Perché io, sacerdote, seguo il master in “Donne e Chiesa”

Mi chiedono: perché un uomo vuole un diploma di specializzazione universitario su “Donne e Chiesa”? La risposta è semplice: perché credo che come Chiesa dobbiamo compiere un discernimento critico sul ruolo delle donne nel compimento della missione che Gesù Cristo ci ha affidato. Senza un riconoscimento effettivo della loro cittadinanza ecclesiale sarà difficile riflettere il progetto iniziale di Gesù: essere un corpo vivo dove tutte le membra hanno valore.

Sono sacerdote e vicario generale della piccola diocesi di Puntarenas sul litorale pacifico di Costa Rica. Figlio di una sarta e di un operaio, grazie a uno stato solidale, come pochi in America Latina e nei Caraibi, ho potuto ricevere un’ottima istruzione, dalla scuola, fino agli studi universitari.

Come sacerdote ho conseguito un dottorato in Psicologia e un master in Dottrina Sociale della Chiesa presso l’università di Salamanca. Presto servizio come direttore di Caritas Pastorale Sociale nella mia diocesi e come referente del gruppo di lavoro “Equidad entre Hombres y Mujeres” presso il Segretariato dell’America Latina e dei Caraibi della Caritas (Selacc). Sono inoltre membro del Forum Donna di Caritas Internationalis.

Il mio impegno, a partire dal Vangelo, con le donne e le loro lotte nasce dalla realtà delle nostre comunità: l’esclusione e la disuguaglianza in cui vivono sono sempre state motivo di preoccupazione per l’Episcopato latinoamericano.

Già nella seconda Conferenza di Medellín del 1968, si era riconosciuto che gli sforzi compiuti fino ad allora non erano sufficienti e non garantivano il rispetto e l’attuazione della giustizia in tutti i settori delle diverse comunità nazionali.

Oggi Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, citando il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, ci dice che “il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo”. Non possiamo disattendere questa esortazione.

Di fronte a situazioni generate dalla disuguaglianza e dall’iniquità nei rapporti tra uomini e donne — la violenza domestica, la povertà e la miseria in famiglie che, abbandonate dai padri, si ritrovano donne capofamiglia, la mancanza di accesso alle politiche pubbliche riguardanti la sanità, l’educazione, la sicurezza sociale, la creazione di posti di lavoro e di reddito, l’assistenza sociale — la Caritas e le pastorali sociali latinoamericane si sono attivate con diversi progetti rivolti alle donne, posto che queste ultime costituiscono una base importante nell’opera di evangelizzazione in America Latina e nei Caraibi

Ecco perché io, come essere umano, come uomo di 52 anni con 27 di sacerdozio, per amore alla mia Chiesa locale, per solidarietà e affinché “le donne mostrino alla Chiesa la sua dimensione femminile e l’aiutino a pensarsi in termini di categorie femminili”, considero essenziale lo spazio di riflessione e di discussione offerto a chi si diploma in “Donne e Chiesa”, corso promosso dall’Istituto di studi superiori della donna dell’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, che inizia a settembre.

In America Latina e nei Caraibi oggi si ode forte la voce delle donne che, dalla loro condizione ingiusta di povertà e di esclusione, di miseria e di disgrazia, esortano profeticamente: “Spianate, spianate, preparate la via, rimuovete gli ostacoli sulla via del mio popolo” (Isaia 57, 14).

Occorre aprire cammini per costruire quell’equità e quella giustizia che il nostro popolo latinoamericano e caraibico invoca. Senza la presenza delle donne tale trasformazione non sarà possibile. Abbiamo bisogno della loro ostinata volontà di resistere e di costruire con speranza, in modo creativo. Abbiamo bisogno della loro audacia e forza per portare avanti progetti capaci di far fronte agli ostacoli che si presenteranno. Abbiamo bisogno di ascoltare attentamente le loro voci e di confidare nei loro criteri di valutazione al momento di prendere decisioni insieme. Abbiamo bisogno della capacità organizzativa delle donne, per pianificare progetti, amministrare risorse e risolvere conflitti. Abbiamo bisogno delle loro conoscenze e iniziative per trovare soluzioni valide.

di Luis Carlos Aguilar Badilla – Osservatore Romano

Ci vuole un patto tra formatori la scuola e le famiglie

Osservatore Romano

Il nostro lavoro è ispirato dalle parole del Santo Padre (e della Bibbia): «Giovane, dico a te, alzati! Alzati! Ti costituisco testimone delle cose che hai visto». Questo vuol dire che il nostro obiettivo, in quanto formatori, è di aiutare i ragazzi a saper stare sulle proprie gambe, a scegliere di testa loro quando dire “sì” e quando dire “no”. I giovani imparano facendo, vivendo: è l’esperienza la migliore delle maestre.

Detto ciò, nessuno agisce da solo e anche noi, adulti e insegnanti, dobbiamo creare un’alleanza: ci vuole un patto tra scuole, famiglie, educatori, formatori e tutti gli adulti del mondo; e la cosa più importante è che la famiglia sia al centro di questa coalizione.

Anche noi formatori abbiamo bisogno di formazione, di lavorare insieme. Una delle iniziative che con la Fidae, la federazione di Scuole Cattoliche primarie e secondarie, stiamo tentando di realizzare è quella di costruire legami migliori e più forti con le famiglie. Al momento ci sono tanti documenti, tante regole scritte che noi insegnanti dobbiamo seguire, ma quello che ci serve ancora di più è la pratica, l’esperienza. Il ruolo di tutte le scuole, e in particolare di quelle cattoliche, è quello di aiutare i giovani ad individuare le scelte più idonee per la propria vita attraverso un lavoro assiduo.

È un compito arduo. Ma la cosa più importante è credere nei giovani, vederli crescere e voler far parte, in modo significativo, della loro crescita. È necessario offrire ai giovani linee guida, ma sempre senza essere invadenti. Al contrario è importante sentire i problemi, immaginare come affrontarli, agire e poi contaminare il mondo con buone pratiche. È un po’ quello che cerchiamo di insegnare loro con il progetto Io posso! I ragazzi applicano ai temi dello sviluppo sostenibile la metodologia Design for change, basata sul «senti, immagina, agisci, condividi». Ciò che realizzeranno 5000 ragazzi nel mondo sarà presentato al Papa a Roma a novembre. (testo raccolto da Francesca Merlo)

di Virginia Kaladich
Presidente Fida

La rivoluzione femminista non è terminata

Osservatore Romano

Abraham Yehoshua è uno degli scrittori israeliani viventi più conosciuti al mondo: interrogato per Donne Chiesa Mondo su Gerusalemme, sulla questione femminile e sull’attuale significato della letteratura, ha condensato le sue risposte in tre testi che esemplificano i temi e lo stile propri dei suoi romanzi, dove contenuti esperienziali narrati in modo sommesso rimandano a potenti ed universali domande di senso.

Elena Buia Rutt, Francesca Bugliani Knox

La discriminazione della donna, il suo lungo matrimonio, la questione di Gerusalemme e il ruolo etico della letteratura.
Parla il grande scrittore israeliano.

Il conflitto israelo-palestinese ultimamente risulta sempre più evidente se letto su un piano religioso. Si tratta di un conflitto che si va rafforzando tra Islam radicale e fanatismo religioso che va crescendo sempre più nelle cerchie della società ebraica. In questa complessa costellazione si finisce per dimenticare i palestinesi di fede cristiana, sia all’interno dello stesso Israele che della West Bank occupata da Israele.

I palestinesi cristiani appartengono a una stirpe presente in Terrasanta dall’antichità. Anche dopo che il cristianesimo si è separato dalla nazione ebraica e il Vangelo di Paolo ha spiegato le sue ali dalla Terra d’Israele per rivolgersi a tutta l’umanità, gli ebrei convertitisi al cristianesimo sono rimasti fedeli alla Terra d’Israele quale loro patria storica. Essi hanno ricevuto uno status speciale che li vede non solo custodi dei luoghi santi, Betlemme, Gerusalemme, Nazareth, ma che anche conferma che il cristianesimo non viene a negare l’ebraismo bensì ad ampliarlo e ad arricchirlo di contenuti umani, importanti e innovativi che non sono asserviti ai precetti stabiliti dalla Torah e dalla Halacha (corpus di norme religiose ebraiche).

È vero che nel momento in cui tali ebrei si sono convertiti al cristianesimo hanno cessato di fare parte del popolo ebraico, ma, dal mio punto di vista, i palestinesi cristiani rivestono grande importanza per la memoria storica degli israeliani rispetto alla Terra di Israele. Pochissimi sono i siti archeologici ebraici, sia del periodo del Secondo Santuario che dei secoli successivi, sopravvissuti in Israele sino all’epoca contemporanea. Al contrario, proprio i monasteri e le chiese, costruiti nel corso dei numerosi secoli nei quali la presenza ebraica in Terra d’Israele era molto esigua, se non del tutto assente, insieme alla presenza cristiana del periodo dei crociati, conferiscono agli israeliani, oggi intenti a forgiare la loro identità attraverso la lingua ebraica e il territorio stesso, una ricchezza e un ulteriore punto di forza. Pertanto i simboli cristiani in Terra d’Israele divengono parte di un’identità nazionale che si va rinnovando e non c’è da stupirsi che molte delle opere d’arte e letteratura israeliane degli ultimi cent’anni facciano riemergere la figura di Gesù e degli altri discepoli. In Terra d’Israele, infatti, il Gesù cristiano non è un nemico degli ebrei, come nella diaspora, bensì, come ho spiegato, una parte dell’eredità che si va rinnovando nella lingua e nel territorio.

A Gerusalemme, soprattutto nella città vecchia la cui grandezza è di 1 km² in totale, ebrei, musulmani e cristiani vivono a stretto contatto. E in questo chilometro quadrato, più che in qualunque altro luogo al mondo, la maggior parte dei luoghi sacri di primaria importanza per le tre religioni monoteiste si trovano uno affianco all’altro. Oltre al fatto che, mentre la Cupola della Roccia, la Moschea di Al-Aqsa o il Santo Sepolcro sono siti belli e imponenti, il Muro del Pianto, ovvero le rovine delle mura esterne che circondavano il Secondo Tempio, è un sito a mio parere privo di profondità e bellezza religiosa, il cui significato sta tutto nella memoria della distruzione del santuario che non verrà mai ricostruito.

Israele detiene il controllo di Gerusalemme e i fanatici ebrei e musulmani sono in perenne conflitto. Pertanto i cristiani, e non importa se cattolici, maroniti, ortodossi o protestanti, devono unirsi per invitare le altre due religioni a un altro tipo di cooperazione, non su base etnica, ma religiosa e spirituale, per cercare di liberare questo luogo faticoso, nel quale sono presenti contraddizioni e conflitti che possono ancora sfociare in grave violenza, sino a tradursi drammaticamente in una tragedia capace di coinvolgere tutta la regione.

Solo i cristiani, soprattutto i cattolici sotto la guida del Vaticano, quali partner non coinvolti nel cuore del conflitto etnico-religioso in merito al Monte del Tempio e al Santuario distrutto, possono pretendere e imporre una voce più autorevole con l’appoggio dei paesi cattolici forti d’Europa, Sud America e Asia. Theodor Herzel, padre del sionismo e fondatore del contratto dello stato ebraico, ha affermato già alla fine del secolo XIX che Gerusalemme non appartiene a nessuno poiché appartiene a tutti.

Gli Stati Uniti evangelici d’altra parte non sono d’aiuto, anzi talvolta buttano ulteriore benzina sul fuoco, per una concezione distorta in base alla quale gli ebrei dovrebbero combattere l’Islam per riportare il messia cristiano, il quale non solo salverebbe il mondo intero dalle sofferenze, ma convertirebbe anche gli ebrei in cristiani credenti. Così che, allo stato politico attuale, negli Stati Uniti, i cristiani evangelici, che hanno molta influenza nelle cerchie del governo repubblicano, si trasformano in sostenitori dell’integralismo e della supremazia ebraica su Gerusalemme.

Per molti anni i governi vaticani hanno rifiutato di riconoscere lo Stato di Israele e di intessere relazioni con esso. Ora che le relazioni sono solide e produttive, il Vaticano ha pieno diritto di pretendere da Israele, che ha la supremazia su Gerusalemme, di tenere a bada i fondamentalisti etnico-religiosi e giungere a una convivenza rispettosa delle tre fedi. Tuttora la città vecchia di Gerusalemme, nella quale si trovano tutti i luoghi sacri, ha insito in sé un potenziale distruttivo fonte di conflitti sanguinosi e pertanto deve ricevere uno statuto differente, anche dopo che Trump l’ha riconosciuta, compresa la sua parte palestinese, quale capitale di Israele, e dal momento che è chiaro a tutti che Gerusalemme stessa non verrà ulteriormente divisa e che non sarà possibile far passare una linea di confine internazionale al suo interno. I cristiani del mondo, e soprattutto d’Europa, devono uscire dalla passività con la quale ultimamente si sono rapportati a tale questione e farsi custodi della santità e del giusto equilibrio tra le tre grandi religioni. Su questo argomento mi aspetterei che il Papa non fosse cauto, bensì che osasse e prendesse l’iniziativa, non solo tramite dichiarazioni, ma avanzando richieste concrete e assertive nei confronti dei governi israeliani.

Il popolo d’Israele (io preferisco questa denominazione originaria a quella di popolo ebraico) è un popolo di origini antiche che non ha vissuto nella propria terra nel corso dei millenni, e pertanto la sua identità esiste grazie a miti religiosi e nazionali, soprattutto collegati ai libri, motivo per cui viene chiamato anche al suo interno “popolo del libro”. Naturalmente è difficile mantenere un’identità nazionale solo tramite i libri, e pertanto la maggior parte del popolo ha subito un processo di assimilazione nel corso delle generazioni e, da 3 milioni all’inizio del i secolo d.C., si è notevolmente ridotto di numero, finendo per contare, all’inizio del secolo 18º, solamente 1 milione di persone. Il ritorno tardivo al rinnovamento e alla costruzione dell’identità nazionale anche tramite il territorio, ovvero il ritorno in Terra d’Israele, per lo più naturale per altri popoli, è invece rivoluzionario e complesso per il popolo ebraico. Se i vecchi miti, in particolare attraverso la religione, continuano ancora a essere importanti per l’identità storica, oltre al fatto che metà del popolo ebraico vive ancora nella diaspora, è pur vero d’altra parte che nel territorio antico-nuovo si sono aperti nuovi orizzonti storici. In tal modo nell’Israele di oggi operano in parallelo due forze che talvolta si amalgamano meravigliosamente l’una con l’altra e altre si scontrano: da una parte una modernità fonte di grande ispirazione per tutto ciò che riguarda l’esercito, l’industria, la medicina, il governo ecc., e dall’altra l’attaccamento agli antichi miti biblici, da cui deriva la prosecuzione dell’occupazione dei palestinesi nella West Bank, che crea a Israele problemi etici ed esistenziali gravi sia al suo interno che oltre i suoi confini.

Dal mio punto di vista, se ci separassimo dai miti che si trovano nei libri sacri per concentrarci su un’analisi nuova e creativa della realtà intorno a noi, potremmo trasformare la rivoluzione sionista, il cui significato è ritorno alla “normalità nazionale”, in una corretta e più giusta normalità per il mondo che va costantemente cambiando dinnanzi ai nostri occhi.

Dal mio punto di vista la “rivoluzione femminista” è la rivoluzione più importante della seconda metà del secolo XX: non è terminata e ha dinanzi a sé ancora molti ostacoli, ma non c’è dubbio che il segnale di apertura sia stato dato e la consapevolezza della discriminazione della donna nel corso dei millenni vada permeando la coscienza pubblica. Non c’è dubbio che il rallentamento dello sviluppo nella gran parte del mondo musulmano, in particolare arabo, derivi dallo status di inferiorità di una donna ancora sottomessa all’uomo. Così come non c’è dubbio, ad esempio, che l’incredibile progresso della Cina derivi dalla liberazione della donna e dal miglioramento della sua condizione sociale.

Io personalmente ho vissuto con grande soddisfazione e pienezza un matrimonio durato cinquantasei anni con mia moglie, che ora è morta. Penso che la chiave di tanta gioia e armonia sia consistita nel fatto che sin dall’inizio mi fosse stato chiaro il dover stabilire una piena uguaglianza riguardo ai nostri reciproci diritti e doveri. Proprio perché a casa dei miei genitori ero stato testimone del fatto che mia madre, pur detenendo un forte potenziale intellettuale e pratico, era stata costretta a rinunciare alla propria realizzazione per fare unicamente la casalinga, sono stato spinto, non solo a incoraggiare mia moglie a costruirsi una sua carriera, ma anche ad assumermi a pieno titolo e volontariamente il dovere di sostenere di fatto l’avanzamento di tale carriera in collaborazione con lei, occupandomi cioè della cura della casa e dei figli, talvolta anche a scapito del mio di lavoro.

La parola chiave è uguaglianza. Per ovvi motivi è molto facile violarla e altrettanto difficile risulta l’esserle fedeli. Pertanto, quando descrivo la vita coniugale nei miei racconti e romanzi, cerco, per quanto possibile, di mostrarne il potenziale positivo, nonostante le difficoltà e le liti. A differenza del rapporto con i propri figli o genitori, dove il legame poggia su una relazione biologica innegabile, la relazione coniugale, per quanto duratura e felice, si può distruggere in un solo colpo. Naturalmente non accolgo la posizione della Chiesa cattolica che nega fermamente il divorzio, ma sono d’accordo nell’opporsi a una rottura facile e immediata di tale unione. Mia moglie Rivka, di benedetta memoria, che era una psicologa clinica e psicoanalista, ha sempre combattuto a fianco dei suoi pazienti per salvare i loro matrimoni nei momenti di crisi. È facile distruggere e difficile costruire. Oltre al fatto che in molti casi entrambe le parti, in seguito alla separazione, riproducono in seguito lo stesso modello di relazione problematica.

Sul femminismo sono stati pubblicati numerosi studi e continua a essere un argomento caldo di pubblico interesse. Si oscilla tra due visioni: una che vede la donna come completamente pari all’uomo, e perciò non ci si aspetta dalla sua condotta politica, sociale, manageriale o accademica, niente che distingua in modo unico il suo operato e le sue abilità da quelle maschili, e un’altra visione in cui la donna, in veste di guida politica, economica, o giuridica, riesce a trarre dalla propria femminilità capacità diverse da quelle dell’uomo, riversando e incanalando la natura femminile tradizionale all’interno dei nuovi ruoli rivestiti. Naturalmente la rivoluzione non è terminata, non solo perché in molte culture la donna è ancora sottomessa sotto vari aspetti, ma perché anche nei paesi in cui l’attesa uguaglianza formale appare davvero raggiunta, bisogna tuttavia indagarne e approfondirne gli aspetti, affinché non venga percepita come unicamente formale, a scapito della natura, dei bisogni e delle particolari caratteristiche di ogni sesso.

Nella società religiosa israeliana esiste ancora una evidente discriminazione delle donne, che riceve la sua giustificazione da rabbini oscurantisti e integralisti. Pertanto la rivoluzione femminista non deve preoccuparsi solo delle donne presenti nei settori economici o accademici, ma anche per prima cosa dell’incessante e audace lotta per la libertà e l’uguaglianza di quest’ultima nel mondo religioso ebraico. Purtroppo, a causa del perenne conflitto tra la destra e la sinistra, l’ambito religioso finisce per rivestire una valenza politica che neutralizza gli interessi nazionali generali.

Ultimamente mi sembra che la letteratura, il cinema e il teatro abbiano perso parte del loro rilievo nel discorso pubblico; un’importanza considerata significativa in particolare nel XIX secolo e nella prima metà del secolo XX. La produzione di letteratura, romanzi e racconti, accanto al fiorire crescente di film e serie televisive è diventata più “facile” rispetto ai tempi passati. La tecnologia moderna ha reso molto più economica la possibilità di creare libri e film. I canali di comunicazione si sono notevolmente moltiplicati, il tempo libero delle persone è aumentato, e pertanto esse possono “consumare maggiore cultura”. Ciò nonostante, ma forse io guardo alla realtà dal punto di vista di un uomo anziano che non comprende pienamente il nuovo, mi sembra che tutta questa abbondanza di creatività e arte, nonostante le sofisticate pubbliche relazioni, non dia origine alla stessa carica emotiva, etica e politica emanata dalle opere eccellenti del secolo XIX, o dell’inizio del secolo XX. Non voglio, nell’ambito di un’intervista giornalistica, entrare in tutti i dettagli di tale questione, ma secondo me la letteratura, e in un certo senso anche il cinema e il teatro, hanno rinunciato alla necessità di porre dilemmi etici di bene e male al centro della scena, come si faceva ad esempio nelle opere di Tolstoj o Dostoevskij, o nelle opere di Faulkner, Thomas Mann, Pirandello e altri. La psicologia ha represso il giudizio etico, in base al paziente principio del “comprendere significa scusare”. Il sistema giuridico nel mondo moderno e democratico è divenuto l’autorità etica che stabilisce che tutto ciò che è legale diventa automaticamente etico. La comunicazione, nella sua velocità, benché svolga un lavoro di verifica e talvolta istituisca tribunali giudicanti su ciò che è buono o cattivo, non può sostituire la capacità dell’arte di dar vita a un laboratorio etico esperienziale nel quale il lettore o lo spettatore, tramite la loro capacità di profonda interiorizzazione e identificazione, vaglino situazioni etiche, vecchie e anche completamente nuove, al fine di raffinare la propria percezione e comprensione. La letteratura ultimamente ha rinunciato sia alla centralità del dibattito etico nelle sue opere che alla presa di posizioni etiche definite, a causa del sospetto di disattendere, anche solo parzialmente le teorie post-moderne che negano l’autorità degli uomini di stabilire regole etiche “superiori”, o a fronte della concezione del politically correct che fa emergere tutta una serie di nuove sensibilità che non si possono esaminare all’interno di categorie etiche definite.

In conclusione, io credo che la letteratura, il teatro e il cinema, debbano ritornare ad esprimere, almeno in parte, la necessità di sollevare dilemmi etici nuovi e audaci, ponendoli in prima linea. Quando insegnavo letteratura all’università ho selezionato ed esaminato diverse opere solo dal punto di vista etico. Ciò significa che non mi sono occupato di aspetti psicologici, storici, linguistici o biografici, ma mi sono riferito solo all’aspetto etico presente in esse. Ed ecco la rivelazione dinnanzi ai miei studenti di nuovi e rivoluzionari risvolti che mai si sarebbero aspettati.

Propongo perciò ai lettori di questa intervista di esaminare per proprio conto la storia di Caino e Abele. La narrazione del primo omicidio nella Bibbia termina in un modo in cui non solo l’omicida non viene punito, bensì al contrario la sua situazione personale va migliorando. Qual è il significato di tutto ciò? Perché solo un esame etico e profondo è in grado di rivelare il grave problema teologico che si nasconde dietro questa vicenda?

di Abraham Yehoshua

Fake news: attenzione a addossare tutte le colpe al web

Osservatore Romano

Rita Marchetti, lei è vicepresidente di Weca, i web cattolici: per combattere le fake news non resta che praticare una virtù?

Direi la virtù della prudenza che vuol dire capacità di discernimento. Non bisogna fidarsi a prescindere, anche se l’istantaneità che caratterizza le piattaforme digitali gioca spesso a discapito della riflessione. È necessario sviluppare e coltivare il senso critico attraverso l’alfabetizzazione informativa e digitale (social media literacy) che si traduce nel saper comprendere e valutare criticamente i contenuti con i quali entriamo in contatto online. Per raggiungere questo obiettivo, la formazione è fondamentale.

Una volta c’erano le bugie, a volte chiamate bufale, oggi le fake news: qual è la differenza?

Rispetto al passato cambia il meccanismo di propagazione reso possibile dai social media. Gli utenti, attraverso la condivisione, possono alimentare la diffusione delle fake news condividendo, allo stesso tempo, con chi le genera anche la responsabilità.

Spesso le fake news dai social arrivano sui quotidiani, in televisione. E distorcono le nostre opinioni, a volte con conseguenze gravi, pensiamo alle notizie che riguardano la salute.

I social media sono sempre più spesso fonti giornalistiche. Farei attenzione però ad addossare tutte le colpe al web. Se è vero che attraverso i social media le fake news hanno maggiori possibilità di propagazione, è vero anche che c’è spesso un’incuria da parte dei giornalisti che dovrebbero verificare le fonti.

È un tema delicato e di assoluta attualità soprattutto se consideriamo quanto i media contino nella formazione delle opinioni. Riprendendo le parole di un importante studioso di media, molte delle cose che sappiamo, le sappiamo proprio dai media.

In base alla sua esperienza cosa deve fare una persona, e pensiamo soprattutto a un giovane, per essere “prudente” nell’utilizzo e nella fruizione dei social media?

Attenersi a delle buone pratiche. Ne cito solo alcune: valutare l’attendibilità della fonte, diffidare dei titoli troppo sensazionalisti, fare attenzione ai link inseriti nei post, cercare altre fonti che riportino la stessa notizia. Ci sono poi iniziative di debunking che possono essere utili, anche se da sole non risolvono il problema.

Come si sconfiggono le fake news?

L’unica risposta possibile alle fake news è l’educazione ai media e lo sviluppo di un dibattito pubblico che sappia produrre consapevolezza.

Come WeCa cosa fate?

Come WeCa, cerchiamo di fare costantemente formazione sui temi legati al digitale. In particolare, i Tutorial WeCa: brevi video in stile youtuber che forniscono indicazioni, consigli e suggerimenti per muoversi in maniera un po’ più consapevole online.

La normativa attualmente vigente è adatta, sufficiente?

Ritengo ci sia un vuoto nelle policies dei social media relativo ai contenuti pubblicati all’interno delle piattaforme. Tuttavia, non credo che il contrasto alle fake news possa essere delegato in toto alla normativa e ancor meno alla censura, che oltre a essere contraria alle logiche della rete è anche inefficace. Le fake news si combattono con l’educazione ai media e l’esercizio della prudenza che permette di discernere il vero dal falso, il bene dal male. (dcm)

Più corridoi umanitari: non è ingenuità né imprudenza

Osservatore Romano

Sbarcano all’aeroporto di Fiumicino con valigioni enormi, indescrivibili. Poi quando li aprono vedi che hanno portato oggetti sorprendenti: utensili da cucina, soprammobili, piccoli quadri. Le famiglie siriane che arrivano tramite corridoio umanitario, organizzato dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese, sono state selezionate nei campi profughi del Libano per le loro particolari condizioni di vulnerabilità tramite una dolorosa procedura: se loro sono qui, altre famiglie sono rimaste indietro, ma almeno non hanno rischiato la vita come i migranti che si mettono in mare, che per noi hanno comunque diritto a un’accoglienza dignitosa. È imprudente che un genitore faccia salire un figlio nel barcone? Sì, è imprudente. Ma dopo avere ascoltato i primi racconti di cosa ha lasciato a casa chi si mette in viaggio, ho capito che in molti casi sarebbe stato più imprudente rimanere dov’erano. E quando arrivano hanno una fame feroce di vita che è difficile non ammirare.

Parlo ad esempio di un ragazzo della Costa d’Avorio che abbiamo ospitato a Napoli come Chiese metodiste e valdesi: arrivato analfabeta, sta imparando tutto ciò che gli capita a tiro, dal suonare l’organo alla matematica, ai corsi professionali. Un paese non può che beneficiare della sua presenza.

Ospitare persone che devono riorganizzare una vita significa anche riconoscere loro la libertà e la competenza di compiere le scelte che ritengono più giuste secondo la loro prospettiva, anche quando non le si condivide, come nel caso dei due genitori siriani che, dopo aver vissuto in un nostro appartamento al Vomero, hanno preferito spostarsi in Germania nonostante i loro figli si fossero trovati bene a scuola e stessero imparando l’italiano.

Ora in quella casa vivono due amiche siriane con i figli di una di loro. Fra i momenti di condivisione più significativi ricordo sempre quelli della convivialità, dello stare insieme intorno alla stessa tavola. Organizziamo spesso, anche nella mia casa di Portici, tavolate il più possibile inclusive, dove ad esempio possono incontrarsi siriani e africani subsahariani, che mai avrebbero scelto di stare insieme. A un certo punto, si assiste a uno spostamento fisico che è in realtà mentale e culturale, e distanze e pregiudizi si sciolgono in un canto comune al fine della serata.

Vedo cristiani storcere il naso perché percepiscono un aiuto maggiore agli stranieri rispetto agli italiani, e persino tra gli stranieri di fede cristiana esistono perplessità sull’aiutare gli stranieri musulmani. Non giudico le paure che spesso ispirano questi sentimenti, le accolgo ma cerco di contrastarle con un pensiero in controtendenza rispetto allo spirito dei tempi e cioè che siamo tutti sulla stessa barca e che la solidarietà reciproca fra esseri umani è l’unica via di salvezza per tutti. D’altronde come chiesa metodista abbiamo ospitato per qualche tempo anche una famiglia napoletana dei Quartieri spagnoli: non facciamo differenze, per noi vale il criterio che riteniamo più coerente con l’evangelo e cioè «prima gli ultimi» chiunque siano.

Non penso che ci si debba fermare per il fatto che in questo momento queste idee siano impopolari. Con chi si oppone a scelte di umanità cerco di praticare, con pazienza, il dialogo non violento che depotenzia l’aggressività dell’altro, perché attaccare chi subisce la suggestione dei predicatori di odio non produce grandi risultati e invece dobbiamo costruire proprio con chi non la pensa come noi un piano di ragionamento che non ceda alla tentazione di divisione ed esclusione. Vedo che sul piano dei rapporti quotidiani con le persone funziona, con fatica ma funziona. E questo impegno è ancora più efficace quando diventa la voce ecumenica di tutte le Chiese cristiane, che ora chiedono ai governi europei di ampliare questi corridoi umanitari e di prendere esempio dall’esperienza italiana — finora ne abbiamo accolti circa duemila e abbiamo in agenda l’apertura di un corridoio europeo dalla Libia. Non è ingenuità né imprudenza, ma la valutazione responsabile delle proprie azioni, mantenendo trasparenza e soprattutto lo spazio per la fiducia e la sorpresa. E questo perché credo in un Dio originale e creativo, che ci ama molto nonostante le nostre debolezze, e non ci abbandona mai, come ho potuto personalmente sperimentare tante volte nella mia vita. (Testo raccolto da Laura Eduati)

di Alessandra Trotta
diacona Chiese valdesi e metodiste

Il ruolo delle donne per riparare la Chiesa

Osservatore Romano

Con Papa Francesco, forgiato dall’esperienza sudamericana radicata in una teologia del Popolo di Dio ed eletto per far avanzare la Riforma della Chiesa, la Chiesa è entrata in una nuova fase della ricezione del concilio Vaticano II che pone l’accento sulla sinodalità.

I lavori di restauro della cattedrale di Notre-Dame (Afp)

In uno dei testi chiave del suo pontificato (Discorso per la Commemorazione del 50° Anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015), Papa Francesco, a partire da una lettura dei “segni dei tempi”, indica chiaramente l’orizzonte: “Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”.

La crisi attuale, con la presa di coscienza della gravità della questione degli abusi sessuali e dell’urgenza di lottare contro ogni forma di abuso, è anche un kairos, un tempo particolarmente favorevole per cogliere la sfida del superamento del clericalismo. Perché tanti fedeli, in particolare i giovani e le donne, sono profondamente consapevoli che la Chiesa non può continuare come prima e che deve diventare più sinodale, affidando ai fedeli ruoli e responsabilità maggiori.

Lo shock mondiale dell’incendio della cattedrale di Notre-Dame di Parigi ha simboleggiato per molti ciò che la Chiesa sta vivendo: una sorta di crollo delle vecchie strutture. Attraverso l’ascolto indispensabile e prioritario delle vittime si apre oggi un cammino di verità nel dolore, per riconoscere che la Chiesa sta bruciando incancrenita dal di dentro a causa di ciò che ha potuto permettere quelle pratiche perverse, quei silenzi devastanti, quegli occultamenti mortiferi, quegli abusi di potere distruttori. Così si fa più acuta l’idea che è necessario “riparare la Chiesa”. Il che richiede pratiche ecclesiali più collegiali, più dialogali, più partecipative, più inclusive, che consentano a tutti — uomini e donne, giovani e anziani — di essere attori e ai laici di essere coinvolti nei processi decisionali.

Rigenerare la Chiesa perché sia più evangelica, più missionaria, più sinodale richiede anche di coinvolgere in questo cammino i più piccoli, i più deboli, i più poveri, i più feriti. Per “riparare” la Chiesa, ma ancor di più per testimoniare Cristo nelle culture e nelle lingue del XXI secolo, tutti i battezzati — qualunque sia la loro vocazione — sono chiamati a discernere e a tracciare insieme i cammini della missione. Si tratta quindi di trovare i modi di agire che traducano concretamente in ogni contesto questa identità profonda della Chiesa che è “una comunione missionaria”, radicata nel mistero trinitario. Di certo le donne — che immediatamente introducono l’alterità nel sistema clericale e portano un desiderio di collaborazione nella reciprocità con gli uomini per una maggiore fecondità pastorale — ma anche le religiose, per la loro esperienza di vita comunitaria fraterna, di discernimento comunitario, di un’obbedienza vissuta come “ascolto comune dello Spirito” — hanno un ruolo fondamentale da svolgere per promuovere, insieme a tanti laici che desiderano far parte di questa Chiesa sinodale, pratiche ecclesiali nuove le cui parole chiave siano l’ascolto, il servizio di tutti, l’umiltà e la conversione, la partecipazione e la corresponsabilità.

La sinodalità, “dimensione costitutiva”, assumendo la forma di un “camminare insieme” all’ascolto dello Spirito, è veramente una chiave per l’annuncio e la trasmissione della fede oggi. Nello slancio del Sinodo di ottobre 2018 sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale, nello spirito del Vertice di febbraio 2019 sugli abusi sessuali, e nella prospettiva del Sinodo sull’Amazzonia, siamo quindi tutti chiamati a vivere e a sviluppare la sinodalità come “lo stile missionario” della Chiesa per affrontare le sfide attuali.

di Nathalie Becquart
Saveriana, consultore presso la segreteria generale del Sinodo dei vescovi

Se la teologia è prudente

Donne chiesa mondo – Osservatore Romano

Luglio 2019 – Tutti gli articoli
(Cristiana Simonelli – Docente di Antichità cristiane, presidente del coordinamento delle teologhe italiane) Nella graduatoria delle parole dotate di ambiguità, prudenza sicuramente è in alto, dal momento che può indicare almeno due cose decisamente antitetiche. Frequentemente infatti è utilizzata, anche nelle comunità ecclesiali, nel suo significato comune e banale: è imprudente chi si espone, chi prende la parola su questioni in discussione, chi si oppone a comandi che ritiene ingiusti prima che la storia li definisca tali. In questo senso, ad esempio, imprudente Sophie Scholl della Rosa Bianca, imprudente e inopportuno Lorenzo Milani: almeno finché la cronaca, sempre tardiva, non ne faccia post mortem i famosi profeti cui costruire le tombe. A questa concezione ben si applicano, a secoli di distanza, le parole con cui Manzoni descrive don Abbondio, che oltre a scansare i contrasti o casomai mettersi dalla parte del più forte, così stigmatizzava chi si comportava diversamente: «Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente». Quanto possa adattarsi tutto questo alla contemporaneità e anche alla stretta attualità, credo sia cosa tanto evidente da non richiedere glossa. 
Diversa tuttavia la forma classica della phronesis, che è intelligenza pratica che scruta, vaglia, progetta. In questo modo è ripresa anche nella Scrittura: non a caso il testo evangelico (Matteo 10,16) chiede di essere phronimoi, intelligenti/prudenti come il serpente (anche ’arum di Genesi 3,1 è reso nel greco con lo stesso termine, anche se preferiamo tradurlo come astuto) oltre che semplici come le colombe. La prudenza evangelica è dunque discernimento pacato e franchezza audace, con l’aggiunta di una dote particolare e feriale che è il senso del limite, la capacità del penultimo: prendere parola e assumere posizioni implica infatti l’uscita dall’assoluto, perché non parla di essenze eteree, immutabili e impalpabili, ma di questioni storiche, di corpi e di vite, di soluzioni da adottare e di vie da percorrere. Si potrebbe richiamare a questo proposito la coppia urgenza/pazienza, che attraversa i principali documenti dell’attuale pontificato: in Laudato si’ si tratta di prendere provvedimenti senza tardare ma nello stesso tempo di avere occhi per vedere anche la bellezza delle periferie; in Gaudete et exsultate la santità della porta accanto con l’attenzione ai piccoli particolari e la forma esigente del martirio; in Evangelii gaudium l’indicazione di attivare processi più che di occupare spazi, senza accidia spirituale.
Non è immediato per la teologia, viziata da uno statuto che la pretendeva perenne, entrare in questa dinamica, mantenendo tuttavia il servizio suo proprio, legato all’istanza critica e al pensiero. Una forma esemplare è stata raggiunta nella Facoltà teologica dell’Italia Meridionale col convegno La Teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo, cui non è mancata profondità e franchezza, anche rispetto al ruolo dei laici e fra questi delle donne. Così si è espressa, fra gli altri, la collega Anna Carfora: «Bisogna decostruire quelle narrazioni del femminile che storicamente non hanno fatto bene a nessuno. Esaltare la donna, magnificare le virtù dell’eterno femminino non è stato un buon servizio reso nel tempo agli uomini così come alle donne. Non è questione di sapere chi esse sono ma ammettere e permettere che ci siano, nel mondo come nella Chiesa, riconoscendo il loro essere soggetti, persone. Il femminile, inoltre, non va declinato al singolare nemmeno in teologia: non la donna, ma le donne concrete e le opportunità per loro e che vengono da loro. La metafora del poliedro può essere applicata al mondo femminile: è poliedrico, infatti, anche l’universo delle donne». Prudenza audace che mette in moto processi: le studentesse (12 donne e un ragazzo, per la precisione) hanno a propria volta scritto una lettera al Papa su questi temi, intitolandola “prima che gridino le pietre”. Sarà importante diffonderla e leggerla.

La prospettiva ecclesiologica dell’Istituto Giovanni Paolo II. È la famiglia il modo evangelico di considerare il mondo

L’Osservatore Romano
(Giovanni Cesare Pagazzi) Onorando il mandato di Papa Francesco che nel motu proprio Summa familiae cura ha istituito il nuovo “Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia”, le autorità accademiche ne hanno elaborato e visto approvare dalla Santa Sede gli “Statuti” e l’“Ordinamento degli Studi”. Alcune recenti uscite sulla stampa italiana hanno criticato il nuovo piano di studi, a loro dire, troppo inclinato verso la sociologia. Che tali osservazioni siano sbrigative e tendenziose lo mostra anche il fatto che, tra le novità spiccanti, già additate dal preside monsignor Pierangelo Sequeri sulle pagine de «L’Osservatore Romano», sta il davvero consistente spazio riservato alla teologia dogmatica in genere e alla prospettiva ecclesiologica in specie.