Al voto. Candidati-esca e big in posti sicuri. Così i leader hanno disegnato le liste

Avvenire –

Acquisita dimestichezza con il Rosatellum, e complice la drastica riduzione dei parlamentari, i capipartito si sono attrezzati per il 25 settembre con uno schema semplice: nei collegi uninominali “nomi-esca” dei territori, soprattutto amministratori locali, perché l’elettore non veda sulla scheda il nome e il cognome di un “estraneo”; ma ai primi posti dei listini proporzionali, quelli che danno la quasi-certezza dell’elezione, lo spazio è stato assegnato in via prioritaria ai leader, ai “pezzi da 90”, ai capi-corrente e ai parlamentari uscenti che hanno superato i dolorosi tagli imposti dalla riforma costituzionale varata nella scorsa legislatura.

Così, quello dopo il varo delle liste è il giorno dei “cahiers des doleances” dei territori sottorappresentati, degli esclusi eccellenti, degli “uomini-macchina” messi al terzo o quarto posto di un collegio “impossibile” solo per confermare la lealtà al partito e al capo, della società civile respinta dal cartello “non cerchiamo personale” esposto all’esterno delle segreterie di partito. Schema unico, insomma. Al netto di lodevoli eccezioni. E al netto delle licenze che si è potuta concedere Fratelli d’Italia: il movimento di Giorgia Meloni è infatti l’unico che potrà portare in Parlamento, sondaggi alla mano, più deputati e senatori di quanti incassati nel 2018.

A usare in modo più massiccio lo schema dei posti blindati a discapito del territorio sono stati Forza Italia, Azione-Iv di Calenda, Renzi e delle ministre ex forziste, Impegno civico di Di Maio, il Pd in alcuni collegi (in particolare in Campania, utilizzata dai dem per garantire il seggio a Franceschini, Speranza e Camusso) e anche il nuovo M5s di Conte, per quel particolare ibrido che l’ex premier ha voluto creare tra i risultati delle “parlamentarie” e le sue prerogative da capo per decidere alcune posizioni “sicure”.

Nel partito del Cav., che pure potrà contare sull’indotto di diversi eletti negli uninominali a nome della coalizione di centrodestra, la presenza fuori territorio riguarda non solo lo stesso Berlusconi (che è pur sempre un capopartito e che è tra i pochi leader ad aver accettato un “uno contro tutti” nell’uninominale di Monza), ma anche big come Tajani, Ronzulli e l’attuale compagna Marta Fascina, sostanzialmente imposta agli elettori forzisti della Campania. Al punto che “fedelissimi” dell’ex premier, come Antonio Palmieri e Sestino Giacomoni, hanno dovuto accontentarsi di posizioni di ripiego.

Nel Terzo polo di Calenda e Renzi lo “schema” non avvantaggia solo i due leader, Carfagna e Gelmini, ma anche Bonetti, Boschi e Rosato. I margini si sono rivelati così stretti per le segreterie romane dei partiti medi e piccoli che in molti casi il front-runner locale dei collegi uninominali non gode nemmeno di un posticino nel listino proporzionale, la sua corsa è un puro “servizio alla causa”.
Lo “schema” che vede i pezzi grossi protetti nel proporzionale riduce anche le sfide dirette. A maggior ragione con la scelta di Letta, Conte, Salvini e Renzi di non affrontare uninominali. Ci si dovrà accontentare di sfide tra outsider di lusso, o differite: Emanuele Fiano contro Isabella Rauti a Sesto San Giovanni. O Calenda contro l’ex alleata Bonino a Roma centro, col rischio di sottrarsi voti a vantaggio del centrodestra.

Il neo-dem liberale Carlo Cottarelli contro la pasionaria di destra Daniela Santanché a Cremona. Il neo-meloniano Tremonti contro il segretario di +Europa Della Vedova a Milano.

A distanza, invece, gli scontri Meloni-Letta in Lombardia e Meloni-Zingaretti (sempre nel proporzionale) nel collegio centrale di Roma. Considerando l’affanno della sua nuova creatura, Impegno civico, sarà infine decisivo per Di Maio vincere il collegio uninominale ricavato a Napoli-Fuorigrotta: Conte, però, gli ha piazzato proprio lì l’ex ministro Sergio Costa, una vera bandiera 5s, mentre Calenda si è giocato la carta Carfagna, il tutto a potenziale vantaggio della candidata di centrodestra Mariarosaria Rossi.