«Il sacro è la componente essenziale di ogni fatto architettonico». Lo spazio e la luce centrali nel «rapporto dell’uomo con l’infinito»

Mario Botta, uno schizzo della chiesetta di S. Giovanni Battista a Mogno, in Ticino

Mario Botta, uno schizzo della chiesetta di S. Giovanni Battista a Mogno, in Ticino

Mario Botta, architetto svizzero, non conosce confini: ha progettato di tutto – case, biblioteche, musei, scuole, banche, alberghi… –, e in tutto il mondo. La sua prima committenza, nel 1963, quando aveva vent’anni, è stata profetica: una casa parrocchiale. Da allora ha realizzato diciassette chiese, una cappella, una cattedrale. Ha progettato spazi sacri per tutte e tre le religioni abramitiche: sua la sinagoga Cymbalista nel campus universitario di Tel Aviv e la moschea, in costruzione, aYinchuan, in Cina. Le architetture di Botta hanno una potenza simbolica che nasce dall’impronta del suo progettare: sono radicalmente espressione dell’umano nella sua integralità, corpo e anima, anima e corpo. Gli spazi che crea, i materiali che utilizza, la purezza delle forme, il rigore dei tagli di luce, il dialogo tra il costruito e il paesaggio, tutto parla il linguaggio dell’uomo: un linguaggio accogliente come un abbraccio, semplice anche quando è grandioso, familiare come una madre, un padre, un fratello. La funzione non è mai scissa dalla dimensione spirituale della vita, la nostra vita e la vita di chi verrà dopo di noi.

Per lei l’architettura porta in sé l’idea stessa di sacro. Perché?

«Il primo atto di un progetto di architettura è quello di disegnare il perimetro, quindi di separare un microcosmo dall’immensità del macrocosmo dell’intorno. Questo procedimento è anche il fondamento dell’idea di ecclesia ,che si basa sull’atto di separare una parte dal tutto, è la volontà di sacralizzare uno spazio voluto dall’uomo per distinguerlo rispetto alla natura. Inoltre lo spazio vive in quanto generato dalla luce, senza la quale non potrebbe esistere. E la luce diventa l’elemento centrale che mette in rapporto l’uomo con l’infinito».

L’architetto Mario Botta

L’architetto Mario Botta

La sua prima committenza ecclesiale risale al 1966: la cappella del convento francescano a Bigorio, nel Canton Ticino. Può dirci cosa ha significato per lei, giovanissimo architetto, trasformare un’antica legnaia in uno spazio sacro?

«Già ventenne avevo capito che la forma del sacro è la componente essenziale di ogni fatto architettonico: per la misura, per l’intensità dei rapporti che stabilisce, per la pluralità delle interpretazioni possibili, per la nozione infinita del tempo che comunica e che promuove. Quella committenza è stata un modo per misurarmi e mettere a confronto le forme contemporanee con il linguaggio antico, un esercizio grazie al quale ho compreso che – come sosteneva Carlo Scarpa, del quale ero allora fresco allievo – l’unico modo per rispettare il passato è quello di essere autenticamente moderni. Dal ripristino di quella vecchia legnaia, ogni mio intervento progettuale si è configurato con un linguaggio “altro” rispetto alle preesistenze».

Nel progettare lo spazio ecclesiale ci sono stati dei maestri a cui ha guardato? E quali sono i periodi dell’architettura ecclesiastica che predilige?

«Ho attinto dai grandi maestri dell’architettura moderna e contemporanea (Le Corbusier, Louis Kahn) ma, in particolare, ho avuto il privilegio di frequentare Carlo Scarpa, che grazie al suo linguaggio estremamente raffinato, è stato capace di dare forma e significato anche ai materiali più poveri. La forza espressiva dei materiali usati da Carlo Scarpa è quanto di meglio ha formulato l’architettura negli ultimi decenni. Ho, poi, grandi debiti di riconoscenza verso il romanico i cui esiti possiedono ancora oggi una forza evocativa straordinaria».

Lo spazio che crea è lo spazio della liturgia, lo spazio dove la comunità dei fedeli si riunisce in preghiera, dove viene proclamata la Parola e dove accade il più grande dei miracoli. Come guarda alla liturgia nell’organizzazione dello spazio?

«La liturgia esige un’organizzazione chiara e razionale dei diversi momenti che ritmano la preghiera e i riti comunitari. Le riflessioni del teologo Romano Guardini e il suo stretto sodalizio con Rudolf Schwarz sono riferimenti forti e tuttora d’attualità nell’interpretazione di un linguaggio razionale e moderno contrapposto a modelli ormai obsoleti delle tipologie ecclesiali del passato. Al tempo stesso resta la necessità di creare un luogo – proprio dell’ ecclesia – che rappresenti la continuità di una storia millenaria, un grande problema raramente risolto dall’architettura contemporanea. Resta per me fondamentale la lezione di Guardini: “Le forme architettoniche della chiesa si presentano come luoghi ove l’uomo ed il mondo si ricompongono… come simboli che visualizzano, attraverso il tempo, l’essere cristiano […] e gli edifici sono i simboli che rendono l’essere visibile attraverso il tempo”.

Cosa significa fare architettura sacra in un mondo secolarizzato?

«Significa riuscire a dare forma, spazio e identità a una collettività, a una cultura, che non sempre ha consapevolezza di un bisogno di immensità».

Lei è tra i pochi architetti viventi ad aver progettato una cattedrale. Ci può raccontare come è nata la cattedrale di Evry e come si è sviluppato il dialogo con l’allora cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger?

«Verso la fine degli anni Ottanta sono stato invitato a progettare una chiesa nella ville nouvelle di Evry, a sud di Parigi, che stava consolidandosi come città satellite rispetto alla capitale. Dato che veniva a costituire una nuova diocesi, ecco che la chiesa assumeva la funzione di cattedrale. L’aver scelto me è stato probabilmente dovuto all’aspetto “monumentale”, solido e materico, che caratterizza il mio linguaggio architettonico. Ricordo le discussioni appassionate e stimolanti con il cardinale Lustiger a proposito della riforma liturgica conciliare e delle nuove configurazioni architettoniche. In opposizione a certe mode post-sessantottine a favore del riuso, dei materiali poveri, delle chiese-capannone, Lustiger teorizzava un “ritorno al monumentale” come impegno per una nuova progettazione, che avesse un esplicito riferimento alla memoria e ai modelli del grande passato. È anche in quest’ottica che ho elaborato la cattedrale di Evry, consolidando la poetica già presente nel mio linguaggio, con l’uso di materiali naturali e minerali per la configurazione degli spazi, e una luce zenitale in grado di evidenziare le forme geometriche delle composizioni spaziali».

Come risolve il dialogo tra la chiesa e il contesto urbano in cui si colloca?

«L’architettura non è uno strumento per “costruire in un luogo”, ma uno strumento per “costruire quel luogo” che vuole quindi entrare a far parte della storia, della geografia, della cultura. Tra chiesa e contesto si stabilisce un rapporto di dare-avere reciproco senza interruzione di continuità. La chiesa configura il contesto e il contesto rimodella la chiesa. Per fare un esempio pensiamo all’intervento di Le Corbusier a Ronchamps e al nuovo equilibrio paesaggistico stabilitosi fra la chiesa e la collina, che ha trasformato a tal punto la lettura delle due componenti da rendere ormai impossibile pensare l’una senza l’altra». (La versione integrale dell’intervista sarà pubblicata su “Luoghi dell’Infinito” di settembre 2018)

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