Anas, si chiude senza disagi week end da bollino rosso

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È positivo il bilancio del weekend di esodo estivo di fine luglio, contraddistinto da bollino rosso, sui circa 30 mila chilometri di rete stradale e autostradale gestiti da Anas (società del Gruppo FS Italiane). Lo rende noto la stessa Anas, sottolineando che il tutto è avvenuto ‘nonostante il maltempo che ha interessato sabato e domenica diverse regioni, in particolare nel Nord e nel Centro Italia, ma i disagi sono stati contenuti e non si sono registrate particolari criticità dovute all’aumento dei flussi di traffico’.

Nel pomeriggio di venerdì e per tutta la giornata di sabato si sono concentrate gran parte delle partenze dai grandi centri urbani verso le località turistiche. Traffico sostenuto in particolare lungo alcuni itinerari particolari: in Friuli Venezia Giulia, sui Raccordi Autostradali RA13 ed RA14 verso i valichi di confine; lungo la SS36 ‘del Lago di Como e dello Spluga’, la SS26 ‘della Valle D’Aosta’, la SS51 ‘di Alemagna’ e la SS309 ‘Romea’; lungo le direttrici SS1 ‘Aurelia’, SS16 ‘Adriatica’, SS106 ‘Jonica’ e SS18 ‘Tirrena Inferiore’; traffico intenso anche sulla A2 ‘Autostrada del Mediterraneo’ e, in Sicilia, lungo l’autostrada A29 ‘Palermo-Mazara del Vallo’ e la Tangenziale di Catania.

Per quanto riguarda la giornata di oggi, la circolazione nel tardo pomeriggio e nelle ore serali sarà caratterizzata soprattutto dai rientri dal weekend. Per agevolare gli spostamenti, il divieto di transito dei mezzi pesanti è in vigore fino alle ore 22.00 di questa sera. Intanto in Liguria è stata riaperta al traffico in tarda mattinata la strada statale 1 ‘Via Aurelia’ ad Arenzano (GE), chiusa nel corso della notte per allerta meteo arancione.

Sulla strada statale 2 bis ‘Via Cassia Veientana’ è stata riaperta in mattinata la carreggiata in direzione Roma all’altezza del km 1,000, precedentemente chiusa per un allagamento del piano viabile dovuto al maltempo. Rallentamenti con code a tratti si sono registrati nel pomeriggio sulla SS148 ‘Pontina’, in direzione Roma, per un incidente tra due veicoli al km 34,800.

Riaperta nel primo pomeriggio la strada statale 688 ‘di Mattinata’, in provincia di Foggia, precedentemente chiusa in corrispondenza della galleria San Benedetto per un incidente che ha coinvolto tre veicoli, causando il decesso di due persone. Da ultimo l’Anas ricorda che la mattinata di sabato prossimo, 3 agosto, sarà contraddistinta da bollino nero in previsione delle grandi partenze lungo gli itinerari delle vacanze. (ANSA).
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Il Canto delle cose beatamente perdute

La bellezza non basta, la musica delle parole non basta, la poesia deve anche essere “buona”, nutriente.

Se non amplia gli orizzonti di chi legge, se non porta effetti collaterali positivi nella vita di chi la frequenta può essere serenamente, beatamente dimenticata, facendo posto ad altri nutrimenti letterari più corroboranti. È una delle regole di quel decalogo implicito che connota la vita e l’opera di Margherita Guidacci, e che rende così interessanti, così concretamente “utili” i suoi saggi critici (e così belli e originali i suoi versi). Lo ha messo in luce con chiarezza Ilaria Rabatti nella documentatissima, appassionata introduzione al libro Il fuoco e la rosa. Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot (Petite Plaisance, 2006) che ripropone traduzioni e saggi tanto interessanti quanto poco noti; in due casi, pubblicati anche dal nostro giornale (Itinerario dalla terra Desolata il 21 maggio 1986 e Una Lady silenziosa e dolcissima indica la rotta ai naviganti il 26-27 settembre del 1988).

Margherita Guidacci con in braccio  sua figlia Elisa

Nei curricola vitae dei grandi scrittori ci sono spesso entusiasmi giovanili e infatuazioni letterarie destinate a non lasciare traccia. Per Margherita Guidacci, ad esempio, l’innamoramento per il cosmo simbolista è stato tanto violento quanto passeggero, una full immersion che risale al periodo degli studi universitari legata, spiega Rabatti, alla «gran mole di lavoro andata poi beatamente perduta» compiuta durante l’elaborazione della tesi di laurea su Ungaretti, assegnatale da Giuseppe De Robertis nel 1943.

In realtà, ricorda la scrittrice fiorentina nell’articolo Coscienza di un confine («Stagione, lettere ed arti», anno III, n. 11, p. 8), «la mia tesi di laurea doveva vertere sulla poesia italiana contemporanea (si era allora negli anni di guerra, in pieno rigoglio dell’ermetismo) poi per ragioni di tempo e di salute si restrinse invece al solo Ungaretti. Posso dire (…) di non avere fatto mai studi più coscienziosi. Nella fornitissima biblioteca di Giovanni Papini, in cui, per gentile concessione dello scrittore, mi recavo ogni sera percorrendo a tastoni, nell’oscuramento, il tratto fra via della Mattonaia e via Guerrazzi, il materiale non mancava davvero (…) riempivo quaderni su quaderni di appunti, inseguendo le diramazioni dalla triplice fonte di Rimbaud-Verlaine-Mallarmé, oltre alla larga arteria di Valéry, fino ai rigagnoli più capillari ed esterni, dei Ghil o dei Fabre (…) Come poi tanta mole di lavoro abbia potuto andare per me così beatamente perduta, è un altro fatto, che resta da spiegare. Ognuno di noi è naturalmente selettivo, permeabile a certe esperienze, impermeabile ad altre, indipendentemente dal tempo e dall’applicazione che vi dedica: come ogni pianta sceglie dal terreno determinate sostanze e non altre, e non cresce finché non ha trovato quelle che la nutrono».

Il decadentismo «evidentemente non mi nutriva — confessa la Guidacci — né quello di cui mi ero cibata nella biblioteca di Giovanni Papini, né quello di cui avevo osservato, con un timore reverenziale, i riflessi nella Firenze ermetica del mio tempo».

Ben più sostanziosa per la scrittrice è la poesia di Emily Dickinson, di John Donne e di T.S. Eliot, o la prosa di Ernest Hemingway e, in generale, la voce di quegli autori che sentono la necessità di una letteratura più aderente alla vita, usando magari un linguaggio meno “puro”, ma più concreto e denso di pensiero. Scrittori in cui l’impegno intellettuale è sempre sorretto da una immaginazione plastica e lussureggiante, forse più difficili da tradurre, ma sicuramente più interessanti e “nutrienti”. Il tema del nutrimento interiore che deriva dalla traduzione torna anche nell’intervista concessa dalla scrittrice a Ennio Ercoli, La coscienza e il senso dell’assoluto. «Quello della traduzione — racconta Guidacci — è stato per me un lavoro formativo, mi ha nutrita, mi ha aperto delle prospettive. Soprattutto rispetto ad Eliot per quanto riguarda quel concetto dell’intersezione dell’eterno nel tempo che venne acquisito in un momento di crisi della mia generazione e che ci ammoniva ad agire bene, distaccati dal frutto dell’azione, che richiamava il valore cristiano riproposto con voce moderna. Sì, posso dire che in quel momento la poesia di Eliot è stata un conforto infinito».

Un sollievo profondo e duraturo; un cibo per l’anima senza date di scadenza a breve termine, scaturito però da una costante, aspra battaglia con testi complessi, difficili da traslare in un altro universo simbolico.

Sui problemi della traduzione poetica la Guidacci tornerà spesso, in molti scritti e in tante interviste. «In tutte, comunque, con decisione — nota Ilaria Rabatti nella sua prefazione/saggio — afferma la strada che seguirà sino alla fine: non tradurre mai sistematicamente, ma perseguendo con paziente impegno un’ambizione di bellezza».

Una bellezza, anche qui, non fine a se stessa ma utile a uno scopo ben preciso, capace di donare al testo tradotto una nuova incarnazione, nel senso letterale (e cristiano) del termine. «Tradurre — scrive Guidacci parlando dei suoi studi su Eliot — è sempre stata per me un’esperienza molto importante. Un’esperienza che sento, in qualche modo, affine a quella creativa. Non si tratta, infatti, di travasare da una lingua all’altra, ma di far rivivere nella lingua d’arrivo ciò che era vivo e produceva effetti vitali nella lingua di partenza: arrivare, insomma, all’anima di una poesia e offrirle una nuova incarnazione. Per ottenere tale risultato si devono mettere in opera esattamente gli stessi mezzi che ci soccorrono nel creare una poesia originale; risolvere gli stessi problemi di senso, di suono, di ritmo; armarsi della stessa pazienza e capacità di attesa e, qualche volta, affrontare la stessa disperazione».

La riflessione sul testo precede, accompagna e segue sempre il duello corpo a corpo con il solenne, sentenzioso periodare del poeta di Saint-Louis. Durante il lavoro di traduzione, la Guidacci metterà mano, infatti, al saggio I Quartetti di Eliot, pubblicato sulla rivista «Letteratura» nell’ottobre del 1947.

«Fu uno dei primi se non addirittura il primo in Italia — sottolinea con legittimo orgoglio la stessa autrice — a trattare diffusamente del capolavoro eliotiano»; un testo uscito in inglese nel 1944 e conosciuto in Italia solo dopo la fine della guerra.

Ai versi di Eliot Guidacci riconosce un alto valore nutritivo, talvolta persino terapeutico, apprezzando soprattutto la poesia drammatica, nel tentativo di recuperare quella dimensione corale della poesia che nel Novecento è stata spesso trascurata.

I poeti del secolo breve, nota la scrittrice, fanno fatica a usare la prima persona plurale; perso di vista il “noi” e la dimensione epica del bene comune rischiano di affondare nelle secche di un intimismo sentimentale sterile.

Eliot, invece, nei suoi momenti più alti — come nei cori de La Rocca o nel lamento delle donne di Assassinio nella cattedrale — è capace di ricomporre «la frattura fra l’artista e il tempo».

Ed è facile allora rendersi conto di come la lirica «fra tutte le forme poetiche — scrive la Guidacci nel testo “Il pregiudizio lirico” (ampiamente citato nel saggio di Rabatti) — non solo non sia oggi la più indicata ad esprimere questa realtà, ma sia addirittura intrinsecamente la più insufficiente. Quanto era viva e operante nel primo Ottocento la spinta individualistica, tanto viva e operante è oggi l’aspirazione ad una comunità in cui l’individuo si sviluppi in armonia con gli altri, in un contemperamento di diritti e di doveri».

Al mito della solitudine dei vittoriosi o dei vinti di stampo romantico «si contrappone oggi — continua Guidacci — un desiderio di fraternità: tanto più dopo che due guerre mondiali ci hanno insegnato (specialmente la seconda) come gli uomini su questa Terra si salvino o si dannino insieme (…) È la crisi inversa, e l’alba di una fase sociale molto differente da quella su cui germinò la lirica romantica. Ed essendo una fase in cui l’uomo non è considerato isolato, ma al centro di rapporti con altri uomini, alla poesia si offrono come vie di agganciamento alla realtà molto meglio le forme pluralistiche, quali la drammatica, la satira, che non la lirica».

D’altronde, chiosa Guidacci, gli esempi positivi, anche nel tanto vituperato secolo breve, non mancano. «Se guardiamo alle direzioni più valide della poesia mondiale, vediamo come il passaggio, ad esempio, dalla lirica alla drammatica sia da più parti in atto: basterebbe ad esemplificarlo il cammino di Eliot. E oltre che da Eliot le più alte cime della poesia di questo secolo sono state, per l’appunto, toccate da un poeta anche drammatico come Federico Garcìa Lorca e da un poeta essenzialmente drammatico come Bertolt Brecht». Ciò che dà voce alle domande più autentiche dell’uomo è di per sé religioso, anche se non viene mai citata la parola Dio, ribadisce Guidacci nei suoi saggi critici. «Non comprendo come si possano contrapporre la prima e la seconda metà dell’opera di Eliot chiamando religiosa soltanto quest’ultima, da Ash-Wednesday in poi. Si integrano a vicenda come due emisferi di una medesima sfera». E il cristianesimo di Eliot, precisa la scrittrice (descrivendo, inconsapevolmente, anche la propria lotta interiore) «non ha niente dell’evasione, di un ripiego a cui l’anima si determini per sfuggire a un’intollerabile angoscia. Eliot non è giunto al cristianesimo perché stanco di una intense moral struggle abbia a un certo punto, deciso di concedersi dei bewildering minutes, un appagamento sentimentale; vi è giunto proprio al termine di quella moral struggle, accettata e combattuta fino in fondo con immenso coraggio».

di Silvia Guidi

Osservatore Romano

Duecento anni di «Infinito»: ricercare la voce di Dio

Il ragazzo che mormora “Infinito” non è andato lontano per cercare di comprendere l’esperienza fondamentale dell’uomo (e sì di dirla, riuscendoci stupendamente). È andato dietro a casa sua. L’esperienza dico del sentirsi limitato, assiepato dal finire delle cose e dal limite. E al contempo, come spesso sottolinea nei Pensieri e nello Zibaldone, l’esperienza di aborrire questo senso della fine, il finire delle cose che amiamo. Quando succede la fine di qualcosa di bello, non prendiamo atto e basta. Il cuore e la mente ribollono, si oppongono, patiscono. A volte gridano. Leopardi muove da questo dato semplice, esistenziale, (innegabile a costo di voler negare la nostra natura) per mettere a fuoco il problema dell’Infinito. È proprio del mistero dell’esser nostro sentirsi invaso dal desiderio di qualcosa che non ha luogo nei confini del mondo, di conoscere un infinito che però — il poeta autore di saggi astronomici lo sapeva — in natura non esiste. Tutto è misura, dicevano gli antichi e i moderni lo sanno con più sgomento non avendo favole, illusioni o miti a coprire questa verità cruda. Ma allora, come fare, come vivere ? 

In questa poesia che tutti pensano di conoscere e che mi sono portato addosso, tra i denti, nel respiro, nella bestemmia, nella preghiera per mesi e mesi girando ovunque e da questo è nato il libro di chi scrive E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo (Roma, Fazi Editore, 2019, pagine 166, euro 15) avviene qualcosa. Un passaggio capitale. Troppo spesso non visto o non voluto vedere. È certo una poesia “ambientale”, una poesia che, come dice Vittorio Gassman in un filmato che abbiamo ripescato per l’omaggio delle RaiTeche, se fosse nato a Catanzaro Leopardi non avrebbe scritto…Però “questo” colle e “questa” siepe in quanto luogo di un teatro universale sono divenuti un ovunque, perché dappertutto vi sia un uomo veramente vivo si trova il problema dell’infinito. Leopardi sale su un colle, che non è più il “monte” petrarchesco. E anche in questa aurea che Ungaretti indica come “ironica” nel senso di una sorta di esperienza enorme ma in miniatura, insomma una sorta di “ironico” abbassamento, avviene qualcosa. Leopardi chiamava questi Idilli“avventure storiche del mio spirito”. In genere, invece, si pensa a questa poesia come a un momento estatico, di illuminazione o sperdimento. Si tratta sì di una grande esperienza interiore, ma per nulla immobile. In questa poesia un giovane fa l’esperienza di un cuore che quasi “si spaura” e poi di un dolce naufragio. Tra le due esperienze, evidentemente, succede qualcosa che non è solo legato a elementi compositivi della poesia, magnetica e vivissima. Infatti abbiamo certo il passaggio da un ambito determinato dal senso della vista (“mirando”, “fingo” etc.) a uno dell’udito (“odo stormir”) nonchè un passaggio dalla dimensione dello spazio suggerito dalla presenza della “siepe” a una enigmatica esperienza del tempo (“e mi sovvien l’eterno etc.”). Ma il passaggio fondamentale che si compie in questa poesia è altro. Si tratta di una questione molto rilevante. Si tratta, in sintesi, della messa in scena, per così dire, del motivo per cui la cultura greca, da Aristotele ai poeti di quella civiltà immensa, considerava l’apeiron, (che possiamo tradurre come “innumerevole”,” infinito, senza confini”) con una specie di timore e terrore e la nostra civiltà che, per ora, invece no. Intendo che oggi noi diciamo “infinito” senza provare spauramento, ma indicando una dimensione certo difficile da immaginare ma attrattiva e in un certo senso affascinante. E questo lo si deve a quel che in questa breve e strana poesia accade. È un cambio che ha conseguenze enormi dal punto di vista antropologico. Si badi: Leopardi è poeta immenso, contraddittorio, pensatore vivacissimo e magmatico. Sta nella storia della letteratura “come un tir rovesciato in autostrada”, secondo la felice immagine di un critico letterario. Sulle caratteristiche del suo pensiero si “combattono” vari fronti interpretativi, con il rincorrersi di diversi luoghi comuni. E non cesseranno mai, come per ogni autore “mondo”. Restano altissimi in ogni caso il gradimento e la curiosità destati dalla arte meravigliosa e sofferente del giovane che mormora “Infinito”. Cresce la sua empatia con i giovani del nostro tempo. E dunque cosa succede in questo testo che come ogni poesia è analogo a una danza, a un movimento di parole, a un corpo che si deve osservare bene nelle sue giunture, slanci e controtempi? A metà della poesia, dopo che il fingersi l’infinito ha provocato quasi il blocco dello spauramento, accade il vento…”E come il vento/ odo stormir tra queste piante…” 
Apriamo il libro dei Re, di certo presente al giovane Leopardi che indica la Bibbia esser oltre a Omero suo libro della gioventù, come è ovvio per il genere di formazione che aveva ricevuto. Elia, il profeta, è in fuga, vorrebbe morire, i profeti sono tutti morti, ma Dio lo nutre e lo fa camminare. Il profeta non sa bene cosa fare e cerca la voce di Dio. 
“Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. 
Anche sul colle di Recanati avviene una brezza (“stormir”), si presenta una “voce” comparabile con il silenzio. Si esce dalla finzione e si entra nella comparazione, uno spazio di conoscenza che non si può esprimere se si resta fuori dalla poesia, dove la verbi copula fa in modo che stupet omnis regula. Siamo nei territori della conoscenza mediante un segno, i territori che frequentiamo quando dobbiamo renderci conto delle realtà più importanti della nostra vita e che non sono enti misurabili e visibili (l’amore, l’amicizia anch’essi infinitamente sfuggenti a ogni “definizione” ma conoscibili attraverso i segni). 
L’Infinito, che sfugge e spaura ogni speculazione o finzione immaginativa, che era temuto dai greci, amanti della forma e quindi sospettosi verso l’apeiron, si fa qui, come nella grotta di Elia, incontro al profeta attraverso un segno, vento che stormisce tra le fronde. A questo punto accade qualcosa di interiore: “sovvien”, sale alla coscienza una esperienza nuova dell’unione tra eterno e tempo (passato e presente). Infatti, l’uomo e solo l’uomo abita temporalmente l’universo. Le montagne non contano i minuti, le querce non si sentono invecchiare. I computer non si sentono ringiovanire. In questa poesia che inizia con un “sempre” si dà un passaggio: la possibilita che l’infinito dia un segno, attraverso cui farne esperienza. Il giovane nutrito di Bibbia sta diventando un uomo sofferente, portato a vedere “tristo” l’esistere, ma sulle orme di Giobbe e Salomone, di contro a quel che pensavano gli ottimisti e gli spiritualisti “nemici di Cristo” , sono sue parole. Si inventerà, un po’ barando secondo Ungaretti che lo bracca in alcuni saggi spaventosamente forti e sottili, la nozione di “indefinito” per provare ad addomesticare questo “mare” dell’infinito che lo ha ossessionato fino alla fine dei giorni — come accade a tutti i poeti grandi e maledetti di allora, ad esempio Baudelaire — stando a certe pagine del giovane De Sanctis che incontra a Napoli nel ‘36 il conte Leopardi malato e gentile. Una poesia prodigiosa, biblica e umanissima, dove emerge il valore del segno, contro ogni astrazione e speculazione che “nel pensier” prova vanamente a catturare un’immagine di quel che il nostro cuore desidera davvero. Solo un infinito che si fa conoscere per segni diviene “questa immensità” e “questo mare” dove è possibile la paradossale esperienza di naufragare dolcemente, cosa che sanno i bambini, gli amanti, e coloro che i segni ventosi del mare conoscono.

di Davide Rondoni

Osservatore Romano

«Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

«Caro Dio – scrive una giovanissima Flannery O’ Connor nel suo Diario di preghiera citato da Vincenzo Rosito nel libro Poeti sociali (Bologna, Edb 2019, pagine 100, euro 9) — dammi un posto, non importa quanto piccolo, ma fammelo conoscere e mantenere. Se io sono quella che deve lavare tutti i giorni il secondo gradino, fammelo sapere, fammelo lavare e lascia che il mio cuore straripi d’amore lavandolo». Tienimi ancorata al presente, al qui e ora, chiede Flannery. Non farmi scappare dalla realtà, rendimi disponibile ad ascoltare quello che mi dice, mantienimi umile in senso letterale, vicina alla terra, legata a quell’humus che nutre ogni creatura vivente.

Tornano in mente le parole profetiche di María Zambrano, che già a partire dagli anni Sessanta del Novecento denunciava con chiarezza in uno dei suoi testi più noti, Verso un sapere dell’anima, le cause dell’anoressia affettiva, sociale e culturale che affligge il mondo occidentale. «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

Da tempo — nota la filosofa spagnola — siamo ostaggio di una superbia che non riesce più nemmeno a percepire se stessa, effetto collaterale di un razionalismo cristallizzato in dogma. Zambrano attribuisce questo errore di prospettiva, che pretende di definire tutto il reale entro i suoi limiti («Si crede di possedere la totalità, si crede di avere in mano tutto») a quella mancanza di coscienza della dipendenza e del proprio limite che è l’umiltà. Quell’umiltà intellettuale, che, sola, è «compagna di ogni scoperta». Una diagnosi impietosa che, con il passare degli anni ha confermato la sua verità, smascherando un esilio di fatto («il genere umano non può sopportare troppa realtà», scrive Eliot già nel 1935, in Burnt Norton) ignorato, negato, o anche solo camuffato da indifferenza.

Dammi un posto nel mondo, dammi un compito, anche piccolo, ma reale, chiede Flannery a Dio. Massima concretezza, massima apertura al Mistero; altre variazioni sul tema “umiltà”. Compagna di ogni scoperta, la definisce Zambrano; nel caso della scrittrice americana, l’umiltà è stata madre di racconti e romanzi di miracolosa, geniale esattezza, sinceri fino alla crudeltà.

Anche un lavoro umile e ripetitivo come pulire il pavimento di un ospedale può aprire inattesi orizzonti di senso; è successo a Daniele Mencarelli, poeta e romanziere che scrive spesso sul nostro giornale (e che il nostro giornale segue dal 2010, con recensioni, interviste e pubblicazioni di stralci delle sue opere). Un ospedale è una palestra di realtà, un luogo dove, se la mente e il cuore non hanno smesso di parlarsi, si diventa bravi a intercettare gli sguardi, a cogliere al volo piccole e grandi storie nel tempo di un caffè o di una sigaretta fumata in fretta sul balcone aspettando il giro del mattino dei medici, in reparto. La casa degli sguardi (Mondadori 2018) è il titolo dell’ultimo libro di Mencarelli; la cronaca di una rinascita che ha per data di inizio la firma di un contratto di lavoro al Bambino Gesù di Roma, il 3 marzo del 1999.

Se l’immersione nella dura realtà della sofferenza dei bambini è la cura, più difficile è spiegare la malattia degli anni precedenti: «Io non sono malato — scrive Mencarelli — sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre bestie. Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, al farsi una famiglia, a queste cose bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide, che mi ha condotto a questo presente vuoto. Dovrei solo smettere di chiedere, cercare, dovrei solo far finta di non cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno». L’alcol serve solo a far tacere tutte queste domande insopportabili. «Non ricordo nulla. È la frase che mi ripeto tutte le mattine. Non ricordare nulla. È il mio obiettivo della sera (…) Quattro anni sono riuscito a spazzarli via, un passo alla volta spazzerò via tutto».

Domande ostinate, incalzanti, che diventano canto, se lasciate fluire liberamente. «Undici Ottobre Novantadue — è l’incipit del bellissimo poemetto Storia d’amore (Lietocolle 2015) — sedici gli anni appena scoppiati / mille i cazzotti mille i baci /strappati dalle labbra di un paese /sgranato passo dopo passo, / senza mai soddisfarla veramente / questa fame infelice / questo desiderio cane di carne e vita / di voglie ubriache sempre in festa. / Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi / un corpo sfinito che s’arrende / a qualcosa dentro di feroce».

Nella fedeltà al proprio compito («La scrittura è una richiesta d’ascolto. Per me è una specie di comandamento» dice Mencarelli) la realtà torna a parlare; non solo le occasioni speciali o i fatti memorabili, anche le cose che incrociamo ogni giorno lungo la strada verso casa. «La luce sul capannone — scrive Umberto Fiori, un altro poeta che ha trovato nella capacità di farsi interpellare da tutto ciò che incontra la sua cifra comunicativa più autentica — / le due finestre murate / e il fosso, lì sotto, e i platani, / hanno ragione. / Guardi, e ti chiedi / come sia possibile / imparare da loro».

L’umiltà è capace di generare meraviglie. «Non conosciamo mai la nostra altezza / (ora a parlare è la folgorante semplicità di Emily Dickinson) finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura. / L’eroismo che allora recitiamo / sarebbe quotidiano / se noi stessi non c’incurvassimo di cubiti / per paura di essere dei re».

di Silvia Guidi in Osservatore Romano