Il libro. «Ogni istante è eternità». Così Morte ci insegna a vivere

Nell’ultimo libro di don Diego Goso, «Quattro chiacchiere con la morte», il tragicomico dialogo tra un prete e la «mietitrice» di vite umane. E si ride, ma anche si piange
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Cosa ci direbbe la morte, se, in una pausa della sua incessante attività in questo mondo, potesse fermarsi a parlare con noi? Che ogni piccolo gesto compiuto in vita è destinato a diventare eternità, perché non è lei a dire l’ultima parola sulla nostra esistenza. Un insegnamento suggestivo che don Diego Goso, sacerdote della diocesi di Ventimiglia-Sanremo e autore di numerosi libri sulla vita di fede e sui suoi diversi aspetti, mette al centro del suo ultimo libro: «Quattro chiacchiere con la morte», edito da San Paolo (144 pagine, 14 euro da qui con sconto 5%).

«Un libro che vi piacerà da morire», recita il sottotitolo. E il pensiero va subito a qualcosa di leggero, divertente, ironico. E in effetti la penna di don Goso accompagna con tono scanzonato il lettore in questo “viaggio notturno”, dove i protagonisti sono un sacerdote e la morte stessa. Anzi, Morte. La sorpresa iniziale per chi legge è la stessa della voce narrante: un sacerdote, forse non proprio giovanissimo, si sveglia di notte e uscendo dal bagno trova sul suo letto, seduta, niente di meno che una ragazza bellissima: «Una donna. Una giovane donna. Sui trenta. Capellli biondi, mossi, lunghi fino ai gomiti». La scena è comica, i pensieri del malcapitato prete sono tanti punti di domanda, conditi da razionali considerazioni su quella situazione assurda. Poi il ghiaccio si rompe, si apre il dialogo, la notte in canonica si anima nel segno di un confronto che conduce piano piano a riflettere sul senso più profondo della vita. La lettura è segnata da molti sorrisi ma porta alle lacrime quando don Marco, il protagonista, ritorna con la memoria ad alcune esperienze dolorosissime e angoscianti.

A ogni dubbio, ogni critica, ogni disperato tentativo di capire Morte risponde senza mai perdere la pazienza. Il confronto si sposta addirittura in salotto, davanti a un po’ di popcorn, che anche il cagnolino del don, Hulk, pare apprezzare.
Mentre l’orologio batte le ore della notte, il sacerdote sarà spinto da Morte a scoprire che anche lui, forse, non ha ancora ben intenso quale sia l’orizzonte ultimo della vita. E la sua incomprensione diventa l’icona di tutta la nostra incapacità di trovare un significato alla presenza della morte nelle nostre vite.
Si scopre così il senso della visita notturna: Morte soffre terribilmente di solitudine, perché nel tempo l’umanità ha imparato a voltare lo sguardo dall’altra parte a cercare di non guardare negli occhi la “mietitrice”, di far finta che dolore e sofferenza non appartengano al nostro cammino esistenziale.
Mentre Hulk fa amicizia con Morte, don Marco resta sempre più spiazzato dalle risposte di quella ragazza. E non capisce nemmeno che quando nella stanza entra una vecchia scavata e malvestita, orribile allo sguardo, quella è la vita: «Per molti la vita è qualcosa di malato – spiega la morte –. Non dovrebbe essere così ma le scelte dell’umanità sono sempre le stesse, di solito le peggiori».
E da lì il dialogo si snoda lungo i temi più importanti che gettano uno sguardo sul mondo di oggi, sulle sue piaghe, sul modo di affrontare malattie, incidenti, storture di questo tempo. Piano piano don Marco capisce di dover abbandonare il proprio punto di vista e il lettore con lui, accompagnato lungo un sentiero che toglie il fiato, per la sua bellezza e per il suo fascino, ma anche per la profonda nostalgia che fa provare: nostalgia d’Infinito. «Siete la forma di vita più preziosa ma anche la meno disponibile a diventare ciò che siete destinati ad essere», sentenzia Morte ad un certo punto.
La notte sfuma e arriva la mattina e così la lettura riporta alla vita di tutti i giorni, ma con una consapevolezza in più: non bisogna temere di parlare della morte, perché essa è una maestra saggia, che ci ricorda dove sta il vero senso di ogni istante della nostra esistenza. E ogni istante è di fatto un pezzo d’eternità.
avvenire.it

Su iniziativa del Laboratorio Teologico Realino e della Fondazione Enrico Mazza di Reggio Emilia, martedì 14 novembre, alle ore 21, presso il Museo Diocesano nella chiesa di Sant’Ignazio a Carpi, verrà presentato il volume di Enrico Mazza dal titolo “Era irriconoscibile. Il caso di Gesù Risorto” (EDB, 2023)

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Ne parleranno insieme all’autore monsignor Gildo Manicardi, biblista e vicario generale della diocesi di Carpi, e lo storico delle religioni e docente Unimore, Alberto Melloni. I racconti delle apparizioni di Gesù mostrano che ciò che appariva non era uno spirito bensì un individuo in carne e ossa, come tutti gli altri, anche se con caratteristiche molto particolari come l’entrare in una stanza a porte chiuse. Era un individuo con le normali caratteristiche fisiche di tutti gli individui. In queste narrazioni Gesù è irriconoscibile perché “in altra forma” (Mc 16,12). Alcuni racconti dicono che egli restava irriconoscibile anche dopo il riconoscimento, mentre, in altri, veniva riconosciuto solo quando compiva qualche ‘segno’ ad personam, rivelatore della sua identità. A causa di tutto questo, i vari racconti di apparizione non potevano avere molta credibilità. Pertanto, vennero introdotti significativi cambiamenti per smorzare l’effetto negativo di quell’irriconoscibilità che stava accoppiata al riconoscimento. Per questo, i Vangeli cercarono di emarginare quanto più possibile il dato della irriconoscibilità, ma invano. La storia letteraria di questi racconti fa vedere che ciò che non viene mai cambiato è proprio quell’elemento che rendeva inattendibili tali racconti, ossia l’irriconoscibilità di Gesù. Questo è un dato talmente strano e irragionevole che non può essere di origine letteraria. La loro storia letteraria fa pensare che, dietro quei racconti, ci sia stato qualcosa che, essendo realmente accaduto, non poteva venir cambiato: il dato della irriconoscibilità accoppiata al riconoscimento.

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone)

Spiritualità. Eucaristia. Quel dono di vita che in tante liturgie non giunge al cuore

In un momento in cui tanti cristiani si chiedono che senso abbia frequentare celebrazioni spesso slegate dall’umana quotidianità, un libro riesce a far vivere la messa con l’incanto del primo amore

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Papa Francesco: elevazione eucaristica

Papa Francesco: elevazione eucaristica – undefined

Una questione di vita vera. Fin dalle prime battute di questo libro si resta stupiti dalla capacità dell’autore di tradurre in parole e con “credibile pienezza” il tema della centralità dell’Eucaristia per il cristiano. Lui stesso, del resto, sottolinea che il suo essere prete ha avuto una “sterzata” nel momento in cui la vita concreta si è “finalmente” incrociata con la gioiosa presenza del Risorto nella liturgia eucaristica, ricevendone la consapevolezza che in essa c’è la radice, il cuore, il senso di ogni cosa. Ma anche la certezza che se perdessimo Dio o giungessimo a negarlo la nostra vita diventerebbe un incomprensibile involucro vuoto. Un rischio dal quale, però (e anche questo lo si dice al principio), è Maria che si incarica di liberarci: bussa al nostro cuore e se scegliamo di aprire, lei torna a indicarci la strada. Perché fede è amore, Dio è amore, Eucaristia è amore, il senso della vita è amore. E dopo un prologo così scoperto e incisivo l’autore fornisce alla stessa maniera una spiegazione teologico-spirituale del perché lui vive e desidera così tanto restare ancorato all’Eucaristia, quindi al rito della Messa e, di conseguenza, a Maria. Stiamo parlando di Cos’è la Messa? (Cantagalli, pagine 87, euro 14) di Ricardo Reyes Castillo, sacerdote e parroco della diocesi di Roma oltre che dottore in Sacra liturgia.

Un libro che nei fatti è una vera e propria dichiarazione d’amore in un momento storico in cui sempre più spesso i cristiani, anche fra i più assidui alla messa, si domandano per quale ragione frequentare liturgie domenicali vissute e celebrate in modo da risultare “slegate” dall’umana quotidianità, quella che si tocca con mano, che prova dolore e vergogna, che chiede felicità, ha bisogno di speranza e sente un intimo quanto incompreso desiderio di spiritualità. E don Ricardo racconta la liturgia come un movimento vitale in cui l’umano e il divino si susseguono e si accompagnano in progressivi e tangibili passaggi di approfondimento nella concretezza e di elevazione spirituale in cui il rumore del fare si sussegue e si fonde con i cori angelici. «La liturgia – afferma – è un movimento, come tutto il cosmo è un movimento. Un dare la vita per ricevere la vita, riconoscere la morte per sperimentare la resurrezione. L’Eucarestia è il movimento del creato. Il nostro essere ha bisogno di far parte di questo movimento, di sentire quella musica di Dio, quel santo gioco dell’anima nel quale Dio si manifesta». Leggendo questo piccolo libro non si possono non ricordare i racconti di tanti mistici su quel che accade durante la messa. Pensiamo ad Anna Caterina Emmerick, a santa Faustina Kovalska, a Natuzza Evolo, ma anche al «se voi vedeste quello che vedo io!» con cui padre Pio rispondeva alla domanda sul perché le sue messe duravano così tanto. E forse quel punto interrogativo in fondo al titolo del libro sta a indicare lo stesso senso di stupore che si prova nel leggere di quelle visioni spirituali. Del resto padre Pio sottolineava: «Se la gente sapesse cosa accade sull’altare durante la messa, dovrebbero mettere i carabinieri dinanzi alle chiese per contenere le folle».

Naturalmente Reyes Castillo non è il frate di Pietrelcina e non scrive da mistico, ma offre una lettura teologica della liturgia che ben fa comprendere cosa significa aprire il cuore al mistero, soprattutto ai più giovani, ai quali il libro si rivolge nella grafica e nell’umiltà di modi, risultando capace di aprire a livelli di lettura molteplici ed efficaci. È davvero difficile trovare un testo in cui queste cose si dicano con tanta semplicità e nessun timore di venire presi per ingenui. Ed è comunque evidente che qui non si tratta di ingenuità e nemmeno di candore. Si coglie, piuttosto, la semplicità di un presbitero che, da smarrito che era, ha ritrovato la strada del primo amore, per dirla con l’ammonimento di Apocalisse alla Chiesa di Efeso. Il sentirsi figli avvolti nel manto di Maria, rigenerati nella sua dinamica relazionale. Don Ricardo lo racconta in margine: a 45 anni si è trovato a vivere un sacerdozio “in carriera”, molto diverso da quello a cui pensava in principio. Entrato in crisi, ha scelto di vivere alcuni mesi in una comunità di recupero con «giovani che combattevano diversi tipi di dipendenza… Non è stato facile. Ho lottato con i miei schemi e le mie paure». Finché un giorno «era il 24 dicembre, fui incaricato di pulire le stanze e i bagni dei ragazzi» e nel pulire, completamente solo, «mi sentii nel posto giusto. Felice. In quel momento è cominciato a crollare il muro. Iniziai a ritrovare le sensazioni del mio essere innamorato di Dio, ricercatore del suo amore. E riscoprii una cosa fondamentale: la serenità nel donarsi». La liturgia eucaristica è un dono e per viverla davvero bisogna imparare a lasciarsi amare. Don Ricardo lo spiega così: «In questo libro parlo di ciò che ho toccato, dell’amore che sgorga dall’Eucaristia e che ho assaporato in modo unico in quei mesi… L’Eucaristia è riposo, forza, perdono, luce, speranza, attesa, movimento, sorpresa, amore che dà senso e colore a ogni cosa. Per questo ho voluto scrivere in modo semplice la meraviglia che vivo ogni volta…». Col desiderio che tutti si immergano nella medesima pienezza di vita.

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Il grembo di Dio, una metafora nella quale Sequeri anticipa allusivamente la tesi finale dell’intimità affettiva della Trinità

di: Giuseppe Villa
settimananews.it

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La lettura di questo nuovo libro di Sequeri mi ha consentito di fare quattro passi nella sua prosa e tra il bello di due metafore, scrivendone alla fine, con qualche schematismo semplificatore.

Dalla metafora del «grembo» alla prosa argomentativa
Il testo si lascia introdurre già nel titolo, Il grembo di Dio, una metafora nella quale Sequeri anticipa allusivamente la tesi finale dell’intimità affettiva della Trinità, già nel suo essere da sempre, ma anche nell’incarnazione del «Figlio eterno alla vita-comune-all’umano», grazie alla quale accade qualcosa di nuovo sulla terra, e nell’ascensione di Gesù risorto, grazie al quale accade qualcosa di nuova nella Trinità: nell’intimità trinitaria di Dio è insediato a pieno titolo un essere umano, aprendo così un’ospitalità inaspettata del “grembo di Dio”.

Il valore iconico della metafora fissa lo sguardo del lettore, facilita la presa estetica e mnemonica, anticipando così il nucleo tematico della prosa. La quale procede argomentando un’«ontologia trinitaria» con una costellazione di parole ricorrenti nel vocabolario del teologo, in particolare in Metafisica e ordine del senso[1] dove trova grande sviluppo nella ricerca di una ontologia all’altezza di questi tempi.

Grande rilievo ha pure Il sensibile e l’inatteso[2] del 2016, dove c’è la trattazione ampliata del “generare”, come occasione tipica dell’affezione, che ritroviamo anche in Il grembo di Dio.

Con Il grembo di Dio, Sequeri argomenta per la prima volta l’ascensione, attribuendogli un ruolo determinante: prima ne ha scritto in varie occasioni, senza però affondi e in relazione agli altri temi.[3]

Nel nuovo libro articola la questione con diversi affondi, tra cui anche sulla fenomenologia, arrivando a considerare il passaggio «dall’essere dato all’essere donato» e, conseguentemente, all’accadere della donazione e il suo «manifestarsi come evento».[4]

Grazie a tale passaggio, può argomentare l’«evento fondatore» vissuto da Gesù, non solo con l’incarnazione, ma anche con l’ascensione, e non solo sotto l’aspetto visibile, ma anche della presenza e della manifestazione.[5]

D’altronde, l’impensato dell’ascensione nella storia della teologia ha privilegiato l’incarnazione, che poi ha portato a considerare l’ascensione come il ritorno del Cristo allo stato di prima. Se, però, si considera l’incarnazione alla luce dell’ascensione, questa in realtà è la destinazione dell’incarnazione e con essa il nuovo di affetti e comunione nel grembo di Dio. L’ospitalità impensata diventa anche pienezza di signoria della Trinità ad extra tramite lo Spirito Santo.

Un altro confronto critico è con le ontologie classiche[6] che hanno mantenuto residualità gnostiche, in particolare con l’incarnazione e la risurrezione e tanto più con la presenza dell’umano in Dio.

Sequeri si ferma di più nel confronto con la diffusione dell’auto-affezione, che le filosofie moderne[7] tengono nel proprio grembo; si dedica anche al dissequestro dello spazio e del tempo dai trascendentali. Il percorso più ampio e coinvolgente è il ruolo e la costellazione di azioni dello Spirito Santo a capo dell’«ispirazione generativa», già dal secondo libro.[8]

La metafora assoluta del «generare»
La prosa argomentativa scorre incalzante, eppure l’autore genera “soste” con la metafora del “grembo” e di una seconda, il “generare”, con la quale attrae l’attenzione del lettore: per il teologo è la «metafora assoluta»,[9] insostituibile da altro tipo di rapporto ed è un atto tipicamente di affezione. Lo si capisce con chiara evidenza dal suo «metabolismo generativo» che comprende il concepimento, la gestazione e il venire alla luce: generare vuol dire «far essere nel voler bene». Il “generato”, poi, è altro dal generante: non è sua “riproduzione”, o “replica”, oppure “clonazione”.

“Generare” è una parola ben conosciuta anche dalla storia della teologia, che, però, dopo il Concilio di Nicea, ha trascurato. Il dettato del dogma, che oggi si ripete ancora nel Credo, dice «generato non creato». Il concilio insegna la generazione eterna del Figlio e così la generazione del Figlio Gesù dal grembo di Maria, la Teotokos. Il “generato” del Figlio metteva in difficoltà anche i teologi per il loro apparato ontico dell’oggettività naturalistica dell’essere uno: «Dio, come sostanza, è uno».

Dalla «metafora assoluta» alla «costellazione di metafore»
L’affondo del pensiero sull’ospitalità inimmaginabile del grembo di Dio per tutte le creature diventa per l’autore una contemplazione dell’Ascensione in Cielo di Gesù. E ciò è motivo per il «mio stupito incantamento ‒ ha scritto Sequeri nell’introduzione ‒ per la fede cristiana, che mi afferra da sempre la mente e l’anima».[10]

Grazie all’ascensione, l’autore mette in risalto lo Spirito Santo, che «corrisponde alla logica generativa».[11] Il lettore è preso da tale prosa che articola le relazioni trinitarie: «Il Padre fa vivere il Figlio: non è l’originale di cui il Figlio è copia, sicché l’amore della generazione eterna trova la sua destinazione perfettamente corrispondente nell’essere riassorbito nell’identità archetipa dalla quale prende vita. Lo Spirito continua a procedere dal Padre e dal Figlio senza risolversi in nessuno dei due: nel terzo, che Egli rappresenta, il Padre e il Figlio si riconoscono perfettamente».[12]

Sequeri introduce punti fermi con formule concise a volte pungenti e sempre illuminanti: ne ho contati un buon numero. È il caso, ad esempio, dell’espressione: «L’ontologia trinitaria è tutt’altro dal futile esercizio di far tornare i conti dell’uno e del tre».

Il lettore che fissa la forma aforistica attiva la memoria più facilmente, e se ne aspetta anche altre. «L’ontologia trinitaria indaga il mistero di una potenza generativa alla quale rinvia l’affezione creatrice che tiene la barra dritta sul riscatto eterno di ogni far essere nel voler bene».[13]

A volte l’aforisma sembra un gioco di parole: «Tutto è da altro, perché non ci si genera da sé; nulla è altro, però, perché tutto in me è irrevocabilmente mio». «Il voler bene che fa essere il Dio è, semplicemente, Dio».[14]

Atre volte ancora è più di un aforisma: «Il racconto dello Spirito ‒ da quel suo emozionante “aleggiare” sulle acque, a quel suo “danzare” coi figli degli uomini, […] fino al suo gemere nella creazione per incorporarla alla generazione di Dio e al suo appello finale per il Figlio, all’unisono con l’umanità riscattata («Lo Spirito e la Sposa dicono “Vieni”) ‒ narra il tratto di quel suo «mettere in comunicazione/comunione», che transita elegante e possente fra i diversi…».[15]

D’altronde – ha scritto Sequeri nel 2016 –: «Che altro è, del resto, il miracolo della metafora? Un vero e proprio atto d’amore, se mai ce n’è uno nei giochi di parole, senza il quale anche le parole rimangono mosche nella bottiglia, senza scampo (e ora, vortice di elettroni, senza senso)».[16]

L’unità del libro con le svolte e il vocabolario accumulato nei decenni
Il grembo di Dio è un’opera di sintesi ontologica con vari “fili rossi” consolidati nei decenni, che vi concorrono. La sintesi è maturata sulla portata ontologica dell’affezione, non già su «l’essere uno di Dio» ‒ filosofia classica ‒, non già sull’«idea assoluta», che il pensiero anaffettivo coglie e razionalizza il tutto ‒ Hegel ‒ e nemmeno su «un dio che si dà non senza l’esserci», ma che di fatto non consegue mai un’effettiva relazione, come Heidegger si aspettava. La natura ontologica dell’affezione ha una propria norma e giustizia, non scade, cioè, nel soggettivismo auto-normato, non ripiega nel compiacimento e godimento passeggero, ma tende al primo principio, «far essere nel voler bene».

L’altro “filo rosso”, presente solo in questo libro, è una «fenomenologia orientata all’ontologia»,[17] maturata negli anni come «fenomenologia dell’evento fondatore» capace di affondo sull’ascensione, dove emerge l’umanità risorta di Gesù, come destinazione dell’incarnazione e compimento della creatività generativa nel «Grembo di Dio».

Nel libro pare che non si tratti delle prime due «formule» del vocabolario comune, la «coscienza credente» e la «singolarità di Cristo», tipiche della prima opera di Sequeri, Il Dio affidabile. In realtà, entrambe sono riformulate nell’ontologia trinitaria, la cui rivelazione di Dio, «porta nel campo della coscienza credente […] una nominazione dinamica e relazionale dell’assoluto la cui fenomenicità rivelatrice, inedita e inaudita, si attesta nell’affezione dell’essere divino (uno-unico) per l’essere umano (e creaturale-mondano). Il suo nomos e la sua charis si saldano nel vincolo della nominazione di Dio con il corpo di Gesù».[18]

Nel libro, infine, non si parla mai dell’estetica teologica. Questo non vuol dire, però, che non ci sia. Non c’è come storia dell’arte e nemmeno come teoria teologica a parte,[19] ma è praticata nella «bellezza in termini di metafora»[20] del «grembo» e, in particolare, nella «metafora assoluta della generazione»[21], che, con la creatività dello Spirito Santo, diventa una «costellazione generativa».

Quest’opera di sintesi raccoglie, dunque, i diversi “fili rossi” del ricco pensiero di Sequeri, anche quelli della tradizione filosofica dell’occidente. Ne sono testimoni anche i più recenti contributi, Metafisica e ordine del senso, dove aveva abbozzato un percorso filosofico e Il sensibile e l’inatteso.

Ne Il grembo di Dio, Kurt Appel ha scritto nella sua postfazione: «qui un pensatore vuole fondare nuovamente e più profondamente la nostra ontologia», così come G. Colombo concludeva la sua prefazione a Il Dio affidabile: «Il risultato è un’opera di“‘cultura” e non solo di “scuola”. Ma solo dalle opere di “cultura” si possono ricavare le opere di “scuola”».

[1] “Teologia” (36), 2011, pp. 159-171.

[2] “Il sensibile e l’inatteso”, Queriniana, 2016.

[3] Ad esempio, nel 2016 in occasione di una sua conferenza per il centenario della nascita di Charles de Foucauld, dove tra l’altro disse: «Io sono molto affezionato al mistero dell’Ascensione che nella nostra tradizione non è abbastanza apprezzato. Il mistero dell’Ascensione non vuol dire che il Figlio di Dio, al termine della sua missione, ritorna ad essere la seconda persona della SS. Trinità, come era prima. No, non torna ad essere come era prima. Dio ha voluto imparare, sperimentare il nostro stesso punto di vista sugli odori dell’uomo che si entusiasma per la nascita della creatura o si dispera per la ferita di una persona alla quale vuole bene. Sono realtà che le impari solo se sei umano».

[4] “Il grembo di Dio”, op. cit., p. 119 ss.

[5] Ivi, pp. 172-173 ss.

[6] Ivi, p. 210 ss.

[7] Ivi, pp. 212-216.

[8] Ivi, p. 133 ss.

[9] Ivi, p. 252.

[10] Ivi, p 18.

[11] Ivi, p. 258.

[12] Ivi, p. 258.

[13] Ivi, p. 265.

[14] Ivi, pp. 262-263.

[15] Ivi, p. 133.

[16] “Parole e Parola”, Glossa, 2016, p. XVIII.

[17] “Il grembo di Dio”, pp. 70-71.

[18] Ivi, pp. 258-259.

[19] Si veda “Il sensibile e l’inatteso”, pp. 5-6.

[20] Ivi, p. 24.

[21] Ivi, p. 7; e nota 17.

OFFICINA DEL PENSIERO Eshkol Nevo racconta l’intrecciarsi dei desideri

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Quattro amici di Haifa, poi trasferitisi a Tel Aviv, e ogni quattro anni un mondiale a cui ritrovarsi: l’occasione per riallacciare i rapporti che si erano sfilacciati, ma anche perché «così il tempo non diventa un blocco unico, e ogni quattro anni ci si può fermare a vedere cos’è cambiato» (p. 302), come dice tutte le volte il protagonista e voce narrante, Yuval, che ama filosofeggiare più degli altri. Un’occasione di incontro in cui, per gioco, scrivere i propri desideri su un foglietto, per vedere se a distanza di anni si saranno realizzati o meno. Un’occasione che scandisce il tempo della vita: ed è davvero una vita intera quella che Eshkol Nevo ne La simmetria dei desideri (2008, ristampato nel 2022 per Beat Edizioni) ci fa seguire attraverso gli occhi di Yuval, in un romanzo di formazione contemporaneo. L’amicizia tra Yuval, Amichai, Ofir e Churchill inizia, infatti, nell’adolescenza e ha la forza, inconsueta e rara, di durare nel tempo, fino all’età adulta, attraverso le vicende di chi sembra non cambiare mai e di chi inverte bruscamente rotta, di chi sembra avere davanti a sé una strada tracciata – salvo poi incappare senza preavviso nei rovesci della vita – e di chi invece una direzione sembra non riuscire a trovarla. Proprio Yuval, attraverso i cui occhi, inevitabilmente parziali, rileggiamo questa storia, è il personaggio che più fatica a trovare una sua strada, a realizzare le sue ambizioni e i suoi desideri. Annaspa alla ricerca della donna giusta e, credendo di averla trovata e poi perduta, ne insegue il fantasma; annaspa nel tentativo di realizzare le sue aspirazioni, come la laurea in filosofia, che non consegue lasciando incompiuta la tesi; annaspa nell’affrontare con decisione le difficoltà delle relazioni con la sua famiglia, ma anche con gli amici storici. Tutto questo brancolare alla ricerca di una direzione, assieme a una grande generosità, ci fa affezionare a lui e, in un mondo dominato dalle relazioni liquide e dalla difficoltà a fare scelte radicali di vita, ci fa immedesimare in lui. Ma anche le vite, apparentemente più lineari degli amici (le vite degli altri che, osservate da fuori, possono apparirci autostrade di luce, mentre brancoliamo nel buio) si scoprono irte di difficoltà e cadute, di passi avanti e brusche interruzioni o battute in ritirata: questi desideri che ci abitano, li avremo poi messi davvero messi a fuoco? sembrano chiedersi e chiederci i protagonisti.

Come spesso accade nella vita, poi, è sufficiente un breve attimo, un’intuizione, un granello di sabbia che sblocca il meccanismo inceppato, a far ripartire la vita e a darle velocità, fino a esiti imprevedibili. Scoprire, infatti, che i desideri non vanno inseguiti come ossessioni, ma hanno una loro simmetria (quale sia, lascio al lettore scoprirlo), e richiedono talvolta un passo di lato (non indietro) basterà a Yuval per imboccare una nuova strada, senza dimenticare che ogni passo di avvicinamento è stato prezioso e insostituibile. Come infatti scriveva nella sua tesi, rimasta incompiuta, «questo lavoro non verterà sulle teorie ordinate e conosciute dei vari filosofi, bensì prenderà in considerazione i loro momenti di confusione, i momenti di perplessità intellettuale ed emotiva. Non solo perché è possibile rinvenirvi frammenti di toccante umanità, ma anche in base al presupposto che proprio lì, nell’incespicare, nel pentimento a posteriori, nell’incertezza che porta al cambiamento, si può forse trovare la chiave alla comprensione della vera natura del pensiero» (p. 92). Ed è toccante davvero l’umanità di questi personaggi, il loro incespicare che è sempre kairòs per il cambiamento.

Di Eshkol Nevo non si può non apprezzare la delicatezza nel raccontare l’animo dei suoi personaggi, ma, in questo romanzo, anche l’insinuarsi nelle loro vite e nelle loro storie della Storia, quella di un paese, Israele, dalle mille contraddizioni: seguiamo così i quattro amici nel servizio militare che sono tenuti a svolgere nei territori palestinesi occupati, la vergogna e il senso di colpa nell’assistere e partecipare a soprusi gratuiti contro i palestinesi, la militanza di Ilana, moglie di Amichai, – personaggio secondario ma quanto mai prezioso – a favore di questi ultimi; ma anche la presenza dell’ebraismo ortodosso con le certezze e sicurezze che riserva agli affiliati, e con le sue durezze verso chi se ne allontana. Un quadro realistico di un mondo complesso, le cui sfide quotidiane fatichiamo forse ad immaginare.

Anche questo romanzo, come gli altri, si apre con un espediente caro all’autore, che sembra prendere le distanze, e invitarci a fare lo stesso, davanti al racconto-confessione dei suoi personaggi: ciascuno si racconta e l’oggettività assoluta, quando si entra nelle pieghe della vita, è un’illusione. In questo varco non oggettivo, la scrittura, a differenza della traduzione, a cui Yuval ha dedicato gran parte del suo tempo, offre però opportunità nuove: «Da traduttore sei legato al testo originale con le catene della fedeltà, mentre qui invece…qui è permesso tradire. Scambiare lo zio con il papà. Un amico con un altro. Inventare intere conversazioni che non ho mai sentito. Mentire. Vendicarmi delle persone attraverso le mie parole. Ma anche perdonare.» (p. 320).

vinonuovo.it

La polemica. Rimosso dal suo incarico il generale Vannacci, autore del libro choc

Frasi su gay e migranti nel volume dell’ex responsabile dei parà della Folgore. Il ministro aveva promesso azioni disciplinari. Lui: non mi rimangio nulla.Mi difenderò nelle sedi opportune
Rimosso dal suo incarico il generale Vannacci, autore del libro choc

Ansa

avvenire.it

Alla fine la decisione esemplare c’è stata. Il ministro della Difesa Crosetto aveva promesso un’azione disciplinare nel rispetto delle regole e così è stato. Il generale Roberto Vannacci è stato rimosso dall’Istituto geografico militare di Firenze dopo le feroci polemiche suscitate dal suo libro autoprodotto ‘Il mondo al contrario’ e da lunedì è trasferito in forza extra organica al Comfoter area territoriale «a disposizione del comandante area territoriale per incarichi vari». La sua sede resterà Firenze. Subito dopo la decisione la replica del generale: «Quando scrivevo questo libro sapevo che avrebbe dato da discutere ma sicuramente non mi aspettavo questo polverone. Non replicherò a decisioni che arrivano da una catena gerarchica. Lo farò nelle sedi opportune». Inoltre, ricordando che la Costituzione difende la libertà di espressione, aggiunge: «Non vedo perchè dovrei fare un passo indietro per un libro in cui esprimo i miei pensieri, senza offendere nessuno. La libertà di opinione e di idee dovrebbe confrontarsi sulle argomentazioni e non attraverso la gogna mediatica».

Il fatto
Più che un caso letterario, una vera bufera. Il libro scritto e autoprodotto del generale Roberto Vannacci, 54 anni, un passato nella Folgore con ruoli di responsabilità nelle forze speciali in molte missioni all’estero, finisce al centro di polemiche con richieste di dimissioni immediate. In oltre 300 pagine, un vero e proprio saggio, l’attuale responsabile dell’Istituto geografico militare snocciola una serie di giudizi omofobi e prese di posizione contro femminismo, migranti e ambientalismo. Concetti espressi senza mezzi termini, in modo anche crudo e diretto. Pagine che, come prevedibile, non sono passate inosservate: i primi a occuparsi del libro- choc sono stati i siti specializzati in temi militari e di difesa. L’Esercito allora ha «preso le distanze», affermando che non era a conoscenza «dei contenuti» del volume. Né ai vertici militari è stata sollecitata da parte dell’autore alcuna «autorizzazione o valutazione».E di pochie ore fa la decisione della rimozione del generale dal suo incarico.

Il governo
Dal canto suo il ministro della Difesa Guido Crosetto è subito intervenuto per annunciare una azione disciplinare esortando a «non utilizzate le farneticazioni personali di un generale in servizio per polemizzare con la Difesa e le forze armate». Inoltre, il giorno successivo alla polemica, il ministro è tornato sull’argomento tentando di sminuire il caso e sottolineando che non prendeva alcuna posizione, ma applica semplicemente le regole. Il generale Vannacci, puntualizza il ministro, «ha espresso opinioni che screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione».

La difesa del generale
Il generale però non la pensa così e respinge le accuse, sostenendo che «le critiche» non lo disturbano. «Al ministro non replico – aggiunge mi attengo a quelle che sono le sue disposizioni. Ciò che mi procura disagio è la strumentalizzazione: sono state estratte frasi dal contesto e su queste sono state costruite storie che dal libro non emergono. Sono amareggiato dalla decontestualizzazione e dal processo a delle opinioni: Giordano Bruno lo hanno bruciato perché aveva un pensiero controcorrente, meno male abbiamo superato quei momenti». Poi, tramite il suo legale, fa sapere di sentirsi strumentalizzato e di non rimangiari nulla di cioò che ha scritto nel volume.

Il libro
Il titolo scelto dal generale, Il mondo al contrario, sembra però già un chiaro biglietto da visita su quanto poi messo nero su bianco. Idee provocatorie in cui, sostanzialmente, si afferma che la società è oggi schiava delle lobby legate a queste minoranze. Parlando di omosessuali il generale afferma: «Normali non lo siete, fatevene una ragione! La normalità è l’eterosessualità. Se tutto vi sembra normale, invece, è colpa delle trame delle lobby gay internazionali». Commentando la polemica sorta su queste affermazioni, l’autore spiega che «la frase sugli omosessuali viene da uno, ovvero io, che è scappato tutta la vita dalla normalità: per questo dico che sono a fianco degli omosessuali nella caratteristica di essere al di fuori della normalità». Nella quarta di copertina Vannacci prende posizioni contro coloro che, a suo dire, definiscono «civiltà e progresso» quando gli «occupanti abusivi delle abitazioni prevalgono sui loro legittimi proprietari; quando si spende più per un immigrato irregolare che per una pensione minima di un connazionale». Anche parlando della legittima difesa il generale, che si definisce erede di Giulio Cesare, non usa giri di parole: se un ladro entra in casa «perché non dovrei essere autorizzato a sparargli, a trafiggerlo con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani?». Nel testo anche riferimenti a Paola Egonu, campionessa di volley, per sottolineare che «è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità». ​

Le reazioni
Parole e frasi che scatenano la polemica delle opposizioni, che chiedono un intervento del governo. Per Piero Fassino (Pd), le «necessarie dissociazioni non sono sufficienti». Sulla stessa lunghezza il segretario di Si Nicola Fratoianni. Una netta condanna arriva pure dal sindaco di Firenze Dario Nardella e dall’Anpi. Inoltre le parole del generale in una intervista ad un quotidiano riaccendono la bufera anche il giorno successivo.
«È evidente che le sue esternazioni sono inserite nel filone della nuova Cultura Popolare Meloniana» tuona il co-portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, che considera una beffa la rimozione del generale dal suo incarico.
«Crosetto, come ministro della Difesa, anziché derubricare a farneticazioni le frasi di Vannacci, deve porsi il problema del perché un generale dell’esercito si sia sentito legittimato a pubblicare un saggio dai contenuti apertamente eversivi e incostituzionali. È un suo dovere», scrive su Twitter Alessandro Zan, deputato Pd e responsabile Diritti del Partito Democratico, che insieme ad altri esponenti del Pd chiede un rapido procedimento disciplinare per Vannacci. 

Libro / Maria di Magdala, testimone del Risorto

Chantal Reynier, Maria di Magdala. Insostituibile testimone del Risorto (Sintesi s.n.), Queriniana, Brescia 2023 (or. Paris 2022), pp. 176, € 21,00, ISBN 9788839929709.
di: Roberto Mela settimananews

Figura complessa. I testi del Nuovo Testamento
Chantal Reynier è una religiosa francese che, dopo gli studi in storia antica e in teologia, ha conseguito il dottorato in teologia biblica al Centre Sèvres di Parigi, dove è stata docente di esegesi. Dal 2015 collabora con l’Università svizzera di Friburgo. Dopo un testo dedicato a san Paolo, ora è disponibile in italiano questo saggio su Maria Maddalena, esaustivo nella sua sinteticità.

Maria Maddalena è una figura complessa, sulla quale si è accesa una riflessione sempre più diversificata mano a mano che ci si allontanava dagli scritti evangelici per seguire l’evolversi delle leggende nate sulla sua figura.

L’autrice analizza la presenza della Maddalena nei testi evangelici, notando un itinerario diversificato a seconda della sensibilità dei vari autori. C’è chi la pone vicina a Gesù nel suo ministero fin dall’inizio, con la sua presenza notata alla Passione, alla sepoltura e alla prima apparizione (Luca). In Matteo non compare fino al momento della Passione (NB: a p. 18 si deve leggere che la Maddalena è presente al Calvario, e non sul Monte degli Ulivi, Mt 27,56.61), mentre Marco la menziona per la prima volta sotto la croce e ricorda l’apparizione da lei goduta solo nella finale lunga, unica fra le donne ad avere questo privilegio.

Il Quarto Vangelo le dona un’importanza eccezionale ricordandola sotto la croce, alla tomba e beneficiaria della prima apparizione con il compito di annunciare la risurrezione di Gesù agli apostoli.

L’autrice indaga anche sulle altre Marie presenti nel NT.

Identità, malattie, guarigione
Reynier studia vari temi, il primo dei quali riguarda l’identità della Maddalena. Per questo motivo ne studia il nome, il luogo di origine (il famoso porto ricco per l’industria della lavorazione del pesce e il suo commercio all’estero). Secondo l’autrice, Maria di Magdala probabilmente era nubile, e la sua condizione sociale abbastanza agiata.

Il secondo tema riguarda la situazione della salute della Maddalena. Prostituta, malata di mente, indemoniata?

Lc 8,1-3 la menziona come prima delle donne che – cosa molto insolita – avevano seguito Gesù fin dalla Galilea, sostenendolo con il loro servizio e i loro beni.

Luca afferma che da lei «erano usciti sette demoni». Da qui parte tutta la riflessione successiva per stabilire se Maria di Magdala era stata un’indemoniata, una malata di mente o una prostituta. Nell’antichità si collegava la malattia al dominio del demonio, del male.

Secondo Reynier, questo non indica necessariamente che Maria fosse stata soggetta a una malattia psichica, ancorché il processo di guarigione (operato da Gesù) fosse stato probabilmente lungo e ripetuto.

Il ritenerla una prostituta pentita dipende dal fatto che, delle tre Marie menzionate nei Vangeli, si è fatto una sola persona, identificando Maria di Betania, la donna che unge Gesù in casa del lebbroso Simone con la peccatrice innominata perdonata da Gesù per la sua fede e il suo grande amore.

Reynier distingue le varie Marie e non identifica la Maddalena né con Maria di Betania né con la peccatrice innominata. Papa Gregorio Magno (540 ca. d.C – 604 d.C.) identificò in un’unica persona le varie figure di Maria presenti nei Vangeli e affermò che aveva sette demoni perché era piena di tutti i vizi. Questa interpretazione durò per molti secoli.

L’autrice studia i vari temi attinenti la situazione fisica della Maddalena, indagando sul fatto se fosse o meno malata e guarita. Certamente è una persona che, come tutti i malati guariti da Gesù, viene liberata, reintegrata socialmente e religiosamente e salvata. La sua eventuale malattia non deve essere necessariamente identificata come una malattia mentale.

Con Gesù. Prima alla tomba, ruolo nel Vangelo di Giovanni
Il terzo tema affrontato da Reynier è il fatto che la Maddalena accompagnò Gesù lungo tutto il suo ministero, a partire dalla Galilea fino alla sua risurrezione.

L’autrice studia il brano di Lc 8,1-3, sottolineando il fatto che il sostegno e la diaconia delle donne forse non si limitavano al supporto economico e ai servizi concreti necessari per la vita quotidiana, ma comprendevano anche l’assorbimento dell’insegnamento offerto da Gesù, cosicché la Maddalena divenne a tutti gli effetti una discepola di Gesù, una sua testimone.

Durante la passione, la si ritrova sotto la croce, come una delle quattro donne (così Reynier) che assistono alla passione e morte di Gesù, diventando in un certo senso testimone qualificata e madre della comunità post-pasquale dei discepoli che da lì sarebbe nata.

È presente e osserva il luogo della sepoltura di Gesù (sinottici). Visita la tomba (con altre donne nei sinottici, da sola in Gv 20,1-2). Gode dell’apparizione di Gesù con l’«l’altra Maria» (Mt 28,9-10), da sola (Mc 16,9), con Giovanna e Maria, madre di Giacomo (Lc 24,10), da sola in Gv 20,11-18.

Il quarto tema studiato è il fatto che la Maddalena è la prima a visitare la tomba.

Reynier studia la versione matteana, dove ella – assieme all’«altra Maria» – riceve dall’angelo la rivelazione che Dio sconfigge la morte e la missione di andare a dire ai discepoli che Gesù è vivo, è risorto dai morti e li precede in Galilea. In Mc 16,1-7 c’è il tema della ricerca. L’angelo fa emergere l’incomparabile novità della risurrezione e lo spavento provato dalle donne impedisce loro di domandarsi dove sia Gesù. Lc 24,1-8 insiste invece sulla memoria e sul disegno divino contenuto negli annunci della passione pronunciati da Gesù durante la sua predicazione.

Dopo la presenza alla tomba, gli evangelisti annotano la missione affidata alle donne. Mt 28,9-10 ricorda la missione a beneficio dei discepoli affidata da Gesù. Mc 16,7-8 annota lo strano comportamento delle donne di fronte alla missione da compiere. Sono sopraffatte della paura e tacciono. Nella finale lunga del Vangelo di Marco (Mc 16,9-20) la Maddalena è invece la prima destinataria dell’apparizione di Gesù (Mc 16,9-11). Lc 24,9-11 ricorda il rifiuto dei discepoli di accogliere la testimonianza delle donne (cf. anche lo scetticismo sulla testimonianza delle donne ricordato dai due discepoli di Emmaus).

Il quinto tema analizzato è il posto singolare di Maria di Magdala nel Vangelo di Giovanni.

La prima visita al sepolcro (Gv 20,1-2) è incentrata sul tema della perdita di Gesù. Maria vede una tomba aperta e vuota, con la pietra rimossa e si crea la spiegazione del trafugamento del cadavere (una «conoscenza immaginata»). È smarrita e defraudata. Corre ad annunciare il fatto ai discepoli, e Pietro e il Discepolo Amato corrono al luogo, costatando la tomba vuota e i segni presenti. Occorrerà la Parola per arrivare alla fede.

Tornata alla tomba (Gv 20,11-18), la Maddalena vede i due angeli ma non comprende, sopraffatta dal pianto per la perdita dell’amato maestro. Le lacrime le impediscono di vedere ed ella permane nel suo errore di identificazione. Quando viene chiamata per nome, si gira per la seconda volta e riconosce Gesù come Maestro, lo stringe in un abbraccio che vorrebbe trattenerlo, ma riceve l’insegnamento che Gesù deve salire al Padre, e che quindi è il Figlio di Dio, il Signore.

La Maddalena entra gradualmente nella verità della risurrezione, a cui accede solo perché Gesù stesso si rivela a lei. La Maddalena crede non perché «vede» come il Discepolo Amato, «ma perché sente, senza possibilità di dubbio, Gesù che le si rivolge. Rinasce nella verità grazie alla Parola» (p. 95).

La Maddalena riceve una missione senza precedenti. Non deve trattenere Gesù, il Signore, perché il modo della sua presenza ora è cambiato. «È invitata a riconoscere la divinità di Gesù manifestata attraverso la sua umanità» (p. 97). Si tratta veramente di Gesù che lei ha conosciuto ed è il Figlio di Dio. Maddalena ha visto il Signore, lo ha ascoltato, l’ha toccato. Tutti i sensi sono stati chiamati ad aprirsi all’atto di fede e di abbandono.

«L’espressione “non mi trattenere” per Gesù è anche un modo di chiedere a Maria di entrare nella volontà del Padre. Questa volontà consiste, per lui, nel tornare al Padre suo. Nel suo incontro con il Risorto Maria comprende cosa sia l’esistenza pasquale: essere nel Padre» (p. 97).

Gesù torna al Padre per assicurare una presenza nuova ed efficace fra i discepoli. Maria invece deve andare dai suoi fratelli, nell’orizzontalità, a partire dalla parola di Gesù che le parla ancora delle realtà di quaggiù. Il comando permette a Gesù di tornare al Padre e a Maria di andare ai fratelli. La diffusone del Vangelo è assicurata.

La missione della Maddalena è quella di annunciare un avvenimento: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). Gesù risorto chiama «fratelli» i discepoli (ivi), un’unica famiglia con Gesù e il Padre. I discepoli ai quali Maria deve portare la sua testimonianza «formano la famiglia di Gesù, così come il maestro l’ha fondata prima di esalare l’ultimo respiro e Maria ne è stata testimone. Maria assume dunque la funzione materna di generare figli al Verbo e di introdurre questa nuova modalità della presenza di Gesù presso i suoi, una presenza reale ma nuova, perché ormai invisibile agli occhi» (pp. 98-99).

Sebbene ai tempi del NT la testimonianza delle donne fosse penalizzata, l’evangelista non esita – non lo fanno gli altri evangelisti – a mettere in luce l’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala. Il Quarto Vangelo «esprime al meglio la missione specifica della Maddalena, ma nessun vangelo ha comunque cercato di cancellarne il suo ruolo, tanto è essenziale per la trasmissione della Buona notizia» (p. 99).

Discepola
Reynier indaga come sesto tema se la Maddalena possa essere considerata discepola.

Maria di Magdala non appartiene al gruppo dei Dodici, ma l’aver assimilato l’insegnamento di Gesù lungo tutto l’arco del suo ministero l’ha resa una discepola che è stata con Gesù, capace di testimoniare la buona novella. Il titolo “discepola” non c’è perché rarissimo nel NT ma l’assenza del nome non equivale all’assenza della realtà.

Insieme alle altre donne, Maria di Magdala presenta le caratteristiche del discepolo, poiché sono vicine a Gesù, lo seguono, accolgono il suo insegnamento e si mettono al suo servizio. Pur con funzioni diverse dal Discepolo Amato, la Maddalena è discepola anch’essa. La mattina di Pasqua ella si comporta da discepola: va, vede, riconosce, testimonia e annuncia.

Maria Maddalena diventa, nella tradizione, la figura dell’apostola per eccellenza, «apostola degli apostoli» (Ippolito di Roma, III sec.). Essa ricorda all’istituzione il cuore della fede e la necessità di annunciarla. Questo è un ruolo indispensabile alla Chiesa, che non può sottovalutarlo (cf. il sottotitolo del libro!). Maria è il modello del testimone, rappresenta una forma di testimonianza universale. Maria è l’esempio vivo di una nuova relazione con Cristo, basata sulla fede viva che porta alla conoscenza di Gesù, a orientarsi continuamente verso di lui.

Pietro riceverà la missione di essere pastore e guida dei fratelli. Maria diventa sì l’«apostola degli apostoli», ma ancora di più – secondo Reynier – diventa l’«apostola dei fratelli», testimone universale dell’amore irrevocabile di Gesù, «Figlio di Dio e fratello degli uomini» a cui si orienta (cf. p. 110).

All’incrocio interpretativo
Come settimo tema da investigare, l’autrice pone la Maddalena come figura all’incrocio fra AT e NT. La sua figura è posta in luce attraverso l’assimilazione e la prefigurazione o il parallelismo.

L’assimilazione riguarda il Discepolo Amato e Maria la madre di Gesù. Solo la Maddalena è incaricata di portare la Buona notizia agli Undici. Alcune fonti antiche la identificano con Maria la madre di Gesù: Diatessaron, Ippolito, Paolino di Nola, Cirillo di Alessandria, Origene, vari testi apocrifi e il Talmud babilonese (VI sec.).

Una studiosa, Thierry Murcia, l’ha sostenuto in un’opera del 2017. Ipotesi suggestiva per la presenza importante della Maddalena nelle varie fasi della vita di Gesù ma, secondo Reynier, senza fondamento nei testi.

A livello di prefigurazioni, si vede la Maddalena come richiamo a Eva (Ippolito, Ambrogio). Altri rimandano alla sposa del Cantico dei Cantici, alla ricerca e al ritrovamento dell’Amato che abbraccia con forza. La Maddalena è vista come una figura autorevole per le comunità cristiane, come Pietro e Paolo. Sembra che alcune correnti nelle comunità abbiano voluto contrastare il posto di Pietro. I movimenti femministi hanno visto nella scena del giardino la designazione da parte di Gesù del suo successore (come il profeta Eliseo assistette all’ascensione del suo maestro Elia e divenne suo successore). Nei testi apocrifi si insiste molto sul rapporto delle donne con Cristo. La Maddalena diventa la rappresentante delle minoranze che si identificano con un personaggio forte.

A Maria Maddalena è affidato il compito di annunciare la risurrezione non solo all’interno della Chiesa, ma anche all’esterno. Ella presenta delle similitudini con Paolo, che vive un incontro decisivo con Cristo che gli cambia la vita. Entrambi sono inviati dal Risorto. Gesù manda Paolo in città per ricevere la sua missione dopo la guarigione dalle squame degli occhi; Maria è inviata agli Undici e, in un certo senso, passa il testimone a Paolo. Il «più piccolo tra gli apostoli» è avvicinato a colei che sarà considerata l’«apostola degli apostoli».

Quale figura di intersezione si considera Maddalena in rapporto a Mosè (Romano il Melode, VI sec.). Portavoce di Dio al suo popolo il primo (cf. Lv 1,1-2), portavoce del Risorto per gli apostoli la seconda.

Maria Maddalena è posta spesso a confronto con Giovanni Battista. Questi è il punto di intersezione tra AT e NT, mentre Maddalena si situa fra la vita terrena di Gesù e la sua ascesa al Padre. Giovanni Battista indica l’Agnello di Dio ai suoi discepoli, mentre la Maddalena simboleggia la trasformazione della comunità pre-pasquale in comunità post-pasquale con Gesù.

Maria risponde alla prima e fondamentale domanda posta dai discepoli del Battista a Gesù: «Maestro, dove dimori?». Al «che cosa cercate?» iniziale del Vangelo, corrisponde «chi cerchi?» nella scena del giardino. Il Battista è amico gioioso dello sposo, presente a lui, come la Maddalena «è presente» (stesso verbo) e sente la voce di Gesù che nel giardino la chiama e gli risponde con gioia.

Maria prefigura tutti i testimoni della Bibbia, in specie Giovanni Battista di cui è controparte. La sua personalità è feconda e fa vibrare le Scritture. «Maria è testimone del ministero di Gesù e della sua apparizione come Risorto prima del suo ritorno al Padre da cui è venuto. Quale posto più eminente potrebbe avere Maria di Magdala, testimone del “Cristo totale”? Quale apostolo potrebbe toglierla?», si chiede l’autrice (p. 129).

Storia dell’interpretazione
Nel c. 10 l’autrice analizza l’accoglienza della figura di Maria di Magdala lungo la storia.

La complessità della sua figura ispira varie interpretazioni e un’evoluzione nella stessa. Mentre nei Padri latini si instaura l’identificazione delle Marie con l’anonima peccatrice della città, nessuno degli scritti apocrifi e dei Padri greci identifica esplicitamente Maria Maddalena e la peccatrice con la donna anonima o la sorella di Lazzaro.

In seguito, si accoglie l’opinione di Gregorio Magno che si tratti di un unico personaggio. Maria Maddalena diventa la figura della peccatrice perdonata capace di annunciare la Buona notizia. Nel 1518, con Lefebre d’Étaples si comincia a dubitare di questa unificazione di diversi personaggi. Oggi si considera la Maddalena distinta dalle altre figure che compiono l’unzione e dall’anonima peccatrice menzionata da Luca.

Dal silenzio si passa alla leggenda. La letteratura apocrifa arricchisce il personaggio, ponendola allo stesso livello degli apostoli e spesso contrapposta a Pietro. Nel Medioevo compaiono le vite di Maria Maddalena, simbolo della conversione e della penitenza che papa Gregorio le aveva attribuito. La sua popolarità aumenta.

Appare la Vita eremetica beatae Mariae Magdalanae (IX sec.) e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (1228-1298): inseguita dagli ebrei, la Maddalena si imbarca con altri personaggi – tra cui Lazzaro, Marta, Massimino – su una nave senza vele, remi timone o pilota e giunge all’attuale porto di Marsiglia. Maria si ritira alla Sainte-Baume, la Santa Grotta, dove conduce una vita da anacoreta. Le sono attribuiti molti miracoli. Nel Medioevo proliferano molte altre leggende.

Si instaura un culto, nato in Oriente, testimoniato già nel 330 dall’anonimo Pellegrino di Bordeaux in riferimento a una chiesa chiamata Lazarium a Betania, testimonianza conferma da Egeria un secolo dopo.

In Occidente il culto si diffonde lentamente, nonostante gli sforzi di Beda il Venerabile. I domenicani si stabiliscono nel 1295 alla Sainte-Baume e, nel 1297, la scelgono come patrona del loro ordine per la loro vocazione di predicatori. In seguito si esalta la sua natura di asceta, contemplativa, patrona di ammalati e delle donne in gravidanza. La memoria liturgica del 22 luglio è stata elevata a festa da papa Francesco nel 2016.

La Maddalena diventa ispiratrice di opere e di penitenza, con l’instaurazione di due pellegrinaggi principali: Vézelay, intorno a Saint-Maxim, e alla Sainte-Baume.

La Maddalena divenne occasione di discussione sulla grazia tra protestanti e cattolici. Si emanarono decreti che ingiungevano di non rappresentarla in abiti sontuosi oppure nuda nel deserto e, nell’iconografia, comparvero sempre più spesso attributi come il teschio, la candela, il cilicio, la frugalità dei pasti, l’ascesi, il libro.

Per i cattolici Maria Maddalena è il simbolo della penitenza; i protestanti – che difendono la distinzione fra le varie persone del NT – vedono il perdono come pura grazia. Nel XX sec. i movimenti femministi hanno cercato di liberare la Maddalena dall’immagine della peccatrice pentita, in altri termini, da un’interpretazione tipicamente patriarcale, per restituirle la sua figura di apostola e di mistica. Anche fra i cattolici questa interpretazione è legata al dibattito sull’ordinazione delle donne.

L’ultimo capitolo è dedicato da Reynier alle chiavi che la Maddalena costituisce per comprendere la nostra cultura. La studiosa passa in rassegna l’iconografia nei vari paesi europei, la musica, la letteratura, il cinema.

L’autrice conclude sostenendo la distinzione delle varie Marie nel NT e considera Maria Maddalena come testimone insostituibile di Cristo risorto e portatrice di emozione e passione.

In Appendice (pp. 169-170) è riportata un’utile tabella riassuntiva circa Maria di Magdala e le altre donne del NT. Segue la bibliografia per un approfondimento (pp. 170-171).

Il volume è un’opera ricca di dati e significativa per il suo messaggio globale di grande rivalutazione di questo personaggio del NT, una donna che, contro gli schemi culturali, viene considerata testimone insostituibile dell’insegnamento e della risurrezione di Gesù, sua apostola, «apostola degli apostoli», «apostola dei fratelli».

Chantal Reynier, Maria di Magdala. Insostituibile testimone del Risorto (Sintesi s.n.), Queriniana, Brescia 2023 (or. Paris 2022), pp. 176, € 21,00, ISBN 9788839929709.

Quale posto per Dio e per la Chiesa?

di: Mariangela Maraviglia settimananews.it


Brunetto Salvarani, Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, collana «Tempi Nuovi», Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 248, € 20,00.

Lo storico Michele Ranchetti ricorda in un suo scritto che padre Balducci o padre Turoldo affermavano «Noi siamo gli ultimi preti». Fin dall’ultimo scorcio del Novecento era viva nei cristiani più accorti la consapevolezza di appartenere a un mondo religioso in rapida trasformazione, che non sopportava più di essere interpretato e vissuto con categorie tradizionali e chiedeva nuove forme di comunicazione e di intervento.

Nei pochi decenni trascorsi dalla loro scomparsa, entrambi nel 1992, la trasformazione ha subito un’accelerazione sorprendente, tanto che possiamo oggi constatare non solo la crisi ma la fine di quel mondo di cui entrambi si sentivano pienamente partecipi, sia pure con il fiero spirito critico che contrassegnava le loro esistenze.

Su questa crisi da anni si susseguono indagini sociologiche e storiche, letture teologiche, documenti pastorali tesi a comprendere, denunciare, sanare. Titoli eloquenti avvertono che la Chiesa «brucia», che si sta allevando «la prima generazione incredula», che «piccoli atei crescono», che le donne abbandonano la pratica religiosa rifuggendo secolari fedeltà.

Ma, oltre ai testi scritti, l’esperienza di ognuno si fa riscontro esplicito di un cambio d’epoca che sorprende e spesso sgomenta, nello scorgere il tramonto non solo di forme tradizionali di credenza ma anche di quelle esperienze ecclesiali che si sono proposte un rinnovamento radicale della fede cristiana, nello spirito del Concilio Vaticano II.

Il volume di Salvarani
Brunetto Salvarani in Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano (Laterza 2023) affronta questo cambio d’epoca, a cui si può ben dare il nome di crisi, facendo tesoro di un’ampia ricognizione di studi e documenti e senza concedere spazio alcuno a rimpianti o lamentazioni. Suggerendo, anzi, di attraversarlo come un tempo di opportunità, un chronos da vivere con la sapienza di volgerlo in un kairòs. Con le parole della scrittrice Christiane Singer ne raccomanda un «buon uso» perché «in mancanza di maestri, nella società in cui viviamo, sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci a entrare […] nella profondità che dà senso alla vita» (p. 4).

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Ma perché diventi occasione, questa crisi occorre interrogarla, assumerla senza reticenze, coglierne la portata epocale sulla scorta delle tante voci che l’hanno affrontata e analizzata.

Sì – afferma Salvarani – siamo alla dissoluzione del regime di cristianità, quel microcosmo compatto e apparentemente inscalfibile che, sviluppatosi dall’età costantiniana, ha imposto per secoli, su vasti territori, concezioni etiche e sociali e idee di Dio e del dopo-vita.

Mutua dalla sociologa Danièle Hervieu-Léger i concetti di «implosione» e di «esculturazione» del cattolicesimo, a esprimere la fine della trama culturale a lungo dominante sulla scena religiosa e sociale dell’intero Occidente. Un tracollo reso più evidente dal disarmante analfabetismo biblico che ogni inchiesta certifica: la Bibbia – scrive Salvarani con espressione felice e incontestabile – è il «libro assente» dalla cultura trasmessa e condivisa: nonostante sia il «grande codice» della cultura occidentale, secondo la nota definizione del critico letterario Northop Frye; nonostante non vi sia aspetto della vita culturale e artistica delle nostre latitudini che sia leggibile senza la conoscenza del suo universo di contenuti, storie, personaggi, come ribadiva Umberto Eco.

Il «trasloco di Dio»
Un quadro dirompente, che non si risolve tuttavia nell’irrevocabile tramonto di ogni esperienza religiosa, secondo le convinte premonizioni di «eclissi del sacro» che hanno segnato la seconda metà del Novecento.

La religione dell’Occidente non scompare – ricorda Salvarani –, piuttosto subisce quella che il sociologo Luigi Berzano chiama «quarta secolarizzazione» e, da istituzione che organizza la vita pubblica, si trasforma sempre più in patrimonio di singoli individui che si ritagliano una variegata «autonomia degli stili» del credere.

Scompare la figura del praticante regolare e della civiltà parrocchiale, si afferma la figura del «pellegrino», icona di un paesaggio religioso in movimento, di «dinamiche del fai da te», in un contesto diffuso e condiviso che avverte con identica legittimità i percorsi spirituali più diversi, l’appartenenza condizionata, l’autogestione o anche l’abbandono della pratica religiosa.

Se quanto detto vale per la gran parte dei vissuti religiosi italiani, europei, nordamericani, non rappresenta la realtà di altre aree del mondo, soprattutto dell’Africa e dell’America Latina, dove si assiste a un autentico «trasloco di Dio».

Con questa formula accattivante e con molte cifre alla mano, Salvarani rappresenta realtà religiose in piena fioritura in quei continenti, vitalità inesauribili di gruppi, per lo più carismatici ed estranei alle confessioni tradizionali, che realisticamente rappresentano tanto presente e forse gran parte del futuro del cristianesimo. Gruppi di cui non cela le criticità nell’approccio emozionale e conservatore sui versanti della fede, della dottrina e della morale, oppure nel concentrarsi in una «teologia della prosperità» che riduce la fede a una individualistica richiesta di immediata salute, felicità, ricchezza.

Abitare con sapienza la crisi
Di fronte a un quadro tanto complesso e confuso, a un pluralismo aperto a inedite possibilità ma non certo acquietante, Salvarani non cede a impostazioni autodifensive o a logiche di conflitto, né a salvaguardare qualche «rottame della cristianità» (citazione da Giuseppe Dossetti). Crede, piuttosto, che occorra imparare ad abitare la crisi esercitando il coraggio di «un pensiero dotato di immaginazione e fantasia», la pazienza «di educarci al dialogo all’interno e all’esterno», senza pretendere di possedere facili quanto illusorie soluzioni.

La via della formazione gli appare la risorsa necessaria per «seminare futuro», ripartendo dalla centralità della Bibbia e dalla persona di Gesù Cristo, ma senza timore di percorrere itinerari di dialogo o di inaugurare esperienze di inedito «meticciato», parola chiave della sua proposta, tra religioni e culture.

Ripartire dalla Bibbia, da rilanciare con le dovute metodologie, nelle chiese, nelle scuole e ovunque si faccia educazione: «Le nuove generazioni, per vivere consapevolmente in una società multireligiosa, hanno bisogno di conoscere e di capire la realtà e la complessità del fenomeno religioso: conoscere e capire è, a un tempo, la condizione di una fruttuosa convivenza e di una matura consapevolezza della propria identità. Della quale la Scrittura, piaccia o no, almeno in Occidente, fa parte da tempo immemorabile» (p. 145).

Ripartire da una fede in Gesù Cristo che tenga insieme atteggiamento dialogico e annuncio profetico, che riconosca «i raggi di verità divina che si trovano all’interno delle religioni del mondo» e insieme annunci «senza esitazioni, fedelmente […] il nome, la visione e la Signoria di Gesù Cristo» (p. 123). Alla scuola di tanti maestri, tra i quali spiccano, sullo sfondo del Concilio Vaticano II, papa Francesco, Raimon Panikkar, Bruno Hussar.

Maestri e profeti per questo tempo
Papa Francesco con il suo ecumenismo del «poliedro», la sua proposta di una unità tra cristiani in cui ogni parte, diversa dall’altra, conserva la sua peculiarità e il suo carisma (p. 73); con il riconoscimento – in documenti come quello firmato ad Abu Dhabi sulla fratellanza umana (2019) e l’enciclica Fratelli tutti (2020) – di una Chiesa che «come non integra e non prende il posto di Israele, allo stesso modo non integra e non sostituisce la parte di verità religiosa di cui un’altra religione può essere portatrice» (p. 79).

Bruno Hussar, domenicano ebreo vicino agli arabi, fondatore del villaggio della pace di Neve Shalom/Wahat as-Salam, è convinto che «Gesù è ebreo e lo è per sempre», e che, a partire dalla sua umanità storicamente ebraica, occorra «camminare in una vita personale e comunitaria, il più possibile umana e umanizzata» (p. 178).

Raimon Panikkar, il teologo indo-spagnolo che nella sua originale dichiarazione di fede («Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e son ritornato buddhista senza mai smettere di essere cristiano») incarna il «bisogno vitale del cristianesimo di inculturarsi coraggiosamente nelle più frastagliate tradizioni» (p. 147).

Tutti maestri che interpretano nelle loro diverse realtà lo stile di Gesù: stile del dono, della relazione, dell’ospitalità che Salvarani indica al presente e al futuro dei cristiani.

Grande cultore di letteratura raffinata e popolare, di canzoni e di cinema, l’autore regala ai suoi lettori citazioni e passaggi tra i più toccanti che si possano leggere e ammirare nella produzione contemporanea. Come l’autobiografico Servabo di Luigi Pintor (1991): «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». Come la fiaba del film Il pranzo di Babette (1987), grande parabola di «carità ospitale» e del miracolo di ritrovata armonia che può sorgere dal dono amoroso di un’arte e di una vita.

Operando nel contesto di un paesaggio sempre più secolarizzato, e insieme affollato di proposte spirituali, teologiche, etiche variegate, per le Chiese cristiane c’è davvero da «rimboccarsi il pensiero», come raccomanda Salvarani. Che dona un contributo doppiamente “necessario”: perché ricco di voci e sollecitazioni per riflettere su un presente ineludibile; perché animato dallo sguardo fiducioso di un confronto possibile e di una partita aperta, da giocare come cattolici nel cammino del Sinodo, occasione e scommessa di nuove possibili narrazioni, anche nel nostro tempo, di una buona Novella.