Il «grado zero» della messa

E se esattamente questa liturgia smorta, sì, ma anche priva di fronzoli e “accessori” gradevolizzanti potesse paradossalmente aiutarci a capire che cos’è davvero il rito collettivo che – pur essendo precetto settimanale – risulta quanto mai misterioso e incompreso persino da noi cattolici praticanti?

La messa della domenica sera è già una fatica di per sé: spesso ci vanno quelli che vogliono prendere il precetto per la coda, perché magari si alzano tardi la mattina oppure perché hanno giustamente trascorso la giornata a spasso, ma già si sente che si tratta del capitolo finale della festa e quasi (nella sua sommessa cadenza) di un prodromo al ritorno alla triste routine settimanale. D’estate poi a dare un senso quasi palpabile di noia e di fatica s’aggiungono l’afa e il calante dei canti – quando ci sono – intonati dai soliti volenterosi ma sfiatati animatori. Insomma una messa stanca, sgonfia, loffia.

Mi guardo intorno e mi chiedo perché ci vengano, i pochi astanti che si sventolano alacremente con il foglietto delle letture: di certo non per lo stimolo spirituale della predica, in cui l’anziano sacerdote ha ripetuto ben 4 volte (sic!) che «tutti dobbiamo morire» (se non facesse troppo caldo verrebbe voglia di sorridere con la celebre battuta del film di Troisi: «Mo’ me lo scrivo»…). Nemmeno c’è senso di comunità, lo si capisce dall’uscita alla spicciolata dei presenti non appena terminato il rito: tracimano dalla porta come elettroni che schizzano in direzioni disparate, purché lontano dal nucleo. Perché dunque vengono a messa, a questa messa: per pregare? Ma di sicuro non è l’occasione migliore. Per abitudine? Può darsi. Per dovere? Chissà.

Anch’io mi appropinquo alla magione e nel frattempo rifletto: e se proprio questo fosse il «grado zero» della messa? Ovvero, se esattamente questa liturgia smorta, sì, ma anche priva di fronzoli e “accessori” gradevolizzanti potesse paradossalmente aiutarci a capire che cos’è davvero il rito collettivo che – pur essendo precetto settimanale – risulta quanto mai misterioso e incompreso persino da noi cattolici praticanti? Perché è comodo accontentarsi del solito ritornello ecclesiastico: l’eucaristia è un «mistero», e come tale non riusciremo mai a comprenderlo… D’accordo: ma un conto è pretendere di possederne a tutti i costi il senso, un altro cominciare almeno un percorso serio per intuirne alcuni significati.

Se infatti è vero (come è vero) che ha l’identico valore teologico di qualunque altra messa, questa loffia celebrazione serale alcune cose me le ha già insegnate: che non si va a messa “per pregare”, ad esempio, e nemmeno per imparare dal pulpito norme di comportamento cristiano; né solo per fare comunità, né per ottenere conforto spirituale, né per meditare su alcuni passi biblici, probabilmente neppure per ricevere un sacramento – e non voglio neanche considerare in questa casistica l’obbligo e la consuetudine. No, c’è dell’altro di meno “teologico” ma forse di più profondo (intendo antropologicamente profondo) nelle motivazioni che da millenni spingono i cristiani ad andare a messa. Voglio parlarne nelle prossime puntate estive.

(1.CONTINUA)

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