MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA, IN GIURIA ANCHE LAGIOIA

ansa

CON BLANCHETT PRESIDENTE, ANCHE FRANZ, HOGG, PUIU, SAGNIE Definite le composizioni delle quattro Giurie internazionali della 77/ma Mostra del cinema di Venezia in programma dal 2 al 12 settembre: Venezia 77, Orizzonti, Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis, Venice Virtual Reality. Nella Giuria del Concorso di Venezia 77, oltre a Cate Blanchett già indicata come presidente, ci saranno: Veronika Franz, Joanna Hogg, Nicola Lagioia, Christian Petzold, Cristi Puiu, Ludivine Sagnie. (ANSA).

Caravaggio: in Mostra i capolavori della collezione Longhi

Michelangelo Merisi, «Ragazzo morso da un ramarro» (1596-1597)

«La “cerchia” si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regole fisse; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari». Con queste parole Roberto Longhi, il grande critico e storico dell’arte scomparso a Firenze cinquant’anni fa, presentava la celebre mostra milanese del Caravaggio e dei caravaggeschi, allestita nel 1951 a Palazzo Reale, della quale fu commissario tecnico.

Allievo di Pietro Toesca all’Università di Torino e di Adolfo Venturi nella Scuola di perfezionamento in Storia dell’arte di Roma — città in cui risiedette stabilmente dal 1922 al 1934 e dove, tra l’altro, insegnò nei licei Tasso e Visconti, oltre che, come libero docente, all’Università La Sapienza — Longhi si innamorò giovanissimo di Michelangelo Merisi, sul quale discusse la propria tesi di laurea nel 1911. L’artista che si poneva «direttamente a fronte del vero», ossia ciò «che ogni giorno lo circondava», persuaso che «l’invenzione avviene per contatto immediato col vero, non per erudita ricapitolazione»; il pictor praestantissimus alla continua ricerca del «fondo di eterna comprensibilità umana» dei soggetti delle proprie opere; il genio che per la prima volta pensò a come «il destino sentimentale della figurazione» potesse «essere indicato da un elemento esterno all’uomo, non schiavo dell’uomo»; il maestro davanti ai cui occhi «il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto», fu per Longhi la passione di una vita.

E si deve soprattutto a tale passione, e a quanto ne scaturì in termini di interpretazione storico-critica, il fatto che uno «dei pittori meno conosciuti dell’arte italiana» tornò, dopo circa tre secoli di oblio, a essere “popolare”: «Il pubblico guardi bene, osservi come Caravaggio non sia l’ultimo pittore del Rinascimento ma piuttosto il primo artista dell’età moderna. Il pubblico guardi come Caravaggio si sia imposto di essere naturale, comprensibile, umano, piuttosto che umanistico; in una parola, popolare».

Un’esortazione, questa del 1951, che torna utile anche come introduzione alla mostra Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi. In scena nei Musei Capitolini fino al prossimo 13 settembre, l’esposizione ospita più di quaranta opere di quegli “spiriti liberi”, presenti «quasi tutti a Roma […], e da Roma presto diramatisi in tutta Europa», che durante il XVII secolo subirono l’influsso del Merisi e della sua “visione estetica”, da Longhi riassunta con le parole dello stesso artista: «Appresso di me un pittore valenthuomo è uno che sappi dipinger bene et imitar bene le cose naturali».

Si tratta di dipinti che costituiscono il nucleo più significativo della raccolta messa insieme negli anni dal critico e conservata a Firenze, nella sua villa Il Tasso, oggi sede della Fondazione a lui intitolata. Nelle sale di Palazzo Caffarelli sono in mostra, tra gli altri, quadri di Domenico Fetti (Maria Maddalena penitente), Angelo Caroselli (Allegoria della Vanità), Pier Francesco Mazzucchelli (Incoronazione di spine), Guglielmo Caccia (Angelo annunciante). E, ancora, i volti drammatizzati di cinque Apostoli di Jusepe de Ribera («tutti pervasi da un caravaggismo fiero e sorprendente, tale da ricordare persino il Velázquez giovine»), la Deposizione di Cristo di Battistello Caracciolo e il capolavoro di Valentin de Boulogne, quella Negazione di Pietro che evoca l’ambientazione della celebre tela caravaggesca di San Luigi dei Francesi, la Vocazione di San Matteo («di lui — scrive Longhi — non sappiamo altro se non che era un doganiere. E perché alle dogane, dove si cambia moneta, è pacifico che s’intavoli il gioco, nulla vieta che, per più naturalezza, Cristo, entrando oggi nella stanzaccia della dogana, chiami Matteo distogliendolo da una partita d’azzardo»).

Tra i maestri guardati durante la fanciullezza c’è anche Lorenzo Lotto — con quattro stupende piccole tavole risalenti al 1540 e raffiguranti San Pietro martire, un Santo domenicano in preghiera, la Madonna addolorata e San Giovanni Battista — uno di quegli artisti che, oltre a preparare la prima maniera “luministica” del pittore, «con la loro umanità più accostante, religiosità più umile, colore più vero, ombre più descritte e curiose e, in tutto, una disposizione a capir meglio la natura delle cose», sapevano tanto «mescolarsi con naturalezza fra gli uomini indivisi» quanto «camminare da soli e senza timore di mitologia in piena campagna».

“Pezzo forte” della mostra, al quale è riservata una piccola sala, il Ragazzo morso da un ramarro — realizzato dal Merisi tra il 1596 e il 1597, all’inizio del suo soggiorno romano — che Longhi acquistò all’inizio degli anni Venti e di cui nel 1930 fece una rielaborazione a carboncino, anch’essa presente all’inizio del percorso espositivo. Al termine del quale, uscendo, ritroviamo Roma, dove Caravaggio visse per quindici anni dando corpo a indimenticabili capolavori, alcuni dei quali si possono liberamente ammirare in tre chiese del centro. Qui il mondo si accorse per la prima volta della straordinaria novità delle opere del “dipintore” lombardo che per le strade della città incrociava quotidianamente garzonetti di osterie, “zingane” indovine, “giovani ciociarelle tradite”, doganieri, giocatori d’azzardo, pellegrini. Sono loro a inginocchiarsi, a pregare, ridere, a vivere nei suoi quadri, nei quali «il dirompersi delle tenebre» rivela ancora oggi «l’accaduto e nient’altro che l’accaduto».

di Paolo Mattei / Osservatore Romano

Musei Vaticani nella Città Proibita

settimananews

La mostra delle opere dei Musei Vaticani alla Città Proibita di Pechino, presentata il 28 maggio nella capitale cinese, sembra una versione orientale del ritorno del figliol prodigo, di cui parlava il cardinale Pietro Parolin nell’intervista a Paolo Rodari di Repubblica del 13 maggio.

La mostra restituirà al mondo il contesto autentico alle opere insieme cattoliche e cinesi del pittore cattolico cinese Wu Li (1632-1718) e del gesuita Giuseppe Castiglione (Lang Shining, 1688-1766), pittore di corte dell’impero Qing. Questi artisti, con il loro lavoro e la loro sensibilità, due-tre secoli fa avevano allacciato fili importantissimi tra Occidente e Oriente e avevano creato una prima sensibilità catto-cinese.

Nel loro lavoro c’era già il seme del lavoro della Chiesa e del governo cinese di oggi. La mostra, che resterà aperta fino al 14 luglio, porterà a Pechino dai Musei Vaticani Il Riposo durante la Fuga in Egitto (1570 – 1573) di Barocci e Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre (fine XVIII sec.) di Peter Wenzel.

Per la prima volta i cinesi potranno vedere direttamente cosa sia la sensibilità sacra della Chiesa e il profondo rispetto e amore che in questi secoli hanno guidato la Santa Sede verso la Cina, pur tra tanti alti e bassi. Del resto, come si dice a Pechino, bai wen bu yi jian 百闻不如一见 (vedere una volta è molto meglio che sentirne parlare cento volte).

Il cardinale Parolin diceva a Milano il 14 maggio «In tale orizzonte si colloca anche l’approccio di papa Francesco all’unità della famiglia umana […]. Per costruire compiutamente l’unità della famiglia umana occorrono più solidarietà, più misericordia e più fraternità».

Quindi la mostra è una espressione concreta di quello che il segretario di stato definiva: una «geopolitica della fraternità», incentrata sul rispetto delle identità e sul coraggio dell’alterità. Il papa invita così a evitare che nella Comunità internazionale insorgano nuove forme di “guerra fredda” ed esorta tutti a considerare il mondo intero come un bene comune, da condividere e conservare, affrontando insieme i problemi.

Inoltre i Musei Vaticani portando nella Città Proibita, cuore culturale e simbolico della Cina, ben settantasei opere tra arte popolare, arte buddhista e arte cattolica, dimostra l’amore che la Santa Sede ha conservato in questi secoli verso la Cina. Quella Cina che è passata attraverso tormenti senza fine, inflitti dalle potenze coloniali (che misero a ferro e fuoco il palazzo d’estate imperiale lo Yuan ming yuan 圆明园, costruito su disegno proprio di Castiglione; ma anche dai suoi sommovimenti politici interni, come il po si jiu 破四旧 (distruggere le quattro cose vecchie) che durante la Rivoluzione culturale maoista (1966-1976) incoraggiava a distruggere ogni opera antica.

Attraverso questa mostra vaticana quindi la Cina ritrova un pezzo di sé stessa e la Chiesa si riconnette con un passato.

Ciò non risolve con una formula magica i tantissimi problemi della Cina e della comunità cattolica cinese in Cina, ma fornisce aria nuova, elementi nuovi e antiche che possono aiutare a cambiare la chimica della comprensione reciproca.

La mostra. Pepi Merisio e la fotografia come un ponte di sguardi

Avvenire

C’è un ponte ideale tra Terra di Bergamo di Pepi Merisio e “Guardami”, la mostra con cui il Museo della Fotografia Sestini, nell’ex convento bergamasco di San Francesco, inaugura il suo nuovo percorso espositivo. Corrono cinquant’anni esatti tra i tre volumi pubblicati nel 1969, che il fotografo nato a Caravaggio nel 1931 ha sempre considerato il suo capolavoro, e questa mostra dal sapore ricapitolativo, in apertura giovedì prossimo per restare visitabile fino al 1 settembre, curata dallo stesso Merisio con il figlio Luca, anch’egli fotografo (catalogo Lyasis edizioni).

La selezione degli oltre 250 scatti restituiscono una antologia precisa e potremmo dire definitiva dei temi più noti e simbolici affrontati da Merisio in oltre 65 anni di attività: la civiltà contadina, il lavoro, il paesaggio – naturale e urbano – italiano, la famiglia, la sfera del religioso, e naturalmente Paolo VI, di cui Merisio ha costruito l’iconografia (mentre è una autentica sorpresa la sezione di immagini raccolte tra Nord Africa e Medio Oriente).

il maglio di Clanezzo, 1965 (Pepi Merisio)

il maglio di Clanezzo, 1965 (Pepi Merisio)

È il grande canto delle opere e i giorni per il quale Merisio è giustamente celebrato: «Nel cuore della cultura contadina – scrive in catalogo Denis Curti – il fotografo trova le radici della sua ispirazione e ne fa la poetica distintiva del suo sguardo. Nei fatti, Merisio riesce a dare forma a una nuova architettura dell’estetica del quotidiano. Questa è la sua peculiarità, questa la sua forza propulsiva».

Certo, nel lavoro di Merisio c’è una cosciente volontà di documentare, e insieme anche una nota malinconica, che risuona profonda e bronzea come un campanone di campagna. L’urgenza di raccogliere un mondo che svaporava sotto gli occhi è stata una spinta decisiva nel costruire la sua esperienza di fotografo – per quanto, come c’è già stata occasione di notare, sarebbe riduttivo fare di lui solo il cantore del crepuscolo del mondo rurale, in primis lombardo: le foto di Merisio si collocano lucidamente sul crinale tagliente di una irreversibile svolta antropologica che ha investito l’intero paese.

Cogne, 1959 (Pepi Merisio)

Cogne, 1959 (Pepi Merisio)

C’è però in questa mostra una grande differenza con le altre volte in cui Merisio ha presentato il suo lavoro, ed è tutto condensato nel titolo, persino spiazzante, che è anche un invito a ricalibrare l’angolatura con cui guardare un corpus imponente (sono oltre 150 i volumi fotografici pubblicati e in particolare la monumentale collanaItalia della nostra gente ha raggiunto i trentotto volumi).

Al centro, infatti, non c’è più – o non c’è solo – il “contenuto” della ripresa. Merisio si svincola dal rischio dell’archivio del “come eravamo”, che può essere sempre più forte con il passare degli anni. Richiama l’attenzione sull’occhio fotografico dentro cui si riversa in modo irresistibile il mondo e ci porta all’interno del momento della creazione: l’evento in cui «la realtà con la forma» (così Ferdinando Scianna definisce il “metodo Merisio”) si coagulano nell’immagine.

“Guardami”, lo rivela lui stesso in un testo firmato in catalogo, è l’invito (anche solo mentale) che Merisio rivolge a chi si trova davanti alla sua macchina fotografica. Una parola magica, quasi da ipnotizzatore. Una parola che potrebbe apparire seduttiva: ma non c’è foto di Pepi Merisio in cui chiunque (o qualunque cosa: «“guardami” valeva per tutti i soggetti, persino per i paesaggi») si ritrovi al suo interno non appaia completamente libero. Quel “guardami” è una parola dalla dolcezza paterna che scioglie dalla soggezione dell’obiettivo e costruisce una relazione che supera il tempo e lo spazio.

«Ho sempre pensato, anzi sentito, che la fotografia debba essere un colloquio e se non ci si guarda negli occhi è molto difficile capirsi – annota Merisio –. “Guardami”, la domanda che c’era nel mio obiettivo fotografico di fronte a un soggetto, uomo o cosa che fosse. E quando lo sguardo quasi faceva scattare da solo l’otturatore, la tensione calava e avevo la sensazione di aver conquistato qualcosa di importante, di vero. Era quindi un discorso di sguardi». E conclude: «Mi pareva di aver centrato qualcosa di indescrivibile, tutto solo mio: un silenzioso colloquio nell’aria che miracolosamente ero riuscito a sentire e fermare. Il miracolo della fotografia ». “Guardami” è dunque la parola vitale (poetica nel suo senso più profondo) che fa nascere l’immagine: è questo il grado più intimo di realtà della fotografia di Pepi Merisio.

Jean Dubuffet e l’art brut. Visita guidata seguita da cena presso il ristorante Taglierè

Palazzo Magnani Reggio Emilia

È stato proprio Jean Dubuffet a teorizzare il concetto di art brut: l’attività creativa di “artisti loro malgrado“, che creano senza intenzioni estetiche, per una personale pulsione emotiva. Opere spontanee prodotte da persone prive di specifica formazione artistica, come i malati mentali, i bambini.
Venerdì 1 febbraio alle 18 e alle 20 visita guidata a porte chiuse alla mostra Jean Dubuffet. L’arte in gioco e a seguire vi aspetta la “cucina democratica” del ristorante Taglierè, che propone un menù vario che spazia dalla cucina tradizionale reggiana al pesce, dai salumi ai crudi, con un unico obiettivo: la qualità.

Fondazione Palazzo Magnani

In mostra cinquanta icone copte e oggetti della tradizione religiosa d’Egitto

Un esempio di icona copta (immagine d'archivio)

Un esempio di icona copta (immagine d’archivio)

Cinquanta icone sacre e una trentina di altri oggetti provenienti dalla tradizione religiosa cristiano copta d’Egitto: è questo il tesoro che arriva in mostra a Viterbo grazie alla collaborazione fra Curia di Viterbo, Fondazione Caffeina Cultura, Fondazione Cultura e Arte e Fondazione S.I.B. Italiana di Beneficenza – Fondazione Benedetti, l’ente che porta il cognome del fondatore dell’ospedale italiano al Cairo. L’esposizione aprirà i battenti domani, domenica 24 giugno, alla presenza della ministra della cultura egiziana Ines Abdel-Dayem, dell’ambasciatore d’Egitto in Italia Hisham Mohamed Badr, del sottosegretario alla Cultura del governo italianoLucia Bergonzoni, del vescovo di Viterbo monsignor Lino Fumagalli di ritorno dal pellegrinaggio che la diocesi del capoluogo della Tuscia sta conducendo nelle terre del Sinai, sulle orme della Sacra Famiglia, a cementare un rapporto fra Italia ed Egitto sempre più stretto.

Pellegrinaggio in cui, ha dichiarato il vicario generale della diocesi di Viterbo don Luigi Fabbri, «per la prima volta nella storia un
vescovo cattolico ha potuto celebrare una messa di rito cattolico all’interno di un monastero ortodosso, alla presenza dei monaci stessi. Un momento di grande importanza nel dialogo interreligioso». Quanto alla mostra, il vicario generale ne ha sottolineato il rilevante valore sacrale e liturgico: «Attraverso l’icona il credente è nelle condizioni di avere la concretezza di una presenza altra: Dio, i santi, la Madonna. Parliamo di un veicolo della fede molto potente, al centro delle riflessioni del mondo cristiano fin dai tempi della questione iconoclastica».

«Siamo onorati, come fondazione Caffeina Cultura, di fare la nostra parte per favorire e rinsaldare il dialogo ecumenico e l’unità dei
cristiani», il commento invece Giacomo Barelli a nome della Fondazione Caffeina Cultura, co-promotrice della mostra: «Parliamo di un tema cruciale per la nostra epoca, oltre che al centro dei pensieri del pontificato di Papa Francesco. In particolare la relazione con i paesi del Vicino Oriente come l’Egitto è sempre più cruciale e fra le priorità del governo appena insediatosi».

Fondazione Caffeina Cultura si augura infatti che i giorni del festival, della mostra delle icone e della mostra dei tesori di Tutankhamon possano essere soprattutto un’occasione di dialogo, di scambio e di amicizia fra confessioni religiose, popoli e paesi del Mediterraneo, visto che accanto agli elementi dell’arte sacra cristiana troveranno spazio nell’esposizione anche 17 pezzi iconografici di arte islamica a testimoniare lo spirito integralmente ecumenico della proposta.

da Avvenire

La mostra. Cristiani pionieri di pace nel mondo arabo

Un’immagine di Gesù che guarisce il paralitico dipinta nel III secolo a Dura-Europos, in Siria, nella più anticadomus ecclesiae giunta fino a noi. Il preziosissimo manoscritto miniato dei Vangeli Rabbula, trascritti in siriaco nel monastero di Bet Zagba nel VI secolo e poi portati a Firenze dal patriarca maronita nel Rinascimento. Ma anche una mappa interattiva con i luoghi della vita di Gesù e le prime strade percorse dall’annuncio cristiano; un’installazione sonora per ascoltare gli inni delle liturgie dell’Oriente; i primi libri liturgici stampati con caratteri arabi all’inizio del XVII secolo. Sono solo alcuni dei pezzi forti della grande mostra che l’“Institut du Monde Arabe” di Parigi dedica alla presenza cristiana in Medio Oriente. «Cristiani d’Oriente. 2000 anni di storia» resterà aperta fino al 14 gennaio 2018 nella sede di questa prestigiosa istituzione culturale in rue des Fossés Saint-Bernard. Ed è un tentativo del tutto inedito di proporre in un unico sguardo la ricchezza di storie, riti e tradizioni diverse che contraddistinguono fin dalle origini la presenza delle Chiese in quello che oggi chiamiamo il mondo arabo.

Realizzata in collaborazione con l’Oeuvre d’Orient – lo storico sodalizio francese che dal 1856 sostiene concretamente la vita delle comunità cristiane in Medio Oriente – la mostra è un percorso che tiene insieme la storia e l’attualità di questa presenza. Assumendo un significato del tutto particolare nel contesto delle durissime prove che – dalla Siria fino all’Egitto – queste Chiese hanno vissuto negli ultimi anni.
Nell’era di un fondamentalismo jihadista che pretenderebbe di relegare al rango di una presenza straniera le comunità cristiane del Medio Oriente, il messaggio veicolato dall’iniziativa dell’Institut du Monde Arabe è infattila riscoperta del ruolo giocato dalle comunità cristiane nella storia della regione. E non solo nei primi secoli, ma anche nell’incontro tra il mondo arabo e la modernità. «Youssef Chahine, Edward Said, Albert Cossery, suor Marie Keyrouz, Khalil Gibran… Sono tutti arabi. E sono tutti cristiani – scrive presentando l’iniziativa Jack Lang, a lungo ministro della cultura in Francia e oggi presidente dell’Institut du Monde Arabe a Parigi -. A loro abbiamo dedicato conferenze, spettacoli, mostre, pubblicazioni… Stavolta però ci siamo riproposti una sfida mai raccolta finora da nessuna grande istituzione culturale e cioè presentare in un’unica mostra il cristianesimo d’Oriente da ogni prospettiva: storica, religiosa e culturale. Una rappresentazione che, dichiaratamente, si limita al mondo arabo (che pure è un campo immenso) – Terra Santa, Egitto, Libano, Siria, Giordania, Iraq -. E si sforza di presentare i cristiani d’Oriente nel loro pluralismo e in tutta la complessità dei loro duemila anni di storia».

Tante le opere arrivate appositamente a Parigi dal Medio Oriente e dai più importanti musei di tutto il mondo. Dai Musei Vaticani, per esempio, un frammento di una raffigurazione siriaca dell’Annunciazione realizzata tra l’VIII e il IX secolo; dalla Custodia di Terra Santa uno dei mosaici del Monte Nebo in Giordania, ma anche un firmano del 1397 con il quale il sultano mamelucco al-Malik al-Zaher Barquq permetteva ai frati di rifabbricare una parte crollata del complesso del Santo Sepolcro; dall’Egitto alcune testimonianze straordinarie sulla storia dei monaci del deserto; dal Libano alcune delle icone della Collezione Abou Adal, espressione del rinnovamento di questa forma d’arte sacra in era ottomana nel contesto delle nuove relazioni con l’Occidente.

Quattro le sezioni nelle quali è suddiviso il percorso: la prima è dedicata all’avvento e allo sviluppo del cristianesimo in Oriente: la predicazione di Gesù, la nascita delle Chiese, i grandi Concili dell’antichità. Nella seconda si indaga la vita delle comunità cristiane dopo la conquista musulmana, alla scoperta delle modalità attraverso cui i diversi riti cristiani sono sopravvissuti, ma anche delle interazioni avvenute col mondo musulmano. La terza sezione è dedicata al periodo tra il XV e il XX secolo, con le Chiese del mondo arabo come ponte tra l’Oriente e l’Occidente anche attraverso il loro grande contributo alla nascita di un nazionalismo arabo. Infine, nella quarta sezione, lo sguardo sul presente dei cristiani d’Oriente, con le loro sofferenze ma anche la loro vita quotidiana: a chiudere il percorso è lo sguardo di alcuni fotografi che in sei diversi Paesi arabi li hanno ritratti nei loro diversi volti, dalla vita nel salotto di casa alla devastazione lasciata dietro di sé dai jihadisti a Maalula in Siria, dai matrimoni ai militari che combattono il Daesh. «La presenza di tante opere magnifiche ci fa viaggiare attraverso la storia – conclude Jack Lang -. Ma la presenza di queste ultime testimonianze commoventi ci ricorda che la storia è carne e sangue. E non dobbiamo dimenticarcelo».

avvenire

Il Volto di Dio nella storia al centro di una mostra al Meeting di Rimini… Soggiorno presso Hotel Rosabianca

per soggiornare a Rimini

V.le Tripoli, 195 – 47921 Rimini – Marina Centro (Rn)
Tel. +39 0541 390666 – Cell. +39 335 371922 – Fax +39 0541 390590
E-mail: info@hotelrosabianca.com

Di Luca Marcolivio

ROMA, 25 Luglio 2013 (Zenit.org) – Vedere il Volto di Dio nel Cristo vivente è un’esperienza che si può compiere già su questa terra. Non solo nella preghiera e nel rapporto di conoscenza con Gesù, che è essenziale nella spiritualità di ogni cristiano. Il Volto di Cristo, infatti, è sempre stato un oggetto di pellegrinaggio, una reliquia che tanti fedeli hanno voluto toccare o, quantomeno vedere.

Partendo dal Volto della Veronica (vera-eikon, “vera immagine”, in greco) la donna che secondo la tradizione asciugò il Volto di Gesù durante la via crucis, il Meeting di Rimini ha elaborato un percorso tematico che si concretizzerà in una mostra, in programma a Rimini Fiera, dal 18 al 24 agosto prossimo.

L’iniziativa, intitolata Il Volto Ritrovato. I tratti inconfondibili di Cristo è stata realizzata con il patrocinio dell’Istituto Francescano di Spiritualità Pontificia dell’Università Antonianum, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di Pescara e dell’Associazione Temporanea di scopo “Culto e Cultura in Abruzzo. Il Cammino dell’Apostolo Tommaso”.

Raffaella Zardoni, membro dello staff organizzativo della mostra ha fornito a ZENIT alcune anticipazioni sull’esposizione.

Come sarà strutturata la mostra?

Raffaella Zardoni: Obiettivo della mostra Il Volto Ritrovato è far conoscere le storie degli antichi ritratti di Cristo “acheropiti”, cioè non fatti da mani d’uomo: la Camulia, il Mandylion e la Veronica romana; e di presentare il Volto Santo di Manoppello, un misterioso ritratto di Cristo su velo conservato da quattro secoli in Abruzzo. Nell’Anno della Fede, con questa mostra, il Meeting vuole anche rispondere all’invito che prima Benedetto XVI e ora papa Francesco ci hanno rivolto a «guardare e lasciarsi guardare da Cristo».

La mostra sarà divisa in quattro sezioni storiche/geografiche in cui saranno presentate le storie di queste immagini che, leggendarie o meno, sono state l’autorevole modello del volto di Cristo, i cui tratti sono inconfondibili in Oriente come in Occidente. I percorsi tra le diverse sezioni vogliono ricordare le vie di pellegrinaggio medievale con le riproduzioni di alcune tra le più belle “veroniche” (copie del sudario di Cristo, conservato in San Pietro, che il popolo chiamava Veronica).

L’ultima parte del percorso è dedicata al Velo di Manoppello. In occasione della mostra è stata completata la trascrizione della Relatione Historica di padre Donato da Bomba, autenticata nel 1646, che narra l’arrivo del velo in Abruzzo. Grazie a una ricerca effettuata in collaborazione con i frati cappuccini presso l’Archivio di Stato di Napoli e l’Archivio di Stato di Chieti, sembra che si possa confermare l’arrivo del velo nel corso del XVI secolo. A Rimini non ci saranno aggiornamenti circa le indagini ottiche tuttora in corso, esami che, se ancora non confermano nessuna ipotesi sulla natura del velo e sull’origine dell’impressione del volto, al momento neppure smentiscono la possibilità che il Volto Santo sia qualcosa di diverso da un dipinto. La sezione si chiude con la presentazione della ricerca iconografica sulla Veronica romana nelle copie degli artisti pellegrini a Roma e la comparazione di questi col Volto di Manoppello. La profonda corrispondenza avvalora l’ipotesi di padre Heinrich Pfeiffer, professore all’Università Gregoriana, che nel 1999 ha identificato nel Velo di Manoppello la perduta reliquia romana. Sembra difficile infatti ipotizzare l’esistenza di un secondo oggetto altrettanto raffinato e corrispondente alle descrizioni della Veronica medievale.

Qual è, in sintesi, la storia del Volto di Cristo come reliquia e come meta di pellegrinaggio?

Raffaella Zardoni: Dal V secolo la storia della Chiesa è attraversata dalla memoria di un volto di Cristo impresso su stoffa (testimonianze più antiche citano un sudario di Cristo che i pellegrini potevano vedere nell’attuale Giordania o a Gerusalemme). Cercando un criterio per ordinare le innumerevoli versioni di leggende e racconti, abbiamo privilegiato le acheropite attorno alle quali si è creato un movimento di popolo, liturgico o artistico. I risultati sono stati per me sorprendenti perché, se in parte conoscevo il valore che la Chiesa ortodossa attribuisce al Mandylion, mi ha sorpreso scoprire che ciò che muoveva da tutta Europa i pellegrini verso Roma era il desiderio di vedere il volto di Cristo. Lo scrive anche Dante nella Vita Nuova: «In quel tempo che molta gente andava per vedere quella imagine benedetta, la quale Gesù Cristo lasciò a noi per esempio della sua bellissima figura». Questa attrattiva è continuata lungo tutta la storia, come si è visto quando nel 1898 Secondo Pia fotografò la Sindone: l’impressione che il volto di Cristo suscitò in tutto il mondo fu fortissima. Ma per la storia del Volto di Cristo resta significativa la visita che nel 2006 Benedetto XVI fece a Manoppello. In quell’occasione il Papa ha ripetuto i gesti dei pellegrini medievali riproponendoli a tutta la cristianità: si è inginocchiato a pregare e ha sostato lungamente a contemplare il Volto Santo.

Le acheropite legano l’impressione del volto sulla tela a un contatto diretto con Gesù, come è evocato da due racconti significativi: in Occidente, quello del velo con cui Veronica avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in Oriente, quello del Mandylion, sul quale Gesù avrebbe impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa. È questa un’invenzione dell’uomo che desidera bruciare i secoli affinché il suo sguardo diventi contemporaneo allo sguardo di Cristo o veramente «Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa» come affermano i Padri orientali? È difficile rispondere a questa domanda. Ma la storia è piena delle tracce di questa immagine più volte perduta e ritrovata, e ancora nel 1947 una mistica portoghese, la beata Alexandrina Maria Da Costa, che non poteva conoscere l’esistenza del velo di Manoppello, parlando del velo della Veronica scrisse che «quel ritratto senza eguali sarà contemplato sino alla fine del mondo». A che ritratto si riferiva, essendo noto che il velo della Veronica rinchiuso in San Pietro è ormai illeggibile?

Il Volto di Cristo di Manoppello ha una rilevanza particolare. Per quale motivo?

Raffaella Zardoni: Penso che il velo di Manoppello possa mettere in discussione molto di ciò che sappiamo riguardo alle acheropite di Cristo che, nonostante la ricca documentazione nelle fonti storiche e liturgiche, sono considerate poco più che leggende. Il velo abruzzese, anche se si rivelasse essere solo una stupenda copia cinquecentesca della Veronica romana, per le sue caratteristiche uniche e “impossibili” (è il solo ritratto su velo giunto fino a noi, il volto è identicamente visibile sulle due facce, e su entrambe sembra sparire nella trama se osservato frontalmente) ci permette di affrontare le contraddizioni che troviamo nelle descrizioni delle acheropite con l’ausilio di qualche punto fermo. Ad esempio, la beata Giuliana di Norwich (1342-1416) a proposito della reliquia romana scrive: «Il volto impresso sul velo della Veronica, che si trova a Roma, muta di colore e di aspetto, apparendo talvolta vivido e consolante, talaltra più afflitto e come morto, secondo che tutti possono vedere». Questa descrizione perde tutta la sua enigmaticità se la Veronica romana fosse simile al velo di Manoppello: chiunque l’abbia visto ha potuto constatare  che, a seconda dell’illuminazione, appare luminoso e sereno oppure livido e atterrito.

Come la Sindone, il Volto di Cristo esercita un’attrazione particolare – quasi “nostalgica” – anche sull’uomo moderno. Esistono storie di conversioni davanti a questa sacra immagine?

Raffaella Zardoni: Grazie per questa domanda, vorrei rimanere sulla sua prima affermazione sintetizzata dal poeta Jorge Luis Borges: «Gli uomini han perduto un volto, un volto irrecuperabile, e tutti vorrebbero essere quel pellegrino che a Roma vede il sudario della Veronica e mormora con fede: Gesù Cristo, Dio mio, Dio vero, così era, dunque, la tua faccia?». (J.L.Borges, L’artefice) Mi ha colpito leggere in un articolo di Horacio Morel un’altra espressione del poeta argentino: «Ho dubitato di Dio, ma non del suo volto». Cristo, il volto umano di Dio, esercita veramente un’attrattiva sul cuore dell’uomo, quasi come un “imprinting” che prescinda dalla storia e dall’educazione.

Una volta i frati di Manoppello mi dissero che c’è una strana discrezione nel parlare dei miracoli ottenuti per l’intercessione del Volto Santo (molti sono descritti nella Relatione Historica e il numero degli ex voto al Santuario è impressionante): è come se il Volto Santo invitasse innanzitutto a un tacito dialogo e il dono della guarigione passasse in secondo piano. Allora notai un particolare nei testi di Dante e Petrarca. Le ostensioni medievali della Veronica in San Pietro dovevano essere tumultuose: nelle cronache leggiamo resoconti di incidenti con morti e feriti a causa della calca. Eppure entrambi i poeti si soffermano sul desiderio e lo sguardo di un singolo pellegrino. Così ho capito che questa corrispondenza tra il cuore dell’uomo e Cristo appartiene a tutti i tempi.

Qual è colui che forse di Croazia

viene a veder la Veronica nostra,

che per l’antica fame non sen sazia,

ma dice nel pensier, fin che si mostra:

«Signor mio Iesù Cristo, Dio verace,

or fu sì fatta la sembianza vostra?

(Dante, Paradiso XXXI)

Movesi il vecchierel canuto et biancho

del dolce loco ov’à sua età fornita

et da la famigliuola sbigottita

che vede il caro padre venir manco;

[…]

et viene a Roma, seguendo ’l desio,

per mirar la sembianza di Colui

ch’ancor lassù nel Ciel vedere spera

(Francesco Petrarca, Canzoniere)

Il tema dell’incontro con Cristo è sempre stato uno dei motivi conduttori del Meeting di Rimini e un concetto assai caro a don Giussani. Che tipo di incontro si fa, in questo caso? Con il Cristo sofferente?

Raffaella Zardoni: Il volto di Manoppello porta i segni di sofferenza (gli stessi del volto sindonico: la guancia sinistra è deformata, il naso appare disassato, le labbra sono gonfie e insanguinate), guardandolo si intuisce che cosa significhi che Dio si fa specchio dell’uomo assumendo su di sé tutte le sue brutture, come disse una volta don Giussani (cfr. L. Giussani, L’attrattiva Gesù).  Cristo è veramente la misericordia del Padre e il punto d’incontro con l’uomo è nell’incrocio di sguardi che la contemplazione del Volto Santo attua. Sì, è lo sguardo come incontro ciò che mi è più caro nel Volto di Manoppello.

Nella mia prima visita a Manoppello partecipai alla processione di maggio che accompagna il Volto Santo dal Santuario al paese. Le colline di Manoppello somigliano alla Galilea e a Ain Karem, vicina a Gerusalemme.Quando il Volto Santo durante il percorso si fermò a benedire gli argini del torrente pensai – forse fu la prima volta – che potesse veramente essere qualcosa di diverso da una meravigliosa opera fiamminga. Il volto che sembra “affacciarsi” sorridente dal velo («Ma non è sempre così, a volte è severo» mi disse un uomo anziano) ricorda l’andare di Cristo per i villaggi. In fondo il velo di Manoppello – se l’ardita ipotesi di padre Heinrich Pfeiffer potrà un giorno essere confermata – abbandonando il tesoro di San Pietro ha soltanto anticipato l’invito di papa Francesco a «uscire verso le periferie esistenziali» tra gli uomini che lavorano, mangiano e vivono.

«Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo»: la suggestiva espressione con cui don Giussani concluse la sua testimonianza davanti a Giovanni Paolo II il 30 maggio 1998 dice di una reciprocità tra Cristo e l’uomo. Così abbiamo voluto che la mostra terminasse con due citazioni evocative dell’affetto che l’incontro di sguardi genera. A santa Brigida, giunta a Roma per il Giubileo del 1350, Gesù rivelò che «questo sudore uscì dal mio capo per la futura consolazione degli uomini»; nel 1937 alla beata Pierina De Micheli Gesù confidò: «Chi mi contempla mi consola».