Papa Francesco è arrivato in Madagascar

Ad accoglierlo il presidente Rajoelina. Domani l’incontro con i giovani e la preghiera nel Monastero delle carmelitane scalze. Domenica la Santa Messa e la preghiera con i lavoratori di Mahatazana

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Papa Francesco è arrivato in Madagascar, seconda tappa del suo viaggio apostolico. Ad accogliere il Pontefice all’aereoporto della capitale Antananarivo il presidente del Paese Andry Rajoelina e sua moglie. Due bambini in abito tradizionale hanno offerto dei fiori al Papa, alla presenza di circa trecento fedeli e dei vescovi dell’isola.

L’arrivo in Nunziatura

Francesco si è poi diretto in automobile alla Nunziatura Apostolica del Paese, dove è stati salutato da un coro di 50 ragazzi., che ha intonato due inni locali in onore del Pontefice. Al termine dei canti, Papa Francesco ha salutato individualmente i partecipanti prima di entrare in Nunziatura, dove cenerà e trascorrerà la notte.

Il programma di sabato

La giornata di domani inizierà alle 8,30 con la visita al Palazzo presidenziale Iavoloha e il discorso alle autorità, la società civile e al corpo diplomatico. Il Papa sarà poi ospitato dal Monastero delle Carmelitane Scalze di Antananarivo dove reciterà l’Ora Media. Dopo il Papa incontrerà i vescovi del Madagscar nella cattedrale di Andohalo e visiterà la tomba della Beata Victoire Rasoamanarivo. Alle 18.00 la veglia con i giovani nel campo diocesano di Soamandrakizay.

Domenica la Messa e l’incontro con i lavoratori delle cave

Il campo diocesano sarà anche il luogo dove domenica mattina il Papa celebrerà la Santa Messa e reciterà la preghiera dell’Angelus. Nel pomeriggio Francesco visiterà la Città dell’amicizia Akamasoa e pregherà per e con in lavoratori della cave di pietra di Mahatazana. In serata l’incontro con i sacerdoti e religiosi malgasci al Collegio d i Saint Michel. La partenza per le Mauritius, ultima tappa del suo viaggio, è prevista per lunedì mattina.

Mozambico Con lo sguardo sulle cicatrici della vita

L’Osservatore Romano

(Silvina Pérez) Lo sguardo di Francesco è particolarmente acuto nel descrivere la sofferenza delle persone. Si sofferma in special modo sulle cicatrici che la vita lascia. I suoi sono gli occhi di una madre e il suo sguardo è quello profondo dello spirito materno della Chiesa. Con i bambini abbandonati di Maputo, con i poveri della comunità di Xai-Xai che hanno perso tutto a causa di inondazioni, così come con i malati di Aids dell’ospedale Zimpeto, il Papa ha guardato oltre le apparenze e scrutato con tenerezza ogni dolore. E ancora una volta, dal Mozambico ha invitato a non chiudere gli occhi e a cercare Cristo in quanti soffrono e nei bisognosi.Nel corso della sua visita privata alla Casa Matteo 25, che accoglie ragazzi e bambini di strada della capitale, la sera di giovedì 5 il Pontefice si è espresso con gesti di tenerezza. Sono i gesti decisi di un Papa che ha messo la povertà al centro del suo pontificato, che chiede opere e non parole e non si stanca mai di sollecitare a cercare Gesù nei poveri e negli afflitti, nelle fenditure dimenticate del mondo.
Accolto dal presidente della Repubblica Filipe Nyusi all’ingresso principale della struttura, dove una targa ricorda le parole di Gesù tratte dal Vangelo di Matteo (25, 31-46) — «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» — Francesco ha donato alle tre suore e a un sacerdote del gruppo di coordinamento un’effigie del Sacro Cuore di Maria in gesso smaltato (riproduzione della Madonna delle Lacrime venerata nella città siciliana di Siracusa), in segno di protezione per la casa. Poco dopo, l’emozione, la tenerezza e gli sguardi d’affetto hanno inondato la sala in cui il Pontefice ha vissuto un intenso momento privato con alcuni giovani e donne che hanno trovato riparo in questa struttura caritatevole. Nata per iniziativa della nunziatura apostolica in collaborazione con una ventina di comunità religiose locali, ha come obiettivo offrire un rifugio e aiutare i giovani e i bambini che non hanno nulla da mangiare e spesso neppure un posto dove dormire. Fra le sue pareti si condensa alla perfezione l’idea della “Chiesa in uscita” di Papa Francesco, che mette al centro le periferie esistenziali. Una Chiesa povera per i poveri. Qui, le sorelle vincenziane e ospedaliere assistono una media di 100 persone al giorno, dialogano con loro per identificarne le necessità e conoscerne le storie, pregano con loro, si occupano della catechesi, distribuiscono pasti e organizzano pranzi collettivi, cercando di rafforzare il concetto di comunità. Insomma, riempiono di tenerezza e misericordia una dura realtà.
L’esistenza dei bambini di strada in altri Paesi, come il Brasile, in genere è collegata a crisi economiche o modelli di urbanizzazione incontrollata. In Mozambico, questi aspetti si sommano a una terza e drammatica variabile: le ultime due guerre, quella di indipendenza del 1964 e quella civile del 1992, si sono lasciate alle spalle una nazione mutilata, segnata dalle disuguaglianze, con un tessuto socioeconomico completamente sfaldato e quasi due milioni di orfani.
La violenza dei conflitti è stata tale da obbligare migliaia di contadini ad abbandonare le loro coltivazioni per mettersi al riparo nelle città. Di conseguenza, la capitale si è trasformata nel rifugio dei disperati, spesso famiglie distrutte dal conflitto, dalla povertà o dalle malattie.
La prima tappa pomeridiana di giovedì 5 era cominciata alle 15, con l’incontro privato in nunziatura riservato a un gruppo di persone della comunità diocesana di Xai-Xai, città nella provincia di Gaza, nella zona meridionale del paese. I rapporti di Francesco con questa realtà risalgono ai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires, in Argentina. Sin da allora, il flusso di missionari laici e sacerdoti inviati da diverse Chiese argentine a quella di Xai-Xai, è stato regolare. In quasi vent’anni sono stati mandati nella zona 23 laici e sei preti diocesani. Svariati missionari argentini hanno lavorato e lavorano tuttora in zone di prima evangelizzazione di questa diocesi che nel 2000 ha subito una gravissima alluvione.
Poco dopo, il Santo Padre si è diretto verso la cattedrale dell’Immacolata Concezione, sede dell’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i seminaristi e i catechisti del Paese. Con aria affatto stanca e comunque traboccante di energia, ha percorso lentamente la navata centrale insieme all’arcivescovo di Maputo e al parroco. La collaborazione tra sacerdoti, religiosi e laici è una realtà che qui si vive ogni giorno e rappresenta un segno profetico per la società intera.
È questo il volto che la Chiesa locale ha presentato al Papa nel corso di un appuntamento a lungo atteso. L’allegria generale delle migliaia di fedeli giunti da ogni angolo del Paese era contagiosa, tutti cercavano il suo sguardo, ricevevano la sua benedizione, scattavano foto con lo smartphone e cantavano.
Arrivato all’altare, il Pontefice ha depositato una corona di fiori ai piedi di un’immagine mariana ed è rimasto qualche minuto in silenzio, con grande devozione. Durante il suo breve saluto, monsignor Hilario da Cruz, vescovo di Quelimane, ha raccontato la storia di una Chiesa «perseguitata», che tuttavia, malgrado i tempi bui, non ha mai negato il Vangelo.
La musica, i colori e i balli tradizionali hanno dato il via all’incontro con una comunità intera che ha chiesto al successore di Pietro di sostenerla nella fede. Dopo le parole di un sacerdote, di una religiosa e di un catechista, il Pontefice ha aperto una riflessione sull’urgente missione dei vescovi che in Mozambico si trovano ad affrontare numerose sfide, con un intenso discorso in continuità con quanto affermato da Giovanni Paolo II durante la sua visita nel 1988. Il Papa ha raccomandato vicinanza e compassione. «Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto d’ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara», ha detto.
L’indomani, venerdì 6, il Papa ha iniziato la giornata visitando nella periferia di Maputo l’ospedale Zimpeto, specializzato nell’assistenza alle persone con Hiv. Il Mozambico è il quarto Paese del mondo per numero di infetti dal virus: malgrado il successo di una campagna nazionale che tra il 2010 e il 2017 è riuscita a innalzare la copertura dei trattamenti antiretrovirali dal 12 al 54 per cento della popolazione colpita, il numero di contagi continua a essere elevato.
Accolto tra gli altri da Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, che nel nosocomio è presente con il progetto Dream proprio per la lotta all’Aids e alla malnutrizione, Francesco ha incoraggiato i malati incontrati visitando alcuni reparti. «Il Centro di Zimpeto è manifestazione dell’amore di Dio, sempre pronto a soffiare vita e speranza dove abbondano la morte e la sofferenza», ha detto Francesco emozionando un gruppo di mamme con bambini in attesa di salutarlo. In dono ha lasciato un’immagine devozionale mariana realizzata in ceramica, che rappresenta la Vergine con in braccio il bambino.
A conclusione della permanenza in Mozambico, infine, il Pontefice ha celebrato la messa solenne nello stadio Zimpeto. Durante il rito, caratterizzato da una grandissima partecipazione nonostante la pioggia, ha detto: «Se Gesù sarà l’arbitro tra le emozioni contrastanti del nostro cuore, tra le complesse decisioni del nostro Paese, allora il Mozambico ha assicurato un futuro di speranza; allora il vostro Paese potrà cantare a Dio, con gratitudine e di tutto cuore, salmi, inni e canti ispirati».
Il grande stadio e il piazzale che lo circonda hanno accolto i fedeli provenienti da tutto il Paese. Tra la folla si distinguevano volti e abiti tipici delle diverse etnie che formano la società, riflesso della pluralità culturale del Paese africano. È stata una delle messe più affollate della storia della Chiesa cattolica mozambicana. Notevole il colpo d’occhio: l’altare molto semplice con una grande croce sullo sfondo. Francesco, accolto da un entusiasmo straripante, è arrivato a bordo della papamobile e ha fatto un giro tra la folla per salutare i presenti. All’omelia ha pronunciato parole forti, decise, coinvolgenti. Sollecitando più volte le risposte dei giovani, il Papa ha invitato i mozambicani a non fuggire dalle sfide della vita e ad avere il coraggio del perdono.
Nei canti e nelle intenzioni di preghiera non sono mancati riferimenti agli idiomi locali come le lingue bantu. La più popolare di queste è la Makhuwa.
L’Osservatore Romano, 6-7 settembre 2019.

Voci ortodosse al monastero di Bose. Concluso il convegno ecumenico internazionale

L’Osservatore Romano

Si è concluso oggi, venerdì 6 settembre, al monastero di Bose il XXVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, dedicato al tema «Chiamati alla vita in Cristo». Pubblichiamo stralci dei discorsi pronunciati dal metropolita di Volokolamsk, Hilarion (Alfeyev), presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca, intitolato «La vita in Cristo», e dall’archimandrita del Trono ecumenico, Athenagoras (Fasiolo), rettore del monastero di Santa Barbara megalomartire a Montaner di Sarmede, su «La vocazione di una comunità cristiana».
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Il modello di vita da imitare 
Uniti a Cristo 
di HILARION
L’espressione “vita in Cristo”, largamente usata nella teologia ortodossa, descrive l’essenza stessa dell’esistenza della “nuova creazione” alla quale sono chiamati tutti coloro che credono nel Figlio di Dio venuto nella carne. «La vita in Cristo nasce in questa vita terrena, e qui se ne accoglie il principio, ma si compie nella vita futura, quando vi giungeremo un giorno» (I, 1). Sono le parole che aprono l’opera mistagogica di san Nicola Kavasila (1322-1398), divenuta un classico: i Sette libri sulla vita in Cristo. Basandosi principalmente sulla dottrina paolina della rigenerazione dell’uomo “vecchio” nel “Nuovo Adamo”, l’asceta bizantino sostiene che la nuova vita di grazia data ai credenti in Cristo è conseguita e mantenuta attraverso la forza dei sacramenti, così come attraverso gli sforzi degli stessi credenti, che cercano di vivere secondo la legge di Cristo.
Nei sacramenti, che «figurano la sua sepoltura e annunciano la sua morte», scrive san Nicola, «siamo generati e formati, e siamo uniti al Salvatore in modo soprannaturale. Perché attraverso di essi noi, come dice l’apostolo, “viviamo e ci muoviamo con loro ed esistiamo” (Atti, 17, 28)» (Libro I, 35). La più alta manifestazione di questo legame con Cristo qui sulla terra si realizza nel sacramento dell’eucaristia, in cui il credente comunica, spiritualmente e corporalmente, al Salvatore risorto. Anche san Giovanni di Kronstadt (1829-1909) ha parlato della potenza di trasformazione dell’eucaristia nel suo diario spirituale La mia vita in Cristo: «Infatti, attraverso la comunione del purissimo corpo e sangue di Cristo diventiamo carne dalla sua carne e ossa dalle sue ossa».
Nella Chiesa occidentale, dal medioevo si è sviluppata la tradizione ascetica dell’imitazione di Cristo (imitatio Christi) che, al pari della tradizione cristiana orientale della “vita in Cristo”, risale alle epistole dell’apostolo Paolo: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1 Corinzi, 4, 16). Già sant’Agostino vedeva nel diventare simili a Cristo il fine della vita cristiana e il mezzo per superare le conseguenze del peccato originale. Ma sarebbe un errore pensare che questa tradizione abbia solo un significato etico. Anche gli asceti d’Occidente erano convinti che non fosse possibile diventare come Cristo solo con lo sforzo umano. È necessario essere veramente uniti a Cristo perché Egli possa cambiare l’uomo con la sua grazia divina. In uno dei testi più celebri della spiritualità occidentale, L’imitazione di Cristo, attribuita a Tommaso da Kempis (intorno al 1420), l’autore indica nella persona e nel cammino terreno del Signore Gesù Cristo il modello di ogni cristiano. Allo stesso tempo sottolinea l’insufficienza degli sforzi umani, perché l’essere umano è sempre troppo debole per cambiare: «Non avrai mai pace se non ti sarai unito interiormente a Cristo» (cfr. II, 1, 3). Questo legame si realizza principalmente nel sacramento dell’eucaristia.
Così, sia la “vita in Cristo” nella tradizione ortodossa, sia l’“imitazione di Cristo” nella tradizione cattolica, ha sempre messo in risalto la stessa idea fondamentale, senza la quale non esiste una vera fede cristiana: il centro della vita di un cristiano è la persona viva del Dio-Uomo Gesù Cristo, che rimane con i suoi «tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Matteo, 28, 20). In nessun luogo questa verità fondamentale è più reale che nel sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo.
L’eucarestia e gli altri sacramenti della Chiesa costituiscono la più alta forma di comunione al Cristo vivente, necessaria alla nostra salvezza. Al tempo stesso è della massima importanza sottolineare che al Cristo quale Salvatore del mondo partecipano, in un modo o nell’altro, anche i credenti delle altre religioni e tutta l’umanità nella sua interezza. Si pensi solo se ci sia mai stata nella storia un’altra personalità che abbia avuto un’influenza così profonda, universale e feconda sullo sviluppo della cultura umana. È stato proprio Gesù Cristo a offrire il vettore dello sviluppo culturale di diversi continenti. Dal Medio oriente il cristianesimo si è rapidamente diffuso in Asia minore e nell’Africa del nord, per poi penetrare in Europa, orientale e occidentale. Nel corso dei secoli, la civiltà cristiana si è diffusa nelle Americhe, in Australia, in buona parte dell’Africa e dell’Asia sud-orientale. In ciascuna di queste regioni il cristianesimo ha mostrato un’enorme — e in molti casi decisiva — influenza sullo sviluppo della cultura, contribuendo alla formazione dei codici culturali di interi popoli. Ancora, quale altra personalità è paragonabile a Gesù Cristo per l’influsso che ha avuto nello sviluppo della morale? Nonostante non avesse alcun tratto del riformatore sociale, il suo insegnamento nel corso dei secoli è stato all’origine di molti profondi e radicali cambiamenti in tutto il sistema delle relazioni tra le persone, non solo sul piano dell’etica personale, ma anche a livello sociale.
Il filosofo francese contemporaneo René Girard, cui si deve la “teoria mimetica”, afferma che non c’è alcun essere umano perfettamente libero dall’imitazione (mimetismo): ognuno nella sua vita si forma in base a questo o a quell’altro modello. In effetti si dà solo un’alternativa: o la sequela di Cristo, l’imitazione di Cristo, che ci ha dato un modello nuovo di vita quale amore disinteressato e sacrificale, oppure l’imitazione gli uni degli altri, mossi dagli impulsi dell’antagonismo e dalla volontà di dominio. Nel primo caso il modello è un personale cammino di perfezionamento spirituale, la tensione al perdono, alla pace e alla giustizia sociale, un atteggiamento amoroso verso la creazione. Nel secondo caso, l’accondiscendenza alle proprie passioni, una lotta di interessi senza requie, che porta a conflitti e guerre, all’aggravamento della crisi ecologica. Quale sarà il mondo domani, su quali vie si incamminerà la nostra civiltà, dipenderà in larga misura dal modello che gli esseri umani sceglieranno oggi di imitare. E noi, cristiani, ortodossi e cattolici, dobbiamo unire gli sforzi per mostrare nella nostra vita questo modello nel Signore Gesù Cristo, il Salvatore del mondo.
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Nella pienezza di essere Chiesa
Vocazione di una comunità
di ATHENAGORAS

Nella tradizione cristiana l’idea di “vocazione” ha manifestato diverse esperienze, dandone un significato fondamentale: essa viene intesa come il momento in cui uno percepisce che Dio stesso ha assegnato una destinazione a se stesso, qualcosa che entra nell’intimo dell’animo umano e ne riconosce la parte migliore. Essa, nella libertà dei figli di Dio, può essere accolta, fare appello alla fede, all’abbandono alla forza di Dio, alla ricerca della forma che è la sua bellezza, essere creativa, pacifica e riceve sempre la forza necessaria per generare una storia della propria vita che non farà mai dubitare di ciò che gli è stato assegnato. Una tale vocazione ha come presupposto ciò che Nicola Cabasilas chiamamaniakòs èros, l’amore folle di Dio per l’uomo e la risposta dell’uomo nella sua capacità di interpretare l’amore evangelico come destinazione finale della vocazione stessa.
Nel mondo attuale, anche cristiano, il termine vocazione viene ridotto ad alcuni stereotipi, ad alcune figure particolari, come il prete, il religioso. Ma questa non può essere un’esperienza di vocazione. Si tratta di capire come la fede cristiana si relazioni alla “chiamata” e questa venga posta al centro dell’avventura umana di ognuno, al fine di considerare la vita relazionale, professionale, eccetera, a partire dalla propria fede. Ogni essere umano deve avere la capacità di porsi in ascolto di sé stesso, di ciò che è spesso profondamente nascosto nel più intimo di ogni esistenza. Solo partendo dalla propria umanità, fondamentalmente di relazione, si potrà accogliere il Cristo che chiama chi vuole e che offre a chi lo segue o lo imita di andare fino in fondo al proprio cammino, per essere a immagine e somiglianza di Dio (Genesi, 1, 26-27). È necessario pertanto avere la disposizione per fare esperienza della “voce” che è dentro di ognuno. Secondo le Scritture, Dio è l’origine di questa voce, che costituisce nell’uomo la consapevolezza dell’esistenza di cose che non esistono. È la prima risposta alla chiamata misteriosa, “Eccomi!”, è ciò che l’apostolo Paolo dice di Abramo: «Egli è nostro padre davanti a colui nel quale credette, il Dio che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Romani, 4, 17).
L’accogliere questo invito dà il senso dell’unicità. Non esiste un altro termine di paragone. Nessun altro può sentire la voce, la sua esistenza è unica. Nessuno può affrontare al posto di un altro ciò che nella sua vita diviene smisurato e allo stesso tempo a sua misura unica.
La chiamata è sempre e unicamente personale ma la sua accettazione ha sempre un’implicazione comunitaria. La Chiesa è «Corpo di Cristo» (1Corinzi, 12), unione e unità nello Spirito santo dei fedeli nell’umanità deificata di Cristo. Cristo e la Chiesa sono un’unità inseparabile e inconfusa. Nel giorno di Pentecoste l’umanità glorificata di Cristo torna nel mondo, dopo la sua ascensione “ai cieli” della Divinità trisplendente, perché possa continuare la presenza di Cristo tra i fedeli (Matteo, 28, 20), ma in modo diverso, nello Spirito santo. La Chiesa, infatti, secondo Cabasilas, è fondata sia sull’eucarestia sia sulla pentecoste, cioè sulla reciprocità e il mutuo servizio del Figlio e dello Spirito santo in maniera che «il risultato delle azioni di Cristo non siano altro che l’effetto della discesa dello Spirito santo sulla Chiesa» (Spiegazione della divina liturgia).
Vocazione della comunità cristiana è la divina eucarestia, in quanto essa è necessaria per la vita in Cristo. Ognuno non partecipa nella sua individualità al sacro mistero, ma nella pienezza del suo essere Chiesa.
Se la vocazionalità eucaristica di una comunità manifesta la radicale vocazione decisionale dell’individuo, allo stesso tempo diviene una vocazionalità di tipo comunionale. Cristo non ci salva personalmente in modo autonomo, ma come comunione, come membri di un solo corpo, una comunione, una comunione del suo corpo. Ma in una comunità cristiana, che nell’amore manifesta la vocazione personale di ogni membro e nell’eucarestia centralizza questo amore, c’è la necessità dell’esempio, dell’imitazione quindi. In ogni comunità cristiana sia essa parrocchiale o monastica c’è la necessità di riconoscere gli “uomini di Dio”, che manifestino la Chiesa come mistero d’amore. Attorno a queste figure spirituali si raggruppano i figli spirituali per i quali si affaticano per una loro rinascita in Cristo, la rinascita del fedele, così come ci parla Giovanni al capitolo 3, riferendosi a Nicodemo.
Ma non sono maestri, pedagoghi, sono coloro che partendo dalla vocazione intima del credente lo accompagnano a una rinascita: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1 Corinzi, 4, 15); fanno cioè rinascere figli in Cristo e non propri. Questi portatori dello Spirito, pneumatofori, sono costituiti come “tempio dello Spirito santo”, santi, divinizzati, non una “élite” della Chiesa ma precursori di una via verso la divinizzazione che è di tutti i fedeli. È la vocazione di giungere alla divinizzazione, a essere “dei per grazia”, essere comunità come “laboratori di santità e ospedali spirituali”.
Nel corpo di Cristo e quindi nella vita della Chiesa, parrocchiale o monastica, giunge l’uomo per trovare sollievo, per essere guarito dalla malattia della caduta, dall’allontanamento del funzionamento orante della mente, dalla memoria di Dio. L’uomo oggi ha necessità di purificare la mente, il cuore, di purificare il suo “a immagine” per rientrare nella reale esistenza dell’illuminazione dello Spirito santo, per giungere alla grazia increata e al regno di Dio.
Solo colui che ha trovato l’illuminazione dello Spirito santo vive il vero amore, comunione con i fratelli, è il medico che ha curato sé stesso e quindi apre la sua filantropia, a imitazione del Prototipo, ai fratelli.
Credo che innanzitutto le comunità, per vocazione, debbano vivere un’autocoscienza escatologica anche nell’attuale realtà storica, così come lo è stato in tutte le epoche. Non si tratta di uno sguardo volto solamente al passato o una fuga in avanti, ma si tratta di tornare a porre la centralità dell’annuncio e la chiave di lettura dei padri. Non si può pensare solamente a un lavoro filantropico o sociale o alla pura celebrazione di liturgie e teleturgie, ma di essere laboratori viventi e operanti per la salvezza e la divinizzazione dell’uomo.
Ci vuole una lotta serrata contro la morte, il peccato, la corruzione, e divenire centri di rinascita e resurrezione. Allora sì l’opera sociale e filantropica sarà inserita nella lotta per la divinizzazione, la comunionalità e la fraternità saranno frutti naturali della comunione con la grazia divina increata. Quando una comunità diviene consapevole del reale motivo della propria esistenza, vocazione o carisma, allora cessa di essere un luogo di incontro di circostanza e diviene reale centro della vita di tutti coloro che si dicono cristiani. Il tempio non è il luogo della celebrazione o tutt’al più della preghiera, ma è il centro della vita eucaristica che continua nella vita come nella mensa del monastero a essere una liturgia dopo la liturgia.
C’è la necessità dell’unità tra vita spirituale e sociale e di una reale metánoia nella vita di ogni battezzato. Le nostre parrocchie sono divenute troppe volte luogo di incontro sterile, non troviamo la comunione “degli amici” di cui parla Gesù nell’ultima cena: «Ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Giovanni, 15, 15). I nostri monasteri spesso, molto spesso, non seguono l’indicazione patristica di essere un “gruppo di amore”, e non si vedono volti sorridenti. La filantropia è semplice elemosina, ma non un “camminare assieme”.
Concludendo, c’è la necessità di una vocazione forte delle nostre comunità, che parta dalla vocazione personale di ognuno, da quella “voce” primordiale che ci interpella e che ritrovo nel saluto di 2 Corinzi, 13, 13: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio padre e la comunione dello Spirito santo, sia con tutti voi». La grazia del Signore ci chiama, ci invita al divino banchetto, ci parla e ci fa parlare le lingue degli uomini e le lingue degli angeli, l’amore di Dio padre, ci apre all’ospitalità, alla filantropia, all’unità, e la comunione dello Spirito santo ci fa comunità, è con noi; la potenza della Trinità rappresentata da quel “sia” (e non “siano”) si fa vocazione sempre nuova e sempre presente nella Chiesa.
Cito un solo esempio di tale concretezza, prendendolo dalla vita della gerontissa Gavrilia in India. Interrogata sul perché parlasse solo inglese e non avesse mai imparato i dialetti locali per farsi più vicina ai bisognosi, la gerontissa — dopo una velocissima e intensissima preghiera — disse di conoscere cinque lingue: il sorriso, le lacrime, il contatto, la preghiera e l’amore. Penso sia la più bella vocazione di una comunità.
L’Osservatore Romano, 6-7 settembre 2019