnatori adeguatamente formati su temi su cui i ragazzi sono tanto sensibili quanto facilmente disorientati.

E allora, se ci chiediamo quale contributo possiamo dare come Servizio per la tutela dei minori a quello che è il progetto educativo di una pastorale dedicata ai giovani, la prima domanda è: in che cosa possiamo lavorare insieme? La prospettiva giusta è nel camminare su un percorso comune, aiutandosi reciprocamente con quella sinergia positiva del formare e informare comunità e persone, in cui si è d’accordo che fare certe cose non è un bene. Puntiamo a un modo più bello e più sano di relazionarsi, all’essere testimoni credibili del vivere relazioni buone, in cui tutti si sentano bene. E al sicuro.

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Liturgia VI DOMENICA DI PASQUA (ANNO B) 5 Maggio 2024

Grado della Celebrazione: DOMENICA
Colore liturgico: Bianco

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Durante la lettura del Vangelo, nel corso della celebrazione liturgica, è il Signore Gesù Cristo che parla ai suoi discepoli. Oggi ci dice che siamo tutti suoi amici, che gli apparteniamo attraverso la fede e attraverso il battesimo. Egli l’ha provato rivelandoci il suo segreto e la sua missione di Figlio di Dio. Ci ha detto che Dio, nella sua onnipotenza divina, ci ama tutti. Per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo, ci ha fatto entrare nella comunione di amore che esiste fin dall’eternità tra lui e suo Figlio. “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. È una parola di verità potente e divina.
Per tutti quelli che hanno preso coscienza dell’importanza di questo dono divino, conta una sola cosa: mostrarsi degni dell’amore che ci viene nell’amicizia del Figlio di Dio. “Rimanete nel mio amore”.
Per Gesù Cristo, ciò che è importante innanzitutto è che tutti i suoi amici si amino gli uni gli altri come egli stesso ha amato i suoi discepoli nel corso della sua vita terrena. La più viva espressione di questo amore è stata la sua morte sulla croce per i peccatori (cf. Gv 1,36; 19,34-37). L’amore perfetto del Padre celeste è la felicità e la gioia di suo Figlio. E questa gioia, il Figlio risuscitato la trasmette ai suoi amici nel giorno di Pasqua. “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi!”. Ricevete lo Spirito Santo!” (Gv 20,21-22). Egli offre senza sosta la gioia a tutti quelli che credono nella sua parola e per mezzo del battesimo si uniscono a lui e alla sua cerchia di amici, la Chiesa. Chi entra nell’amore di Dio per mezzo di suo Figlio ha ormai una ragione essenziale per essere sempre felice.

Il viaggio della Madonna della Ghiara da Reggio a Fivizzano. In una mostra

La Madonna di Reggio in un bassorileivo a Fivizzano centro sec. XVIII

Oltre quattro secoli fa, negli ultimi giorni di aprile del 1596, la fede nel potere miracoloso della Madonna della Ghiara (che aveva risanato Marchino) ha attraversato l’Appennino e l’immagine sacra, apparsa a Fivizzano cinque giorni dopo, ha compiuto un altro miracolo.

Da allora la stessa devozione verso la Madonna della Ghiara accomuna i due luoghi e a Fivizzano la Madonna della Ghiara è venerata come la Madonna di Reggio. Questo itinerario transappenninico, che gli uomini hanno percorso per secoli in entrambe le direzioni, porta i “segni” di questa devozione mariana, tanto che viene a configurarsi quasi come un cammino di fede.

La mostra che proponiamo va alla ricerca di questi “segni”: così la Madonna che adora il bambino che ha generato – unica e ben riconoscibile tra le tante iconografie mariane – accompagna noi, pellegrini di oggi, lungo un percorso racchiuso fra due santuari: da un lato la basilica reggiana dove l’immagine è nata dalla mano felice di Lelio Orsi (e da allora è adorata sull’altare a lei dedicato), dall’altro la Chiesa prepositurale dei Servi nella piazza medicea di Fivizzano, dove la “vera effige” miracolosa è custodita in una teca lignea sull’altare maggiore ma è anche scolpita nel bassorilievo marmoreo della lunetta del portale.

Casa colonica a Villa D’Este

Tra questi due poli si snoda il nostro itinerario: prima dentro la città di Reggio nelle vie e nelle piazze (piazza Brolo, via Cantarana) ma soprattutto lungo il tracciato che segue il letto “ghiaioso” del Crostolo (che ha dato il nome alla Madonna e alla chiesa) che portava fuori le mura, nella direzione dell’Appennino: qui troviamo ricorrenti formelle di terracotta o di ceramica e piccole nicchie collocate accanto ai portali delle case che si affacciano sull’antico corso del torrente (oggi corso Garibaldi) molte delle quali nate alla fine della guerra (1945), quasi per grazia ricevuta: una sorta di devozione domestica e discreta offerta allo sguardo di tutti e alla venerazione pubblica e quotidiana di chi camminava per le vie – a piedi .

Fuori dalle mura lungo l’antica strada ducale che saliva al Valico le espressioni della devozione cambiano: sono piccole cappelle ai lati della strada, in sequenza quasi ravvicinata (Nebbiara, Puianello…) o immagini grandi in facciata di grandi case coloniche in luoghi di passaggio (Rivalta) come fossero punti di sosta pensati per chi deve affrontare un viaggio più lungo – verso il crinale appunto.

E quando l’antico tracciato ducale sale a Ovest del Crostolo, le testimonianze della Madonna della Ghiara dobbiamo cercarle lì, perché lì passavano gli itinerari dei viaggiatori, dei pellegrini, dei mercanti: le troviamo nella corte signorile di Monchio dei Ferri o lungo la strada al crocicchio di Migliara, in una piccola edicola di latta appesa al muro di una vecchia casa in cui abita una nuova famiglia georgiana che se ne prende cura. Ma sono presenti anche nelle chiese parrocchiali, negli oratori e nei santuari del nostro Appennino: a volte sono grandi pale – per lo più settecentesche – come a Gatta, a San Biagio, a Carpineti; a volte sono testimonianze che affiorano dai restauri dopo anni di silenzio, come a Villa Berza dove è venuto alla luce un affresco, probabilmente un ex voto, lasciato da una donna del luogo “vedova e sola”, che porta la data del 1601, solo due anni dopo il miracolo di Marchino.

Una volta arrivati nell’alto Appennino, nelle terre di Valico dell’uno e dell’altro versante, anche la fisionomia delle maestà cambia: tornano i pilastrini e le edicole di pietra semplici e povere della devozione popolare (come a Miscoso nella valle dei Cavalieri, vicino al Lagastrello o lungo la strada del Passo del Cerreto) con le formelle bianche di marmo che sono arrivate qui nelle bisacce dei pastori al ritorno della transumanza, incorniciate con la pietra grigia della Liocca o di Sassalbo.

Dal Passo del Cerreto il nostro percorso – che per ora è solo l’abbozzo di un percorso -“scollina” in Lunigiana, la terra delle maestà: tante e tante maestà in marmo apuano spesso nate nelle botteghe di Carrara; le più antiche hanno anche trecento anni e sono diffuse ovunque nel paesaggio, nelle campagne, a segnare i crocicchi e i confini, lungo le mulattiere e per le strade dei borghi. Numerosissime soprattutto a Fivizzano, la terra dell’altro miracolo: 5 maggio 1596. Una devozione mariana che ha radici antiche e che non ha eguali in altri luoghi dell’Appennino.

Clementina Santi in laliberta.info

Campagnola, sempre più persone unite «In-Coro»

Dopo il grande successo della serata del 27 febbraio, martedì 9 aprile si è tenuto il secondo incontro di “In-Coro”, organizzato dal coro Bruno Massari presso la parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Campagnola Emilia.

È stata registrata una presenza ancora più ampia rispetto al primo incontro: hanno partecipato oltre 160 persone appartenenti a diversi cori del territorio. Ospite d’eccezione è stato Paolo Iotti, il quale con le sue parole di esperienza e di riflessione ha coinvolto piacevolmente i partecipanti, guidandoli verso una dimensione estesa d’amore di Dio con la musica e con i canti.

Ancora una volta la serata è stata un susseguirsi di canti emozionanti, musica, preghiere, riflessioni, condivisione di pensieri, sorrisi e tanto altro.
Altri interventi hanno caratterizzato la serata, tra cui quello di Samuele Gozzi, che avendo partecipato alla Giornata Mondiale della Gioventù in qualità di direttore musicale, ha riportato la sua testimonianza nell’aver visto e vissuto la grande bellezza del far parte di un Coro fatto di centinaia di persone che si incontravano per la prima volta e sperimentavano insieme il “sentirsi parte di un solo corpo”.

Il Coro Bruno Massari riprogrammerà sicuramente un terzo incontro di “In-Coro”, accogliendo con contagioso entusiasmo le numerose richieste pervenute ed estendendo allo stesso modo l’invito per ricevere nuove adesioni corali.

Coro Bruno Massari

laliberta.info