La Chiesa tra comunità e immunità. Foreste di comunione e deserti da contagio

Assemblea-liturgica

Non vi è alcun dubbio che la emergenza “epidemica” – con tutta la sua serietà umana e civile – abbia portato alla luce, nella Chiesa, nuove esigenze e antiche inclinazioni. Il regime di “isolamento”, di “coprifuoco” – ma anche di forzata clausura – ha aperto domande nuove e proposto classiche risposte. Così, al dibattito ecclesiale, che aveva di recente riflettuto sulla foresta amazzonica e sulle sue esigenze pastorali, si è sovrapposto – quasi per forza – un regime eccezionale di “digiuno eucaristico”, di “comunione spirituale”, di “messe senza popolo”. Vediamo di capire alcuni aspetti delicati di questa singolare condizione.

Il deserto nella foresta e la solitudine del parroco

Una delle argomentazioni che, senza apparire in primo piano, ha sostenuto molte delle argomentazioni ufficiali, è stata messa a punto più di mille anni fa da Pier Damiani. Nella sua lettera n. 28, chiamata “Dominus Vobiscum”, il monaco eremita spiegava la contraddizione tra le prime parole della celebrazione eucaristica “Il Signore sia con voi”, e il fatto per cui chi “celebra”, se è monaco eremita, non ha nessuno a cui rivolgere quelle parole. La sua risposta è rimasta, per quasi un millennio, “la” risposta. La Chiesa è presente anche quando è assente. “La santa Chiesa è al tempo stesso una in tutti e tutta in ognuno”. “E’ giusto credere dunque che tutto ciò che si compie individualmente nelle sacre celebrazioni da parte di qualsiasi fedele, la Chiesa stessa unanimemente lo compie per mezzo della unità della fede e del vincolo della carità”. Questa ecclesiologia di Pier Damiani ha guidato la riflessione per molti secoli, fino al XIX. E’ stata elaborata per un eremita da parte di un eremita. Ma fa fatica, soprattutto oggi,  a spiegare la realtà ecclesiale per un pastore e per il suo popolo. Utilizzare oggi gli argomenti di Pier Damiani può servire non soltanto a “preservare la logica comunitaria in un ambito eremitico”, ma anche ad “introdurre forme immunizzanti nella esperienza comunitaria di un popolo”.

La risposta debole ad una emergenza seria

Per questo, ciò che abbiamo letto, nelle parole ufficiali di parecchi pastori, e per fortuna non di tutti, aveva qualcosa di inevitabile, di necessitato, ma anche qualcosa di troppo riduttivo: una esperienza liturgica ridotta al lumicino, senza slancio, se non sul piano “comunicativo”. Addirittura si è unita la “forma eremitica” con la “diffusione pubblica”. Questo salto mortale non è senza prezzo. In questo modo il “Dominus vobiscum”, riscritto un millennio dopo, ha assunto la forma nuova e problematica di un “pubblico che assiste”. Se il “mercoledì delle ceneri” – con la sua potenza materiale della parola e della cenere sul capo – diventa “spettacolo quaresimale”, ricostruendo di nuovo la Chiesa in “muti spettatori che assistono e pochi presbiteri che celebrano”, viene perso totalmente il senso corporeo, dire quasi fisico, di passaggio quaresimale dalla cenere/terra all’acqua/aria/fuoco della Pasqua/Pentecoste. L’impedimento pubblico al contatto – per evitare il contagio – non può in alcun modo assecondare la inclinazione verso una Chiesa senza corpo, senza sensibilità, tutta testa e tutta codice. Credo anche che la formula di “dispensa dal precetto” risuoni, comunque, infelice. E’ la liturgia pensata dal canonista, non dal pastore, dal profeta, dal fedele. Il quale ne ha bisogno “vitale” e al quale non basta “essere sollevato dall’obbligo”, ma gli occorre “essere nutrito dalla parola e dal corpo/sangue”.

La comunità “dai riti” e la immunità dal rito

A mali estremi, estremi rimedi. Questo è sempre vero. Se viene meno la possibilità di “radunarsi”, si deve trovare un rimedio. Ma siamo sicuri che il rimedio sia “collegarsi alla televisione”, o a “facebook”, per “assistere alla messa senza popolo” da parte del popolo, piuttosto che suscitare forme di “relazione altra con la parola ascoltata e pregata”? La spettacolarizzazione del culto non è la risposta adeguata, perché il culto non può mai avere “spettatori”. La trasmissione televisiva o per internet immunizza dal rito. Questo è il punto grave e troppo debole della risposta ecclesiale alla emergenza. La clausura e il “divieto di raduno” non dovrebbe suscitare un protagonismo episcopale/presbiterale, ma un rilancio del sacerdozio comune, nelle piccole comunità che si radunano “sua sponte”. Alla logica del sacerdozio battesimale, che in questo caso è assolutamente capillare, si è preferita la logica della “messa senza popolo”, cui fare assistere il popolo. Una scelta vecchia e per certi versi ideologica. In questa scelta, indirettamente, si è persa la comunità dal rito, ma si è anche rischiato di immunizzare la Chiesa dal rito.

Sul sacerdozio, ma senza esagerare

Come si è visto, la foresta pericolosa della comunità e l’isolamento sicuro dal contatto generano fenomeni contraddittori. Nella foresta del contagio possibile puoi vivere la massima comunione o la più radicale estraneità. Nella clausura sanitaria puoi sperimentare nuove e inattese comunioni, oltre che solitudini profonde. Ma questa complessità che non è univoca, e che non si lascia trattare come un fenomeno lineare, neppure dai filosofi o dai biblisti, offre anche la conferma di una debolezza teologica che dobbiamo assumere con pazienza e con coraggio. Eravamo appena usciti dalla foresta amazzonica con parole profetiche, ma con una teoria del sacerdozio piuttosto vecchia e arretrata. Ora ci confrontiamo con la emergenza della epidemia, è ripetiamo senza vero stile ecclesiale il ritornello della “messa senza popolo”. Anche qui, lo si vede bene, il rapporto tra essere Chiesa, esercitare il ministero presbiterale/episcopale e celebrare la fede hanno bisogno di una sostanziosa messa a punto.  Il Concilio Vaticano II sembra senza forza e quasi senza parole. Senza poter in alcun modo assecondare la deriva per cui solo il prete, che dice messa anche da solo, garantisce alla Chiesa di essere se stessa. Senza bisogno di evocare i toni della “pestilenza come maledizione divina”, o della “moltiplicazione delle messe per contrastare il contagio”, anche questo linguaggio formalistico e clericale, che dispensa dai precetti e rispolvera dagli armadi i vecchi arnesi del tempo che fu, pur offrendoli “in rete”, parla in uno stile e manifesta una intenzione che mi pare davvero difficile da sostenere.

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