Trent’anni dopo «Borsellino, la sua morte ci riguarda» L’anniversario divide ancora Palermo

Trent’anni di dolore, di ombre, di processi e di speranza. Trent’anni, da quel giorno che rivive, nel cuore di chi c’era, come in quello di chi è arrivato dopo, con le sue sequenze drammatiche in rapida successione. Ieri, alla vigilia dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, l’Agesci ha organizzato la manifestazione ‘Costruttori di memoria operante’. La notte di via D’Amelio è stata rischiarata da canti e preghiere, durante la Messa celebrata dall’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice. Ecco un passaggio del suo discorso a braccio: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro ‘soci’, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte».

Erano le cinque di pomeriggio, meno qualche minuto, il 19 luglio 1992. Improvvisamente, Palermo venne scossa da un boato. Si sollevò una nuvola di fumo, visibile da tutti i punti di osservazione.

I palermitani furono subito turbati. Quasi due mesi prima avevano vissuto un trauma nazionale: il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, assassinati in autostrada, all’altezza dello svincolo di Capaci, dal tritolo della mafia. Da quel tragico 23 maggio, gli occhi di tutti finirono sull’amico e ‘gemello’ di Falcone, l’uomo che ne aveva condiviso battaglie, successi e sconfitte. Si trattava del giudice Paolo Emanuele Borsel- lino, il magistrato che, nella percezione di molti, era più a rischio.

Le prime notizie offrirono lo scarno e drammatico resoconto di un attentato dinamitardo. «È stato coinvolto un magistrato» si disse. Non si disse ancora che il luogo dell’esplosione era via Mariano D’Amelio, una strada residenziale e tranquilla, oggi, a pochi passi dall’hub dei vaccini anti-Covid della Fiera del Mediterraneo. Passò un tempo angosciato, fino al tragico dispaccio che diede una forma compiuta alla strage. Paolo Borsellino era morto. Era al citofono, davanti al palazzo abitato dalla mamma, Maria Pia Lepanto, e dalla sorella, Rita, quando la bomba di Cosa nostra esplose. Con lui vennero spazzati via gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. È sopravvissuto soltanto l’agente Antonio Vullo con le sue ferite, nel corpo e nell’anima.

Sarà proprio Vullo a rivivere, per sempre, gli ultimi istanti. Il giudice che scende dalla macchina, che si accende la sigaretta e che va incontro alla sua morte. A trent’anni di distanza, Toni Vullo racconta ancora, come se fosse ieri, con la stessa intensità: «Ho visto il giudice che suonava al citofono esterno del palazzo. Aveva una faccia contratta, era preoccupato. Erano giorni difficili. Poi, si è scatenato l’inferno».

Tanti gli appuntamenti in agenda anche oggi. Alla commemorazione sarà presente il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che incontrerà le ragazze e i ragazzi che partecipano all’iniziativa ‘Coloriamo via d’Amelio’, organizzata dal Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Stamattina, alle dieci, il capo della polizia Lamberto Giannini deporrà una corona d’alloro all’interno dell’ufficio scorte della Questura; alle undici, in Cattedrale, la messa officiata dall’arcivescovo. In serata si svolgerà invece la tradizionale fiaccolata da piazza Vittorio Veneto in via D’Amelio organizzata dal Forum 19 luglio.

«Sono passati trenta lunghi anni senza verità – dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice –. Sono stati celebrati numerosi processi ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del ’92-93. Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa Nostra per commettere questi crimini ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica».

L’ultima sentenza del tribunale di Caltanissetta, nel processo sul depistaggio, ha dichiarato prescritte le accuse a due poliziotti, assolvendo il terzo. Un pronunciamento che ha provocato la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: «Come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica».

«Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre – ha detto, qualche settimana, fa Fiammetta Borsellino, indomita figlia del magistrato –. È per questo motivo che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ’92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perché aveva capito…».

Diverse le domande ancora senza risposta. Che fine ha fatto l’agenda rossa, il diario su cui il giudice annotava le cose importanti? C’è il marchio insanguinato della mafia, ma è stata davvero solo Cosa nostra a organizzare la strage o ha potuto contare sul concorso di altre entità?

Punti interrogativi che rinnovano l’angoscia di tutti e il dolore di chi perse qualcuno che amava. Trent’anni dopo, come se fosse ieri.

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L’arcivescovo Corrado Lorefice: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione»

Sopra: Salvatore Borsellino alza al cielo l’’agenda rossa’, riferimento a quella del fratello, sparita. In alto: una commemorazione.Sopra: via D’Amelio dopo la strage/ Ansa

Il caposcorta di Borselino. «Una strage che attende ancora giustizia»

L’anniversario della strage di via D’Amelio, il ritratto intimo del giudice dal suo “angelo custode”, all’epoca costretto a restare a casa per una malattia
Il luogo della strage del 19 luglio 1992

Il luogo della strage del 19 luglio 1992 – .

Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio. Palermo fu sconvolta da un’altra esplosione, a poche settimane dalla strage di Capaci in cui erano morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,Vito Schifani. Erano ancora calde le lacrime del 23 maggio, quando il 19 luglio del 1992 la violenza della mafia portò via Paolo Borsellino e i suoi “angeli custodi”: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.Trent’anni di ricerca della verità, di processi e di ombre che, ancora, si addensano sulla strage. Pochi giorni fa, c’è stata la sentenza sul depistaggio: il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a due dei tre poliziotti imputati, mentre un terzo è stato assolto. Un evento che è stato commentato duramente dai parenti delle vittime di mafia. Sia Maria Falcone, sorella di Giovanni, che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, hanno espresso, con toni diversi, la loro amarezza. «Ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica», ha detto la sorella del giudice Falcone. Il giudice Antonio Balsamo, oggi presidente del Tribunale di Palermo ed ex presidente della Corte d’assise di Caltanissetta, ha lanciato un appello: «Credo che un modo fortemente significativo di rendere onore alla memoria di questi grandi italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia di farsi carico di un impegno di ricerca della verità senza compromessi da parte di tutte le istituzioni e dello Stato». (R.P.)

 

 

«Io li voglio ricordare per come li ho conosciuti anche se quello che ho visto quel 19 luglio non sono bei ricordi. Vedere quei pezzi di carne bruciata…Quello è un giorno che mi ha segnato tantissimo, ma sono convinto che loro sono ancora qui. Forse quando avranno finalmente giustizia saliranno in Cielo. Un giorno, proprio qui, cominciai a sentire un fortissimo profumo dei gelsomini, poi arrivò una fortissima folata di vento e finì. Per me loro sono qui».

Si commuove l’assistente capo della Polizia, Emanuele Filiberto, mentre in via D’Amelio, sotto l’ulivo memoria della strage, ricorda “il mio amico Paolo” e i suoi colleghi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Emanuela Loi, “la mia sorellina”. Lui era il caposcorta del magistrato ma in quel mese di luglio era in malattia per un’operazione, «ma volevo rientrare al più presto». Cinquantaquattro anni, in Polizia da 30 anni, dal 1990 nel servizio scorte, ancora oggi tutela le persone più a rischio. E tutti i giorni passa per via D’Amelio, dove l’ulivo piantato dalla famiglia Borsellino si riempie continuamente di foto, lettere, disegni. «Per noi è un luogo sacro. Ci vengo molto spesso. Gli accendo una sigaretta… Paolo fumava tantissimo. La accendo, la appoggio sui quei sassi, e mi sembra di vederla aspirare».

E in questa lunga chiacchierata ricordi tristi si accompagnano a quelli allegri. «Un giorno entrai nella sua stanza e mi bloccai. “Ma perché mi guardi così?”. “Dottore mi sa che per lei è arrivato il momento di smettere di fumare”. “E perché?”. “Perché ne ha una in bocca e una accesa in mano”». Parlare con lui è conoscere anche il Borsellino privato. «Ricordo benissimo il primo giorno. Arrivai a casa sua, suonai il campanello e mi aprì la signora Agnese. Le dissi: “Buon giorno mi chiamo Emanuele Filiberto e sono il caposcorta di suo marito”. Mi rispose: “Scusi come ha detto che si chiama?”.

Pensai: “È la solita storia del principe Emanuele Filiberto…”. Allora lei chiamò. “Paolo, Paolo”. Arriva lui con in mano una tazzina di caffè. “Agnese cosa è successo?”. “Può dire lei a mio marito come si chiama?”. “Dottore buon giorno, come ho detto a sua moglie mi chiamo Emanuele Filiberto…”. “Hai visto Paolo, il ministero dell’Interno ti ha mandato un principe”. Mi fissò, poi guardò Agnese e disse: “E tu Agnese tieni un principe davanti alla porta? Si accomodi, le offro la prima tazzarella di caffè”. E da lì è nata un’amicizia incredibile, per me è stato un secondo padre, il mio fratello maggiore, un amico». E i ricordi si accavallano nel tempo. «Avevamo tante cose in comune, il mare, la barca, la squadra del cuore, l’Inter. Proprio nel 1992 mi disse che aveva intenzione di andare a vedere una partita a Milano. “Sabato alloggiamo alla Pinetina, dove si allena la squadra, la domenica andiamo a San Siro a vedere la partita e poi rientriamo a Palermo”. “Beato lei dottore”.

 

 

“Forse non hai capito, tu verrai con me”. Mi rese felice. Ma purtroppo non si è realizzato questo suo sogno. Erano le ultime partite del campionato. Non abbiamo avuto tempo… ». Perché arriva la bomba di Capaci e cambia tutto. «Non aveva più il sorriso di prima. La preoccupazione gliela leggevamo in faccia. Un giorno mentre lo riportavamo a casa mi fissò negli occhi e mi disse: “Emanuele pigghiati i picciotti, vatinne e non bienere più. Vattene e non tornare più”. “Dottore ma cosa sta dicendo?”. “Senti a me, vattene e non tornare più”. Mi ha traumatizzato il modo con cui lo aveva detto ». Ma Emanuele e gli altri ragazzi non se ne vanno. «Gli dissi, “dottore di cosa si tratta?”. “È arrivato il tritolo per me, ecco perché ho detto andatevene”. “Tritolo, bombe? Come quella di Capaci?”. “Sì, ecco perché te lo ripeto di nuovo, andatevene, io devo continuare”.

La mia risposta fu: “Se lei continua, anche noi continuiamo con lei”». Un lavoro difficile, in una città dove si protestava per le auto blindate che correvano a sirene spiegate. «Noi eravamo in emergenza, non potevamo tenere ferma in mezzo al traffico la personalità che scortavamo. Dovevamo utilizzare i segnali acustici e questo infastidiva la gente che però doveva anche capire il nostro rischio». E i poliziotti sapevano bene i rischi che correvano. «Ogni giorno nel momento del cambio, passavo le consegne ai colleghi e tra di noi c’erano abbracci continui, “noi siamo rientrati, anche voi dovete rientrare stasera”. Invece quel giorno i ragazzi sono usciti dall’ufficio, sono partiti dall’abitazione estiva di Borsellino, sono arrivati qui…».

E la voce di Emanuele si blocca, per l’emozione del ricordo. «Quando sono arrivato anche io, ho visto Lucia (la figlia di Borsellino, ndr), e ci siamo abbracciati. L’unico corpo che era quasi integro era proprio quello di Paolo, perché i ragazzi nel momento dell’esplosione lo circondavano, come sempre. Non facevamo mai avvicinare nessuno. Lo hanno protetto fino all’ultimo. Quando è stata trovata la mano di Emanuela aveva ancora la pistola in pugno». Ricordi che uniscono «dolore e rabbia. Noi il nostro lo avevamo fatto. Avevamo fatto da tempo la richiesta per la zona rimozione, non certo il 19 mattina». Così i mafiosi avevano potuto tranquillamente parcheggiare la 126 piena di tritolo. «Dopo l’attentato mi proposero di fare domanda di trasferimento ma davanti alla macchina da scrivere mi sono bloccato perché mi sono ritornate in mente le parole di Paolo quando mi disse “io devo continuare”. Mi alzai e non ho fatto domanda. Dopo le stragi mi sarei sentito un vigliacco ad andare via. E fino a oggi non sono mai andato via dalle scorte».

E allora parliamo di Emanuela. «Era una ragazza fantastica, bella, solare, rideva sempre. Siamo tutti e due del 1967 e abbiamo frequentato il corso assieme a Trieste. Poi il trasferimento a Palermo. Lei al commissariato Libertà e io al commissariato Zisa. E poi insieme nel servizio scorte. Emanuela voleva fare la maestra, le piaceva studiare. In questo mi ha aiutato, così come io poi l’ho aiutata per le tecniche con le auto in movimento. I primi tempi cadeva sempre, poi è diventata bravissima. Al commissariato Libertà la mandarono a fare vigilanza. La fece anche al presidente Mattarella. Non so se sa che mentre dormiva, sotto casa sua c’era Emanuela. Una volta il collega che doveva darle il cambio non era potuto venire.

Allora le portai un panino. Stava parlando con due bambini filippini e coi genitori. Prese il panino, lo divise in due e lo diede ai due bambini. Questa era Emanuela. Amava tanto i bambini. Anche Paolo amava i bambini». E proprio sui giovani sono le ultime riflessioni. «Quando Paolo incontrava i ragazzi e parlava del cambiamento, diceva che erano loro che avrebbero sconfitto la mafia. Io parlo tantissimo con le mie figlie, parlo di Emanuela, parlo di Paolo. Loro mi fanno tante domande. Vanno ricordati ogni giorno non solo il 19 luglio. Se tu credi in lui, se credi in quei ragazzi che sono morti per tutti noi, bisogna ricordarli sempre. Ricordare che Paolo è stato un grandissimo uomo, un grandissimo padre di famiglia, un grandissimo magistrato. Mi piacerebbe che quest’anno in questa via ci fossero tantissimi bambini, perché saranno le idee dei bambini con le stesse idee di Paolo ad andare avanti. Solo così il consenso ai mafiosi non lo daremo più, perché saranno i bambini a distruggere i mafiosi».

Avvenire

Mostre: lenzuoli contro la mafia, la rivolta civile di Palermo

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Tornata a casa dopo il funerale di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, una giovane donna palermitana espone al balcone un lenzuolo che esprime tutta la sua rabbia.

“Palermo chiede giustizia” c’è scritto.

È il primo atto di una rivolta collettiva delle coscienze che dà corpo al “Comitato dei lenzuoli”: un gruppo spontaneo nel quale si ritrovano intellettuali, docenti universitari, giornalisti, sociologi, professionisti. Trent’anni dopo la memoria di quella esperienza viene rievocata in una mostra promossa dall’Istituto Gramsci siciliano e visitabile dal 23 giugno al 23 luglio ai Cantieri culturali di Palermo.
Nel percorso espositivo si ritrovano materiali, documenti, testimonianze delle iniziative promosse dal comitato. Si tratta di un campione della documentazione che le promotrici (erano quasi tutte donne) del comitato hanno lasciato come forma espressiva di quella rivolta civile. Accanto ai documenti e agli striscioni vengono esposti anche lenzuoli dipinti che arricchirono le iniziative della declinazione assunta dal comitato nell’area ionico-etnea.
Documenti e striscioni vengono da Marta Cimino, la prima donna a lanciare la protesta dei lenzuoli, scomparsa da qualche anno. Li ha recuperati e sistemati la figlia Caterina Cammarata.
I lenzuoli dipinti sono stati conservati per 30 anni da Marinella Fiume.
Il gesto di Marta Cimino toccava i nervi scoperti di Palermo.
Altri lenzuoli cominciarono a comparire ai balconi di case, studi, uffici privati e pubblici, al centro e in periferia.
Accompagnavano la richiesta di giustizia e il sostegno ai magistrati. (ANSA).
 

Paura in Sicilia: forte terremoto avvertito nei pressi di Palermo

Una forte scossa di terremoto è stata avvertita pochi minuti fa, alle 06:14, dalla popolazione in Sicilia, in particolare in provincia di Palermo.
Secondo la Sala Sismica INGV si è trattato di un terremoto ML 4.3 con epicentro sulla Costa Siciliana centro settentrionale, al largo di Cefalù, ed ipocentro ad una profondità di 6 km.

L’evento principale è stato seguito da due scosse lievi, di magnitudo 2.0 e 2.2, rispettivamente alle 06:23 e 06:39.

Decine le telefonate arrivate ai vigili del fuoco, ma al momento non si registrano danni ma solo tanta paura.
La scossa è stata avvertita lungo tutta la costa settentrionale della Sicilia, da Santo Stefano di Camastra, in provincia di Messina, fino alla provincia di Trapani.

strettoweb.com

A Palermo i vincitori del Mondello

Avvenire

I vincitori della 47ª edizione del Premio Letterario Internazionale Mondello per l’opera italiana sono Laura Forti con Forse mio padre (Giuntina), Giulio Mozzi con Le ripetizioni (Marsilio), Alessio Torino con

Al centro del mondo

(Mondadori). Per l’ Opera critica vince invece Lorenzo Tomasin con Europa romanza.

Sette storie linguistiche (Einaudi). La cerimonia di premiazione si svolgerà a Palermo il 19 novembre.

Forza antica della carta. A Palermo per recuperare gli imballi dei mercati e tramutarli in quaderni di diverso tipo

Osservatore Romano
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06 ottobre 2020

Lavorare «lentamente a mano» nell’epoca dei social

C’è la carta bigia, usata per avvolgere la frutta. Ci sono la carta camoscina, che di solito tiene dentro il pane, e la carta sfoglio rosa, tipica dei salumi e della carne. Poi, ancora, la carta pelleaglio con i soli dorati, destinata ai dolciumi, la cartapaglia del fritto, la carta fioretto bianca, conosciuta per contenere la semenza, la carta paraffinata, la carta accoppiata e tantissimi altri tipi di carte alimentari, strumentali a diventare coperta, o meglio, imballaggio di una molteplicità di cibi. Ognuna di esse possiede caratteristiche proprie, consistenze, colori, nomi, identità, ingredienti diversi. Un po’ come a dire che nessuna carta è uguale all’altra.

Lo sa bene Carmela Dacchille, l’architetto che, nel 2013, a Palermo, dopo una pregressa e personale ricerca, dà vita a Edizioni Precarie, progetto di design e grafica artigianale che, proprio con le carte alimentari degli storici mercati del capoluogo siciliano, realizza taccuini, quaderni, fogli e buste da lettera, piccole edizioni in serie limitata e vari esperimenti che hanno lo scopo di raccontare il mondo com’era, le tradizioni quasi dimenticate, le antiche usanze e la bellezza di un territorio in costante trasformazione.

«L’idea di recuperare la carta, anzi le carte dei mercati – spiega l’ideatrice del progetto —, per tramutarle in quaderni di diverso tipo, è un modo per non smettere mai di raccontare: ogni carta ha una storia, così come ogni quaderno ne possiede una sua. Ma non si tratta, più in particolare, di storie finite. Sono tutte storie iniziate che, successivamente, le persone dovranno continuare a scrivere, a personalizzare sul quaderno, sul taccuino che hanno scelto di portare con sé».

Con Edizioni Precarie nasce, pertanto, un racconto fatto interamente di carta, in grado di valorizzare ciò che viene solitamente sottovalutato (alzi la mano chi ha mai fatto caso alle carte che avvolgono gli alimenti) e che pure getta lo sguardo su una porzione di città, sulle sue storie locali e sui suoi abitanti. Un racconto capace di contenere, non più alimenti, ma idee, pensieri e disegni, la cui freschezza — al pari di quegli stessi cibi, oggetto primario dell’imballaggio — viene preservata.

La gamma di prodotti che ne viene fuori – tutto è realizzato interamente e «lentamente a mano», secondo diverse fasi di lavorazione (ricerca e selezione della carta, assemblaggio, cucitura, rifinitura e rifilatura, taglio, pulitura, timbratura…) e, appunto, coi diversi tipi di carta provenienti da Ballarò, dalla Vucciria o da Il Capo – è di conseguenza assai vasta. Esistono, ad esempio, i “Carnet de Reves”, i cosiddetti quaderni dei sogni, confezionati con le carte delle “carnizzerie” palermitane e in cui è possibile rinvenire un piccolo oggetto di pasta di pane, utilizzato, in date ricorrenze, come decorazione per dolci; il quaderno di “Ciccia Pillicca”, custodito nella busta dove un tempo si vendeva lo zucchero sfuso e, al cui interno, si trova anche una storia della tradizione siciliana; la serie “Les Divinettes” e, cioè, i quaderni che contengono, ciascuno, un indovinello della consuetudine orale, timbrato a mano sulla custodia, e, all’interno, la relativa soluzione; i “Ricettacoli”, che sono taccuini che giocano mescolando le carte e hanno in allegato un breve racconto di una ricetta tipica; e via discorrendo.

Tra gli altri – l’elenco dei prodotti di carta, ognuno con le proprie peculiarità, è davvero lungo e gustoso —, ci sono anche i “Cunti di mar” e e i “Diari di bordo”: sulle relative copertine vengono timbrati, sempre a mano, i pesci delle grafiche di vecchie carte alimentari («Si tratta di carte da pescheria che non si trovano più, perciò le illustrazioni di queste stesse carte le abbiamo trasformate in timbri, che adesso utilizziamo secondo il nostro piacimento», dice Carmela). Nei primi, i “Cunti di mare”, emergono sogliole, trote, tonni; nei secondi, i “Diari di bordo”, c’è il solo pesce spada, nero e simbolo di rotta. O, forse, se si pensa al compianto Vittorio De Seta e al suo documentario del 1954, Lu tempu di li pisci spada , simbolo di un mondo che sembrava eterno: l’usanza della pesca nelle acque che separano la Sicilia dalla Calabria, le cui origini si perdono nel buio dei tempi, oggi è andata perduta, non essendo più preceduta dalla frenesia dell’attesa né, tantomeno, seguita dalla festa e dai canti nei villaggi, a cui i pescatori continuano, comunque, a fare ritorno.

È di questo mondo perduto, e del mondo che potrebbe non essere più, che si occupa, in definitiva, Edizioni Precarie. Il progetto, del resto, ha questo nome proprio perché intende sottolineare la mutevolezza dei tempi, della storia. «La volontà è quella di riflettere sulla fragilità di certe realtà e, quindi, sulla loro bellezza intrinseca. Quando Edizioni Precarie nasce, circa sette anni fa, l’aggettivo precario è usatissimo, è tanto gettonato per descrivere negativamente il mondo in generale, tutto è precario per la crisi economica, per il lavoro che manca, per ciò che accade in Italia. Ma io, allora come adesso, desidero, più che altro, riflettere sulla precarietà in un senso differente: ogni cosa cambia, ogni cosa si trasforma, però tutte queste cose possono essere conservate. Un concetto che vale per le carte alimentari dei mercati di Palermo e per gli stessi mercati che, a loro volta, stanno subendo un’evoluzione, dovuta, tra le diverse ragioni, al turismo di massa che cresce e sembra farlo a discapito della dimensione locale, quotidiana, delle tradizioni», spiega Carmela Dacchille, emigrata al contrario, che, della Sicilia e della Palermo del Gattopardo, ha fatto la sua casa, pur avendo origini pugliesi e pur avendo studiato, nonché lavorato, tra Roma e Rotterdam, in Olanda.

Contro, dunque, la perdita delle tradizioni, Edizioni Precarie resiste, anzi va avanti. «Da un iniziale scetticismo generale (ricordo ancora il primo giorno in cui mi recai ad acquistare la carta da chi, di solito, la vende a chi ha il proprio banchetto al mercato: mi scambiarono per una panettiera a causa del mio essere onnivora di questo materiale), la realtà di Edizioni Precarie è cresciuta. È nato lo Spazio Precario, sempre a Palermo, che è sia laboratorio di produzione sia spazio espositivo – rende noto Dacchille —. Lo spazio è, insomma, un contenitore di idee, proprio come i quaderni di Edizioni Precarie, è il luogo fisico dove tutto accade. Al suo interno esponiamo le idee e i progetti appartenenti anche ad altri autori e vi sorge, inoltre, la Scuola Precaria, che propone un calendario di vari appuntamenti lungo tutto l’anno, con formatori ed esperti che si occupano principalmente di carta, nelle sue varie declinazioni».

Affiancano Carmela Dacchille anche diversi collaboratori che, nel tempo, hanno sposato il suo progetto e che, come lei, «hanno deciso di rimanere o di tornare, di investire nella città, in Palermo, scegliendo di operarvi attivamente»: Giulia Basile e Alessandra Figuraccia, che si occupano direttamente di Edizioni Precarie con Carmela, e Rossella Palazzolo che, invece, si occupa, insieme alle altre, di coltivare lo “Spazio Precario”. Viva è anche la collaborazione con gli artigiani storici di Palermo, «come coi fratelli Barone che dall’età di sette anni lavorano nella legatoria di famiglia e lo fanno tuttora»; e anche quella con numerose librerie indipendenti italiane ed estere dove si possono rintracciare le Edizioni Precarie (il cui acquisto è, naturalmente, previsto a Palermo nello Spazio Precario e sul relativo sito web); molteplici, ancora, i workshop organizzati nell’ambito del progetto. «Però a causa del coronavirus, gli appuntamenti previsti per quest’anno sono stati sospesi – precisa Carmela —. Avremmo dovuto ospitare una calligrafa proveniente dal Giappone e, ancora, un’artigiana spagnola che lavora con la carta marmorizzata. Così non è stato. C’è da dire che Edizioni Precarie – continua — è un’idea di fare e, come tutte le persone che non lavorano con lo smart—working ma con le mani, per noi questo non può che essere un periodo di riflessione e transizione. È al momento in stand—by anche il nuovo e parallelo progetto sulla Casa Botanica, volto all’ospitalità e sempre dedicato al racconto di artigiani che lavorano sul territorio palermitano. Attendiamo di svilupparlo al meglio».

Tra i diversi scopi che ha, risulta, infine, un progetto pro ambiente quello di Edizioni Precarie perché alla carta dà, com’è palese, notevolissimo valore. «Non si parla di riciclo, contrariamente a quanto si pensa – afferma sempre Carmela Dacchille —, ma si sostiene la carta con lo stesso obiettivo del riciclo. Pensiamo, infatti, che la carta sia ecologica e abbia un impatto meno forte, rispetto alla plastica, sull’ambiente. Se i mercati interrompessero l’uso della plastica, visto che oggi le confezioni di questo tipo di materiale sono tantissime e molto usate, si potrebbe avviare effettivamente una riflessione ecologica e capire davvero la portata, oltre che la bellezza, della carta».

Dialogando con Carmela e pensando alle sue Edizioni Precarie, ai mercati e alle preziosissime carte, è facile sentire nella mente l’eco di cantilene antiche, il vocio delle persone, persino il profumo dei cibi sulle bancarelle, visualizzarne colori e forme quasi a dipingere lo stesso quadro, Vucciria (1974), di Renato Guttuso o a far riemergere ricordi d’infanzia legati alle fiere, a universi magici e quasi surreali. Edizioni Precarie recupera la carta, sì, ma anche l’innocenza dei ricordi. Avvolge i pensieri, imballandoli come fossero carne, frutta, formaggio o pesce, e fa, nondimeno, impadronire, chi vi entra in contatto, di posti mai visitati e lontani. «Questo progetto è – dice Carmela Dacchille – la narrazione di realtà minori che celano, nascondono la meraviglia dei luoghi, degli usi e dei costumi, la straordinarietà di un popolo e, nello specifico, del sud e di Palermo. Edizioni Precarie – conclude — è tutto ciò, il racconto delle cose quotidiane e semplici che, nonostante il cambiamento, hanno in sé una grande forza».

di Enrica Riera

GIRO, GANNA VINCE LA CRONO A PALERMO, È PRIMA MAGLIA ROSA

TAPPA CHE HA APERTO LA 103/A EDIZIONE È PARTITA DA MONREALE Filippo Ganna è la prima maglia rosa del Giro d’Italia numero 103. Il piemontese, neocampione del mondo di specielità, ha vinto la cronometro individuale Montreale-Palermo, di 15,1 chilometri, con il tempo di 15’24” alla media di 58,8 chilometri l’ora. ‘Ero uno dei favoriti, ho cercato di sfatare il tabù secondo cui il favorito non vince. Indossare questa maglia è una grande emozione’, ha detto al traguardo. (ANSA).

L’ARCIVESCOVO DI PALERMO LOREFICE: “UNA CHIESA NEUTRA È ANCHE PEGGIO DI UNA CHIESA MAFIOSA”

 Il pastore della diocesi siciliana ha scritto “Siate figli liberi. Alla maniera di Pino Puglisi”, sull’eredità del sacerdote ucciso 25 anni fa da Cosa nostra.



famiglia cristiana

“Don Pino Puglisi e la sua testimonianza  non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi. Capita che una volta arrivati agli onori degli altari, si sia posti in una nicchia e sia tutto finito lì. Ma non è il caso di un uomo come don Pino, perché il sangue dei martiri è germe di una testimonianza evangelica capace di affrontare l’oggi. E don Puglisi ci rimanda a una chiesa che pende dalle labbra del Signore. Una chiesa discepola, che ripercorre vie, strade, profumi, ma anche gli olezzi della storia dell’uomo e non cerca esenzioni dai poteri costituiti. La chiesa di Papa Francesco”.

Le parole sono di chi lo ha conosciuto bene il beato don Pino e ci ha lavorato assieme:monsignor Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che a 25 anni dalla morte per mano di mafia del sacerdote siciliano, ha voluto dedicare un libro (Siate figli liberi! Alla maniera di Pino Puglisi, appena uscito per le Edizioni San Paolo) alla preziosa eredità che questo martire ha lasciato alla chiesa.     

Una testimonianza limpida che non parla solo alla terra siciliana. E’ così?

“Sì, don Pino è un sacerdote che ha da dire molto alla chiesa in Italia, e non solo. Siamo negli anni ’90, quando il sacerdote è parroco nel quartiere palermitano di Brancaccio proprio dove risiede il clan dei fratelli Graviano, lì dove sta la base di Cosa Nostra. E pensa in termini evangelici una presenza della comunità cristiana che annunci non il… padrino nostro, bensì il Padre Nostro, chiamando proprio così anche il centro aperto in città. E dice: “Siate figli liberi, non di Cosa Nostra, assumendosene paternità e maternità”.

Ma che significa fare memoria del martire a 25 anni dalla sua uccisione?

“Partirei dalla scelta fatta dal Papa Francesco che ha scelto di venire in Sicilia il 15 settembre 2018, una data non qualunque: 25 anni dopo la morte del sacerdote, avvenuta proprio quel giorno. Il Papa nei suoi viaggi in Italia non si muove mai a caso, ma sembra tracciare una specie di filo rosso della testimonianza della chiesa italiana che parte da Nord e scende a Sud. E’ partito infatti da Bozzolo, paese lombardo di don Primo Mazzolari, per scendere come pellegrino a Barbiana, dove operò don Lorenzo Milani; per poi passare in Puglia, patria di don tonino Bello. Infine è stata la volta della Sicilia e di Palermo, per incontrare don Pino”.

Tutti preti scomodi…        

“Sì,  preti di avamposto. Che hanno dato testimonianza di profezia, insita nel Vangelo, e che quindi ha bisogno di essere capita e accolta. Come sempre la profezia destabilizza un certo ordine, ma lo fa per riconsegnare la storia a Dio e al suo Regno, che trasforma e libera. Questo è il significato della testimonianza di don Puglisi, che diventa via maestra di una chiesa libera, asservita solo al vangelo, capace di testimonianza fino al martirio, secondo le orme di Gesù”.

Una chiesa povera, come ha sottolineato nel libro più volte, quella propugnata da papa Francesco. Vuol dire che non si dà libertà senza povertà?

Sì, e come insegna Francesco, non si tratta di povertà solo in termini teoretici, ma in termini di consapevolezza ecclesiale: la chiesa povera è ricca solo del Vangelo e solo questa forza può dare l’audacia del  martirio, fino all’effusione del sangue, creando passaggio dalle tenebre alla luce, dal potere strozzino che schiavizza,  tipico della mafia, alla libertà dei figli di Dio”.

Ci sono state resistenze al pieno riconoscimento del martirio di don Puglisi?

“Forse qualche opposizione sì, com’è inevitabile che sia. Ma ha prevalso il sensus fidei del popolo di Dio, un po’ come accadde con il martirio di Monsignor Romero. Perché il popolo di Dio ha naso nel riconoscere i veri testimoni del Vangelo”.

Pino Puglisi non amava essere definito prete anti-mafia. Come lo definirebbe?

“Don Pino è un prete senza aggettivi,  che non rientra nei canoni del prete anti-mafia. Non si faceva spazio solo con le parole, ma lavorava lontano dai riflettori, nella ferialità. E’ stato un grande educatore, proprio per aver fatto leggere ad altri, ad iniziare dai più piccoli,  l’esperienza umana seminata della Pasqua di Cristo. E se oggi a Palermo c’è gente capace di  esprime una fede adulta e impegnata, è perché ha avuto accanto lui”.

Pare sia riuscito a toccare addirittura il cuore di chi lo ha ucciso. Giusto?

“Lui fu uomo del sorriso, fino alla fine. L’ultima immagine che è rimasta impressa nei suoi occhi è quella dei suoi killer che ha portato con sé al cospetto del Signore. Ecco il “convertitevi” e il senso della mitezza evangelica: don Pino ha dato la vita per tutti, anche per chi lo ha ucciso, sulle orme di Cristo”.

Lei dedica un capitolo del libro alla pietà popolare, ricordandone l’importanza. Quella religiosità che non dev’essere strumentalizzata dalla mafia, come ammoniva Papa Francesco al clero raccolto in cattedrale a Palermo. Un rischio ancora attuale?

“Papa Francesco ha voluto riprendere il tema della pietà popolare, a lui carissima per la sua formazione teologica. Sapendo che in Sicilia è ancora forte il sentimento di pietà popolare, ma sapendo anche che permangono in essa anche delle forme equivoche, ha esaltato quella vera che è il “sistema immunitario della Chiesa”, patrimonio da custodire gelosamente; di converso la volontà di piegare Dio alla finalità di potere, insito nella cultura mafiosa,  deve trovare nella testimonianza della Chiesa una decisa parola critica. E’ una sfida educativa oggi per certi versi ancor più ardua, perché affronta una mentalità invasiva”.

Perché, secondo lei,  oggi il contrasto alle mafie è ancor più arduo rispetto a 25 anni fa?

“La mafia s’è trasformata: non ci sono più i delitti efferati degli anni Ottanta e Novanta; ma la sua azione è più subdola, perché s’è aziendalizzata e questo fenomeno oggi non riguarda più solamente il Sud, ma prolifera ovunque. A renderla ancora più pericolosa, poi, è il fatto che vive e prospera all’interno di una cultura performante. Una cultura invasiva idolatrica, che venera il dio Mammona. Il Vangelo non può essere che forza di debolezza, per dirla alla San Paolo, che, senza uso di violenza, si oppone alla mafia”.

Perché ha scritto che il  “dopo-Pino” deve ripartire dai bambini?

“E’  lo stesso stile pastorale di don Pino a dircelo:  utile e giusto manifestare in piazza contro la mafia, ma da buon pedagogo sapeva che era ben più importante l’educazione delle nuove generazioni: è da lì che si deve ripartire. Cosa Nostra vuole figli dipendenti. Invece il Vangelo crea figli liberi, adulti”.

Lei ha scritto che “una chiesa neutra è anche peggio di una chiesa collusa”. Parole forti, non crede?

Parole che leggiamo anche nell’Apocalisse: “sei freddo, non ti riconosco”, dice l’Angelo. Invece il Vangelo fa prendere sempre posizione, non per spirito di contraddizione, ma perché rende autenticamente liberi. Una chiesa neutra è già segnata, perché si adegua al contesto, senza più diventare ciò che deve essere, cioè lievito e sale del mondo”. 

La chiesa di papa Bergoglio non è certo neutra, ma ci sono opposizioni a questa linea…

 “E’ facile rispondere: vuol dire che Papa Francesco, che pensa a una chiesa umile e discepola del Vangelo, che dimentica tutti i linguaggi e i segni del potere, sta facendo sul serio col Vangelo. Chi fa resistenza sono coloro che  sono preoccupati di perdere potere, che hanno nostalgia del passato di potere, un’idea sbagliata della  sacralità”.

Lei ha conosciuto Pino Puglisi. In che occasione e che impressione le fece?

“Lo conobbi perché negli anni ’80 era il direttore del Centro Regionale Vocazioni e io, sacerdote fresco di nomina, nel 1988 fui nominato direttore del Centro vocazioni della diocesi di Noto, quindi ero membro anche del Centro regionale, per cui fino al 1990 ci si vedeva spesso a incontri e convegni. Riconosco nell’esito finale della sua vita lo spessore di un’umanità bella, capace di incrociare l’umanità degli altri, soprattutto dei giovani, e di un uomo coerente innamorato del Vangelo e della Chiesa. Era, inoltre, un grande lettore che frequentava le Scritture e le scienze antropologiche. Un vero formatore”.