Caritas, presentazione dei dati sulla povertà a Reggio e provincia

Martedì 26 giugno, alle ore 11,30, presso la segreteria della Caritas diocesana, in via dell’Aeronautica 4 a Reggio Emilia, è prevista la conferenza stampa per la presentazione dei dati sulle povertà relativi all’anno 2017 raccolti dal Centro di Ascolto Caritas diocesano.
Saranno presenti Isacco Rinaldi (Direttore della Caritas di Reggio Emilia) e gli operatori del Centro di Ascolto che hanno curato la raccolta dei dati.
Oltre ai dati delle persone che si sono rivolte nel 2017 al Centro di Ascolto diocesano di Via Adua, quest’anno saranno presentati anche dati e riflessioni provenienti da 25 Centri di Ascolto parrocchiali o zonali del territorio diocesano.
I dati raccolti dalla Caritas non sono sicuramente esaustivi riguardo il tema della povertà a Reggio Emilia e provincia, ma sono capaci di fornire uno spaccato particolare e interessante della nostra società attraverso informazioni “uniche”, raccolte e commentate da coloro che direttamente incontrano le persone in difficoltà.

laliberta.info

In occasione delle Olimpiadi del 2020 la capitale giapponese progetta di dotare alcune vie cittadine con un asfalto a pannelli solari per recuperare l’energia dal passaggio di auto e pedoni

La pavimentazione di una strada a pannelli solari sperimentata in Francia

La pavimentazione di una strada a pannelli solari sperimentata in Francia

Le Olimpiadi sono un grande contenitore. Di sport, di emozioni, di storie. Ma anche un’occasione per dimostrare come un Paese sappia guardare avanti. Per questo non stupisce che la prossima edizione dei Giochi, quella diTokyo 2020, prometta di offrire al mondo spunti tecnologici di grande rilievo, specie per quanto riguarda lamobilità. La più interessante riguarda le strade: Tokyo ha annunciato che molti chilometri dell’asfalto cittadino verranno coperti con pannelli fotovoltaici per generare elettricità. Il passaggio delle auto che crea energia dunque, ma non solo. L’amministrazione metropolitana sta valutando anche di far realizzarepavimentazioni che producono elettricità grazie alle vibrazioni causate dal passaggio dei pedoni.

Le strade solari, che saranno testate nei prossimi mesi, sono già state sperimentate in Francia per le automobili e in Olanda nelle piste ciclabili. In Giappone il mese scorso è stata realizzata una strada solare nella prefettura di Kanagawa, la seconda più popolosa del Paese dopo Tokyo. Nel parcheggio di un negozio sono stati installati pannelli fotovoltaici ricoperti da una speciale resina protettiva, per prolungarne la durata e consentire il passaggio delle auto. Insieme alle pavimentazioni che generano elettricità da usare negli edifici, ad esempio per far funzionare le scale mobili, le strade solari sono una delle tecnologie a cui Tokyo guarda per centrare i suoi target sulle fonti rinnovabili. La città si è impegnata a raggiungere il 30% di energie “verdi” entro il 2030, a fronte del 12% del 2016.

Anche per questo riguarda le auto, le prossime Olimpiadi avranno il meglio di quanto la tecnologia ad alimentazione a “zero emissioni” offre al pubblico. Toyota sta pensando allo sviluppo di un veicolo elettrico da presentare in occasione dei Giochi. Le vetture eco-compatibili della casa nipponica, tra i principali sponsor dell’evento, verranno utilizzate per trasportare atleti e funzionari all’interno del villaggio olimpico e nei luoghi di svolgimento delle gare. Non solo elettrico però: Toyota sta valutando anche la possibilità di mettere a disposizione della manifestazione vetture a idrogeno come la berlina Mirai, che non emettono anidride carbonica, ma solo vapore acqueo. Intanto il marchio nipponico ha già introdotto da qualche mese sulle strade della capitale giapponese i primi bus a celle a combustibile, con l’obiettivo di metterne in circolazione un centinaio in totale entro l’apertura delle Olimpiadi.

In vista di Tokyo 2020 poi, Toyota, in collaborazione con Cartivator, sta progettando anche un modello di auto volante: per Skydrive (così si chiama il progetto), dal 2015 a oggi, sono stati stanziati 350 mila dollari e un primo prototipo è già stato presentato. Nella visione finale dei progettisti, l’auto volante sarà in grado di trasportare una persona alla volta e raggiungere una velocità massima di 100 km/h volando a 10 metri dal suolo. Una visione, appunto. La tecnologia esistente è già abbastanza evoluta per viaggiare come sappiamo: con i piedi per terra si sta sempre molto meglio.

da Avvenire

Asti. Così l’«Albergo etico» dà lavoro (vero) ai Down

Così l’«Albergo etico» dà lavoro (vero) ai Down

Ad Asti, in un’antica casa di ringhiera con il fascino degli edifici di un tempo, c’è un albergo del tutto speciale. È l’«Albergo etico», canale privilegiato per l’inserimento lavorativo di persone con disabilità o portatrici della sindrome di Down, che compie tre anni. Per festeggiarlo si è tenuto un evento a Palazzo Mazzetti a cui hanno partecipato il campione paralimpico Francesco Bocciardo e il suo allenatore Luca Puce.
Più che un semplice luogo di soggiorno, «Albergo etico» è una storia di accoglienza a tutto tondo: si occupa infatti di favorire la piena inclusione sociale e il collocamento lavorativo di persone con disabilità, attraverso un percorso triennale di formazione/lavoro che è un vero cammino di autonomia e indipendenza.
L’Associazione Albergo etico, nata nel 2009, è diventata oggi una cooperativa sociale in costante crescita, punto di riferimento per l’accoglienza turistica accessibile ad Asti e pioniera nei progetti di autonomia personale e professionale di ragazzi con disabilità intellettiva.


Alex Toselli, presidente della cooperativa, ha portato i suoi ragazzi al Parlamento Europeo a Bruxelles, al Quirinale a incontrare il presidente della Repubblica, in Vaticano a stringere la mano a papa Francesco e persino a correre la maratona di New York.
Nel mese di settembre aprirà una nuova struttura a Roma, a pochi passi da piazza del Popolo, in pieno centro storico: 17 camere con servizio di bar e ristorazione. Coinvolgerà circa 75 persone con disabilità, 35 imprenditori del settore alberghiero e cinque nuovi imprenditori sociali nei primi 18 mesi. Stanno fiorendo realtà di Albergo etico anche in Argentina (Villa Carlos Paz), negli Stati Uniti (Miami), in Norvegia, Spagna, Slovacchia (Bratislava) e in Australia (Sydney e Blue Mountains).
In questi tre anni sono state coinvolte quasi 60 persone con disabilità intellettiva provenienti da tutta Italia, con una percentuale di stabilizzazione lavorativa al termine del processo di formazione vicina al 75%. La cooperativa sociale Download ha raggiunto l’utile di esercizio nel secondo anno di attività, utilizzando la marginalità positiva per incrementare le attività di supporto sociale e la crescita del progetto di formazione. L’Unione Europea ha riconosciuto Albergo etico e il progetto Download come esperienze di valore nell’ambito dell’inclusione sociale.


Solo in Italia vivono circa 35mila persone affette da sindrome di Down, per le quali le statistiche attuali attribuiscono un grado di occupazione stabile non superiore al 16%. «Albergo etico» è stato quindi in grado di impattare in modo significativo su queste persone, consentendo a un’ampia platea di disabili intellettivi di trovare stabilità lavorativa, soprattutto nella fascia 18-35 anni.

da Avvenire

Filosofia. Educazione e democrazia: nella comunità nasce l’uomo libero

Educazione e democrazia: nella comunità nasce l'uomo libero

«La conoscenza è una costruzione sociale, il prodotto di una ricerca comunitaria, la partecipazione a una comunità che persegue una conoscenza imperniata sulla cooperazione poiché noi costruiamo avvalendoci di idee di altri e arriviamo poi a identificarci con le realizzazioni dell’intero gruppo». Insomma non resta che «vivere una vita di ricerca» maturando la consapevolezza che «il pensiero è una forma di dialogo interno e il dialogo presuppone una comunità, ecco una delle intuizioni fondamentali di Charles Pierce». Suona così, in estrema sintesi, il pensiero della filosofa americana dell’educazione Ann Margaret Sharp (1942-2010). Per lei solo attivando una comunità di ricerca filosofica è possibile realizzare la personalità di donne e uomini, dare origine a forme di convivenza democratiche e imparare a fare esperienza della libertà. La ricerca filosofica condotta in solitaria, davanti alle pagine di un libro, è vana illusione. Di più. Compromette la possibilità di edificare modi di convivenza democratica. Solo se la ricerca filosofica di comunità diventa habitus fin da bambini è possibile perseguire la libertà perché «si apprende – a dire della filosofa d’Oltreoceano – a porre il proprio io in prospettiva».

A diffondere questa pratica filosofica, come irrinunciabile requisito non solo per fare filosofia ma pure per diventare cittadini liberi di una democrazia, Ann Sharp ha dedicato tutta la vita. In Italia è praticamente sconosciuta se si esclude L’ospedale delle bambole e Dare senso al mio mondo, dati alle stampe quasi vent’anni fa da Liguori, testo e manuale di una parte del curricolo di Philosophy for Children. Per dirla tutta però non è che il Belpaese pecchi di provincialismo. Nel resto del mondo Sharp non ha raccolto maggior fortuna malgrado i riconoscimenti tributati, tra gli altri, da Martha Nussbaum e Howard Gardner.

A favorire una diversa fortuna non hanno certo contribuito la dispersione dei suoi lavori in una miriade di riviste di difficile reperibilità né la scelta di concentrarsi sulla pratica didattica a fianco di Matthew Lipman anziché sulla riflessione teoretica. E si sa che i filosofi, quelli con la puzza sotto il naso ovviamente, considerano con sussiego se non addirittura spregio chi si occupa di tecniche di apprendimento e insegnamento ritenendole esanimi e estranee alla filosofia.

Eppure al centro delle preoccupazioni di Ann Sharp figurano temi che abitano da sempre la ricerca filosofica. Generazione di pensiero, costruzione di comunità, ricerca della libertà. E, perché no?, promozione della democrazia. Un primo passo per rendere giustizia alla pensatrice americana ora Routledge, uno dei maggiori editori al mondo, pubblica un’importante antologia. Si tratta di In Community of Inquiry with Ann Margaret Sharp. Childhood, Philosophy and Education curato da Maughn Rollins Gregory e Megan Jane Laverty (pagine 264, euro 116,00) che comprende, oltre a molti saggi della filosofa newyorkese, anche numerosi contributi critici per coglierne tutte o molte delle sfaccettature.

Di formazione cattolica, Ann Sharp, dopo i primi interessi teologici e una appassionata frequentazione con sant’Agostino, decide di dedicarsi alla filosofia al punto da concludere, nel 1973, il suo percorso di studi universitari con una dissertazione sulla filosofia dell’educazione in Friedrich Nietzsche, dal titolo suggestivo: The Teacher as Liberator, l’insegnante come liberatore. E proprio il Solitario di Sils Maria segna un passaggio significativo nel cammino di pensiero di Ann Sharp come sottolinea Stefano Oliverio dell’Università Federico II di Napoli, in uno dei saggi critici più perspicui contenuti nell’antologia. A Nietzsche, e prima ancora a Eraclito, Sharp deve la critica al sapere inteso come accumulo di conoscenze. Come gli deve la scoperta dell’importanza dell’innocenza infantile per non farsi schiacciare dalle conoscenze pregresse. E la riconquista dello stupore infantile, della sua leggiadria e noncuranza sono «obiettivo e fine – secondo la pensatrice – dell’educazione». Solo così si coglie «la libertà – scrive Sharp – come riconquista rinnovata e ripetuta dell’attitudine del bambino verso la vita; e questo è un processo infinito senza il quale l’incapacità di creare di nuovo predomina».

Eppure il cammino educativo non è un cammino indolore. Per realizzarlo occorre «scuotere gli allievi da ogni compiacimento». E il bambino o l’uomo deve «fare esperienza – prosegue la pensatrice americana – della propria inadeguatezza per poi conquistare la necessaria sprezzatura indispensabile a iniziare la ricerca della liberazione». Solo una volta fatti i conti con la propria inadeguatezza «giovani donne e giovani uomini », grazie a una comunità di ricerca, «si preparano a confrontarsi con le forze che li assediano, a formulare giudizi su ciò che è possibile e ciò che è desiderabile, a impegnarsi in un lavoro creativo che renda – scrive Ann Sharp – il desiderabile reale portando valore e significato alle loro vite e alle vite delle loro comunità».

da Avvenire

Il Vangelo Domenica 24 Giugno 2018. La nascita del Battista ci insegna che i figli non sono nostra proprietà

Natività del Battista – Anno B

Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. (…) Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui. (…)

Il passaggio tra i due Testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al sacerdozio, volata via dal tempio, si sta intessendo nel ventre di due madri, Elisabetta e Maria. Dio scrive la sua storia dentro il calendario della vita, fuori dai recinti del sacro.
Zaccaria ha dubitato. Ha chiuso l’orecchio del cuore alla Parola di Dio, e da quel momento ha perso la parola. Non ha ascoltato, e ora non ha più niente da dire. Eppure i dubbi del vecchio sacerdote (i miei difetti e i miei dubbi) non fermano l’azione di Dio. Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio… e i vicini si rallegravano con la madre.
Il bambino, figlio del miracolo, nasce come lieta trasgressione, viene alla luce come parola felice, vertice di tutte le natività del mondo: ogni nascita è profezia, ogni bambino è profeta, portatore di una parola di Dio unica, pronunciata una volta sola.
Volevano chiamare il bambino con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma i figli non sono nostri, non appartengono alla famiglia, bensì alla loro vocazione, alla profezia che devono annunciare, all’umanità; non al passato, ma al futuro.
Il sacerdote tace ed è la madre, laica, a prendere la parola. Un rivoluzionario rovesciamento delle parti. Elisabetta ha saputo ascoltare e ha l’autorevolezza per parlare: «Si chiamerà Giovanni», che significa dono di Dio (nella cultura biblica dire “nome” è come dire l’essenza della persona).
Elisabetta sa bene che l’identità del suo bambino è di essere dono, che la vita che sente fremere, che sentirà danzare, dentro di sé viene da Dio. Che i figli non sono nostri, vengono da Dio: caduti da una stella fra le braccia della madre, portano con sé lo scintillio dell’infinito. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è “dono perfetto”.
E domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse… Il padre interviene, lo scrive: dono di Dio è il suo nome, e la parola torna a fiorire nella sua gola. Nel loro vecchio cuore i genitori sentono che il piccolo appartiene ad una storia più grande. Che il segreto di tutti noi è oltre noi.
A Zaccaria si scioglie la lingua e benediceva Dio: la benedizione è un’energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto e dilaga. Benedire è vivere la vita come un dono: la vita che mi hai ridato/ ora te la rendo/ nel canto (Turoldo).
Che sarà mai questo bambino? Grande domanda da ripetere, con venerazione, davanti al mistero di ogni culla. Cosa sarà, oltre ad essere vita che viene da altrove, oltre a un amore diventato visibile? Cosa porterà al mondo questo bambino, dono unico che Dio ci ha consegnato e che non si ripeterà mai più?
(Letture: Isaìa 49,1-6; Salmo 138; Atti 13, 22-26;
Luca 1,57-66.80)

da Avvenire a cura di Ermes Ronchi

FRIEDENREICH È «MEJO ‘E PELÈ»

«Maradona è mejo ‘e Pelè», sentenziano con sicumera a Napoli. «Pelè è il più grande di tutti», rispondono con altrettanta convinzione a Santos. «Friedenreich, è stato il migliore», dicono i vecchi della favela di Rio de Janeiro. Nessuno di loro ha visto giocare Arthur Friedenreich, il “figlio della colpa”, suo padre era un tedesco e la madre una lavandaia nera, ma in Brasile da un secolo in qua si tramanda la leggenda che sia lui il più grande marcatore della storia del calcio. E da oltre cinquant’anni va avanti la diatriba che lo vuole più prolifico, quanto a gol, di O Rei Pelè che in carriera ha messo a segno 1.279 gol, contro i 1.329 di Friedenreich. Tutte le reti di Pelè sono registrate, visibili su Youtube, mentre di quelle del bomber Arthur si hanno solo prove orali. Di lui sì sa che, da figlio di crucco, cominciò nel club Germania, nel 1909, e concluse la sua carriera dopo un quarto di secolo con il Flamengo. Qualche novantenne di Rio mi ha giurato di averlo visto giocare, lo dice con orgoglio perché «Arthur era un nero, come noi». E all’epoca non era cosa buona e giusta che un uomo di colore vestisse la casacca verdeoro della Seleçao. Spazzò via il pregiudizio solo quando segnò la rete della vittoria contro l’Uruguay, finale dei campionati sudamericani del 1919. Forse la più importante, delle presunte 50 in più di Pelè, la prima rete di Friedenreich, profeta del gol e dell’antirazzismo da ultimo stadio.
da Avvenire

Ecumenismo. Il Papa a Ginevra: «Lasciamoci provocare dalle sfide del mondo»

Il Papa a Ginevra: «Lasciamoci provocare dalle sfide del mondo»

da Avvenire

“È difficile perdonare, portiamo sempre dentro un po’ di rammarico, di astio, e quando siamo provocati da chi abbiamo già perdonato, il rancore ritorna con gli interessi”. Lo ha ammesso il Papa, che nell’omelia della Messa al Palaexpo di Ginevra spiegando che “il Signore pretende come dono il nostro perdono”, “la clausola vincolante del Padre Nostro”.

“Dio ci libera il cuore da ogni peccato, perdona tutto, tutto, ma una cosa chiede: che non ci stanchiamo di perdonare a nostra volta”, ha ribadito Francesco: “Vuole da ciascuno un’amnistia generale delle colpe altrui. Bisognerebbe fare una bella radiografia del cuore, per vedere se dentro di noi ci sono blocchi, ostacoli al perdono, pietre da rimuovere. E allora dire al Padre: ‘Vedi questo macigno, lo affido a te e ti prego per questa persona, per questa situazione; anche se fatico a perdonare, ti chiedo la forza per farlo’”.

“Ciascuno di noi rinasce creatura nuova quando, perdonato dal Padre, ama i fratelli”, ha garantito il Papa citando il caso di Pietro, perdonato da Gesù, e di Saulo, che “diventò Paolo dopo il perdono ricevuto da Stefano”. “Solo allora immettiamo nel mondo novità vere, perché non c’è novità più grande del perdono, che cambia il male in bene”, ha proseguito Francesco citando la storia cristiana: “Perdonarci tra noi, riscoprirci fratelli dopo secoli di controversie e lacerazioni, quanto bene ci ha fatto e continua a farci!”. “Non arroccarci con animo indurito, pretendendo sempre dagli altri, ma fare il primo passo, nella preghiera, nell’incontro fraterno, nella carità concreta”, l’invito finale: “Così saremo più simili al Padre, che ama senza tornaconto. Ed egli riverserà su di noi lo Spirito di unità”.

Nella Messa al Palaexpo, «Guai a chi specula sul pane»

“Guai a chi specula sul pane! Il cibo di base per la vita quotidiana dei popoli dev’essere accessibile a tutti”. A levare il grido è stato il Papa, durante l’omelia della Messa al Palaexpo di Ginevra, dove ha spiegato che “chiedere il pane quotidiano è dire anche: ‘Padre, aiutami a fare una vita più semplice’”. “La vita è diventata tanto complicata, per molti è come drogata”, l’allarme di Francesco: “Si corre dal mattino alla sera, tra mille chiamate e messaggi, incapaci di fermarsi davanti ai volti, immersi in una complessità che rende fragili e in una velocità che fomenta l’ansia”. In questo contesto, per il Papa, “s’impone una scelta di vita sobria, libera dalle zavorre superflue. Una scelta controcorrente, come fece a suo tempo san Luigi Gonzaga, che oggi ricordiamo. La scelta di rinunciare a tante cose che riempiono la vita ma svuotano il cuore”.

“Scegliamo la semplicità del pane per ritrovare il coraggio del silenzio e della preghiera, lievito di una vita veramente umana”, la ricetta di Francesco: “Scegliamo le persone rispetto alle cose, perché fermentino relazioni personali, non virtuali. Torniamo ad amare la fragranza genuina di quel che ci circonda. Quando ero piccolo, a casa, se il pane cadeva dalla tavola, ci insegnavano a raccoglierlo subito e a baciarlo. Apprezzare ciò che di semplice abbiamo ogni giorno, custodirlo: non usare e gettare, ma apprezzare e custodire”. Il “Pane quotidiano” è Gesù, ha ricordato infine il Papa: “Senza di lui non possiamo fare nulla. È lui l’alimento base per vivere bene”. “A volte, però, Gesù lo riduciamo a un contorno”, il monito: “Ma se non è il nostro cibo di vita, il centro delle giornate, il respiro della quotidianità, tutto è vano. Domandando il pane chiediamo al Padre e diciamo a noi stessi ogni giorno: semplicità di vita, cura di quel che ci circonda, Gesù in tutto e prima di tutto”.

«Lasciamoci provocare dalle sfide del mondo»

«Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». Dopo la visita e il pranzo all’Istituto Ecumenico Bossey, centro internazionale di dialogo e formazione del Consiglio mondiale delle Chiese immerso nel verde della campagna tra Versoix e Nyon a venticinque chilometri da Ginevra, papa Francesco ha partecipato nel pomeriggio all’incontro ecumenico nella Visser’t Hooft del Centro ecumenico ginevrino. Alle parole del segretario generale del Consiglio, Olav Fykse Tveit e a quelle della teologa anglicana Agnes Aubom, la riflessione del Papa si è soffermata sul motto scelto per questa giornata:«Camminare-Pregare-Lavorare insieme», che, come ha affermato Tveit nel corso della conferenza stampa tenuta a Bossey, riportando la conversazione privata avuta con il Papa a pranzo, è da considerarsi «la trinità ecumenica che porta all’unità».

IL TESTO INTEGRALE

Camminare per papa Francesco ha «un duplice movimento: in entrata e in uscita»: in entrata verso Cristo e in uscita verso i fratelli «per portare insieme la grazia risanante del Vangelo all’umanità sofferente».

Pregare vuol dire anche che quando «diciamo “Padre nostro” risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli. La preghiera – ha poi ribadito – è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza».

Lavorare insieme è ciò che rende «la credibilità del Vangelo» perché la credibilità è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti ed ha elencato la fattiva collaborazione instaurata in cinque decenni con la Chiesa cattolica in una società in cui «i deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi» .

«Sentiamoci interpellati – ha detto il Papa – dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione». Soprattutto «incoraggiamoci a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali e di farci assorbire da interessi di parte. Non possiamo disinteressarci, «e c’è da inquietarsi – ha sottolineato il Papa – quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato». «Ancora più triste» poi «è la convinzione di quanti ritengono i propri benefici puri segni di predilezione divina, anziché chiamata a servire responsabilmente la famiglia umana e a custodire il creato». Perché è sull’amore per il prossimo, «per ogni prossimo, il Signore, Buon Samaritano dell’umanità (cfr Lc 10,29-37) che ci interpellerà».

«Riscoprire la missione è la nuova indispensabile frontiera dell’ecumenismo»

Nel suo secondo discorso a Ginevra, davanti ai membri del Consiglio ecumenico delle Chiese, papa Francesco ha così insistito sulla missione e sulla testimonianza comune al Vangelo che i cristiani possono e debbono dare nel nostro tempo. Venuto qui a celebrare il 70° anniversario dell’istituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese, ha ringraziato i primi ecumenisti che, «spinti dall’accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di crederenell’unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura». Persone – ha detto – che «con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni». E se il Consiglio delle Chiese «è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione» papa Francesco ha posto l’attenzione proprio su questo punto: «Come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti “perché il mondo creda”». Il Papa ha espresso a questo proposito una preoccupazione, derivante «dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine».

«Eppure – sottolinea Bergoglio – il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione» ha ripetuto mutuando quanto già espresso da Benedetto XVI.
«Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? – si è chiesto il Papa – Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’apostolo Paolo: “Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze”».

Francesco ha invitato dunque a non ridurre «questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo». Due atteggiamenti diversi ma ugualmente deleteri per Francesco che fotografano altrettanti approcci oggi riscontrabili nel mondo cristiano: l’adattamento al mondo, o la paura del mondo che fa rinchiudere in un fortino sentendosi assediati.

«Ciò di cui abbiamo veramente bisogno – ha sottolineato il Papa – è un nuovo slancio evangelizzatore. Siamo chiamati a essere un popolo che vive e condivide la gioia del Vangelo, che loda il Signore e serve i fratelli, con l’animo che arde dal desiderio di dischiudere orizzonti di bontà e di bellezza inauditi a chi non ha ancora avuto la grazia di conoscere veramente Gesù. Sono convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi». Riscoprire la missione è dunque la nuova indispensabile frontiera dell’ecumenismo: «L’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica».

«Le distanze non siano scuse, serviamo insieme il mondo»

«Camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo». Nella sede del Consiglio ecumenico delle Chiese (World Council of Churches, WCC) di Ginevra papa Francesco approfondisce ciò che è essenziale nel cammino ecumenico, in un luogo che è il segno di un impegno ormai storico della comunione delle oltre trecento denominazioni cristiane che insieme collaborano sulle grandi sfide che attraversano l’umanità, dalle situazioni di conflitto alle emergenze umanitarie e lavorano per il Vangelo nel mondo, la giustizia e la pace e con cui la Chiesa cattolica opera da cinquant’anni.

«Camminare, pregare e lavorare insieme» è il motto comune scelto per questo breve ma intenso ventitreesimo viaggio papale all’estero nel segno dell’ecumenismo e che intende dare un nuovo impulso all’azione comune dei credenti in Cristo. Nel quartiere immerso nel verde a due passi dall’aeroporto e dal Palexpo, nella cappella del Consiglio ecumenico delle Chiese, Francesco ha recitato la «preghiera di pentimento» ed ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati di san Paolo. Ed è proprio dalla lettera dell’Apostolo Paolo ai Galati, che «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che Francesco prende la parola per una puntuale meditazione indicando cosa volesse dire per l’Apostolo delle genti «camminare insieme secondo lo Spirito». «Camminare secondo lo Spirito è rigettare la mondanità – afferma Francesco –. È scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono. È calarsi nella storia col passo di Dio: non col passo rimbombante della prevaricazione, ma con quello cadenzato da «un solo precetto: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”».

«Siamo chiamati, insieme, a camminare così – ribadisce il Papa – la strada perciò passa per una continua conversione, per il «rinnovamento della nostra mentalità perché si adegui a quella dello Spirito Santo». È questa – per papa Francesco – la via da seguire anche per il cammino ecumenico, passando attraverso una «continua conversione». L’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale.

Francesco ha fatto osservare che nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», perché prima sono venuti i proprio i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo»: «Stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’Apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».

In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo – ha aggiunto il Papa riferendosi al demonio – ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persinoalcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane». Camminare secondo lo Spirito, significa perciò scegliere «con santa ostinazione la via del Vangelo» e «rifiutare le scorciatoie del mondo».

Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi per papa Francesco «lavorare in perdita», non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o a orientamenti consolidati, siano essi maggiormente “conservatori” o “progressisti”». Bisogna «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché sé stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è “una grande impresa in perdita”. Ma si tratta di perdita evangelica».

«Il Signore ci chiede unità; il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità». La meta è l’unità, «la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni», oltre che danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» ha detto con chiarezza il Papa. Ma ha pure voluto sottolineare che «camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo». E «le distanze che esistono non siano scuse – ha ribadito – perché «è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!».

IL TESTO INTEGRALE

L’arrivo e i saluti

Il viaggio ecumenico di papa Francesco a Ginevra è cominciato alle 10.05 con l’atterraggio del volo Alitalia AZ4000 all’aeroporto di Ginevra-Cointrin. È «un viaggio verso l’unità» ha detto il Papa parlando ai giornalisti sul volo.«Desideri di unità», ha ripetuto facendo riferimento al cammino ecumenico al centro di questo suo viaggio. «Grazie per il vostro lavoro, per tutto quello che farete per il successo del viaggio» ha aggiunto rivolto ai giornalisti.

Dopo la presentazione delle rispettive delegazioni e l’esecuzione degli inni nazionali con la resa degli onori militari, il Pontefice ha salutato il presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche svizzere Gottfried Locher, prima di trasferirsi al Pavillon Vip dell’aeroporto per l‘incontro privato con il presidente della Confederazione svizzera Alain Berset, come avviene all’inizio di ogni viaggio internazionale.