San Francesco e l’invenzione del presepe

di: Angelo Angeloni – settimananews.it

libro Il presepe di san Francesco – Storia del Natale di Greccio [il Mulino, Bologna, 2023]

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Quando i seguaci di Francesco divennero numerosi, e mutò lo spirito di assoluta povertà che aveva unito i primi di essi, mutò la regola, e lo stesso Francesco non fu più seguito nelle decisioni pratiche di vita che mutava, egli, «come Cristo sul Monte degli Ulivi, inizia una lunga agonia spirituale; si ritira sempre più negli eremi, fugge la compagnia dei suoi fratelli, spesso ha per loro parole aspre e dure».

È «il periodo che i biografi definiscono della “grande tentazione”, tentazione di abbandonare tutto, di disinteressarsi completamente della comunità, forse di non avere più fiducia in Dio».1

Allora, sperimentò la solitudine tremenda del Getsemani. Era il 1223, tre anni prima della morte, e si era ritirato a Greccio.

Il presepe di Greccio
Ma chi aveva fatto della vita di Cristo l’esempio da seguire e del Vangelo la regola di vita, poteva sentire la delusione, non la disperazione. Così, volle rivivere un’altra notte, luminosa e gloriosa: la notte del Natale di Gesù, per ricordare il «fanciullo che è nato a Betlemme e vedere in ogni momento con gli occhi del corpo i disagi e le ristrettezze della sua nascita, come fu adagiato in una greppia e posto sul fieno tra il bue e l’asino».2

Chiamò un suo caro amico, affinché gli preparasse una mangiatoia (presepe) piena di fieno, un bue e un asino.

Su questo presepe altamente significativo si sofferma Chiara Frugoni nel bellissimo libro Il presepe di san Francesco – Storia del Natale di Greccio [il Mulino, Bologna, 2023], in cui analizza, servendosi anche di illustrazioni di affreschi e miniature, l’episodio di quel Natale descritto da Tommaso da Celano nella Vita del beato Francisco, con un’interpretazione davvero suggestiva.

Nel presepe di Greccio non c’è il bambinello, reale o raffigurato, come è in rappresentazioni già prima di questo; ma lo crea la forza oratoria della predica che Francesco fece quella notte, e che toccò il cuore degli astanti, a tal punto che uno di essi vide «giacere in una greppia un bimbo esamine, e il santo di Dio avvicinarglisi e quasi destarlo dal sonno».3

Questa visione – commenta Frugoni – «risarcisce il vuoto della mangiatoia» (p. 37). È la forza della riflessione che genera la visione. Questo voleva Francesco: che si meditasse sul Bambino posto nel cuore di tutti, così che, ovunque nel mondo si ripetono le condizioni di umiltà e povertà nelle quali nacque, tutti possano rivivere l’evento di allora.

E quando Cristo si porta nel cuore, non occorre visitare i luoghi della sua vita, perché essi diventano luoghi dell’anima. Così, nella nuova Betlemme di Greccio, Francesco ridestò il Cristo dimenticato in molti cuori.4 La Chiesa lo fa quotidianamente con l’eucaristia.

Il senso del Natale
Nell’eucaristia è il senso del Natale di Francesco che Chiara Frugoni analizza, partendo da ciò che Tommaso da Celano racconta; e cioè che «quando [Francesco] diceva Bethlehem belava come una pecora, riempiendosi tutta la bocca di quel suono, ma ancor più di tenerezza».5 Il riferimento alla pecora richiama l’agnello immolato.

Il presepe di Greccio, scarso di elementi ma di straordinaria ricchezza spirituale, offre allora una profonda simbologia eucaristica. Se, infatti, Betlemme è la «casa del pane», il Bambino che vi nasce è «il pane vivo disceso dal cielo»;6 e ogni chiesa è Betlemme, ogni altare un presepe: «un presepe eucaristico» (p. 39).

E «dove un tempo gli animali si sono pasciuti di fieno, là gli uomini del futuro per la salvezza dell’anima e del corpo mangino le carni dell’agnello immacolato e senza difetto, Gesù Cristo nostro Signore».7

In tre punti dello stesso capitolo (2,7.12.16) Luca ricorda la mangiatoia, perché essa è un segno, come la croce. E noi «non abbiamo alcun altro segno così grande ed evidente della nascita di Cristo, quanto il corpo e il sangue di lui che assumiamo quotidianamente al santo altare. E colui che nacque dalla Vergine, ogni giorno lo vediamo immolato per noi».8

In questo presepe eucaristico, i segni del primo sono nel secondo. Infatti, come Maria avvolse in fasce il bambino e lo pose nella mangiatoia, le pie donne lo avvolgeranno in un sudario e lo porranno nel sepolcro; e noi lo vediamo avvolto sotto le specie del pane e del vino, che ricordano il fieno. E come il fieno avrebbe guarito gli animali che lo mangiavano e le partorienti che se lo ponevano sul ventre, così guarisce il pane eucaristico.

Mangiatoia-sepolcro-eucaristia
Nella bellissima Icona della natività di Andrei Rublëv, la mangiatoia in cui è posto il bambino fasciato ha la forma d’un sepolcro. E nella Disputa del Sacramento di Raffaello, nei Musei Vaticani, l’ostia chiusa nell’ostensorio sopra l’altare, porta impressa una croce, perfettamente allineata verticalmente con la Trinità nella zona sovra celeste. La salvezza promessa da Dio nel Protovangelo del Genesi, inizia con il Natale di Gesù.

Nella notte santa, un esercito di angeli cantò la pace che il Bambino era venuto a portare agli uomini che la desiderano, e desiderano portarla dove ci sono guerre e odi.

La pace, è l’altro significato del presepe di Francesco, proprio quando imperversavano guerre e crociate, organizzate per strappare dalle mani degli infedeli i luoghi santi. Ma quale diversità con la volontà di Francesco! Le une usavano le armi, l’altro l’amore e la pace. I papi erano severi con chi non vi partecipasse; ma Francesco disobbedì alle direttive papali: non ne predicò una, né fece propaganda, né tanto meno vi partecipò. Il suo fu un «silenzioso e deciso rifiuto della violenza in nome di Dio» (p. 52). Egli anzi proibì tutte le armi, anche quelle della parola usata per convertire.

Andò anche lui in Oriente: non contro, ma tra gli infedeli. Voleva che si evitassero liti e controversie, e raccomandava solo l’esempio, che necessariamente nasce dalla fede che in esso risplende. Mai espresse un giudizio negativo, tanto meno insulti, sulla religione musulmana. Anzi, «rimase così colpito dalla preghiera dei muezzin che su quel ricordo fosse esemplata la preghiera dei cristiani quando lodavano Dio» (p. 63).

Nel suo messaggio di pace, il presepe di Francesco si oppone, quindi, alla crociata. Si comprende allora – dice Chiara Frugoni – perché «bisognava cancellare il messaggio della predica [di Natale], troppo disturbante per una Chiesa in armi, per un ordine che aveva approvato una nuova regola, la quale aveva di fatto abolito il rivoluzionario modo di Francesco di rapportarsi con chi credeva in un’altra religione» (p. 108).

La speranza
E il presepe cambiò: non si modellò più sulla vita di Tommaso da Celano, ma sulla Legenda maior di san Bonaventura, la sola biografia ufficiale. E Chiara Frugoni esamina puntualmente tale cambiamento, legato alle controversie interne all’ordine francescano.

Oggi in cui il presepe, abbellito di fronzoli, ha perduto tutto il suo significato spirituale, Francesco ci ricorda che ogni Natale è la nascita di Cristo nel cuore di quanti hanno dimenticato l’amore e la pace. È speranza di quanti vivono nel bisogno, lo stesso in cui si trovò la Sacra Famiglia.

Ci invita al rispetto delle altre fedi, perché anche in esse e nei loro libri c’è il nome di Dio, che tutti devono lodare e gloriare. Il comportamento che raccomandava ai fratelli, il solo degno di fede, chiedeva rispetto reciproco. Dichiarare di essere cristiani voleva dire (vuol dire) essere portatori di pace.

Tutto l’insegnamento di Francesco si comprende nella diversa visione di Dio rispetto ai suoi contemporanei che predicavano la guerra, mentre Dio è di tutti e creatore di tutto; ed è Dio di pace e di misericordia. Il bue e l’asino, simboleggianti ebrei e infedeli, sono intorno a lui nel presepe. Un messaggio che il Canticum creaturarum suggella poeticamente e devotamente.

1 Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi; Einaudi, Torino 1995; 111 ss.

2 Tommaso da Celano, Vita del beato Francesco, XXX, 84, 8; in Claudio Leonardi (a cura), La letteratura francescana – le vite antiche di san Francesco, vol. II; Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori, Milano 2005, 163.

3 Ivi, XXX, 86, 7.

4 Ivi, XXX, 86, 8.

5 Ivi, XXX, 86, 4.

6 Gv 6,41.

7 Ivi, XXX, 87, 5.

8 Aelredo di Rievaulx, citato da Chiara Frugoni a p. 39.

I profeti: parole dure e feconde

di: Roberto Mela in settimananews.it

Massimiliano ScandroglioUna parola dura, ma feconda. Il linguaggio difficile della profezia e la sua portata “evangelica”, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2023, pp. 192, € 22,00 (qui)

L’autore di questo testo, Massimiliano Scandroglio, è docente stabile di sacra Scrittura nella Sezione parallela della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale presso il Seminario di Milano (sede di Venegono Inferiore). Egli si pone in continuità ideale col volume di Galbiati-Piazza Pagine difficili della Bibbia (1951), che ha avuto enorme fortuna, con varie riedizioni. Non intende perseguire alcuno scopo apologetico ma, come gli autori a cui si ispira, cercare di spiegare alcune pagine difficili della letteratura profetica, in particolare dei Profeti Minori.

Ogni libro biblico è parola di Dio incarnata in parole umane, che sono debitrici del loro tempo, rispetto alla cultura, al linguaggio, ai simboli, alla storia concreta in cui espongono il loro messaggio… Occorre saper decifrare il contenuto essenziale che i profeti intendono esporre, servendosi di immagini anche riguardanti Dio che possono urtare la sensibilità moderna e anche un lettore cristiano che non inquadri i libri dell’AT nell’insieme della rivelazione biblica, portata al culmine nella persona di Gesù.

Ogni libro biblico parla più o meno da lontano di Gesù e del suo Dio, il Dio biblico. Bisogna cogliere l’intenzione profonda del messaggio profetico, che è sempre annunciare l’azione salvifica di Dio.

La letteratura dell’AT ha i suoi limiti e le sue contingenze, ma ne mostrano anche i testi del Nuovo Testamento, con il loro linguaggio particolare da interpretare e da attualizzare.

Scandroglio analizza pagine profetiche che suscitano incomprensione e perplessità. Se però esse sono accostate con empatia e intelligenza, fanno scoprire il medesimo Dio che mostra la propria natura paterna nei confronti di Israele e dell’umanità intera. La contingenza del testo non deve ostacolare il raggiungimento di questo scopo. «Da credenti possiamo intuire che la posta in gioco è alta – scrive l’autore –: ne va della verità dell’incarnazione, che conosce nella materialità della Bibbia e del suo modo di parlare di Dio la sua più eloquente attestazione» (p. 8; viene poi citato il passo di Dei Verbum 13).

Lo studioso analizza alcuni brani dei Profeti Minori, così da confrontarsi in modo diretto con il linguaggio biblico e la sua contingenza, ma evitando in tal modo di esaminare i diversi soggetti in maniera troppo teorica e sganciata dalla loro effettiva espressione letteraria. Le pericopi profetiche studiate faranno emergere il contenuto di verità: «l’iridescenza del mistero di Dio nella materialità del parlare e dello scrivere umano» (p. 9).

Amos: inevitabilità della fine

L’autore studia cinque tematiche presenti nei testi dei Profeti Minori.

Scandroglio analizza dapprima il tema dell’inevitabilità della “fine”. Seguendo le indicazioni ermeneutiche approntate per questo primo capitolo, si può avere una visione pressoché completa dell’intenzionalità dei profeti nello stendere le loro pagine, a volte molto dure verso il popolo e un po’ “imbarazzanti” a prima vista per il credente circa il volto di Dio presentato. Quel che vale per Amos vale per tutte le pericopi dei Profeti Minori analizzati nel libro.

Il libretto delle visioni di Amos (Am 7–9), col suo linguaggio aspro e diretto, mostra Dio che cerca di persuadere il profeta dell’urgenza di rispondere al peccato del popolo, nella speranza, mai sopita, di un suo ravvedimento, che possa rendere fattibile la riconciliazione. Si esaminano le visioni delle cavallette e del fuoco, quelle del piombino e del cesto di frutta e, infine, quella della strage al tempio.

Amos tenta, invece, di convincere il Signore a pazientare, verosimilmente in attesa che il suo ministero profetico possa dispiegarsi e portare gli auspicabili frutti. Il profeta ricorda al Signore la necessità di un castigo che sia proporzionato alla colpa e alla condizione di Israele; un castigo che non sia sfogo irrazionale di rabbia, ma ponderata strategia in vista della conversione (possibile) del colpevole.

Il rifiuto ostinato di Dio da parte del popolo, già denunciato, porta a un esito necessario e inderogabile sul quale convergono Dio e il suo profeta: la fine («È giunta la fine del mio popolo Israele!»: 8,2).

Al di là dei tratti radicali con i quali essa viene descritta, è indubitabile che questa fine (l’esilio) non possa che essere un passaggio ulteriore, aperto verso un futuro che ora è affidato solo a Dio e alla sua invincibile volontà di salvezza. «La fine, per come Amos la percepisce e la descrive, è esperienza di morte; ma di una morte che, per grazia, è preludio a una potenziale risurrezione» (p. 31).

L’auspicio inespresso del profeta di Tekoa diventerà per i suoi successori una certezza sempre più solida: «anche nell’oscurità della fine – fuor di metafora, la distruzione e l’esilio – Dio può afferrare il suo popolo e ricondurlo alla luce della vita» (ivi). Amos comunica la sua esperienza spirituale, ma intende coinvolgere il lettore, modificandone il modo di pensare, di giudicare, di agire e di credere.

La durezza della predicazione di Amos può suscitare perplessità, ma «essa non ha altra finalità se non quella di aiutare Israele – ormai in preda alla morte! – di lasciarsi salvare. La raccolta di Am 7–9 risulta, così, un aiuto fenomenale a cogliere l’intenzionalità salvifica inscritta in ogni pronunciamento profetico, anche in quello più duro e dall’apparenza senza speranza. Perché – prosegue l’autore – alla fine, se Dio parla è perché cerca sempre e comunque la conversione e la redenzione del suo popolo. Ogni parola che viene da Dio è per la salvezza di Israele» (p. 32). Il vero dramma sarebbe il silenzio di Dio! Amos lo ha minacciato, ma non si è realizzato in toto.

È stata pronunciata la parola “fine”. «Fine, però, non anzitutto per Israele in quanto tale – precisa Scandroglio –, ma per quella storia di peccato, che lo ha visto insipiente protagonista. Quindi, una parola che, per quanto difficile da comprendere e da accogliere, è risuonata nella tradizione biblica come (sconvolgente) “buona notizia”: al peccato e alle sue conseguenze è posto un termine, mentre il futuro resta affidato alla misericordia di Dio» (p. 32).

Michea: la responsabilità dell’uomo

La pericope di Mi 3,1-12 offre il materiale per studiare la seconda tematica: la responsabilità dell’uomo nella distruzione annunciata.

Michea denunzia la corruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. Viene rivolta una pesante accusa contro i governanti, amanti del male e oppressori del popolo. Ai profeti, invece, viene contestata la loro avidità di denaro e di consenso. Alle autorità viene addossata la responsabilità della rovina di Sion.

Il dramma ha una sua complessa paternità. L’immaginario assunto nell’esposizione del delitto è giustificato nella sua asprezza proprio dal tentativo di rendere per quanto possibile la gravità del misfatto in oggetto. L’obiettivo è quello di impressionare il lettore, suscitando in lui una netta ripulsa nei confronti di un’attitudine senza senso e priva di ragioni condivisibili.

A Michea interessa trasmettere la sua emozione negativa che prova di fonte a un’élite che ha drammaticamente tradito il suo mandato. Universi simbolici diversi disegnano una devastazione assoluta e senza apparente soluzione.

Michea denuncia la paternità della situazione drammatica, denuncia la responsabilità degli uomini nel distruggere le relazioni e nel trasformare la città in un ambiente malsano e invivibile. La città di Gerusalemme è costruita sul sangue, la devastazione futura appare come il compimento di un processo già ben avviato. Quando l’uomo, libero nelle sue scelte, non segue la volontà di Dio e il suo progetto di vita, si abbandona al proprio desiderio istintivo di auto-sufficienza e di auto-determinazione e diviene causa di morte per sé e per gli altri.

Dio viene coinvolto nel processo, quando si descrive il suo silenzio. Dio nasconde il suo volto in risposta alla preghiera dei potenti. All’incapacità radicale dell’ascolto da parte di Israele, Dio interrompe il dialogo con lui, condannandolo alla morte. Se la relazione con Dio è per l’uomo sinonimo di vita, l’interruzione della stessa non può che equivalere a una sentenza di morte. Buio, tenebra, silenzio sono simboli efficaci per descrivere la fine della relazione dialogica fra Dio e Israele.

I potenti hanno schiavizzato il fratello e hanno trasformato Dio in un idolo a proprio uso e consumo. È una fede falsa e Dio a questo gioco si sottrae. Il Signore non può assecondare l’ingiustizia. Il suo silenzio è segno della sua non-connivenza col male perpetrato e un estremo appello al suo popolo perché rifletta su di sé e sul proprio comportamento e si disponga a una conversione reale.

Una frase di Scandroglio è illuminante. «Anche se il testo di Michea non dichiara in modo limpido questa finalità del pronunciamento divino, è la letteratura profetica nel suo complesso a ricordarci che il parlare di Dio – sia esso minaccioso, esortativo o consolante – è sempre atto di grazia: ha sempre, cioè, come obiettivo ultimo la redenzione di coloro ai quali si rivolge. Nella minaccia è sempre insito un richiamo (quasi disperato) alla conversione!» (p. 57).

Sui leader che hanno pensato solo a sé stessi, trascurando i diritti e le necessità del prossimo, si abbatterà la miseria che loro hanno portato in Israele. «Dio manifesterà aperta indifferenza per la loro condizione, in modo tale che possano – si spera – comprendere la portata del loro peccato» (ivi).

Michea intende il suo compito profetico come quello di «un latore di un messaggio di sventura, che gli domanda di stare all’opposizione rispetto a un potere corrotto e corruttore, pagandone in prima persona le conseguenze, nella speranza che tutto questo possa aiutare Israele – autorità comprese! – ad accogliere l’offerta salvifica di Dio. A lui è chiesto di confrontarsi, di rimproverare, di denunciare, perché sia chiaro che colui che lo ha mandato non ha taciuto di fronte al peccato del suo popolo» (p. 58).

Michea consegna un annuncio di sventura che accusa senza mezze misure il presente e le sue storture; un presente segnato dall’idolatria del potere e dall’interesse personale. «All’apparenza – conclude Scandroglio – una simile profezia potrebbe sembrare del tutto negativa e priva di qualsiasi scintilla di speranza, ma non è così. La distruzione violenta di Gerusalemme è prima di tutto distruzione di un potere corrotto, è liberazione dal giogo di un sistema disumano; quindi, l’annuncio di tutto ciò equivale a ricordare al mondo che – per grazia di Dio – il male nella sua storica e concreta configurazione ha i giorni contati!» (p. 58).

Naum: la lotta di Dio contro il male nella storia

Il brano di Na 3,1-19 illustra la lotta di Dio contro il male nella storia.

Viene espressa una sentenza su Ninive, capitale degli assiri, nemici storici di Israele. Si eleva un forte lamento sulla città sanguinaria e se ne preannuncia la fine. È una sventura senza rimedio. «Un linguaggio arduo nella forma ma dolce nell’intento», conclude lo studioso.

La letteratura biblica tende a personificare il male in soggetti ben precisi. Ninive è simbolo di tutte le dinamiche perniciose della storia, che portano al trionfo dell’ingiustizia. Da concreta città della storia, sotto la penna di Naum Ninive diventa un simbolo contro cui Dio investe tutta la sua potenza (sempre e solo salvifica).

La destinataria dell’atto di accusa non è alla fine Ninive in quanto tale, ma ciò che essa rappresenta e in qualche misura incarna. Ninive ha ormai cessato in concreto di esistere, ma la città uscita dalla scena della storia entra nel campo del mito, diventa per Naum l’emblema cristallino di tutte quelle forze oscure che si oppongono al disegno salvifico di Dio e contro cui Dio stesso esercita la propria autorità di giustizia.

Il coinvolgimento da parte del Creatore è reso spesso con un linguaggio che non incontra la sensibilità del lettore contemporaneo. Dio appare come comandante in campo che guida le sue truppe alla conquista della città nemica. La guerra era un’esperienza della vita quotidiana del mondo antico. È quindi naturale che il linguaggio bellico dia un contributo alla teo-logia e sia in qualche modo assunto per parlare di Dio e del suo agire salvifico nella storia.

In primo luogo, Dio è mostrato come direttamente coinvolto nella rivelazione e nella distruzione del male, smentendo ogni infondata accusa di indolenza di fronte al dramma della storia.

In secondo luogo, si trasmette la certezza (di fede) che questa impresa divina avrà pieno successo e le forze diaboliche della storia saranno sconfitte dalla vittoria dell’Onnipotente.

In terzo e ultimo luogo, si deve manifestare una chiara corrispondenza fra il male concretamente denunciato e la fisionomia del castigo messo in atto dal Signore, in modo tale che non appaia un comportamento arbitrario, per non dire irrazionale. «Solo tenendo adeguatamente in conto tali dimensioni del linguaggio usato soprattutto dalla profezia, diventa possibile – annota Scandroglio – accostare questi testi con cognizione di causa, cogliendone l’intento a tutti gli effetti “evangelico”» (p. 82).

La lotta di Dio è contro il male, non contro il malvagio! – prosegue l’autore –. «Anche l’uomo peccatore, infatti, è vittima del male che compie; pertanto, l’azione di giustizia di Dio, che ha sempre una finalità salvifica, non può che coinvolgere anche lui, sul presupposto necessario di un’effettiva volontà di conversione da parte sua» (pp. 82-83).

Nella Scrittura, l’attenzione divina non si concentra tanto sul destino del malvagio quanto su quello delle vittime. L’atto storico di Dio non persegue un intento “vendicativo” in senso stretto, ovvero di ripagare il male contro il male, quanto un intento di “giustizia”: ristabilire l’equilibrio delle relazioni, ferito dal peccato.

Beneficiari dell’intervento divino sono le vittime dell’ingiustizia ma anche i carnefici che, senza rendersene conto, ne sono divenuti a loro volta vittime. L’azione salvifica di Dio non può dimenticarsi del carnefice e della liberazione dal male di cui anch’egli ha disperato bisogno.

La profezia di Naum, concentrata sulla condizione delle vittime, fa cogliere bene lo scopo ultimo del parlare profetico: la consolazione. Il profeta fa un’“opzione per i poveri”: si pone anzitutto nella prospettiva di lettura delle vittime, nel tentativo di offrire una parola che sia per loro motivo di conforto e di sostegno per la fede. Le vittime sono i primi destinatari delle parole profetiche. Essi hanno bisogno di essere sostenuti nelle loro fatiche con la certezza che Dio non si è dimenticato di loro.

Una lettura sapiente del testo profetico deve partire dalla conoscenza dei destinatari storici della parola ispirata, di quali fossero le contingenze da loro patite e, dunque, di quale messaggio salvifico essi avessero veramente bisogno. Altrimenti, non si fa vera esegesi, ma si impone al testo, in modo maldestro e deleterio, la propria sensibilità.

Osea: il castigo in vista della conversione

La pericope molto conosciuta di Os 2,4-25 illustra per Scandroglio il tema del castigo per la conversione. Egli analizza, dapprima, la metafora matrimoniale in Osea. Studia poi i versetti che contengono l’accusa contro la sposa infedele (vv. 4-17) e quelli che annunciano il giorno di una nuova alleanza (vv. 18-25).

Tutto per la salvezza di Israele, conclude lo studioso.

Quel che fa problema in questo testo è il concetto di castigo, che va ben interpretato. Purtroppo si pensa ad un’azione che non abbia innanzitutto una finalità positiva (in particolare educativa), ma solo retributiva – per non dire vendicativa. Un pregiudizio difficile da scardinare.

Nella Bibbia il castigo ha un’assoluta e prioritaria valenza pedagogica nei confronti del peccatore. Il castigo è uno strumento che, per quanto radicale, non può essere pensato al di fuori di questa unica legittima finalità. Il discorso biblico sul castigo prende senso solo in vista di tale precisa intenzione educativa: «il peccatore deve essere reso consapevole della gravità di ciò che ha commesso, quasi sperimentando sulla propria pelle il male che ha contribuito a diffondere e a consolidare» (p. 115).

Senza questa presa di coscienza, che il castigo contribuisce potenzialmente a far maturare, «il perdono – come disponibilità alla riconciliazione – non potrebbe manifestare tutta la propria fecondità; resterebbe un’azione certamente meritoria, ma sostanzialmente inutile, incapace di sanare davvero le relazioni ferite dal peccato. Un autentico superamento del peccato e delle sue conseguenze, invece – sottolinea l’autore –, non può che partire dal rinnovamento (non formale) di colui che lo ha compiuto» (p. 115).

Il secondo concetto decisivo della teologia biblica da ripensare è quello della giustizia. Con questo termine non si intende anzitutto la corrispondenza formale con un corpus normativo, ma l’equilibrio fecondo delle relazioni (a diversi livelli e in diversi contesti). Il castigo appare come l’extrema ratio nel tentativo di recuperare questa condizione di armonia che il peccato ha infranto. Ogni peccato intacca l’armonia e l’equilibrio, richiedendo una serie di azioni che permettano di ripristinarlo.

Nel contesto di relazioni fra due soggetti, il colpevole e la vittima, non è sufficiente che la vittima si mostri disponibile alla riconciliazione. Occorre che il colpevole manifesti altrettanta disponibilità, che passa per il riconoscimento sincero della propria colpevolezza e dalla volontà fattiva di riparare – se possibile e per quanto possibile – il danno arrecato. Il castigo, nelle forme più disparate, favorisce il raggiungimento di questo scopo. Un’ottima esemplificazione di queste dinamiche relazionali complesse è rappresentata dai testi biblici riconducibili al genere letterario del rîb (di cui Os 2 è un esempio).

Può accadere che il peccatore castigato non riconosca le proprie responsabilità; la virulenza del peccato nell’intaccare e nel corrompere la coscienza può condurre a una situazione di impasse, dove anche questo strumento risulta improduttivo. Può accadere che Israele non dia alcun segnale di ravvedimento. «La letteratura profetica si ferma su questa soglia misteriosa e a suo modo drammatica, nella speranza sincera che, investito dall’amore di Dio e confrontato con il rischio concreto della propria morte, anche Israele, popolo “dalla dura cervice”, possa intraprendere la via del ritorno» (p. 116).

La possibilità del castigo, letta in questi termini, rivela tutta la propria dimensione positiva e promettente: è il primato dell’iniziativa salvifica di Dio a giustificare il ricorso allo strumento della punizione. «Avendo come obbiettivo unico la redenzione del suo popolo, Dio è pronto anche a ricorrere a una sempre ponderata e ragionata punizione, perché Israele si ravveda e l’alleanza possa tornare a fiorire» (p. 117).

Sofonia: il Giorno di YHWH, culmine e paradigma del castigo

Nell’ultimo capitolo del suo volume Scandroglio affronta il tema del Giorno di YHWH descritto da Sofonia.

Dapprima viene presentato il tema così com’è descritto nei profeti e in Sofonia. Si studia in particolare la pericope di Sof 1,2–2,3. In essa si annuncia la fine per il mondo e per Giuda (1,2-6); segue l’annuncio del Giorno per Giuda (1,7-13), l’annuncio del Giorno per il mondo (1,14-18) e infine si prospetta una salvezza possibile (2,1-3).

Il Giorno di YHWH si caratterizza non come semplice lasso temporale, ma come evento caratterizzato dalla presenza potente del Signore, e, dunque, radicalmente singolare nel panorama storico. In occasione di questo momento originario il Dio di Israele rivela sé stesso e interviene per fare giustizia. Anche per Sofonia, il Signore non è una divinità sostanzialmente impotente o comunque ignava, come invece pensavano alcuni interlocutori.

L’intervento di Dio può assumere tratti di un evento punitivo o salvifico e interessa principalmente Giuda e Gerusalemme. Sul popolo incombe la minaccia di un castigo, ormai imminente, a causa del suo sostanziale tradimento dell’alleanza. Dio è mosso da una “rabbiosa” determinazione di non accondiscendere al peccato. Ciò non esclude che, a determinate condizioni, il popolo eletto, o un suo resto, possa godere la speranza e la redenzione.

La sovranità di Dio è però universale, senza limiti di spazio e di tempo. C’è la tendenza a un’universalizzazione del giudizio divino che, oltre alla comunità umana, interesserà la totalità della creazione.

Si discute se in Sofonia il Giorno di YHWH sia un evento storico o escatologico. Per Scandroglio non occorre scegliere.

Inizialmente la minaccia contro Giuda nel periodo di Giosia era finalizzata a combattere l’influsso variegato della cultura assira e a richiamare il popolo alla necessaria conversione.

In epoca esilica fu ripresa per giustificare la catastrofe della distruzione di Gerusalemme e il miracolo della sopravvivenza di un “resto”. In una fase successiva, le parole del profeta sarebbero state rielaborate allo scopo di prefigurare, invece, il giudizio escatologico universale.

Scandroglio esamina le pericopi di Sofonia che riportano ammonizioni e minacce, anche di portata universale e cosmica, alcuni detti sul Giorno di YHWH (la forma più caratteristica che assume il giudizio divino in Sofonia) e varie esortazioni alla conversione, nella speranza di sfuggire al dramma imminente.

L’annuncio del giorno di YHWH, in Sofonia, come negli altri profeti, è mosso e sostenuto da una convinzione: la premura di Dio per il ristabilimento della giustizia nella storia. Nella lettura di queste pagine va colta questa passione viscerale, espressa in densità teologica, alta qualità letteraria che, però, può lasciare talvolta sconcertati per l’immaginario distruttivo impiegato.

Nella tradizione cristiana il Giorno di YHWH è stato identificato col Dies Irae medioevale. Nella profezia biblica esso è un evento di natura poliedrica e dagli esiti non scontati, ma radicato nel cuore di Dio. Egli vive una passionale preoccupazione e un fattivo coinvolgimento affinché il volto sfigurato della storia possa recuperare l’“originaria” bellezza. Il lettore deve sempre tener conto di questo fondamento della tematica, pena l’interpretazione errata e dannosa del concetto.

La premura divina è soprattutto rivolta alle vittime dell’ingiustizia. Dio si interessa concretamente dei poveri della storia. Questo motiva la sua intenzione di imprimere quanto prima a questa stessa storia una svolta radicale e irrevocabile.

Le parole accusatorie di Dio sono indirizzate in modo esplicito a determinate categorie sociali, ritenute responsabili della situazione attuale.

Il prossimo evento universale di giudizio, che chiamiamo Giorno di YHWH, è messo in moto dalla premura di Dio per il ristabilimento della giustizia e dalla premura per le vittime della mancanza di giustizia. Davanti alla storia degli uomini abitata da dinamiche usuali e deleterie, che feriscono la dignità di alcuni per preservare l’interesse di altri e che sono talmente radicate che agli occhi appaiono intangibili e inattaccabili, il profeta annuncia a nome di Dio che a tutto questo sarà posto termine.

Non sarà l’ingiustizia ad avere l’ultima parola sulla storia degli uomini!

Sofonia parla anche ai prepotenti che, nella loro tracotanza, si fanno perfetta espressione di un esecrabile ateismo pratico. Il loro peccato è a livello etico e sociale, ma anche teologico, presupponendo un’immagine del tutto distorta di Dio. Attribuiscono a Dio le loro perverse qualità, convinti che Dio non è coinvolto effettivamente nelle vicende umane. Un Dio assente, che non fa né bene né male. Sofonia annuncia un messaggio contrario: è un dato di fatto – anzi di fede! – che il Dio di Israele è coinvolto nella storia degli uomini e il che il Giorno ne sarà il sigillo palese definitivo.

L’intervento divino – non necessariamente “escatologico” – avrà come effetto quello di confermare come, al di fuori della relazione con lui, non vi sia per l’uomo alcuna possibilità di salvezza. I potenti e le potenze del mondo cercano di assicurarsi la vita ponendo la loro fiducia in mezzi – in primis il denaro – che si riveleranno alla fine fallimentari e fonte solo di delusione.

La proclamazione del Giorno di YHWH è così «anche un grido rivolto all’umanità a riconoscere come lontano dal Dio di Israele non possa esserci redenzione». Lo sguardo di profondità del profeta vede tutto questo evidente fin d’ora. Ma un giorno tale evidenza sarà per tutti, in particolare per coloro che si ingannano su come garantirsi l’agognata salvezza.

Ben precisato a livello ermeneutico, il Giorno di YHWH resta un evento di salvezza che mira alla conversione dell’uomo e alla redenzione. «Nella storia “drammatica” dell’alleanza fra Dio e l’umanità, il Giorno appare come l’ultimo atto che non smentisce, anzi pienamente ne conferma, l’intenzionalità salvifica» (p. 148).

Utile strumento

Dopo la conclusione, segue la bibliografia, l’indice degli autori e delle citazioni (bibliche e non bibliche).

Il volume di Scandroglio sarà molto utile per accostare testi profetici difficili da comprendere e da attualizzare nella sensibilità odierna, in quanto egli decodifica immagini e concetti lontani dalla nostra epoca ma decisivi e centrali nella letteratura biblica, che vanno interpretati in modo corretto e non deformati con l’imposizione della propria sensibilità personale. Ne va di Dio, della sua rivelazione e della certezza di fede che Dio agisce sempre per una giustizia salvifica.

 

Libro. La lettura della Bibbia rende presente il Signore Gesù

di: Roberto Mela in settimananews.it
  • Frédéric MannsSinfonia della Parola. Leggere, capire e meditare la Bibbia (La Bibbia e le parole), Edizioni Terra Santa, Milano 2023, pp. 288, ISBN 9791254712122 (qui).

Frédéric Manns è stato un grande esperto adorante della parola di Dio, spiegandola a livello accademico nello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme e in molti altri contesti: conferenze, ritiri, articoli divulgativi… Molti di questi sono comparsi anche sull’Osservatore Romano.

Lo studioso si caratterizzava per la sua profonda conoscenza dello sfondo ebraico del Nuovo Testamento e della tradizione rabbinica in genere. Il suo volume intende aiutare a gustare la parola di Dio nella lectio divina: cosa dice il testo in sé, cosa dice a me, come rispondo al mio Dio, come agire per metterla in pratica? Attenzione, intelligenza, giudizio, decisione. Quattro tappe per far diventare la parola di Dio vita della propria vita.

L’intelligenza delle Scritture

Nell’introduzione dedicata all’intelligenza delle Scritture (pp. 13-24) Manns ricorda che la lettura della Bibbia rende presente il Signore Gesù e il suo Spirito la rende attuale e viva per la Chiesa.

La Commissione Biblica ha illustrato vari metodi e approcci al testo biblico, ma quello storico-critico resta fondamentale. Nessuna interpretazione può essere totalmente individuale, ma la Parola va letta nello Spirito che l’ha composta e in comunione con la Tradizione ecclesiale. L’interpretazione cristiana dipende in larga parte dalla Sinagoga, ma la sua peculiarità è l’interpretazione cristologica.

Gesù è il compimento delle Scritture ed esse vanno lette alla luce di Gesù, della sua parola e della sua vita, a partire dalla sua morte e risurrezione. «La Bibbia è la traccia di una storia che Dio cerca di santificare lungo i secoli. Senza la scienza del cuore, essa rimane un libro ermetico, impenetrabile […] Il cristianesimo non è una religione del Libro e la parola di Dio non sussiste al di fuori di una comunità credente. La parola di Dio non vive se non è incarnata e condivisa, giacché essa è introduzione al sacramento» (pp. 15-16).

Le parole della Bibbia compongono una sinfonia, di cui è necessario gustare la varietà dei significati. È quindi necessario conoscere e unire l’interpretazione ebraica a quella cristiana. Il popolo che ha dato Gesù al mondo e il cristianesimo che cerca di vivere il suo messaggio hanno suscitato un vasto dibattito interpretativo, come dimostra il Dialogo con Trifone ebreo di Giustino e il trattato I princìpi di Origene. Un dibattito che va approfondito. Entrambe le tradizioni danno testimonianza a Dio.

La parola di Dio ha una ricchezza inesauribile ed è risorsa essa stessa a esprimere il suo significato mediante dei simboli, perché essa supera i limiti del linguaggio razionale. In essa infatti è contenuto un mistero nascosto da secoli in Dio (cf. Col 1,26). Il simbolismo è a servizio dell’attualizzazione, ma presuppone sempre una base storica e si costruisce sempre a partire da essa.

Per comprendere il Nuovo Testamento è necessario conoscere l’Antico. È vivendo la tradizione totale del Cristo in questa ricapitolazione che si entra in un processo di spiritualizzazione. «La Scrittura ha una triplice dimensione e contiene un dinamismo verticale e orizzontale. Essa possiede un senso letterale, antropologico e pneumatico, in quanto conduce all’ascesa dell’uomo verso Dio. È, infine, una storia in atto, bisogna dunque leggerla storicamente. In conclusione, il lettore che interroga la Scrittura è interrogato, a sua volta, dalla Parola» (p. 17).

Lo studio della Parola e il suo annuncio non si contraddicono, perché è già la Bibbia ad avviare la reinterpretazione e l’attualizzazione dell’esperienza della salvezza. Sul Sinai Dio ha rivelato la sua Parola, recepita come Torah da Mosè. Dio si è fatto conoscere come l’Unico e parlando agisce, perché la sua parola ha una potenza che compie quello che dice. Nell’economia della salvezza la parola dà un senso a tutta la storia, tanto da essere personificata. La parola rivela l’azione di Dio nel mondo.

I profeti approfondirono il messaggio dell’Esodo e vi videro un modello della futura liberazione. I salmisti vi scoprirono il dramma della vita interiore che si rinnova in ciascuno. Dopo l’esilio, Esra inculcò l’obbedienza alla Torah, nel quadro dell’alleanza, per la sopravvivenza del popolo. Insegnò l’obbedienza del Sabato, che distingueva Israele dagli altri popoli. Gli scribi precisarono con minuzia ciò che era permesso e proibito di fare in quel giorno.

Nel giudaismo esistevano varie tradizioni interpretative. A differenza dei farisei, i sadducei non accettavano la Torah orale; gli esseni seguivano il metodo del pesher; il mite Hillel – che con il rigorista Shammai costituiva i più grandi interpreti della Torah – dettò sette regole ermeneutiche, rabbi Ismaël ne formulò tredici. Gesù faceva appello all’autorità di Mosè, dei profeti o di Davide, ma era libero rispetto alle tradizioni aggiunte alla Torah concernenti il Sabato e la purezza rituale. «Ritornare all’intento originario del comandamento e sforzarsi di mettere in evidenza il perché del comandamento: questo il suo disegno – sottolinea Manns –. Il duplice comandamento dell’amore era la sintesi della Torah e dei profeti. Poggiandosi sulla Scrittura, Gesù rivelava il senso della sua missione e si sforzava di mettere in luce il cuore della volontà di Dio» (p. 19).

La comunità cristiana scruta le Scritture per dimostrare che Gesù era il Messia annunciato dai profeti e il kerygma è ricco di citazioni dell’AT. Is 53 e il Sal 22 saranno importanti per comprendere la Passione di Gesù. Gesù è considerato il compimento delle Scritture.

Paolo compie spesso un’interpretazione teologica, vedendo in molti personaggi ed eventi dell’AT dei «tipi» della nuova alleanza o della persona del Cristo (cf. Adamo, l’esodo, Sara e Agar ecc.).

L’allegoria si discosta di più dal senso storico che dalla tipologia. Questa permette di vedere in un evento o un personaggio una lezione nascosta, svela un senso «spirituale» accanto al senso letterale.

La Lettera agli Ebrei istituisce un parallelismo tra antica e nuova alleanza e Melchisedek appare come figura di Cristo. Giovanni, specialmente nel racconto della Passione, mette un accento particolare sul compimento della Scrittura. «Il compimento consiste nel portare la Scrittura al suo senso pieno e alla sua realizzazione. Non poteva realizzarsi che nella persona stessa del Verbo che è il Rivelatore» (p. 20).

Il giudaismo aveva ammesso un doppio livello di lettura, il Peshât e il Derash. La tradizione cristiana conosce a partire dal III sec. una scuola di interpretazione allegorica, il cui centro era ad Alessandria, mentre ad Antiochia si praticava un’interpretazione storica.

Ad Alessandria, Origene, il suo principale rappresentante, distinguerà tre livelli di interpretazione: l’interpretazione storica o letterale, l’interpretazione morale e l’interpretazione spirituale o allegorica, che cerca il significato profondo dietro il senso letterale.

I racconti della Bibbia dovevano avere in ogni caso un profondo significato spirituale nascosto. Il senso letterale rimaneva quello preminente e i passaggi oscuri vanno chiariti alla luce dei brani dal senso più chiaro. Inoltre, il credente deve far conto sullo Spirito Santo che ha ispirato gli autori sacri e illumina i lettori che si accostano al testo con umiltà.

Unico è il Dio che ha donato entrambi i Testamenti. Una è anche la fede. Abramo desiderava vedere il giorno del Signore, lo vide e se ne rallegrò. Nei due Testamenti c’è un unico disegno di Dio che si compie. Mosè ed Elia danno testimonianza a Gesù sul monte della Trasfigurazione. Nel NT la Parola è affidata agli apostoli, che predicano Gesù risorto secondo le Scritture. La Parola cresce continuamente. La Chiesa è generata dalla Parola.

Il percorso del testo«Il percorso che qui presentiamo è semplice – afferma Manns –: cominceremo dalla rapida evocazione dei grandi simboli biblici che permettono di comprendere meglio le Scritture; esamineremo, in un secondo momento, alcuni princìpi ermeneutici ebraici e cristiani, per poi giungere, infine, a una conclusione sulla continuità e la discontinuità di queste letture, ebraica e cristiana» (p. 22).

Alcuni simboli biblici

Nel c. 2 del volume Manns illustra vari simboli biblici della parola di Dio (pp. 25-137).

Dopo aver riflettuto sulla Parola nel suo rapporto col silenzio, egli analizza la Scrittura come il cuore di Dio. La manna è simbolo della parola di Dio, come i quattro fiumi del paradiso sono simboli della Scrittura. Essa è come l’argento, è dolce come il miele, è un pozzo d’acqua viva da scavare, una spada a doppio taglio, un medicamento, il carro di Ezechiele. La Scrittura è una luce, un tesoro, una pianta, uno specchio. L’autore studia la Scrittura, arca di Noè e arca dell’alleanza. Essa è una tromba e la Torah ha un profumo tutto suo.

Verso una teologia della parola di Dio

Il c. 3 dell’opera ha per titolo Verso una teologia della parola di Dio (pp. 138-164).

Manns elabora un percorso in vista del delineamento di una teologia della Parola.

Lo studioso esamina il brano genesiaco dove si ripete il ritornello «Dio disse», con una parola presentata come potenza creatrice performativa, che realizza ciò che dice. Dio annunzia a Giacobbe la sua parola e «la Torah del Signore è perfetta».

Peshât è il senso letterale o storico della parola e richiede critica testuale e letteraria. Il Derash indaga il significato più profondo e nascosto. «Togliti i sandali», comanda YHWH a Mosè al roveto ardente prima di rivelare il suo nome. Rapida corre la parola, un dialogo d’amore tra Dio e l’uomo.

Il Midrash è la ricerca del senso spirituale. La tradizione giudaica avverte che un testo può avere settanta significati e scava come in un pozzo. La tradizione cristiana intravede il senso spirituale della Scrittura nella ricerca tipologica e cristologica. Già l’AT rilegge e approfondisce i temi fondamentali: esodo e nuovo esodo, torre di Babele e caduta di Babilonia, giardino del paradiso e Gerusalemme futura. I profeti si servono di testi già raccolti per annunciare una religione più interiorizzata. Il Cantico dei Cantici e il Sal 40 approfondiscono il tema di Osea e di Ezechiele circa l’unione di YHWH col suo popolo. Il genere midrashico si sviluppa a partire dall’esilio.

Il NT continua l’approfondimento aggiungendovi il senso cristologico. La visione della scala di Giacobbe alludeva per i giudei a coloro che osservano la Torah rivelata al Sinai. Per i cristiani allude alla venuta storica del Verbo tra gli uomini e alla croce di Cristo. Tutto nell’AT diventa “tipo” delle realtà del NT. Il colpo di lancia del centurione al costato di Gesù compie ciò che il bastone di Mosè aveva prefigurato nel percuotere la roccia. La Scrittura è pane e diventa alimento vivificante dopo che è stata consacrata da Gesù. Gesù prese il pane della Parola e la porta a compimento sulla croce. Nella Chiesa parola e sacramento sono strettamente uniti.

I due Testamenti sono uno, e l’artefice della loro unità è Gesù Cristo. L’AT dice che cosa è il Messia, il NT dice chi è. Con la sua morte Gesù cambia l’acqua in vino, portando a compimento l’acqua amara resa dolce dal legno buttatovi dentro da Mosè su ordine di Dio. Eliseo tramuta le acque sterili di Gerico in acque vivificanti. I Padri sottolineano che questo annuncia il cambiamento che il NT compie rispetto all’AT. I due Testamenti sono le labbra della sposa che rivelano il medesimo segreto e donano lo stesso bacio.

Is 45,15-19 ricordano che «Sei un Dio misterioso, Dio di Israele, salvatore». Dio si manifesta e si nasconde allo stesso tempo. Occorre umiltà per arrivare a gustare la parola, figlia uscita dal silenzio. La Bibbia rivela un Dio che entra in alleanza con l’uomo parlando in parole umane. Per l’ebreo Heschel, il senso di questa comunione è triplice: Dio si manifesta ad Abramo come un fuoco e una presenza; il fuoco si trasforma in luce che illumina il cammino; la presenza diventa richiesta esigente quando Dio si rivela a Mosè sul Sinai. I comandamenti accettati incoronano il popolo come lo erano i re e i sacerdoti. La Torah fu data nel deserto in 70 lingue perché nessuno potesse accaparrarsela e ognuno potesse capirla nella sua lingua.

Il Midrash Esodo Rabbah narra che Dio tiene la Torah con due mani e quindi occorre il suo apporto per poter comprenderla e viverla a fondo.

Il terzo della Torah tenuto da Dio simboleggia la sua parte segreta; il terzo tenuto da Mosè evoca il senso letterale accessibile al lettore, il terzo intermedio tra le due parti rappresenta il Derash, la Torah orale trasmessa dalla tradizione.

La rivelazione del Sinai trasmette la memoria di un impegno. Essa dura un istante ma impegna per tutta la vita. «Ogni credente diventa capace di associarsi esistenzialmente in una comunanza di destino con il popolo di cui la Bibbia racconta la storia. Nella coscienza ebraica esiste un legame vitale tra l’avvenimento originale, il testo che lo riporta per iscritto, la comunità che lo riceve e la fede con la quale questa comunità vi aderisce» – scrive Manns (p. 154).

La lettura ebraica fornisce un atteggiamento sapienziale di accostamento alla Bibbia, di cui la Chiesa è erede. La lettura critica si era allontanata dalla fede. Ora si è nuovamente avvicinata, aiutata anche dal faro dell’interpretazione ebraica.

La parola di verità

Il penultimo paragrafo del capitolo medita su La parola di verità.

La verità nella Bibbia non è un concetto intellettuale, per cui ci si domanda se la Bibbia dice il vero o il falso. «La verità nella Bibbia si fonda sull’esperienza religiosa dell’incontro con Dio. Essa traduce la qualità di ciò che è stato provato e manifesta YHWH come il Dio fedele. La sua parola è verità» (p. 155). Il Sal 119 che celebra le meraviglie dalla Torah lo ripete varie volte.

«La Bibbia dice la verità quando insegna il vero volto di Dio e il senso del destino dell’uomo. Ma lo fa con il suo linguaggio orientale. Lo Spirito Santo ha accettato di passare attraverso la mediazione della cultura ebraica e degli autori sacri» (ivi). «Urge situare il testo dell’Antico Testamento nel suo contesto, nella sua cultura e nella sua epoca – continua Manns –, se si vuol trovare la verità della Bibbia» (ivi).

La Bibbia contiene inesattezze storiche e scientifiche, ma è importante ricordare che la Bibbia è una storia santa, una rilettura e una meditazione della storia di Israele. «La verità che essa propone è quella della storia dell’alleanza, e non quella della storia degli uomini. Un popolo ha visto nella propria storia l’intervento del Dio Salvatore e ne dà testimonianza; non pretende di fornire una ricostruzione storica dei fatti in base ai nostri criteri moderni» (p. 156).

«La Bibbia dice la verità: questa verità è dell’ordine della fede ed essa si inscrive nel cuore di un’avventura dei credenti che si è svolta nella storia. Tutta la Scrittura è un Vangelo, una Buona novella, una parola di Dio che trasforma il cuore. Pascal aveva compreso che vi sono tre ordini di verità, ciascuno con la propria. La verità scientifica deve ammettere l’esistenza di una verità filosofica; infine, l’ordine della carità sorpassa i primi due ordini» – conclude Manns (p. 157).

La Bibbia nella storia

La Bibbia nella storia costituisce l’ultimo paragrafo del capitolo. Esso ripercorre la storia dell’esegesi cristiana. Essa diede grande importanza al senso spirituale, specificato nel Medioevo con la teoria dei quattro sensi della Scrittura.

Col XVII secolo prevalse la lettura critica, che di fatto mise in disparte la lettura spirituale e allegorica. La Bibbia ha una dimensione storica e letteraria, che vanno conosciute. Essa possiede però anche una portata religiosa. La Chiesa ha sostenuto questo quando respingeva le letture riduttive della Bibbia, ricorda Manns.

Nelle Università del XIX secolo trionfava il razionalismo e la pretesa normativa della Bibbia faceva problema. Inoltre, essa conteneva troppi elementi irrazionali. Si pose il problema dell’assoluto della rivelazione biblica. Fu introdotta la teoria documentaria, che pareva distruggere il valore religioso della Bibbia, e fu constatata la dipendenza della Torah dai profeti e non viceversa.

La scoperta delle grandi civiltà fece vedere la Bibbia come una loro piccola ramificazione. I testi biblici furono ridotti a miti, come quelli babilonesi. Si decifrarono i geroglifici e si decifrò la scrittura cuneiforme. Si spogliò la Bibbia della sua sacra aura. Gunkel iniziò lo studio delle forme letterarie. Le scoperte archeologiche accentuarono lo spirito critico degli esegeti. Si notò la grande influenza della cultura babilonese (debitrice di quella antecedente dei sumeri).

Manns ripercorre le principali tappe della ricerca archeologica. Si scoprirono le tavolette fenicie a Biblos, quelle di Ugarit, gli archivi del re amorrita a Mari. Le scoperte di Qumran nel 1947 fecero guadagnare un millennio rispetto ai manoscritti conosciuti allora (cf. il rotolo completo di Isaia). Si scoprì che Gerico era già distrutta ai tempi di Giosuè e che, a quel tempo, probabilmente Ai era disabita.

Come leggere i testi di Giudici e di Giosuè? Gli archivi di Tell Mardick in Siria rivelarono la lingua amorrita. Manns ricorda la scoperta della stele di Dan con la menzione della casa di Davide. Importanti gli scavi a Sepphoris, a Banias, a Meghiddo, alla piscina di Siloe e a Betania oltre il Giordano. Le pietre continuano a farsi sentire, commenta Manns.

Principi ermeneutici ebraici e cristiani

Il c. 4 del volume ha per titolo Princìpi ermeneutici ebraici e cristiani (pp. 165-235).

L’autore sottolinea, innanzitutto, come occorre vivere la Scrittura per meglio comprenderla. Ricorda la traduzione dei testi in lingua greca, le interpretazioni dei sacerdoti e dei farisei. Il trattato Abot della Mishnah ricorda che occorre vivere la Parola per meglio comprenderla.

Nei secoli successivi maturerà in Israele la coscienza di essere un popolo di sacerdoti la cui missione è proclamare le meraviglie di Dio.

Hillel detta sette regole ermeneutiche, poi ampliate e messe in pratica nei Midrashim, che testimoniano come la Scrittura non sopporta un’unica interpretazione. Come il martello spacca la roccia in mille schegge, così un passo della Scrittura dà luogo a molteplici interpretazioni.

Lermeneutica ebraica

I principali orientamenti dell’interpretazione ebraica sono due. Il Midrash halaka fissa le norme giuridiche e vede nella Scrittura la fonte dell’agire umano, mentre il Midrash aggada predilige un’interpretazione di impronta omiletica e religiosa.

Un unico principio soggiace ai due orientamenti: la Scrittura dev’essere vissuta nell’oggi. «Proprio perché dev’essere vissuta occorre precisare le norme giuridiche che la legge impone (halaka) e le motivazioni teologiche che rendono la Scrittura attraente (aggada)» (p. 168).

La Bibbia rivela sé stessa a chi la vive e interpreta, a sua volta, la vita del lettore. I moderni attualizzeranno questo principio dell’interpretazione esistenziale. Anche gli esegeti giudeo-cristiani riprenderanno questo principio. La Bibbia va letta, interpretata, proclamata, inculturata e testimoniata.

Manns illustra i princìpi insegnati da rabbi Aqiba e Rabbia Ismaele. Non basta la memorizzazione: «Solo chi accetta di lasciarsi interpellare dalla presenza che abita il testo sacro può scoprirvi una voce che parla al suo cuore» (p. 169). Bisogna studiare la Torah per viverla, per «farla», si ricorda nel commento midrashico a Lv 26,5. C’è una prassi che precede lo studio, e quest’ultimo è approfondito dall’agire. L’agire è elevato a principio ermeneutico.

La Torah è vita. Occorre insieme studiare, custodire e vivere. Nella Bibbia c’è una presenza che sollecita il lettore a una verifica delle sue affermazioni nella concretezza della vita. Chi rifiuta di agire va incontro alla morte. La Torah è acqua di vita. Davanti alla Scrittura, non è possibile la pura obiettività, ma occorre l’umiltà. Dio si è promesso al suo popolo al Sinai perché esso aveva risposto: «eseguiremo e ascolteremo». Il fidanzamento diventa un simbolo dell’alleanza di Dio col suo popolo, dell’intimità e della conoscenza reciproca.

Manns riporta testi midrashici che ripetono che la conoscenza deriva dall’azione e dall’obbedienza a Dio. L’obbedienza è possibile perché a questa disponibilità Dio risponde con il liberare il cuore dall’inclinazione al male. Diventa un cuore che ascolta.

Si afferma che la parola di Dio è strumento della creazione ed è ispirata dallo Spirito Santo. L’espressione «la Scrittura di Dio disse» spesso equivale a «lo Spirito Santo disse». Lo Spirito presente nel testo ispirerà il lettore che si impegna a vivere la Parola. «Vivere il testo diventa dunque una categoria ermeneutica, in ragione dell’essenza stessa della Parola, il vaso servito alla creazione e ispirato dallo Spirito» (p. 173).

Per comprendere la Torah occorre viverla, ma occorre anche una seconda esigenza ermeneutica: la categoria “Amore”. Si potrebbe schematizzare il cerchio ermeneutico proposto dall’autore di Sifrè Dt 41: «Occorre mettere alla base dell’agire e dello studio della Torah l’Amore; questo Amore permetterà l’osservanza dei comandamenti e lo studio della Torah, e questo studio condurrà alla Vita» (cit. a pp. 173-174).

Rabbi Aqiba morirà per decapitazione animato dalla gioia perché solo allora percepisce che mentre «dà l’anima» sta vivendo il testo dello Shema recitato tutti i giorni che richiede di amare Dio «con tutta l’anima».

Lermeneutica giudeo-cristiana

Molti ebrei che credettero in Gesù proseguirono i criteri ermeneutici imparati nella Sinagoga. I primi cristiani rileggeranno la vita di Gesù alla luce delle profezie dell’Antico Testamento.

Manns riporta alcuni aspetti dell’ermeneutica dei Vangeli di Matteo e di Giovanni che hanno ripreso molte tradizioni giudaiche e impiegato tecniche midrashiche.

Matteo, probabilmente un rabbino convertito, sottolinea la necessità del vissuto per una profonda comprensione. L’agire deve precedere l’insegnamento ed è decisivo nel giudizio finale. Gesù è presentato come il nuovo Mosè, ma la Torah, e i Profeti mantengono il loro valore.

La comprensione dell’AT deve essere guidata dal principio dell’amore di Dio (cf. Mt 22,34-40). L’amore per Dio e per il prossimo riassumono la Torah e i profeti e ne sono i criteri interpretativi. Nel discorso della montagna Gesù segue il criterio dell’amore e radicalizza l’interpretazione giudaica delle Scritture. Occorre osservare tutta la Torah ma anche portarla al suo vero scopo.

«L’ermeneutica di Giovanni assegna ugualmente un ruolo privilegiato all’agire e al comandamento dell’Amore».

Secondo Manns, tutto il Vangelo di Giovanni è una rilettura cristologica della Genesi e dell’Esodo. Anche questa rilettura è guidata dall’importanza delle opere e dell’Amore (cf. Gv 5,39-42). Se, per i rabbini, la Scrittura è la vita, le parole di Gesù sono spirito e vita. Le opere sono importanti (cf. Gv 3,19-20). Gesù è il grande esegeta che dà il senso compiuto ai miracoli dell’Esodo. Gesù conosce il Padre, osserva la sua parola e le sue opere gli danno testimonianza.

La comprensione del testo è possibile solo a chi è guidato dal comandamento dell’Amore che riassume la Torah e i Profeti. «Il Vangelo di Giovanni aggiunge un altro principio ermeneutico: è lo Spirito che guida i credenti alla verità tutta intera (Gv 16,13)» (p. 179). Per conoscere Gesù, occorre seguire i suoi comandamenti (1Gv 2,3).

Su questo si basa il metodo della lettura esistenziale dei testi.

Principi di una lettura esistenziale

Manns esamina i principi di una lettura esistenziale dei testi (pp. 180-195), elencandone i vari elementi: Pregare il testo; I sensi spirituali; Servitore della Parola; L’al di là del testo; Attualità e attualizzazione della Parola; Assimilare il testo; In Spirito e verità.

Il Concilio Vaticano II ha confermato la lettura patristica dei testi: la Bibbia ha una profondità spirituale enorme e va letta nello Spirito che l’ha ispirata. La spiegazione storica e critica delle parole non è ancora l’interpretazione. La parola di Dio va arricchita col linguaggio umano e viceversa. «Gregorio Magno diceva che “le parole di Dio crescono con chi le legge” (In Ez. 1, 7)» (p. 194).

La lettura storico-critica è complementare alla lettura spirituale, a patto di sapere a quale registro di intelligenza dei testi essi appartengono.

Ulteriori principi ermeneutici ebraici e cristiani

Manns espone altri criteri ermeneutici che derivano dal fecondo dialogo tra l’interpretazione giudaica e quella cristiana che l’approfondisce incentrandola sulla figura di Gesù Cristo.

Lo Shema Israel è la chiave di lettura della Scrittura. Nei Vangeli si ha una rilettura dello Shema, in modo particolare nel Vangelo di Giovanni. Manns ricorda il metodo ebraico della collana (Haraz) che «infila» citazioni della Scrittura aventi in comune lo stesso tema. I testi erano legati tra loro come le perle di una collana.

L’autore affronta, quindi, il tema della Rivelazione come espressione della condiscendenza divina, studiandola nella traduzione ebraica e nella rilettura cristiana. Emergono i temi di Dio servitore del suo popolo, quello della discesa di Dio sulla terra e, infine, quello del Verbo abbreviato.

La condiscendenza divina

La condiscendenza di Dio che si fa servo culmina con l’incarnazione del Verbo. Dio si adegua alla debolezza dell’uomo. Dio educa il suo popolo con pazienza, mentre vive fra altri popoli e culture e compie pienamente il suo abbassamento in Gesù servo per liberare l’uomo. Il Verbo assume la condizione di schiavo, per ricreare l’uomo.

Giovanni Crisostomo è il «dottore della condiscendenza». Nelle omelie sulla Genesi, ricorda spesso che Dio si adatta agli uomini. «In Gregorio di Nazianzo compare un’idea nuova – scrive Manns –: la pedagogia divina è progressiva. A perfezionamenti successivi corrispondono eliminazioni graduali» (p. 228). Se l’Antico Testamento è caratterizzato da cambiamenti che nascono dalle eliminazioni, il Nuovo Testamento sarà l’era del perfezionamento grazie alle aggiunte.

All’origine della condiscendenza divina si trova la filantropia di Dio. La direzione definitiva della condiscendenza era l’incarnazione. Questo richiedeva una lunga preparazione. Il Dio compassionevole che nell’AT aveva parlato tramite i profeti, nel NT parla attraverso il Figlio. La condiscendenza trova l’apice nel fatto che Dio in Gesù ricrea gli uomini e ogni cosa. Il Verbo riconduce tutti dalla corruzione del peccato all’immortalità. La parola di Dio è l’esodo di Dio verso l’uomo per farlo uscire dal suo mondo. «Verbum abbreviatum fecit Dominus in terra, diceva san Francesco» (cit. a p. 233).

La parola di Dio è parola di alleanza che riporta l’uomo all’amicizia con Dio e alla pace. Dio persegue fino all’ultimo il suo progetto di comunione e la Chiesa getta la parola nel campo del mondo perché diventi albero fecondo e porti libertà a tutti coloro che la accolgono.

Continuità e rottura tra ebrei e cristiani nella lettura della Bibbia

Il c. 5 del volume ha per titolo Continuità e rottura tra ebrei e cristiani nella lettura della Bibbia (pp. 235-256).

Ebrei e cristiani hanno letto e commentato la Bibbia per secoli. Per vario tempo la Chiesa preferì il testo greco della LXX ma, quando seguì il testo ebraico, formulò dei commenti che assomigliavano a quelli della tradizione ebraica. La Chiesa aveva assimilato dalla Sinagoga vari elementi che risalivano alla tradizione orale. Manns illustra i contatti tra l’ermeneutica ebraica e l’esegesi cristiana mediante due esempi, uno tratto dalla Torah scritta e l’altro dalla Torah orale.

«E vide che era una cosa buona». Il problema del secondo giorno e gli angeli

Il primo esempio riguarda l’omissione del ritornello «e vide che era una cosa buona» riferita in Genesi all’opera di Dio del secondo giorno.

Le spiegazioni vanno dalla creazione della Geenna, alla divisione come causa di confusione, al fatto che la creazione delle acque fu compiuta di fatto al terzo giorno.

Girolamo pensa che il numero pari sia impuro perché introduce una divisione e quello dispari sia puro.

Le tradizioni sapienziali e apocalittiche ebraiche del I secolo speculano sulla creazione degli spiriti il secondo giorno.

Vari commentari midrashici pongono al secondo giorno la creazione degli angeli, per conservare il monopolio divino della creazione ed evitare qualsiasi forma di dualismo. «Il Targum Jonathan Gn 1,26 riflette questa idea – annota Manns –: ‘Elohim dice agli angeli che servono alla sua presenza, i quali erano stati creati il secondo giorno della creazione del mondo: Facciamo Adamo a nostra immagine. In questa versione la presenza degli angeli si spiega con la difficoltà di dar conto del plurale: “Facciamo”. Gli angeli vengono introdotti per eliminare ogni minimo sospetto di pluralità in Dio» (pp. 241-242).

«Curiosamente anche un autore medievale, celebre per la sua conoscenza dell’ebraismo, Petrus Comestor, ribadisce questa tradizione» – annota Manns (p. 242). «Le fonti cristiane e le fonti ebraiche confermano la tradizione ebraica della creazione di uno spirito o di più angeli il secondo giorno, e ciò per mantenere il monopolio divino della creazione contro gli gnostici e i movimenti dualisti. È così che le tradizioni ebraica e cristiana hanno spiegato l’assenza del refrain “E Dio vide che era cosa buona” il secondo giorno» – conclude l’autore (p. 243).

Si discute se Origene e Girolamo siano venuti a conoscenza delle tradizioni ebraiche attraverso gli ebrei o i giudeo-cristiani. Vari ambienti ebraici coltivavano un’angelologia complessa. I farisei credevano agli angeli, gli esseni si impegnavano a tenere segreti i loro nomi, Filone attribuisce a loro un grande ruolo nella creazione e nella conservazione dell’universo. Col 2,16-18 testimonia l’esistenza di un culto degli angeli in ambienti giudaizzanti.

Nel suo discorso contro i giudei, in At 7,42 Stefano ricorda che Dio si è allontanato dal suo popolo dopo il peccato del vitello d’oro, abbandonandolo al culto dell’armata celeste, cioè gli angeli maligni identificati con gli dèi pagani. Questo testo fu la base di vari testi che accusano ebrei e cristiani di adorare gli angeli.

Per i Padri, la venuta di Cristo ha segnato la fine del regno degli angeli sulle nazioni di cui parla il libro di Daniele. Così Origene e Giovanni Crisostomo, che parla di angeli custodi dei fedeli che hanno rimpiazzato quelli delle nazioni. I Padri riconoscono la presenza degli angeli nella Chiesa, in particolare nella celebrazione dei sacramenti. Nel Vangelo di Luca gli angeli salutano l’inizio e la fine della vita di Gesù.

Nell’ebraismo ogni elemento della creazione aveva il suo angelo. Gli angeli erano protettori del cosmo ed erano messaggeri di Dio presso gli uomini. Ogni nazione aveva il suo angelo e Michele era il principe di Israele, come mostra il libro di Daniele.

È in questo contesto culturale che i padri della Chiesa rilessero i Vangeli dell’infanzia. Gli angeli delle nazioni accolgono con gioia Cristo che viene a salvare i popoli. Il loro compito di protezione è terminato con successo. Alla gioia degli angeli delle nazioni e degli elementi si unirono tutte le creature celesti. Origene si rifiuta di adorare e venerare gli angeli.

La grande Chiesa reagì negativamente al culto degli angeli, ma gli ambienti giudeo-cristiani hanno mantenuto questo culto trasmettendolo ad alcune cerchie del Medioevo. Secondo lo PseudoDionigi, gli angeli hanno il compito di guidare a Dio i popoli pagani. È la prova che la teologia di Origene non fu seguita ovunque. «Molti degli elementi dell’angelologia cristiana furono mutuati dal giudaismo che, dal periodo persiano in poi, sottolineava la necessità di intermediari tra Dio e gli uomini», scrive Manns (p. 247). L’esempio del libro della Genesi illustrato dimostra secondo lui che l’esegesi cristiana deve confrontarsi con quella ebraica, sua antenata.

Il Merito dei Padri. Monti e colline

Il secondo esempio è tratto dalla Torah orale. Riporteremo come prove ampi stralci del testo di Manns, ricco di citazioni.

«La Chiesa ha […] ereditato la Bibbia interpretata dalla tradizione orale – ricorda lo studioso –. Talvolta essa ha accolto questa tradizione orale, ma più spesso ha rinunciato a integrare questo commento orale» (p. 247).

Manns illustra questo atteggiamento con un esempio tratto da Origene. Il dialogo tra ebrei ed ebrei messianici risale alle origini della fede cristiana. Un punto di dialogo riguarda il Merito dei Padri e delle Madri di Israele che rappresentano le colonne su cui poggia la fede del popolo. Ci si chiede se questo patronato sia incondizionato.

Manns ricorda che, per scorgere la portata del dialogo, non basta la conoscenza della Bibbia, ma anche quella della tradizione interpretativa orale da parte della Sinagoga, che accompagnava il commento alla Bibbia contenuto nel Targum. Il commento orale è importante per conoscere il retroterra del NT.

La tradizione sinagogale riprende più volte l’immagine dei Patriarchi paragonati alle montagne e quella delle Madri simili alle colline. «Da dove nasce questo paragone?», si chiede Manns, che cita molti testi.

«Il testo del Midrash Es R 15,26 contiene un elemento di soluzione. Si fa menzione in questo passaggio dei Patriarchi che pregano per il popolo e fanno la pace tra Dio e loro, come è scritto in Sal 72,3: “Montagne portate e voi colline la pace al popolo”. Le montagne sono i Patriarchi, come è scritto in Mic 6,1-2: “I colli ascoltino la tua voce! Ascoltate, o monti, il processo di Yhwh”. Le due citazioni possono essere servite da base al paragone che diventerà comune in tutta la letteratura rabbinica» (p. 250).

Un testo che proviene dai rotoli del Mar Morto – 11 Q Melchisedek 2, 17 (11 Q 13) –, «interpreta Is 52,7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace e che dice a Sion: ‘Regna il tuo Dio’: I monti sono i profeti e il messaggero è l’Unto dello Spirito, di cui parla Daniele 9,25”.

Indirettamente questo testo permette di datare il terminus a quo della tradizione. P. Sacchi ha evidenziato l’importanza di questo testo per seguire lo sviluppo del messianismo» – sottolinea Manns (pp. 251-252).

«Nel Nuovo Testamento – prosegue l’autore –, Lc 3,4 introduce la predicazione di Giovanni Battista con una citazione di Is 40,3-5 (che non è oggetto di commento specifico nel Targum): “Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato”. Il messaggio di Giovanni Battista che segue critica coloro che sono ricorsi al merito di Abramo: “Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli (banim) ad Abramo anche da queste pietre (abanim)”. Più avanti, Luca 23,30 dà una diversa interpretazione dei simboli citando Am 10,8: “Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci”. Si tratta del giudizio escatologico cui partecipa il cosmo intero» (p. 252).

Manns prosegue con gli esempi. «Gv 8,39 ricorda agli ebrei che hanno creduto in Gesù che, per essere figli di Abramo, è necessario compiere le opere di Abramo e Gv 8,56 mette in relazione Abramo e il Cristo, perché Abramo esultò nella speranza di vedere il giorno del Messia, tradizione che rinvia al libro dei Giubilei. Luca 1,37 aveva presentato Maria di Nazaret come la novella Sara e l’autore della prima lettera di Pietro 3,5-6 vedeva in Sara il modello delle sante donne che riponevano la speranza in Dio. Il Protovangelo di Giacomo, un apocrifo giudeo-cristiano, non esiterà a presentare Maria come la nuova Rebecca e la nuova Rachele» (pp. 252-253).

«I Padri della Chiesa danno interpretazioni diverse al simbolo della montagna. Origene, nella sua dodicesima Omelia su Geremia, distingue i monti luminosi dai monti tenebrosi. Tra i monti luminosi, menziona i santi angeli di Dio, i profeti, Mosè e gli apostoli di Gesù Cristo» (p. 253). In altri scritti, i monti rappresentano i profeti, le colline i giusti; la montagna è applicata a Gesù mentre altrove lo è ai profeti o al popolo di Israele. Eusebio di Cesarea applica il simbolo della montagna agli apostoli.

«Dinnanzi a questa interpretazione cristiana che rifiuta di applicare il simbolo della Montagna ai Patriarchi per riservarlo al Cristo, alcuni rabbini reagiranno», annota Manns (ivi). Vale a dire che «la polemica si è impadronita dell’interpretazione del simbolo dei monti e dei colli. L’interpretazione ebraica fu criticata dalla tradizione cristiana che, a sua volta, sarà respinta dalla Sinagoga» (pp. 253-254).

Continuità e rottura. Ladempimento

Siamo di fronte al dialogo e alla rottura fra ebrei e cristiani circa l’interpretazione della Bibbia. Manns traccia un bilancio.

I due esempi riportati sopra di dialogo/polemica «mettono in luce l’atteggiamento a volte positivo, a volte polemico della Chiesa di fronte all’esegesi ebraica – prosegue lo studioso –. Troppo spesso la polemica la domina, ma sovente la ripulsa dell’esegesi ebraica implica la conoscenza della posizione della Sinagoga. La lettura cristologica della Scrittura ridimensionerà di frequente l’esegesi ebraica. In altri termini, è il Cristo che, allo stesso tempo, unisce e divide l’esegesi ebraica e quella cristiana» (p. 254).

Secondo lo studioso la differenza tra la Bibbia cristiana e quella ebraica «si rivela a partire da una giusta comprensione della categoria di adempimento. La teologia dell’ebraismo del Vaticano II – e i documenti successivi, aggiungiamo noi – aiuta a comprendere il rapporto dialettico tra i due Testamenti. Ebraismo e cristianesimo sono segnati dalla rottura e dalla continuità. È chiaro che le promesse del popolo di Dio trovano il loro compimento nella nuova alleanza. Allo stesso tempo, la Chiesa non si sostituisce a Israele. Occorre, dunque, definire la nozione di adempimento in un senso non totalizzante.

Se il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico, ciò non significa – prosegue Manns – che quest’ultimo sia privo di senso al di fuori della sua attuazione. In caso contrario, bisognerebbe spiegare il vitalismo dell’ebraismo post-cristiano. E se tutta la Rivelazione dell’Antico Testamento la ritroviamo nel Nuovo, bisogna chiedersi perché i cristiani continuino a leggere l’Antico Testamento come parola di Dio nella liturgia. In realtà, adempimento non significa abolizione. La novità del Vangelo è una rottura che introduce un senso che non abolisce la Torah né i Profeti. “Typus partem indicat”, diceva Girolamo» (pp. 254-255).

«Il confronto di Israele con la Chiesa – conclude Manns – aiuta a percepire meglio l’originalità del cristianesimo come un’alterità che non abolisce ma, al contrario, apre un rapporto con l’altro riconoscendogli una propria legittimità. Paolo, si sa, ha rotto con l’interpretazione farisaica della Torah mosaica, ma non ha per questo rotto con il racconto biblico e la memoria di Israele» (p. 255).

Manns conclude il capitolo citando il capitello della basilica di Vézelay, il mulino mistico, un vero trattato di ermeneutica. Mosè porta al mulino un sacco di grano. Un altro personaggio, che rappresenta il NT, raccoglie la farina in un altro grande sacco aperto. «Questo capitello sintetizza il rapporto dell’Antico con il Nuovo Testamento – conclude l’autore –. Esso è il grano mutato in farina che permette all’umanità di nutrirsi, non essendo il mulino mistico altro che Cristo stesso» (p. 255).

Conclusione: leggere la Parola con la Chiesa

Avviandosi alla fine della sua fatica, Manns propone una riflessione su Maria che serbava tutte queste cose nel suo cuore. Ella è l’immagine del prototipo della lettura orante della parola, custodita e confrontata con la vita, per poi essere messa in pratica con umiltà e obbedienza della fede.

Nella conclusione, egli si sofferma a riflettere sulla fame della parola, sulla necessità di leggere la Scrittura nella Chiesa e il legame che unisce strettamente Parola e sacramento.

Una bella sintesi del libro può essere espressa con le espressioni di pp. 15-16: «La Bibbia è la traccia di una storia che Dio cerca di santificare lungo i secoli. Senza la scienza del cuore, essa rimane impenetrabile. Il cristianesimo non è una religione del Libro e la parola di Dio non sussiste al di fuori di una comunità credente. La parola di Dio non vive se non è incarnata e condivisa».

Un prezioso glossario (pp. 277-279) conclude questo ricco volume sul tema della parola di Dio accostato con l’apporto della ricchezza ermeneutica contenuta nella tradizione ebraica, di cui Manns era uno dei massimi esperti in campo cattolico. Un libro ricco, impegnativo, ma suggestivo negli accostamenti e nei “voli” interpretativi tracciati tra il campo ebraico e quello cristiano, con una rottura che non elimina una continuità.

Abusi e donne consacrate

Quando il libro uscì in prima edizione nel 2016 (EDB) era una delle prime voci che affrontava il tema scomodo degli abusi sulle donne consacrate. Esce ora la seconda edizione del volume di Anna Deodato Vorrei risorgere dalle mie ferite. Chiesa, donne, abusi (EDB, 2023 – qui) con alcuni significativi arricchimenti.

«La comprensione del tema degli abusi si è dilatata e approfondita in due direzioni: dall’abuso sessuale alle diverse forme di abuso di potere, di coscienza e spirituale; dall’abuso come dinamica di rapporto vissuto tra due persone, all’abuso che deve essere interpretato in chiave sistemica», cioè all’interno del contesto “abusante” e in relazione alle vittime “secondarie”, la famiglia e la comunità. Fino ad arrivare alle responsabilità della Chiesa.

La devastazione dell’abuso
Dopo venticinque anni di lavoro di accompagnamento, l’autrice, donna consacrata nella diocesi di Milano, così definisce l’abuso: «una dinamica di potere, supremazia, dominio verso una o più persone che sono in situazione di vulnerabilità e dipendenza per età, circostanze di vita, bisogni affettivi personali, situazioni di vulnerabilità psicofisica. È una rottura grave, che accade all’interno di una relazione di fiducia a causa di un tradimento irreparabile che lascerà una ferita perenne nell’intimo della persona».

Nella vita consacrata le forme abusanti si manifestano nella stretta cerchia delle relazioni ecclesiastiche (superiore, formatrici, confessori, direttori spirituali, fondatori ecc.) con conseguenze devastanti sulla psicologia, il fisico, le relazioni, i comportamenti e sulla stessa fede. Sono di tipo sessuale, ma anche di coscienza e spirituale.

L’abuso di coscienza «è la violazione della libertà interiore di un’altra persona». «L’abuso di coscienza diventa abuso spirituale quando l’abusatore parla e agisce a nome di Dio facendo valere la sua autorità spirituale, teologica o ecclesiale, in virtù del ministero che gli è stato conferito». Le indicazioni teoriche si mescolano e si spiegano con riferimenti diretti a casi affrontati a cui si fa riferimento con grande rispetto e discrezione. «Io sono stata abusata, sono, come si dice, una vittima…, ma pochi sanno cosa veramente vuol dire continuare a vivere come la vittima di una violenza che in un certo senso si ripete ogni volta in cui tu cerchi di riprenderti la tua libertà e la tua dignità».

Il corpo ricorda
La memoria può essere rimossa, la psiche può difendersi nella negazione, ma il corpo ricorda. E il corpo femminile in particolare, violato nella sua dimensione corporea intima e nei suoi cicli. «Il mio corpo non è più segnato dal tempo. È stato oppresso in un tempo buio. Non scorre più nel ritmo del tempo il sangue della mia vita. Attendo il tempo della luce. Attendo che il mio corpo di donna torni a parlare nel tempo».

Tornare ad amare il proprio corpo è spesso un cammino lungo e pieno di contraddizioni. La biancheria, il vestito e l’abito sono conquiste ma, qualche volta, anche negazioni: «Quanta fatica! Guarirò? Vivrò ancora? Non dico più che ho l’ansia perché ciò che sento è più forte della solita ansia, e non è tensione provocata dalla rabbia che si può scaricare, è qualcosa di più profondo, sì, è collegata alla colpa».

La colpa, accanto alla paura e alla vergogna sono i sentimenti che accompagnano l’abusata. «Per la forza simbolica della relazione e per una sorta di identificazione proiettiva, la rabbia per ciò che si è subìto si trasformerà nel senso di colpa che si insinuerà nella coscienza sino a far pensare di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato, per meritarsi tanta violenza, sino a credere di essere “sbagliate” nel desiderare qualche minima cura per sé stesse».

La parola, il pianto e il grido sono i segnali di una progressiva coscienza di sé e della propria dignità. La discrezione, la tenerezza, la cura costituiscono il contesto del possibile riscatto.

Colpa, paura, vergogna
Anche la fede, come tutte le dimensioni vitali, è drasticamente rimessa in questione dall’abuso e necessita di una paziente ricostruzione. «Lavorando con le consacrate, questo vissuto di lutto si manifesta nel transito interiore che porta a una riappropriazione della dignità del cuore e del corpo; nella faticosa uscita dalla propria congregazione o istituzione religiosa per un nuovo progetto di vita; nel dover ritrovare motivazioni profonde per riuscire a rimanere in comunità da un più profondo e adeguato cammino personale. Tutto questo va attentamente sorretto, riconoscendo e sostenendo la lotta della fede».

Passaggi importanti sono dedicati alle comunità di riferimento che non sono elemento marginale nel permettere l’abuso e, eventualmente, nell’accompagnare il riscatto. Anche le famiglie di origine e le relazioni sororali e fraterne possono indicare alcune fragilità non risolte, ma anche rappresentare un rifugio e una consolazione dopo i drammi vissuti.

Abusatori e abusatrici
Sugli abusatori maschi – la maggioranza – molto si è già scritto. Diversamente dalle abusatrici: «La donna che abusa è quasi sempre nella condizione di poter stabilire all’interno della comunità uno stile di leadership marcatamente narcisista, paranoide e antisociale. Ha molto potere designato sulle altre e ricopre il ruolo di leader ispiratore del gruppo, di superiora o di formatrice, incarichi che richiedono, d’ufficio, una sottomissione della consacrata e una deliberata istanza d’obbligo nell’apertura dell’intimità che, teoricamente, dovrebbe permettere il discernimento».

La vittima designata è in genere giovane, docile, accondiscendente con una debole capacità di mantenere i propri confini. Nell’abuso di una donna verso l’altra la questione centrale non è il lesbismo quanto la psicodinamica narcisista associata a una struttura di personalità gravemente compromessa.

Le potenziali «abusatrici» hanno personalità disturbate, investite di potere in un contesto chiuso e privo di confronti.

Tornano nel testo ripetuti riferimenti a quanto è richiesto all’accompagnatore, ai suoi atteggiamenti e competenze, come alla insistita necessità di un intervento di rete di diverse competenze. Le numerose note rimandano alle pubblicazioni più rilevanti del settore, alle diverse scuole di intervento e alle ragioni che presiedono alle scelte compiute.

Testimoniare davanti all’assemblea
Si può agevolmente riconoscere nelle note i nomi del «gruppo di mischia», i competenti che costituiscono, assieme ad altri, il riferimento abituale delle riflessioni ecclesiali sull’abuso: Enrico Parolari, Luisa Bove, Amedeo Cencini, Gottfried Ugolini ecc.. Oltre ad una delle loro «palestre» abituali: il trimestrale Tredimensioni, edito dall’editrice Àncora. In appendice sono ripresi alcuni dei testi magisteriali fondamentali relativi agli abusi, a indicare il percorso compiuto dalla Chiesa e i grandi passi compiuti.

Nel testo emerge, infine, con una certa forza, il tema della testimonianza, di poter dire ciò che purtroppo è successo. Un’esigenza del terapeuta, per mettere in guardia le comunità religiose, e non solo, della gravità e della serietà dello scandalo, educando i credenti a prendersene cura. Ma anche delle stesse vittime. «Come fare a superare la rabbia e non allontanarsi dalla Chiesa, dalla fede? Come fare a difendermi da chi, di fronte a questi crimini, ha minimizzato, nascosto, messo a tacere, o anche peggio non ha difeso i più fragili, limitandosi meschinamente a spostare i sacerdoti a nuocere da altre parti? Di fronte a questo, noi vittime innocenti, sentiamo amplificato il dolore che ci ha ucciso».

«La Chiesa mi ha costruito e la Chiesa mi ha distrutto. Grazie alla medicina, alla psicologia e alla scrittura ho fatto molti progressi. Oggi la mia distanza radicale dall’istituzione ecclesiale non mi esime tuttavia dal chiedere una cosa essenziale per la mia completa guarigione: che la Chiesa non solo accetti di riconoscere le sue responsabilità, ma che lo dichiari chiaramente e pubblicamente, intraprendendo un’opera di ricostruzione e imponendosi una revisione generale. Con la mia testimonianza spero di contribuire a tutto ciò».

settimananews.it

Giù nella valle

Paolo Cognetti ha recentemente pubblicato per Einaudi Giù nella valle (qui), un romanzo in cui c’è tanta montagna: animali, alberi e umani. Giordano Cavallari gli ha posto alcune domande.

  • Sugli animali. Quale è il tuo rapporto con i cani, di cui molto scrivi nel romanzo? 

Amo molto i racconti di Jack London e ho sempre voluto scriverne uno come Il richiamo della foresta, un capolavoro. Lì i cani sono appunto cani, Buck non parla e non pensa come un essere umano. Ma certo ha dei sentimenti, dei pensieri e dei modi per esprimerli, come sa chiunque viva con un cane. Io vivo con Laki da 11 anni ormai. Normalmente passiamo insieme 24 ore al giorno, siamo inseparabili.

Non l’avevo desiderato all’inizio, l’ho adottato solo per salvarlo, e il suo arrivo nella mia vita ha cambiato un po’ di cose. Primo, non sono più riuscito a mangiare animali. Sono diventato vegetariano perché davanti a un pezzo di carne mi sembrava di mangiare Laki! Secondo, sono diventato animalista. Proteggere il benessere degli animali è uno degli scopi della mia Fondazione. Terzo, ho trovato un motivo in più per avvicinarmi al buddhismo, secondo cui la vita animale ha la stessa dignità di quella umana. Quarto, ho cominciato a pensare di scrivere storie non antropocentriche, in cui gli altri viventi siano protagonisti tanto quanto gli umani. Questo è il risultato.

  • Sugli alberi. Come vedi gli alberi e come possiamo anche noi – lettori – vederli?  

Il primo libro sugli alberi che ho letto fu quello di Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico. Ogni capitolo un albero, ogni albero un carattere, quasi un personaggio. Lui amava in particolare il larice (il re del nostro versante delle Alpi, quello al sole) e la betulla (la Russia a cui era così affezionato).

Sono andato a visitare casa sua, aveva quadri di betulle in salotto! Poi qualche anno fa è arrivato Stefano Mancuso a raccontarci gli alberi, le piante, la vita vegetale nei suoi bellissimi libri, che ho letto con meraviglia. Mancuso dice: le piante sono il 99% della vita sul pianeta, noi una piccolissima parte del restante 1%, eppure ci comportiamo da padroni. Anche da qui l’idea di scrivere storie con gli alberi come protagonisti.

Le piante sono una presenza gentile, generosa, femminile, che dà speranza ovunque riesca a crescere, anche in una periferia urbana o un mondo nero come quello descritto. Infine, sono incappato nella Dea bianca di Robert Graves, che nel romanzo cito direttamente (non semino citazioni a caso). Lì ho scoperto un antico poema celtico, La battaglia degli alberi, e anche il calendario arboreo coi suoi tanti significati. Ho riscritto quella battaglia pensando agli alberi che resistono all’uomo, immaginando di battermi insieme a loro.

  • Sugli umani. La lettura del libro solleva tante domande, anche di natura politica. Mentre il finale resta molto aperto. Chiedi a noi lettori di “tirare le conseguenze”? 

La vera arte è sempre impegnata. La vera letteratura è un racconto del luogo e del tempo che stiamo vivendo e, per forza di cose, è politica. Tuttavia, non è una busta con dentro un messaggio o una morale. Su questo punto insisto sempre nelle scuole, quando i ragazzi mi chiedono «ma cosa volevi dire?», «qual è il messaggio?».

In quanto racconto del mondo, l’arte fa delle domande più che fornire delle risposte. Per questo anche tu, leggendo, hai sentito che «tutto resta aperto»: una volta chiuso il libro, sei tu che devi rispondere con le tue scelte e le tue azioni.

Io scrivo per vocazione, non ho mai voluto far altro che lo scrittore, perché ci credo davvero che sia possibile cambiare il mondo, anche con l’arte. Una vita senza battersi per cambiarlo mi sembrerebbe di una noia mortale.

  • Infine. Avevo letto Le otto montagne. Questo è più “scuro”. C’è persino del sangue. È cambiato il tuo umore? Una via d’uscita c’è, ed è femminile? 

Ho scritto dodici libri. Capisco che quello sia il più conosciuto, ma non per questo Le otto montagne possono fare sempre da termine di confronto. Quel romanzo l’ho scritto quasi dieci anni fa, nel mio periodo di innamoramento per la montagna. Adesso, alla montagna, voglio sempre bene − credo si avverta chiaramente leggendomi − ma sono anche molto arrabbiato con l’essere umano che la distrugge. Sì, nel mio libro la violenza è maschile, la gentilezza è femminile. Mi pare tuttavia che l’attuale governo dimostri che quella del potere alle donne sia una pia illusione. In realtà è il potere in quanto tale a essere violento, la resistenza è gentile. Resistiamo con gentilezza.

in settimananews.it

Libro “Cinque domande che agitano la Chiesa”

Dieci anni di pontificato di Papa Francesco hanno proiettato la Chiesa in avanti, in uscita verso le periferie geografiche ed esistenziali, un ospedale da campo pronto ad accogliere le domande di tutti. Ma le risposte agitano la comunità cristiana e i vertici delle istituzioni. Questo volume si misura con cinque interrogativi urgenti che toccano sia chi nella Chiesa vive e alla vita della Chiesa collabora, sia chi ancora preferisce sostare sul margine, magari a causa di un’incomprensione antica e mai sanata: 1. A dispetto delle buone intenzioni, la Chiesa parla solo ad alcuni e non a tutti? 2. In Europa e Nord America la pratica religiosa cala vistosamente, mentre in America Latina e Africa è insidiata dalle nuove Chiese pentecostali. Chi si fa carico di questa emergenza? 3. L’apertura ai laici e alle donne è reale o solo di facciata? 4. L’inizio e la fine della vita, la cura della vecchiaia, le nuove frontiere della medicina, la questione del gender: la Chiesa è in grado di rispondere ai nuovi interrogativi posti dal progresso e dalla scienza? 5. Che fine faranno le riforme intraprese da Papa Francesco? Sono domande che ipotecano il futuro della Chiesa. Il silenzio sarebbe la risposta peggiore.

Ignazio Ingrao, Cinque domande che agitano la Chiesa (Edizioni San Paolo 2023),159 pagine, 16 euro

“Cinque domande che agitano la Chiesa” di Ignazio Ingrao

IGNAZIO INGRAO (1969) è giornalista vaticanista del Tg1 Rai. È stato caposervizio del settimanale Panorama e caporedattore dell’agenzia stampa Sir, autore e conduttore televisivo. Ha firmato diversi Speciali del Tg1 su Madre Teresa di Calcutta, il terzo segreto di Fatima, san Giovanni Paolo II e il pontificato di papa Francesco. Ha pubblicato diversi volumi; tra questi, Il Concilio Segreto (2013), Il segno di Padre Pio (2016) e, per le Edizioni San Paolo, L’OsservatoreTrentacinque anni di storia della Chiesa nelle carte private di Mario Agnes (2021).

Conferenza di presentazione del volume “Era irriconoscibile” di Enrico Mazza

Su iniziativa del Laboratorio Teologico Realino e della Fondazione Enrico Mazza di Reggio Emilia, martedì 14 novembre, alle ore 21, presso il Museo Diocesano nella chiesa di Sant’Ignazio a Carpi, è stato presentato il volume di Enrico Mazza dal titolo “Era irriconoscibile. Il caso di Gesù Risorto” (EDB, 2023). Ne hanno parlato insieme all’autore monsignor Gildo Manicardi, biblista e vicario generale della diocesi di Carpi, e lo storico delle religioni e docente Unimore, Alberto Melloni.

Il Video:

Notizie – Settimanale della Diocesi di Carpi

Libro: il “pomeriggio” come kairos

di: Andrea Lebra

Un saggio stimolante e di godibilissima scrittura. Dai numerosi spunti che intercettano domande oggi particolarmente diffuse nei contesti ecclesiali occidentali. Con un titolo decisamente intrigante: >>> Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare (Vita e Pensiero, Milano 2022). SettimanaNews già ne ha pubblicato, il 14 marzo 2023, una bella recensione di Gabriele Ferrari.

Autore è Tomáš Halík. Un filosofo, teologo, sociologo e psicologo della Repubblica Ceca con il quale prima o poi, come afferma José Tolentino de Mendonça, deve confrontarsi «chiunque oggi s’interessi dell’attualità del cristianesimo» (cf. quarta di copertina di Tomáš Halík, Pazienza con Dio, Vita e Pensiero, Milano 2020). Un intellettuale che diffida dei possessori della verità che non lasciano «nessuno spazio al dubbio, alle domande critiche e a ulteriori ricerche» (p. 206).

Un credente non dogmatico (p. 223) che ama confrontarsi con gli atei non dogmatici perché è convinto che, «quando la fede di un credente attraversa le fiamme del purgatorio della critica atea, può accedere a uno spazio libero come fede più profonda, più pura, più matura» (p. 226). Un teologo consapevole che Dio «a noi non giunge solamente come risposta, ma anche come interrogativo, giunge nel desiderio di comprendere, travalica qualsiasi risposta parziale, apre interrogativi sempre nuovi, stimola nuove ricerche e imprime alla nostra esistenza un carattere errante» (p. 46).

Cristianesimo nel pomeriggio della sua storia
Il titolo del volume, Pomeriggio del cristianesimo, riprende un’immagine di Carl Gustav Jung, il fondatore della psicologia del profondo, che, nella sua opera L’Âme et la Vie, paragona gli stadi della vita umana ai momenti di una giornata.

Il mattino è tempo della vitalità, dell’azione, dell’infanzia, della giovinezza e della prima età adulta: è il periodo in cui si sviluppano i dati fondamentali della personalità. Il mattino coincide con la storia del cristianesimo dal suo inizio fino all’età moderna: «un lungo periodo in cui la Chiesa ha edificato in primo luogo le sue strutture istituzionali e dottrinarie» (p. 54).

All’età del mattino segue la crisi del mezzogiorno: momento di pausa, di possibile stanchezza, di perdita di entusiasmo. Come in ogni crisi, si può vivere quella del mezzogiorno come opportunità: non per tornare indietro, ma per andare oltre, dando spazio a componenti dell’esistenza trascurate o sconosciute. A livello ecclesiale, la crisi del mezzogiorno arriva – con epicentro nell’Europa centrale e occidentale – dal tardo Medioevo fino all’illuminismo, «l’epoca della critica delle religioni e della diffusione dell’ateismo, e sino alla fase seguente che ha portato a un lento superamento dell’ateismo in favore dell’apateismo, dell’indifferenza religiosa» (p. 54).

Il pomeriggio della maturità e della vecchiaia è momento della vita interiore, della saggezza e delle scelte ponderate. Per pomeriggio del cristianesimo Halík intende l’irripetibile epoca storica che stiamo vivendo, nella quale, se sta inesorabilmente morendo un certo modo di essere cristiani e cattolici, sta prendendo forma un nuovo cristianesimo: la secolarizzazione, infatti, non ha causato, come si era ipotizzato da parte dei teorici del secolarismo, la fine del cristianesimo, ma la sua trasformazione (p. 57), facendo compiere alla fede cristiana un passo verso un’ulteriore autenticità (p. 60). Il pomeriggio del cristianesimo è «il tempo delle decisioni, il momento che non si deve lasciar passare e vanificare»; è l’ora critica dei cambiamenti «dei paradigmi sociali e culturali» (p. 35).

Alcune domande alle quali «Pomeriggio del cristianesimo» intende rispondere
Il libro è un invito a transitare «dalle macerie del cristianesimo di mezzogiorno, alla sua forma pomeridiana più matura» (p. 217), in grado di offrire risposte accettabili ad una lunga serie di domande particolarmente stringenti e di fondamentale importanza. Mi limito ad esplicitarne solo quattro che personalmente avverto essere di grande rilievo.

Quali sono le forme di espressione della fede e del cristianesimo che emergono dalla crisi attuale che deve stimolarci non alla rassegnazione ma a trovare nuove strade e nuove opportunità per risvegliare negli uomini e nelle donne di oggi la forza terapeutica e umanizzante della fede?
Come passare dalla religione alla spiritualità, intesa come stile di vita interiore della fede e come prassi esteriore che si esprime, a livello individuale e collettivo, nelle azioni dei credenti?
Quale forma di Chiesa può rispondere ai bisogni della fede nell’attenzione agli odierni segni dei tempi?
Come portare a compimento lo sforzo avviato dal Concilio Vaticano II di passare dal «cattolicesimo» alla cattolicità, promuovendo e consolidando un ecumenismo che non si limiti alle relazioni tra le Chiese cristiane, ma che si apra al dialogo interreligioso e si unisca allo sforzo di riunire l’intera famiglia umana nella fraternità e nella responsabilità comune verso l’intera creazione?
La fede è un viaggio e i cristiani sono uomini e donne della via
La fede, come la intende Tomáš Halík, «è qualcosa di assai più sostanziale del consenso prestato ad una articolo di fede stabilito dall’autorità ecclesiastica» (p. 28). Quello di Halik «è un libro sulla fede come via alla ricerca di Dio», come «atteggiamento esistenziale», come «orientamento» e «modo in cui stiamo al mondo e lo interpretiamo», piuttosto che come l’insieme di opinioni, convinzioni e credenze (p. 16).

Siamo cristiani e cristiane non perché crediamo nell’esistenza di Dio, ma perché conosciamo e crediamo l’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16): solo chi ama, infatti, «può comprendere che cosa significhi la parola Dio» (1Gv 4,8). «La fede è inseparabile dall’amore e noi abbiamo entrambi, fede e amore, solo in forma di speranza e desiderio, mai di possesso» (p. 182). Se vogliamo verificare l’autenticità della fede, «non cerchiamola in ciò che una persona professa a parole, ma nella misura in cui la fede è penetrata e ha cambiato la sua esistenza, il suo cuore» (p. 31).

«La fede è un viaggio, e per questo possiamo dire di essere sul cammino della fede anche quando ci affligge la sensazione della sua debolezza e insufficienza» (p. 175). «I discepoli di Gesù, prima di ricevere ad Antiochia il nome di cristiani, venivano chiamati la Via. Oggi, sulla soglia del pomeriggio del cristianesimo, la Chiesa deve tornare a essere la società della Via», sviluppando il carattere peregrinante della fede (p. 240).

Viviamo in un tempo e in uno spazio in cui la fede è chiamata ad uscire dalla casa delle certezze in cui abitava e a mettersi di nuovo in viaggio per cercare. Quello della fede è un dono immensamente prezioso della grazia di Dio: ma non meno preziosa è l’inquietudine del cuore umano «che non permette di adagiarsi in una forma di fede accolta o raggiunta, ma spinge sempre alla ricerca e al desiderio di andare oltre. Anche gli interrogativi critici, i dubbi e le crisi di fede possono divenire stimoli produttivi su questo cammino» (p. 187).

La fede che non si pone domande critiche può cadere nell’abisso non solo del bigottismo, ma anche dello scetticismo, del cinismo o della disperazione (p. 209), Una fede meditata e matura è terapeutica: «protegge da malattie infettive quali l’intolleranza, il fondamentalismo e il fanatismo» (p. 234).

«Per una fede che non smetta mai di essere ricerca di Dio, è importante la preghiera; non come mezzo degli umani per spingere Dio a esaudire i loro desideri, ma come creazione di un silenzio interiore in cui le persone provano a percepire la presenza del Dio nascosto e a capire la sua volontà» (p. 181).

La nostra fede e la nostra speranza non spogliano «il nostro amore della fedeltà alla terra, all’oggi e al presente, non tolgono al mondo la sua bellezza e alla vita nel mondo le sue serietà e responsabilità. Quando l’Assoluto, con un umile forse soffia la speranza nella nostra vita, piuttosto che indebolirla la rafforza. Quando un raggio di santità illumina la nostra quotidianità, le dona bellezza, gioia, libertà e profondità». Il Dio in cui i cristiani credono è un Dio che danza (pp. 224-225).

Peraltro, per quanto riguarda la parola Dio, Tomáš Halík si affianca a Karl Rahner «nel riconoscere come questa sia talmente carica di nozioni problematiche che forse sarebbe utile distanziarsene almeno in parte», nella convinzione profonda, tuttavia, che «se ignorassimo o rifiutassimo apertamente questa dimensione trascendentale, il nostro rapporto con la vita terrena non ne gioverebbe affatto in vitalità, pienezza e autenticità, piuttosto il contrario» (p. 220).

Dalla religione alla spiritualità
Una delle tesi fondamentali del libro di Tomáš Halík è che il futuro delle Chiese cristiane dipende sostanzialmente dal modo, dal tempo e dalla misura in cui sapranno comprendere l’importanza del cambiamento di rotta che deve compiere il cristianesimo: dalla religione alla spiritualità (p. 191). Spiritualità intesa come «stile di vita della fede» e come linfa che nutre l’esperienza sia interiore che esteriore della fede che si si esprime nelle azioni dei credenti nella società, nelle celebrazioni collettive e nella cultura (pp. 27-28). Anzi, il cambiamento di rotta dalla religione alla spiritualità è «la sfida principale per il cristianesimo ecclesiale di oggi» (p. 191).

Essere uomini e donne spirituali significa essere uomini e donne che non vivono solamente sulla superfice della vita, ma attingono dal profondo (p. 251). «La spiritualità aggiunge alla fede la passione, la vitalità, l’attrattiva, l’ardore; per questo non bisogna dimenticare, nel trasmettere la fede, la fiamma della spiritualità; non bisogna spegnerla, ma prendersene cura, se non vogliamo che della fede resti solo un’arida, impietrita religione» (pp. 202-203).

La spiritualità è la linfa e la passione della fede, è ciò che le dà vita e continuamente la ravviva, è l’apertura stessa per la quale la grazia, la vita stessa di Dio, può scorrere nella fede personale (p. 223).

La passione, il desiderio, l’esperienza interiore, la spiritualità costituiscono, per Halik, l’ortopatia (il giusto sentimento). Questa, preceduta dall’ortodossia (le giuste idee) e dall’ortoprassi (la giusta azione), è la terza, più profonda dimensione del vivere nella verità cristiana, «libro che nessuno di noi ha ancora letto sino alla fine» dal momento che «non siamo padroni della verità, ma amanti della verità e amanti di Gesù che solo può dire: Io sono la verità» (Tomáš Halík, Una via per il cristianesimo europeo, La Rivista del Clero Italiano, 2/2023, pp. 99-100).

Tomáš Halík è convinto che i punti focali del cristianesimo nel pomeriggio della sua storia saranno non le parrocchie territoriali, ma i centri spirituali (p. 238) quali «luoghi di adorazione e contemplazione, ma anche di incontro e di dialogo, dove sia possibile condividere l’esperienza della fede» (p. 237), con l’obiettivo di aiutare i cristiani non a barricarsi nelle loro cittadelle chiuse, ma ad essere lievito e sale nella contemporaneità (p. 240).

La religione è una forza che può essere usata in modo terapeutico o distruttivo: in determinate circostanze può trasformare i conflitti politici internazionali in un rovinoso scontro di civiltà. Va pertanto ricercato il modo in cui l’influenza morale della religione si unisce al «riparare il mondo»: può contribuire a questo la spiritualità. «Se le religioni del mondo sapranno sviluppare la propria dimensione spirituale, questa potrà contribuire in modo significativo al dialogo interreligioso, che è tra i compiti più urgenti della nostra epoca» (p. 125).

Per passare dalla religione alla spiritualità è fondamentale il ruolo della teologia. «Il linguaggio della teologia deve sorgere da una coscienza in ascolto di Dio e personalmente coinvolta». «Se Dio non è per noi un Tu personale, ma solamente un lui oppure quello – una cosa di cui possiamo parlare con distacco in modo impersonale, senza coinvolgimento, oggettivamente – allora non stiamo parlando di Dio ma di un idolo» (p. 205).

«La teologia aggiustata nella forma di un sistema chiuso e inconfutabile di sillogismi, in cui non c’è traccia del dramma della ricerca personale di Dio e della lotta tra fede e scetticismo» è sempre apparsa al nostro Autore «fredda e immobile come un corpo morto senza anima» (p. 206). Tra i compiti della teologia anche quello di elaborare le spinte riformatrici volute da papa Francesco (p. 118). La riforma della Chiesa, infatti, deve andare più in là della sola modifica delle strutture istituzionali: deve sgorgare da fonti teologiche più profonde e dal rinnovamento spirituale (p. 119).

Quattro forme di Chiesa
Quattro sono – per Tomáš Halík – le forme di Chiesa che possono rispondere agli attuali bisogni della fede: Chiesa come popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia, Chiesa come scuola di sapienza cristiana, Chiesa come ospedale da campo, Chiesa come luogo di incontro e di dialogo per il servizio di accompagnamento spirituale e di riconciliazione (p. 229).

(a) La definizione di Chiesa come popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia e, quindi, alle prese con incessanti cambiamenti «è un elemento cardine del Concilio Vaticano II» (p. 229).

«Questa immagine delinea una Chiesa in movimento e alle prese con incessanti cambiamenti» che, per nessun suo momento storico, può dire con il Faust di Goethe: sei bello, fermati! (p. 231). Come papa Francesco afferma al n. 160 dell’enciclica Fratelli tutti, «un popolo vivo, dinamico e con un futuro quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso, Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione a essere messo in movimento e in discussione, a essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi» (p. 231).

(b) La Chiesa come scuola di sapienza cristiana richiede che si dia vita a «comunità di una nuova ermeneutica, di una nuova lettura, di una nuova e più profonda interpretazione tanto delle due forme della rivelazione divina – la Scrittura e la Tradizione – quanto della parola di Dio nei segni dei tempi» (pag. 80), intendendosi per tradizione il «movimento creativo di ricontestualizzazione dei contenuti religiosi e loro adattamento a nuovi contesti» (p. 107).

Le comunità cristiane devono essere «comunità di vita, preghiera e insegnamento» nelle quali vige la regola del contemplata aliis tradere, cioè del «trasmettere agli altri solo ciò su cui abbiamo precedentemente meditato noi stessi, che abbiamo assimilato e gustato interiormente» (p. 233).

«In molti Paesi le Chiese (…) stanno sempre più perdendo credibilità: non sono soltanto i non credenti ma anche una buona parte dei fedeli a ritenerle incapaci di offrire risposte competenti, convincenti e comprensibili alle domande fondamentali. Quando ascolto una predica o leggo lettere pastorali e un certo tipo di stampa religiosa, mi viene in mente che, oltre che sul perché le persone si allontanano, dovremmo indagare anche su dove trovano la forza e la pazienza quelli che rimangono» (pp. 130-131).

(c) La Chiesa come ospedale da campo deve «prendersi cura anche della salute dell’intera società» (p. 242).

Essa deve essere in grado di offrire «diagnosi» competenti con la lettura dei segni dei tempi, «prevenzioni» vigorose nei confronti di ideologie devastanti (come il populismo, il fondamentalismo e il nazionalismo,) «terapie» appropriate per guarire le persone ferite fisicamente, socialmente, psicologicamente e spiritualmente e «riabilitazioni» efficaci soprattutto là dove da lungo periodo perdurano traumi, colpe non pacificate, relazioni danneggiate (pp. 234-237). Si tratta di resistere alla tentazione di fare della Chiesa «un ghetto, un bunker fortificato e inaccessibile, un mausoleo per le certezze di ieri o un giardino privato per consumatori di sostanze calmanti e anestetiche» (p. 48).

(d) Dalla Chiesa, come luogo di incontro e di dialogo con tutti (pp. 237-240), ci si deve attendere un servizio di accompagnamento spirituale che si muova «al confine tra sfera religiosa e sfera secolare» e che abbia «una capacità molto sviluppata di empatia e di rispetto dei valori» (p. 249) professati dagli interlocutori.

L’accompagnatore spirituale non è necessariamente un servitore ordinato della Chiesa: può svolgere questo prezioso servizio chi pratica la contemplazione. È tale non chi vive sulla superficie della vita, ma chi attinge dal profondo (p. 251). «Scendere nel profondo non significa voltare le spalle alla nostra quotidianità e alle nostre relazioni con gli altri. Se spostiamo il baricentro della nostra vita su quel centro interiore, incontreremo in modo nuovo e più pieno Dio, ma anche le altre persone e l’intera orchestra della Creazione. Dio come profondità del reale è Dio in tutte le cose» (p. 252).

Passi concreti per far crescere l’ecumenismo
Altro compito del cristianesimo nella fase pomeridiana della sua storia è quello di compiere passi concreti per far crescere una nuova oikoumene, un nuovo ecumenismo (p. 145) che contribuisca a costruire ciò che papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, ritenuta da Halík il documento più importante della nostra epoca, paragonabile alla Dichiarazione universale dei diritti umani (p. 258), chiama fratellanza umana (p.144) per riunificare tutta la famiglia umana nello sforzo teso ad assumere la responsabilità nei confronti del mondo che insieme condividiamo.

L’ecumenismo non può rimanere chiuso entro i limiti delle relazioni e dell’avvicinamento tra le Chiese cristiane (primo ecumenismo). Non può neppure rimanere circoscritto al dialogo interreligioso (secondo ecumenismo). C’è un terzo ecumenismo da praticare e consolidare: è quello che si pone in atteggiamento di dialogo con l’umanesimo secolare (p. 76), costruendo una reciprocità tra credenti e chi, pur non condividendo una fede religiosa (p. 144), non è chiuso al mistero che noi designiamo con il nome di Dio.

L’idea di un Cristo ben più grande delle idee che abbiamo di lui (p. 260), di un Cristo «decisamente molto più grande di quello descritto nelle varie predicazioni di carattere sentimental-moralistico o scolasticamente insipido degli ultimi secoli» (p. 164), di un Cristo «presente in tutte le creature» (p. 165), di un Cristo universale «presente nell’evoluzione del cosmo» (p. 259), di un Cristo «misterioso obiettivo escatologico della storia e anche di ogni vita umana» (p. 165), di un Cristo nascosto nel povero, nell’affamato, nel nudo, nell’indifeso, nel perseguitato (p. 169), offre al secondo e al terzo ecumenismo nuove opportunità di sviluppo e di consolidamento, consentendo di «avvicinarsi alle altre religioni e alle persone non religiose, ma spirituali» (p. 165), a chi ha «una sorta di fede cristiana anche in assenza di riferimenti espliciti al cristianesimo» (p. 132).
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