Il caposcorta di Borselino. «Una strage che attende ancora giustizia»

L’anniversario della strage di via D’Amelio, il ritratto intimo del giudice dal suo “angelo custode”, all’epoca costretto a restare a casa per una malattia
Il luogo della strage del 19 luglio 1992

Il luogo della strage del 19 luglio 1992 – .

Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio. Palermo fu sconvolta da un’altra esplosione, a poche settimane dalla strage di Capaci in cui erano morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,Vito Schifani. Erano ancora calde le lacrime del 23 maggio, quando il 19 luglio del 1992 la violenza della mafia portò via Paolo Borsellino e i suoi “angeli custodi”: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.Trent’anni di ricerca della verità, di processi e di ombre che, ancora, si addensano sulla strage. Pochi giorni fa, c’è stata la sentenza sul depistaggio: il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a due dei tre poliziotti imputati, mentre un terzo è stato assolto. Un evento che è stato commentato duramente dai parenti delle vittime di mafia. Sia Maria Falcone, sorella di Giovanni, che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, hanno espresso, con toni diversi, la loro amarezza. «Ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica», ha detto la sorella del giudice Falcone. Il giudice Antonio Balsamo, oggi presidente del Tribunale di Palermo ed ex presidente della Corte d’assise di Caltanissetta, ha lanciato un appello: «Credo che un modo fortemente significativo di rendere onore alla memoria di questi grandi italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia di farsi carico di un impegno di ricerca della verità senza compromessi da parte di tutte le istituzioni e dello Stato». (R.P.)

 

 

«Io li voglio ricordare per come li ho conosciuti anche se quello che ho visto quel 19 luglio non sono bei ricordi. Vedere quei pezzi di carne bruciata…Quello è un giorno che mi ha segnato tantissimo, ma sono convinto che loro sono ancora qui. Forse quando avranno finalmente giustizia saliranno in Cielo. Un giorno, proprio qui, cominciai a sentire un fortissimo profumo dei gelsomini, poi arrivò una fortissima folata di vento e finì. Per me loro sono qui».

Si commuove l’assistente capo della Polizia, Emanuele Filiberto, mentre in via D’Amelio, sotto l’ulivo memoria della strage, ricorda “il mio amico Paolo” e i suoi colleghi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Emanuela Loi, “la mia sorellina”. Lui era il caposcorta del magistrato ma in quel mese di luglio era in malattia per un’operazione, «ma volevo rientrare al più presto». Cinquantaquattro anni, in Polizia da 30 anni, dal 1990 nel servizio scorte, ancora oggi tutela le persone più a rischio. E tutti i giorni passa per via D’Amelio, dove l’ulivo piantato dalla famiglia Borsellino si riempie continuamente di foto, lettere, disegni. «Per noi è un luogo sacro. Ci vengo molto spesso. Gli accendo una sigaretta… Paolo fumava tantissimo. La accendo, la appoggio sui quei sassi, e mi sembra di vederla aspirare».

E in questa lunga chiacchierata ricordi tristi si accompagnano a quelli allegri. «Un giorno entrai nella sua stanza e mi bloccai. “Ma perché mi guardi così?”. “Dottore mi sa che per lei è arrivato il momento di smettere di fumare”. “E perché?”. “Perché ne ha una in bocca e una accesa in mano”». Parlare con lui è conoscere anche il Borsellino privato. «Ricordo benissimo il primo giorno. Arrivai a casa sua, suonai il campanello e mi aprì la signora Agnese. Le dissi: “Buon giorno mi chiamo Emanuele Filiberto e sono il caposcorta di suo marito”. Mi rispose: “Scusi come ha detto che si chiama?”.

Pensai: “È la solita storia del principe Emanuele Filiberto…”. Allora lei chiamò. “Paolo, Paolo”. Arriva lui con in mano una tazzina di caffè. “Agnese cosa è successo?”. “Può dire lei a mio marito come si chiama?”. “Dottore buon giorno, come ho detto a sua moglie mi chiamo Emanuele Filiberto…”. “Hai visto Paolo, il ministero dell’Interno ti ha mandato un principe”. Mi fissò, poi guardò Agnese e disse: “E tu Agnese tieni un principe davanti alla porta? Si accomodi, le offro la prima tazzarella di caffè”. E da lì è nata un’amicizia incredibile, per me è stato un secondo padre, il mio fratello maggiore, un amico». E i ricordi si accavallano nel tempo. «Avevamo tante cose in comune, il mare, la barca, la squadra del cuore, l’Inter. Proprio nel 1992 mi disse che aveva intenzione di andare a vedere una partita a Milano. “Sabato alloggiamo alla Pinetina, dove si allena la squadra, la domenica andiamo a San Siro a vedere la partita e poi rientriamo a Palermo”. “Beato lei dottore”.

 

 

“Forse non hai capito, tu verrai con me”. Mi rese felice. Ma purtroppo non si è realizzato questo suo sogno. Erano le ultime partite del campionato. Non abbiamo avuto tempo… ». Perché arriva la bomba di Capaci e cambia tutto. «Non aveva più il sorriso di prima. La preoccupazione gliela leggevamo in faccia. Un giorno mentre lo riportavamo a casa mi fissò negli occhi e mi disse: “Emanuele pigghiati i picciotti, vatinne e non bienere più. Vattene e non tornare più”. “Dottore ma cosa sta dicendo?”. “Senti a me, vattene e non tornare più”. Mi ha traumatizzato il modo con cui lo aveva detto ». Ma Emanuele e gli altri ragazzi non se ne vanno. «Gli dissi, “dottore di cosa si tratta?”. “È arrivato il tritolo per me, ecco perché ho detto andatevene”. “Tritolo, bombe? Come quella di Capaci?”. “Sì, ecco perché te lo ripeto di nuovo, andatevene, io devo continuare”.

La mia risposta fu: “Se lei continua, anche noi continuiamo con lei”». Un lavoro difficile, in una città dove si protestava per le auto blindate che correvano a sirene spiegate. «Noi eravamo in emergenza, non potevamo tenere ferma in mezzo al traffico la personalità che scortavamo. Dovevamo utilizzare i segnali acustici e questo infastidiva la gente che però doveva anche capire il nostro rischio». E i poliziotti sapevano bene i rischi che correvano. «Ogni giorno nel momento del cambio, passavo le consegne ai colleghi e tra di noi c’erano abbracci continui, “noi siamo rientrati, anche voi dovete rientrare stasera”. Invece quel giorno i ragazzi sono usciti dall’ufficio, sono partiti dall’abitazione estiva di Borsellino, sono arrivati qui…».

E la voce di Emanuele si blocca, per l’emozione del ricordo. «Quando sono arrivato anche io, ho visto Lucia (la figlia di Borsellino, ndr), e ci siamo abbracciati. L’unico corpo che era quasi integro era proprio quello di Paolo, perché i ragazzi nel momento dell’esplosione lo circondavano, come sempre. Non facevamo mai avvicinare nessuno. Lo hanno protetto fino all’ultimo. Quando è stata trovata la mano di Emanuela aveva ancora la pistola in pugno». Ricordi che uniscono «dolore e rabbia. Noi il nostro lo avevamo fatto. Avevamo fatto da tempo la richiesta per la zona rimozione, non certo il 19 mattina». Così i mafiosi avevano potuto tranquillamente parcheggiare la 126 piena di tritolo. «Dopo l’attentato mi proposero di fare domanda di trasferimento ma davanti alla macchina da scrivere mi sono bloccato perché mi sono ritornate in mente le parole di Paolo quando mi disse “io devo continuare”. Mi alzai e non ho fatto domanda. Dopo le stragi mi sarei sentito un vigliacco ad andare via. E fino a oggi non sono mai andato via dalle scorte».

E allora parliamo di Emanuela. «Era una ragazza fantastica, bella, solare, rideva sempre. Siamo tutti e due del 1967 e abbiamo frequentato il corso assieme a Trieste. Poi il trasferimento a Palermo. Lei al commissariato Libertà e io al commissariato Zisa. E poi insieme nel servizio scorte. Emanuela voleva fare la maestra, le piaceva studiare. In questo mi ha aiutato, così come io poi l’ho aiutata per le tecniche con le auto in movimento. I primi tempi cadeva sempre, poi è diventata bravissima. Al commissariato Libertà la mandarono a fare vigilanza. La fece anche al presidente Mattarella. Non so se sa che mentre dormiva, sotto casa sua c’era Emanuela. Una volta il collega che doveva darle il cambio non era potuto venire.

Allora le portai un panino. Stava parlando con due bambini filippini e coi genitori. Prese il panino, lo divise in due e lo diede ai due bambini. Questa era Emanuela. Amava tanto i bambini. Anche Paolo amava i bambini». E proprio sui giovani sono le ultime riflessioni. «Quando Paolo incontrava i ragazzi e parlava del cambiamento, diceva che erano loro che avrebbero sconfitto la mafia. Io parlo tantissimo con le mie figlie, parlo di Emanuela, parlo di Paolo. Loro mi fanno tante domande. Vanno ricordati ogni giorno non solo il 19 luglio. Se tu credi in lui, se credi in quei ragazzi che sono morti per tutti noi, bisogna ricordarli sempre. Ricordare che Paolo è stato un grandissimo uomo, un grandissimo padre di famiglia, un grandissimo magistrato. Mi piacerebbe che quest’anno in questa via ci fossero tantissimi bambini, perché saranno le idee dei bambini con le stesse idee di Paolo ad andare avanti. Solo così il consenso ai mafiosi non lo daremo più, perché saranno i bambini a distruggere i mafiosi».

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