Libro di Papa Francesco: “Ti voglio bene”

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Ti voglio bene, tu sei importante per me, conto su di te: amicizia, affetto, considerazione, attenzione, cura, sono desideri imperiosi che ci accomunano e di cui il cuore ha sete innata. Tutti abbiamo bisogno di amare e di essere amati. Nell’esperienza di ciascuno, la condivisione del bene dimezza il dispiacere e amplifica la gioia. Il comandamento dell’amore che Gesù ci ha lasciato ci chiama proprio a questo: all’amore per gli altri, e autenticamente per noi stessi, come strada per rendere la nostra vita piena, ricca, soddisfacente. L’amore è il dono più grande che abbiamo ricevuto, e il più grande che possiamo fare. Avvicina, rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. Non è una fantasia zuccherosa, una telenovela sempre col sottofondo di violini, ma un’esperienza estremamente concreta, a volte rischiosa. Un cammino esigente, che tuttavia conduce a una meta certa: quella di una vita realizzata. L’amore è la porta della gioia e la cura delle solitudini e delle ansie che l’esperienza di ogni giorno può riservare. “Ti voglio bene” è il manifesto di Papa Francesco su quello che è, in tutte le sue declinazioni, il tema cruciale della nostra esistenza e del suo magistero: l’amore. In queste pagine le sue parole – e anche quelle dei libri e dei film da lui più amati – esplorano ogni aspetto e tracciano un percorso per i nostri cuori, gettando infiniti e contagiosi semi di realizzazione di sé, di giustizia, di felicità. Con i brani più amati di García Márquez, Dante Alighieri, Dostoevskij, Ungaretti, Balzac, Tolkien, Merini, Romero, Pasternak, San Francesco, Manzoni, Kierkegaard, Novalis, Borges e molti altri. Pubblicato in collaborazione con Libreria Editrice Vaticana, “Ti voglio bene” è il manifesto per una gioia condivisa.

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Libro. CAMMINANDO VERSO LA PASQUA Meditazioni e piccoli esercizi

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Una piccola guida personale, scandita lungo le settimane, per condurre il lettore a curare la propria vita spirituale in vista delle giornate quaresimali e delle feste pasquali. Con uno spazio per scrivere le proprie riflessioni. Un libro da comprare per sé stessi o da regalare ad amici e parenti che vogliono vivere la preparazione al Triduo Santo in maniera originale. Perfetto da leggere la sera, o in viaggio; una compagnia preziosa con le parole di padre Enzo Fortunato, per i giorni in cui vogliamo dare spazio ai grandi temi della Passione, Morte e Resurrezione, per comprendere meglio il mistero della nostra salvezza.

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Libro. Il Dio di Gesù

>>> Qui con sconto 5% – PAOLO CURTAZ, Il Dio di Gesù. Pregare il “Padre nostro” (Scintille dello Spirito), Ed. Paoline, Milano 2023, pp. 126, € 16,00, ISBN 9788831556392.

di: Roberto Mela in Settimana News

Nell’Anno della preghiera indetto da papa Francesco in preparazione all’Anno Giubilare del 2025 appare provvidenziale il libro del biblista e scrittore valdostano, ben conosciuto dal pubblico per i suoi libri e le sue conferenze. Nel suo caratteristico stile espositivo semplice ma profondo, egli intende introdurre il lettore alla meditazione e alla degustazione della preghiera per eccellenza del discepolo di Gesù, il Padre nostro (PN), «breviarium totius evangelii».

La preghiera
Curtaz introduce le sue riflessioni con alcune note riguardanti il tema generale della preghiera (“Insegnaci a pregare”, pp. 5-20), quale cammino per entrare in comunione con il Dio rivelatoci da Gesù. L’uomo ha bisogno di incontrare la propria anima, fare spazio all’interiorità per poi aprirla alle radici più profonde, la conoscenza di Dio.

Il Vangelo di Luca, seguito da Curtaz, mostra varie volte Gesù in preghiera e mentre imparte degli insegnamenti riguardanti la necessità, le caratteristiche e lo scopo della preghiera.

Pregare con Gesù, pregare il Padre di Gesù, significa anzitutto che gli stiamo a cuore, che esiste una logica nel suo agire, nel pieno rispetto della nostra libertà. Gesù ci svela il volto del Padre e, come figli nel Figlio, ci possiamo rivolgere con confidenza a lui.

La preghiera è un colloquio intimo, una reciproca intesa, ma è fatta anzitutto di ascolto, di ascolto di Dio, e di intercessione per il mondo e non solo per i bisogni personali.

Nella preghiera possiamo rintracciare la presenza di Dio nelle nostre giornate, riusciamo a conservare la fede e a renderla efficace per la nostra vita. Occorre una preghiera personale, oltre a quella comunitaria e sacramentale.

Curtaz annota un protocollo per la preghiera. Essa ha bisogno anzitutto di un me autentico, senza maschere. Necessita poi di un tempo scelto e custodito con cura, giornaliero. Un luogo appropriato facilita l’accesso a Dio nel colloquio orante. Ha bisogno di una parola da dire col cuore, una parola vera, per ringraziare, lodare, tacere, prendersela con Dio. La preghiera ha bisogno, infine, di una parola da ricevere, quella che Dio ci dona, prima o dopo le nostre parole.

Molto utile la lettura del Vangelo proclamato nella liturgia del giorno e la conclusione con un salmo o una preghiera di affidamento a Maria.

Il Padre nostro
La preghiera per eccellenza, consegnataci da Gesù stesso, è il Padre nostro, che ci svela il mistero della vita divina. Gesù non ha insegnato delle preghiere ma a pregare, perché, attraverso la preghiera, ci mettiamo in ascolto, sintonizziamo la nostra anima, ci poniamo di fronte al Dio che, in Gesù, abbiamo conosciuto.

La perla preziosa consegnataci nel Padre nostro va recitata con attenzione e stupore, come accadeva ai catecumeni dei primi secoli. Essa è collocata al centro della celebrazione eucaristica, con sette richieste, tre riguardanti Dio e quattro riguardanti noi.

Nel Padre nostro ci rivolgiamo al Dio di Gesù, che è rivelato non solo come misericordioso e provvidente per il suo popolo, ma padre di ciascuno dei suoi figli. Gesù lo chiama affettuosamente Abba, Dio è padre e madre, è buono.

Gesù sposta l’attenzione dalla teologia alle emozioni e parte dall’esperienza umana per farci apprezzare Dio come padre che ci ama, ha cura di noi, ci corregge, ci raggiunge attraverso il linguaggio della relazione e degli affetti. La preghiera del PN ci fa sentire amati, apprezzati.

Questa preghiera ci mostra un Padre che è riservato non solo al singolo, ma alla famiglia dei figli di Dio, un «noi» entro cui il singolo è inserito in profonda comunione.

La Chiesa è radunata da Dio e mette insieme le diversità. Non ci si sceglie, ma si è scelti da Dio.

Il nostro, detto di Dio, indica che è possibile costruire un mondo diverso, costruire relazioni fra le persone andando alla sorgente del nostro esistere, che è Dio. Nel tempo di mezzo che ci separa dall’avvento finale del Regno, il discepolo di Gesù crede in un Dio felice che ci vuole felici.

Il PN aiuta a uscire dall’autoreferenzialità e a costruire il sogno di Dio che è la Chiesa. Pregare il PN significa scoprire parte di una comunità di «carbonari» della fede dispersa fra i continenti, sperimentare la beatitudine di essere fratello, sorella e madre del Signore perché ascoltiamo la Parola, assaporare l’ebbrezza di essere concittadini dei santi e famigliari di Dio.

Dio è padre e madre, papà e mamma. Dolce e autorevole insieme. Egli è il celato, il nascosto («nei cieli»). Dio è al di sopra e altrove, oltre, ovunque. È nascosto per lasciarci liberi, anche di rifiutarlo. L’universo è pieno dell’assenza di Dio…

La preghiera del Maestro ci indica un orizzonte: Dio Padre/Madre abita l’altro, la pienezza, ma ne possiamo fare esperienza diventando discepoli. «La preghiera del Signore, allora, la preghiera di chi si scopre figlio di Dio, ci rivela il vero volto di Dio, di un Dio che ama e che accomuna, che rispetta i suoi figli e li invita a cercare, a scoprire, a vivere, a fiorire. Che meraviglia!» (p. 34).

Curtaz suggerisce di aggiungere la parola Padre al termine di ogni frase del Padre nostro. Siamo figli ma anche cercatori: «Padre nostro che sei celato e che ci obblighi alla ricerca» (ivi).

Santità

Con la richiesta «Sia santificato il tuo nome», intercediamo perché ognuno possa scoprire il Kadosh, il Totalmente altro, la sua bellezza già intravista dal discepolo negli occhi del Nazareno. Chiediamo che «in Gesù ogni essere vivente sperimenti la salvezza, che è la consapevolezza piena e duratura di essere amati e di poter amare» (p. 37).

Gesù insegna che, per realizzare pienamente la propria vita, occorre scoprirsi figli di un Padre/Madre che ci chiede di collaborare al suo straordinario progetto di salvezza, a scoprire che Dio è il Santo e noi viviamo alla sua luce. Scopro la mia identità specchiandomi in Dio. Scopro la mia chiamata, il mio progetto di vita in armonia con quello di Dio. Sempre nella libertà.

Dio è il lontano che si rende accessibile, che desidera partecipare la sua natura divina. Egli desidera partecipare sé stesso all’essere umano. Renderci santi come lui è santo. Santi nel Santo. I santi sono i discepoli che hanno creduto nel sogno di Dio, si sono fidati e lasciati fare da Dio. Santo è chi lascia che il Signore riempia la sua vita fino a farla diventare dono per gli altri.

Nel PN preghiamo perché tutti possano scoprire che «Dio c’è ed è bellissimo!» (p. 46). Occorre riscoprire il vero volto di Dio, non quello fuorviante di giudice inflessibile, ma il Dio bellissimo rivelatoci da Gesù. Certo, rimane il dolore, anche il dolore innocente, ma la felicità richiede sempre anche dei passaggi dolorosi.

Col PN smetto di fare la vittima e assumo lo sguardo di Dio su di me, sugli altri, sul mondo. Uno sguardo che santifica, che vede la presenza del Santo. La preghiera rende naturale riconoscere i segni della santità ovunque: nelle persone, nella natura, nelle opere, nei gesti, nell’arte, nella musica ecc. Partecipare alla santità di Dio significa diventare radicalmente ottimisti e positivi.

Il Regno

Nel PN chiediamo che venga il Regno di Dio. Esso è là dove Dio regna. È scoprire il grande progetto di Dio sulla storia, un progetto di bene e di salvezza. È capire che siamo chiamati a realizzare, ancora in seme, la visione che Dio ha sul mondo, vivendo in comunità.

La Chiesa dovrebbe e potrebbe in qualche modo anticipare questo Regno. Essa raduna i discepoli che desiderano e possono vivere l’unica legge dataci da Gesù: sapersi amati e scegliere di amare come siamo stati amati. Gesù ci chiede di rendere presente il Regno, di anticiparlo. È la vocazione della Chiesa, la sposa che invoca la venuta definitiva dello Sposo.

Gesù ha chiamato attorno a sé dei discepoli, che ha colmato dello Spirito e a cui ha affidato degli incarichi, perché, agendo insieme a lui, predichino il Regno, annunciando il definitivo, agendo sulla terra con il cuore orientato all’altrove. I discepoli sono costruttori del Regno, gente già salvata che manifesta con la propria vita la salvezza.

La Chiesa vive e anticipa il Regno, con spazi di accoglienza, di misericordia e, di compassione, di gioia, di trasparenza del vangelo.

Chi è la Chiesa? si domanda Curtaz. La Chiesa non è una holding del sacro, ma la compagnia dei discepoli chiamati dal Signore per stare con lui, annunciare il vangelo, fare arretrare il male. Il tempo dell’avvento finale tarda. È necessario che il vangelo sia annunciato a tutte le genti. Il discepolo chiede e realizza, costruendo nella consapevolezza che tutto è già e non ancora.

La volontà di Dio

La volontà di Dio che chiediamo sia compiuta non è qualcosa di terribile e di ineluttabile, cieca di fronte al dolore e al male. La volontà di Dio non è mai il male, la sofferenza, la punizione, l’abbandono, la stranezza o l’incomprensibile. Chiediamo che Dio faccia in me il bene che ha previsto, e che io non lo ostacoli. La sua è una volontà di bene e di pace, ma la presenza della lotta interiore di violenza e di morte lascia vedere che l’amore lascia liberi e che siamo chiamati a scegliere col libero arbitrio.

Dire di no a Dio, il peccato, è male perché ci fa male, non perché l’ha deciso Dio. Dio è felice e vuole che ogni persona sia felice, goda cioè la salvezza. In Gesù, Dio mostra la sua volontà di bene e di salvezza (cf. la guarigione del lebbroso ecc.). Dio ci ha creati senza di noi, ma non ci salva senza di noi.

Gesù stesso ha vissuto il dolore dell’abbandono, fino alla morte in croce. Perché? «Per essere credibile» (p. 73). La croce è la suprema manifestazione dell’amore di Dio. L’angoscia di Gesù si fonda sulla consapevolezza che il suo sacrificio potrebbe rivelarsi inutile. «È un rischio, il suo, il più terribile: quello di essere il per-sempre-dimenticato» (p. 74).

Gesù chiede di prendere ogni giorno la propria croce. Non è Dio a mandare le croci, ma la vita, gli altri, i nostri giri di testa. Prendere la croce è vivere donando, assumere la logica di Gesù che, di conseguenza, ci fa scegliere di donare la nostra vita.

Dio è felice, ci vuole felici, conosce ciò che è veramente il nostro bene. Ci fidiamo di lui e gli chiediamo di compiere in noi la sua volontà. Non solo sulla terra, fra le cose visibili, ma anche nel mondo invisibile, il mondo in cui Dio regna in pienezza, il mondo celato.

Chiediamo al Padre di aiutarci a costruire questo mondo nascosto, prendendolo come modello, senza arrendersi all’evidenza sensibile, col coraggio di sperare e di sognare al di là del visibile, guardare con sguardo puro e luminoso gli eventi, capendo che la nostra vita si misura sulla nostra capacità di amare.

Invocare come modello il mondo “celato” impegna a mettere al centro della nostra azione pastorale l’umanità nuova, il modello che la Chiesa dovrebbe rappresentare nel mondo concreto in cui vive. Il discepolo si rimbocca le maniche, cambia la miseria attuale per amore di Cristo che vede riflesso nel povero, ama questo mondo amato da Dio e cerca di trasfiguralo.

Pane

Dopo la prima parte del PN rivolta a Dio sperimentato come Padre/Madre, la seconda parte della preghiera abbassa lo sguardo sull’esistenza quotidiana, su cosa è indispensabile per la vita. La vita è fatta di relazione e di ricerca di Dio ma anche di occupazione circa le necessità del corpo. Il discepolo di Gesù vive la vita quotidiana come un dono, con sguardo positivo su di sé e sugli altri. Le quattro richieste vengono sintetizzate in tre: pane, perdono, libertà.

Il discepolo chiede il pane impegnandosi a guadagnarlo lavorando e a condividerlo. Chiediamo di guadagnare il nostro pane con pace, giustizia, dignità e onore, e ci impegniamo affinché ogni persona abbia di che vivere.

Chiediamo il pane quotidiano, il che ci obbliga a fidarci, a non accumulare, ad avere il giusto rapporto con il possesso e il denaro. Anche la ricchezza è un bene, ma va compartecipata. Il cuore dell’uomo è fatto per l’Assoluto e nessun bene o denaro può colmarlo. Chiedendo il pane giorno per giorno, ci interroghiamo sulla bramosia, sul desiderio smodato di possedere (le realtà più diverse). Dio ci cura e ci protegge, come fa con i passeri, che non cadono a terra lontani da Dio, senza che Dio lo sappia (la traduzione più corretta, secondo Curtaz).

Chiediamo il pane solo per oggi, fidandoci della provvidenza di Dio. Domani faremo la stessa richiesta, ma con fiducia. Dio è affidabile, ma chiediamo e agiamo. Lui ci rende capaci di agire e di guadagnare il nostro pane. Non viviamo però solo di pane, ma anche di amore, lavoro, casa, rispetto, affetto, gioia delle cose semplici…

Chiedendo il pane necessario per vivere, riconosciamo che tutto è realtà penultima, che tutto proviene da Dio. Il discepolo riconosce questo e chiede al Padre/Madre come realtà ultima il pane dell’amore. Siamo di Dio e chiediamo il pane che è il Signore stesso, la sua presenza nel nostro cammino verso la pienezza del Regno.

Perdono

Prima del perdono c’è il peccato, che nella Bibbia e equivale a dire di no a Dio, fallire il bersaglio, seguire una strada che porta lontano dalla vera gioia. Il peccato è male perché ci fa male, perché distrugge la nostra somiglianza con Dio e ci allontana dalla nostra natura profonda.

Gesù ci svela il volto del Dio misericordioso e la salvezza passa anche attraverso il perdono dei peccati (cf. il paralitico di Mc 9,2).

Nel Vangelo, Gesù dice che, se abbiamo peccato, Dio ci perdona, perciò ci pentiamo. Dio previene e supera il nostro pentimento perdonandoci, facendoci vedere quanto siamo amati. A prescindere. Questo fa correre il rischio di svilire e di sciupare il perdono. Gesù constata con dolore che il peccatore che rifiuta il perdono gratuito di Dio si condanna da solo all’aridità interiore, come il ricco epulone (cf. Lc 16,20).

Gesù dona il perdono al paralitico (cf. Mt 9,2-7). Un perdono liberante. Che tocca anche il corpo, paralizzato non per punizione divina, come si pensava. Dio ci rimette in cammino e ci dona libertà, perdonandoci in anticipo. Un amore che precede il perdono e suscita ulteriore amore (cf. la peccatrice di Lc 7,47-50). Gesù legge nel cuore della donna un desiderio di cambiamento, di accoglienza, di verità.

Il senso di colpa non ha nulla a che vedere col peccato e con il perdono. Pietro fatica a superare il suo senso di colpa, di inadeguatezza. Gesù lo libera definitivamente da ciò affidandogli la custodia dei fratelli. Gesù perdona i suoi discepoli e affida alla sua Chiesa il dono della riconciliazione all’interno della comunità, in forme e tempi diversi.

Il perdono non è un’amnesia. Il perdono è una scelta sofferta e basata sulla volontà, e può conoscere gradi progressivi. Perdonare significa prendere coscienza dei nostri limiti e perciò accettare quelli degli altri. Significa mettersi nell’ottica di Dio, raggiungere la pace del cuore.

La Chiesa non è un popolo di coerenti, ma di perdonati, di sconvolti, di cambiati. Chiediamo il perdono vincolandolo al nostro modo di perdonare. «Come anche noi» ci inchioda alle nostre responsabilità. Chiediamo a Dio di renderci capaci di perdonare, senza aspettare il perdono perfetto, senza aspettare che l’altro cambi, senza per forza dimenticare il torto subito.

Il discepolo di Gesù esce dal tragico moralismo della nostra società, tollerante con le proprie mancanze e intransigente con i peccati degli altri. Il Padre buono pone i discepoli in un’ottica diversa, in cui il metro di giudizio delle persone non è la loro presunta coerenza assoluta, ma la capacità di riconoscersi bisognosi di perdono per poter perdonare gli altri.

Non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male

Dio non induce nessuno alla tentazione. Nel mondo esiste la tragica esperienza del mistero dell’iniquità (cf. Rm 7,18-21). Citando Betori, Curtaz afferma che chiediamo a Dio di non abbandonarci, affinché non cadiamo nella tentazione, ma anche di non abbandonarci alla tentazione quando già siamo nella tentazione. Dio ci resti al nostro fianco e ci preservi dall’entrare nella tentazione e sia presente anche quando ci siamo già dentro. Chiediamo che non ci lasci soli nel momento del discernimento.

Discernere bene è possibile solo ascoltando la Parola, pregando, acquisendo lo sguardo di Dio sul mondo e sulle persone, scoprendo il mistero di salvezza di Dio nascosto nei secoli e decidendo di parteciparvi con gioia, al meglio delle nostre possibilità. Chiediamo a Dio Padre/Madre di aiutarci a capire cosa è bene e cosa è male, cosa ci porta alla vita e cosa ci conduce alla morte.

La tentazione è ambigua, talvolta ci arriva dagli eventi della vita, quando siamo travolti dal dolore che ci presenta il rischio di perdere la fede e di sprofondare nella disperazione. «E preghiamo: Quando il male è alle porte, il male che è la malattia, il male che è la tenebra dell’inconscio, il male che è la conseguenza delle nostre scelte sbagliate, Signore, non ci abbandonare, non ci lasciare» (p. 113).

Pregando così Gesù ci insegna la fede, la speranza, la fiducia.

Il Maligno esiste, ma non va banalizzato, o caricato di eccessiva importanza a scapito del bene, con la deresponsabilizzazione della coscienza e della scelta personale. C’è la lotta interiore, il discernimento fra ciò che distrugge o crea la vita, perché il male si traveste sempre da bene.

«L’opera del Maligno (che esiste ed è meno goffo e caricaturale di come ce lo immaginiamo) consiste esattamente nell’intorbidare le acque […], nell’ingigantire il particolare a scapito della visione d’insieme, nello sminuire o offuscare le conseguenze catastrofiche delle nostre scelte. Il diavolo fa credere di esser peggiori di come possiamo essere veramente» (pp. 115-116).

La Scrittura è sana ed equilibrata: «Afferma l’esistenza del Maligno, che agisce e opera influenzando l’essere umano, ma l’essere umano resta libero di scegliere e di agire per il bene» (p. 116).

In Lc 11,21-26 Gesù fornisce una lettura straordinaria del Maligno e della vita spirituale. Satana non può scacciare Satana. Il male agisce, travestendosi da bene. Mette a dura prova la nostra libertà, facendoci credere che non esiste il peccato. Con umiltà, però, «accogliamo Gesù, uomo forte, a vegliare sulla piccola dimora del nostro cuore» (p. 118). A essere forti nella tentazione grazie alla preghiera. Senza esagerare, dice Gesù: una casa troppo linda e pulita attira l’attenzione di molti demoni!…

Il Maligno esiste e lavora per tenerci lontani da Dio. Ci sono ancora battaglie e scaramucce, ma la guerra è stata vinta da Gesù risorto! Ci sono necessari il pane, il perdono, l’aiuto di Dio nella tentazione. E il dono della libertà.

Chiediamo a Dio di liberarci da ogni male, da tutto ciò che ci fa del male. Il male è l’ombra della luce, l’altra faccia della nostra dignità, la possibilità di sbagliare. «“Liberaci dal male” significa accettare che la realtà del peccato dimora nella nostra vita ma non la possiede. La blandisce e la ferisce, ma non la uccide, perché noi apparteniamo al Signore. In Cristo siamo creature nuove, siamo liberi dall’ombra per diventare liberi, per amare come egli ci ha insegnato. Nel tempo di mezzo, chiediamo al Padre di renderci persone libere, che non temono la tenebra, che vivono, per quanto possibile, nella dignità di scoprirsi figli e figlie!» (p. 120).

Amen, aggiunge Curtaz alla preghiera del PN. Ci credo, è così, ne sono certo, lo so. Affidandoci la preghiera del Padre nostro, «noi discepoli cresciamo nella consapevolezza dell’identità profonda di Dio, ma anche di noi stessi» (p. 121). Occorre meditare il PN, assaporandone ogni parola, ogni invocazione. Cresceremo nella conoscenza del Dio di Gesù e realizzeremo per la nostra parte il Regno che viene.

Bel libro di meditazione, accessibile a tutti. Smonta varie idee sbagliate su Dio, sul male, sul dolore, e fa gustare la gioia di vivere da figli del Dio di Gesù, che è Padre e Madre, un Dio felice che ci vuole felici.

In un libro il “Messaggio speciale” del presepe per i bambini del mondo

Ferdinando Albertazzi, autore di riferimento di narrativa per ragazzi, firma un nuovo volume edito da ChiareEdizioni incentrato sull’Avvento e sul Natale. Racconta di una bambina, Cucciola, che impara la gioia del dono e che riceverà in cambio la più bella delle sorprese

Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano

I libri per bambini possiedono un fascino innegabile: sono allegri, pieni di figure e anche la copertina stessa, la forma del libro sono diverse, più accoglienti. Durante le feste natalizie, le atmosfere che raccontano si fanno ancora più fantastiche e i colori delle illustrazioni più vividi. Tra questi, da poco nelle librerie, Messaggio speciale, edito da ChiareEdizioni. Autore del libro è Ferdinando Albertazzi, scrittore, saggista, giornalista, autore di libri tradotti in diversi Paesi, collaboratore di Tuttolibri di La Stampa e del periodico Pepeverde, mentre le illustrazioni sono di Angelo Ruta, che pubblica per le maggiori case editrici e sul supplemento culturale della domenica del Corriere della SeraLa Lettura.

Prologo: è la notte di Natale, ultimo giorno di Avvento

Cucciola, alla Vigilia di Natale, trova che dietro il calendario con l’ultima finestrella, quella più attesa, c’è solo una scatola vuota. La delusione si dipinge sul suo faccino e subito la bimba corre dalla nonna che le rivolge una domanda un po’ strana: “Se dovessi riempirla tu, a chi vorresti fare un bel regalo?”. Chiediamo ad Albertazzi di svelare a Radio Vaticana – Vatican News qualcosa di più del suo libro, di ciò che c’è dietro una storia e di cosa significa scrivere per i lettori più giovani.

Messaggio speciale è suo ultimo libro pubblicato per ChiareEdizioni ed è illustrato da Angelo Ruta. Di cosa parla?

Parlo del Natale, nel senso che è un libro per questo periodo. Mi permetterei di dire con qualche singolarità, perché è incentrato sul calendario dell’Avvento e sul particolarissimo messaggio che la protagonista, la piccola Cucciola, riceve aprendo una scatola che aveva lasciato accanto al presepe, una scatola con un dono per Gesù Bambino, e riaprendola trova qualche cosa che davvero non si aspettava. Mi fermerei qui per non togliere il gusto della sorpresa.

Il finale è sorprendente. Qual è il significato più profondo del libro?

Ha un significato anche abbastanza palese, che è quello di riportare al centro dell’attenzione natalizia: non i regali, non Babbo Natale, non i personaggi che lo caratterizzano, bensì il Natale, cioè Gesù Bambino. È lui il Natale.

Non è il suo primo libro che parla di questo periodo di feste, ne ha scritti altri. E il tema del dono sembra esserne il filo conduttore, appunto il dono che poi si incarna in Gesù. Ce ne ricorda qualcuno?

Soprattutto La cometa nella calza, che è un libro con quattro storie, incentrato ovviamente sul Natale. In questo libro si parte da Gesù Bambino per arrivare alla Befana. Comunque sono quattro storie sul periodo delle feste.

Tornando a Messaggio speciale, Il tema del dono è, come abbiamo detto, al centro. Ma oltre al rifiuto del consumismo, possiamo anticipare che vi è un altro tema molto importante. Un tema che sta molto a cuore di Papa Francesco: i nonni…

Nel libro è la nonna a parlare con Cucciola, è vero, e il motivo è molto semplice: la generazione dei genitori è spesso saltata negli affetti, nel senso che sono troppo impegnati, troppo presi, troppo nevrotici, troppo “telefoninisti”, allora i bambini trovano il vero riferimento d’affetto nei nonni. Per molti è così. Girando nelle scuole per incontri, appunto con i bambini, me lo sento dire molto spesso.

Anche perché la nonna dà una grande lezione alla protagonista, la piccola Cucciola. Questo libro a chi è rivolto? Mi sembra sia a misura di bambini molto piccoli, ma non è consigliata la fascia di età a cui rivolto come di solito si trova nella quarta di copertina di quelli destinati ai più giovani. A chi pensava, a quale età pensava?

Trovo che è un libro condannato a un’età precisa sia un libro che o ha delle catene che non dovrebbero esserci oppure è un libro che vale poco. Un libro non è per bambini perché ci sono dei bambini in copertina o dei bambini protagonisti nel racconto. Un libro “è”. Poi può valere magari specificamente soprattutto per i bambini ma mai esclusivamente. Se vale esclusivamente per loro, se non c’è non c’è nemmeno un passaggio, nemmeno un accenno che lasci almeno un po’ sorpreso l’adulto – che molto spesso è quello che legge ai bambini – allora questo non è un gran libro, è da buttare via. Il fatto che ci siano dei bambini in pagina non è significativo. Peppa Pig ha sul libro il disegno di un maiale, ma questo non significa che sia un libro per i maiali.

Una curiosità, perché comunque scrivere per i bambini è difficile. Vedo spesso libri per ragazzi scritti con parole che un bambino non capisce. I suoi libri, invece e questo in particolare, lo capisce anche un bambino piccolissimo. Forse non lo capisce un adulto, ma un bambino molto piccolo sì, proprio nel senso che ne può afferrare il significato profondo. Ma quanto è difficile scrivere semplicemente per farsi capire anche da un bambino che oggettivamente non dispone di tutti gli strumenti linguistici?

Sinceramente non ne ho idea. Mi limito a dar penna alle storie che arrivano e quindi non è un proposito, non è un impegno e come ho detto prima, non mi pongo mai l’idea di una fascia di età.
La storia ha un suo significato, un suo “come” e il come può essere adatto ai bambini piccoli, ma non esclusivamente.

Allora questo è il suo segreto, direi…

No, non è un segreto, è un modus operandi molto, molto semplicemente. Però non è che ci sia chissà quale disegno dietro questa cosa, va veramente così. E poi, relativamente al capire, vorrei ricordarle un momento di una bella commedia di Roger Vitrac, un drammaturgo molto legato al surrealismo (Victor o i bambini al potere ndr). Victor ha una mamma, una nobildonna che molto spesso riceve in casa le amiche per il tè, come si usava un tempo e magari si usa ancora in certi ceti sociali, e lui però si comportava sempre in maniera piuttosto disinvolta. La mamma un giorno, esasperata, gli dà un ceffone e gli dice: “Victor, quando imparerai a capire che ci si deve comportare in un altro modo?”. Lui si gira lentamente, la fissa e le dice: “L’importante non è capire, l’importante è sentire”. E se ne va. Credo che il motivo delle storie sia questo, non portare a capire. Questi libri non sono dei trattati né dei manuali, casomai si tratta di trasmettere delle sensazioni.

L’illustratore del libro, Angelo Ruta, non è nuovo nei suoi libri, con questi bei colori, questo tratto gentile, molto tenero anche. Ci può parlare di come va di pari passo il lavoro di un illustratore con quello di uno scrittore?

Angelo Ruta è un maestro. È uno dei più importanti illustratori italiani in questo periodo. Lavorare con lui è un privilegio, è una gioia. Che poi dire lavorare con lui è un termine piuttosto improprio, perché i disegni li vedo quando sono realizzati. Non è che ci siano grandi scambi. Lui entra nella storia e ne fa una storia per immagini. Tutto lì, ma con grande bravura.

Il libro è pubblicato da ChiareEdizioni, una piccola casa editrice specializzata in libri illustrati per ragazzi…

Albi illustrati per bambini, collane per adolescenti e per ragazzi. È una piccola casa editrice, ma credo che oggi il respiro più importante, in questa omogeneizzazione, francamente da non poterne più, lo abbiano proprio i piccoli editori. Un respiro vero, con delle proposte con ancora il coraggio di accettare delle sfide, di organizzare delle sfide. Invece i grandi editori, con i quali peraltro pubblico, sono appiattiti sui numeri, non pensano ad altro che a cose che funzionano commercialmente, spesso prendendo dei grandissimi cazzotti in faccia perché commettono dei grandi errori, ma niente la strada è quella: i numeri, i numeri intesi economicamente.

Anche perché questa casa editrice abruzzese non si trova nelle grandi metropoli, ma nelle periferie dell’Italia…

Nella periferia dell’”impero”! Quello è il sasso gettato nello stagno. Le onde si propagano per tutta Italia, ovviamente.

Un’ultima domanda, per concludere: nei libri per ragazzi lei affronta argomenti difficili, per esempio, l’attenzione per i più deboli, far capire ai ragazzi la disabilità come La pelle del cielo (Città Aperta 2003). E poi, soprattutto, un libro che ha riscosso tanto successo e parla della morte, Tommaso è andato via (Interlinea 2004). Cosa può dirmi di questa scelta, che poi è in linea anche con i suoi libri di Natale?

Ebbene sì, c’è un tutto unico, ma a dire la verità e mi scuso per la ripetizione, non è una scelta. Mi limito a prestare la penna alle storie che arrivano. Cerco semplicemente di avere le antenne dritte, ma non credo che ci si possa mettere a tavolino a scegliere un argomento. Se lo si fa, il lettore capisce immediatamente che è una storia falsa, che non ha spessore, che non ha anima. Perché se le storie decise a tavolino diventano libri, sono libri da buttare via.

Essere preti oggi: un mestiere impossibile? Le “istruzioni per l’uso” di don Salvatore Rindone

Una serie di “Istruzioni per l’uso di un mestiere impossibile”, quello del prete, oggi scelto da pochi, ma sempre necessario. Le ha scritte don Salvatore Rindone nel volume “Papà mi faccio prete!” (Il Pozzo di Giacobbe 2023, Collana “Respiro”, Prefazione di Andrea Grillo, pp. 176, 17,00 euro).

La copertina del volume

L’autore ci restituisce in queste pagine redatte con arguzia e autoironia il volto più umano e fragile del prete di oggi, ma forse proprio per questo anche quello più credibile, perché più simile al mistero fragile di Dio.

Abbiamo dialogato con don Salvatore, nato nel 1987, docente di filosofia presso lo Studio Teologico san Paolo di Catania e la Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo, che nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca a Roma, dove anche insegna in qualità di docente invitato.

– Don Salvo, da poco più di 10 anni, esercita questo “mestiere impossibile” nella diocesi di Piazza Armerina, prima come vicario parrocchiale e poi come direttore spirituale del seminario. Qual è la Sua esperienza? 

«Sento profondamente la gioia di essere prete, ma talvolta questo è un “mestiere” impossibile. Il segreto è esercitare questo ministero mettendo a nudo le proprie fragilità. La nostra è un’esperienza concreta, che viviamo quotidianamente nelle parrocchie. Non mi sono mai pentito di essere diventato prete. In realtà da ragazzo non avevo mai immaginato che sarei diventato prete! Ero interessato alle materie scientifiche, da piccolo volevo fare lo scienziato, poi da ragazzino il medico. Dopo la Cresima sono ritornato in parrocchia, lì ho incontrato dei preti “santi”, mi hanno avvicinato dalla fede alla vocazione, che dapprima ho rifiutato ma dopo accolto come un dono grandioso. È un dono di Dio, il Signore me l’ha donato».

– Il volume, diviso in ventuno brevi capitoli, è una specie di piccola teologia del ministero presbiteriale? 

«In qualche modo sì, come ha sottolineato nella Prefazione il Prof Grillo che ringrazio. Il libro non ha nessuna pretesa di esaustività e non vuol dare ordini a nessuno, vuole essere un aiuto per tutti quei preti giovani, che sono appena usciti dal seminario. È anche una sorta di incoraggiamento per loro, affinché ricerchino la felicità nel loro ministero».

– “Quanti sospiri rassegnati per la scelta di un figlio che entra in seminario”. Quali consigli dare ai genitori?

«Innanzitutto bisognerebbe vedere oggi quanti ragazzi desiderano veramente intraprendere questo percorso… Qualora i genitori non sapessero come comportarsi davanti alla decisione del figlio di entrare in seminario, il consiglio che posso dare loro è molto semplice: devono lasciare il proprio figlio libero di fare le sue scelte. Un genitore realizza la propria missione genitoriale quando finalmente il figlio può fare a meno di lui. Il figlio dirà in tal modo ai genitori: “Grazie, con la vostra educazione e insegnamento mi avete reso autonomo”. Si realizzerà così il progetto di Dio per quella vita che sta per prendere il volo. Cioè in questo caso diventare prete».

– Può accadere che un prete si innamori. Ma che fine fanno i preti che, dopo essersi innamorati, hanno lasciato il ministero? 

«Ci sono alcuni testi interessanti, che raccolgono le testimonianze di preti, che hanno lasciato il ministero. Alcuni di loro sono addirittura tornati. Qualche seminarista, che studiava insieme a me ha abbandonato il seminario, perché si era innamorato ed è tornato per sempre alla vita di prima. Questa esperienza dell’innamoramento talvolta è necessaria, perché quando un prete si innamora ha l’opportunità di chiedere a se stesso: “Chi sono?”, “Mi trovo nel posto giusto?”, “Ne vale la pena?”. Durante la formazione può accadere che si dimentichino le proprie emozioni: innamorarsi rivela il cuore dell’uomo che batte sotto la tonaca, significa che c’è un corpo che chiede l’attenzione di un’altra persona e c’è una mente che non  sempre ha il controllo su tutto. In poche parole, ci si scopre uomini e questo può solo fare bene. Imparare inoltre a chiedere aiuto, questo è anche importante».

– È un buon tempo per essere preti oggi, ma soprattutto, ne abbiamo davvero ancora bisogno?

«D’istinto direi di no, alla luce di tanti fatti di cronaca che riguardano il clero. Ma forse non c’è mai stato un tempo di essere buoni preti. Chiamo i preti “santi” tutti quei sacerdoti, e sono tanti, che si prodigano ogni giorno nelle parrocchie, nelle famiglie, tra i parrocchiani, nel quartiere e nelle strade. È sempre un buon tempo per dare l’amore che riceviamo da Dio. Quindi sì, la società ha ancora bisogno della missione dei preti, ma solo ovviamente di quelli “santi”, che sono veramente “interpreti” del messaggio di Dio. C’è da dire che, grazie a Dio, di alcuni modelli di prete non ne abbiamo più bisogno».

– Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è veramente tale, oppure è una crisi della fede? 

«La crisi è generale, molti giovani non sanno che strada intraprendere, come indirizzare il proprio futuro. Vanno a tentativi nella ricerca di una Facoltà adatta a loro. Spesso i ragazzi non sanno quale sia il loro posto nel mondo. La vocazione nasce sempre dalla fede, non accade mai il contrario. Quando va in crisi la vocazione, la fede l’aiuta a ritrovarla.  Quando va in crisi la vocazione ma non c’è la fede, è chiaro che si rischia di perdere tutto».

santalessandro.org

Presentato libro “Un’ape, un lupo, un barbagianni: storie di autismo”

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Presentazione del libro “Un’ape, un lupo, un barbagianni: storie di autismo”, illustrato da Elisa Pellacani (ed. Consulta, 2023): il Dott. Giaroli ha presentato la sua esperienza clinica e di ricerca anglosassone nella diagnosi e nella comunicazione dell’autismo nel bambino e nell’adolescente, inoltre proporrà una visione coraggiosa all’approccio della neuro diversità’ focalizzandosi su una comunicazione aperta e rispettosa delle specifiche necessità emotive e cognitive della persona autistica. Dialogo con la Prof.ssa Paola Damiani docente di Pedagogia speciale UNIMORE, la Dott.ssa Chiara Tamburini, Responsabile Area Servizi educativi domiciliari e autismo per Coress Società Cooperativa sociale. Modera la Dott.ssa Chiara Ferrari Psicologa, AdC SIACSA – ABA Italia, BCBA.

Filosofia. La metafisica “concreta” di Massimo Cacciari in lotta con l’Impossibile

Si chiude la trilogia teoretica iniziata vent’anni fa: in dialogo con Florenskij, Severino e, sui limiti del linguaggio, con scrittori come Dostoevskij

Il filosofo Massimo Cacciari

Il filosofo Massimo Cacciari – Ansa

avvenire.it

Venti anni dopo Della cosa ultimaCacciari porta a compimento la sua trilogia teoretica con Metafisica concreta (Adelphi, pagine 424, euro 38,00). Se in Dell’Inizio la prospettiva era quella della protologia, per cui attraverso il concetto di “onnicompossibile” veniva indagato l’Inizio da cui scaturisce ogni cosa, e in Della cosa ultima l’orizzonte era quello escatologico che si interrogava sulla destinazione del singolo, nel nuovo libro la prospettiva è quella ontologica. La domanda è: qual è la natura dell’essente, a partire da quella unicità che è l’uomo in quanto essere che si interroga su di sé e sul mondo? Una domanda che ne implica una seconda: qual è il posto della metafisica nel tempo in cui la conoscenza pare identificarsi con quella, efficace, del sapere tecnico-scientifico?

L’interrogazione di Cacciari parte dai Greci e attraversa alcuni dei momenti decisivi della storia della filosofia occidentale: dai presocratici a Platone e Aristotele, da Cartesio e la rivoluzione scientifica alla disputa tra Spinoza e Leibniz sul concetto di sostanza, da Kant e Hegel fino alla riflessione dei fisici contemporanei. Quella che si delinea è una ricostruzione della dialettica tra ciò che esiste e la ricerca del suo fondamento per giungere alla conclusione che ogni ente è ciò che si manifesta alla prospettiva di chi l’interroga scientificamente, esteticamente, teoreticamente, nella consapevolezza che la sua natura non si esaurisce in ciò che si osserva, ma implica l’inosservabile come parte costitutiva della sua “physis”.

Nella tensione fra l’osservabile e l’inosservabile, tra il “questo qui”, un caso determinato da leggi, e il suo oltre, che l’abita dall’interno, sta lo spazio di una “metafisica concreta”, espressione che Cacciari mutua da Florenskij, e dove concreto significa che ciascun ente è un che di divenuto, concresciuto tra l’esistenza nel tempo e la tensione a sottrarsi alle spire annichilenti del divenire.

Cacciari si confronta con Severino riguardo alla credenza nel divenire così come per lo più è pensato, ma a differenza del secondo mostra come l’essenza di ciascun ente non stia nella necessità ma nella possibilità che gli è immanente. E l’uomo è “l’esserci del possibile”. Qui sta il timbro escatologico della metafisica: nell’oltre è in gioco il limite ultimo del possibile. Che per il credente ha il nome di Dio, per il filosofo di Impossibile. Quell’Impossibile che è il fine, sempre ricercato, della filosofia in quanto tale. Suo oggetto è quindi quel singolo che anela a trascendere la propria finitezza; la considerazione sub specie caducitatis implica quella sub specie aeternitatis: quegli attimi in cui in un volto, in un verso, in un suono si dà un’epifania dell’eterno.

La filosofia, proprio perché metafisica, è insieme phil-agathia: ricerca del bene di ciascun ente. E proprio perché metafisica è una “diaporetica”: un continuo attraversare aporie per pensare in modo non contraddittorio il differenziarsi e l’implicarsi del possibile e dell’Impossibile. È la cosa stessa che si ritrova declinata, in modo differenziato, nei tanti dialetti del contemporaneo.

A ben vedere c’è da chiedersi se questo libro non sia la ripetizione di Krisis, il primo libro che, apparso nel 1976, si interrogava sulla crisi del pensiero dialettico e la genesi del pensiero negativo tra Nietzsche e Wittgenstein. Con una differenza: quella che là era critica dell’ideologia, qui diventa filosofia prima. E le pagine dedicate a scrittori (ad esempio, quelle dedicate a Dostoevskij), a poeti e all’opera d’arte sono la dimostrazione che la filosofia cerca di portare alla luce quella lotta contro i limiti del linguaggio per dire l’indicibile che è il compito ultimo dell’uomo, se non vuole venire meno alla sua libertà, al suo essere manifestazione dell’Inizio o, per chi crede, creatura del Dio della vita.

“Atlante biblico”, le mappe per ripercorrere la storia e la geografia della salvezza

Scheda libro online qui 

Un approccio multidisciplinare fatto di storia, geografia e archeologia in relazione alla Sacra Scrittura, caratterizza il testo pubblicato di recente della San Paolo. Perego: a disposizione gli apporti delle nuove scoperte archeologiche

Debora Donnini e Luca Collodi – Città del Vaticano – Vatican News

Dalle tracce dei patriarchi alle ipotetiche rotte per l’esodo dall’Egitto; dall’esilio babilonese ai viaggi di san Paolo fino ai luoghi della Risurrezione. Nel percorrere la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse, nell’”Atlante biblico” edito dalla San Paolo, si rendono “visibili” sulle mappe i tragitti e i luoghi più significativi di quella storia della salvezza che si incrocia con la storia dei popoli del Vicino Oriente Antico e che è inscindibilmente legata anche alla geografia. E rendere visibile significa aiutare il lettore concretamente ad addentrarsi nel “viaggio spirituale” nella Parola di Dio.

Con 24 capitoli (15 per l’Antico testamento e 9 per il Nuovo Testamento), l’“Atlante biblico”, è opera di don Fabrizio Ficco, don Germano Lori, don Giacomo Perego, don Francesco Giosuè Voltaggio e Marco Zappella. Ad arricchirlo anche una tavola cronologica comparata della Bibbia e delle civiltà antiche, per capire nei diversi secoli quali avvenimenti si snodarono contemporaneamente in Egitto, Mesopotamia e nella storia biblica. Le vicende del popolo di Israele si incrociarono, infatti, con quella dei popoli e degli imperi del tempo.

“La novità è quella di mettere a disposizione di tutti i lettori le risorse che sono emerse dagli studi degli ultimi anni, per cui tutto il testo aiuta a collocare la Parola di Dio nel contesto della storia, della geografia e dell’archeologia”, afferma don Giacomo Perego, docente di Nuovo Testamento presso lo Studio Teologico Internazionale del Pime, associato all’Università Urbaniana. “Più si scava negli studi e nell’archeologia – spiega – più emergono tante sfumature che svelano la ricchezza e la potenza di questa parola di vita”.

Sulle nuove testimonianze storiche che riguardano la vita di Gesù, provenienti dall’archeologia, don Perego si sofferma su alcune campagne di scavi come quelli avvenuti attorno al Getsemani: nel 2020 sono stati ritrovati nella zona alcuni bagni rituali; nelle zone attorno a Betsaida, la patria di Pietro, nel 2022 è emersa una chiesa bizantina e nei mosaici si ritrova l’importanza della figura di  San Pietro: questo denota che già nei primi secoli era un luogo di culto legato alla sua figura. E ancora ad Hippos, nella Decapoli, sempre nel 2022 “sono emersi dagli scavi alcuni battisteri, luoghi che manifestano come questa località fosse centrale per quanto riguarda la liturgia battesimale”. Questi sono solo tre esempi, che si ritrovano all’interno dell’Atlante, per mostrare come l’archeologia aiuti a dare rilievo a alcuni luoghi, mostrando come alcuni eventi citati nel Nuovo Testamento sono poi diventati centrali nella memoria della Chiesa cristiana.

Ad esempio, nella parte dedicata al re Davide, ci si sofferma su un frammento della Stele di Tel Dan, che reca un’iscrizione in aramaico del IX secolo A. C. – ritrovato nel 1993 – dove è menzionata la casa di Davide. Si tratta della prima menzione extra biblica del re Davide. “Prima di questo ritrovamento, alcuni studiosi si chiedevano se la figura di Davide fosse teologicamente costruita o realmente esistita. È bastato questo frammento per dire che abbiamo a che fare con una figura realmente esistita su cui poi chiaramente è stata fatta una riflessione teologica significativa”, rileva ancora don Perego mettendo in risalto l’importanza anche delle fonti extra bibliche.

“Non si deve mai dimenticare che la Bibbia è storia e annuncio di salvezza indissolubilmente legati, per cui gli eventi storici sono stati anzitutto celebrati e riletti nelle diverse epoche da un popolo vivo che ha trasmesso quegli eventi come eventi storici di salvezza. Questo vuol dire che l’intento della Bibbia non è scrivere una cronaca o un resoconto documentato storiograficamente”, sottolinea anche un altro autore dell’Atlante, don Francesco Giosuè Voltaggio.

Da notare come oggi siano sempre più studiate le tavolette d’argilla babilonesi. “Ad esempio – spiega don Voltaggio – da meno di vent’anni sono state studiate approfonditamente le tavolette Āl-Yaḫudu (572-477 A.C.). Esse recano numerosi nomi di deportati ebrei e le località in cui si stanziarono, tra cui la città Āl-Yaḫudu, fondata vicino a Babilonia in ricordo della capitale di Giuda, e il fiume Chebar, citato nel libro di Ezechiele”. “Queste tavolette – prosegue – non solo hanno dimostrato il soggiorno degli esuli ebrei in Babilonia, ma ci hanno dato molto di più: ci forniscono oggi un quadro della vita degli esuli, gettando nuova luce tanto sulle pratiche religiose e legali della comunità ebraica quanto sulla sua vita quotidiana, attestando da un lato l’integrazione degli shushanu (com’erano chiamati gli esuli) a Babilonia, dall’altro la preservazione di una forte identità ebraica”.

“Per quanto concerne il Nuovo Testamento, abbiamo ovviamente molti più reperti e testi antichi, per cui è molto più facile ricostruire l’ambiente vitale in cui ha vissuto Cristo e in cui è sorta la Chiesa”, specifica ancora don Voltaggio. “Gesù Cristo nasce nel provvidenziale incrocio tra mondo ellenistico, romano ed ebreo, quindi nell’incrocio rispettivamente tra la più elevata cultura dell’antichità, il sistema giuridico-amministrativo più avanzato e la religione più alta del tempo, con il suo raffinato monoteismo. Anche Paolo è ‘figlio’ di questi tre mondi: è educato a Tarso, che aveva una lunga storia di educazione alla retorica e filosofia greca, è cittadino romano ed è un ebreo fariseo che aveva studiato in una delle più importanti scuole rabbiniche del tempo, quella di Rabban Gamaliele. Conoscere questi tre ‘mondi’ è fondamentale per approfondire l’ambiente della Chiesa apostolica e comprendere tutta la forza del kerygma”.

Non solo, dunque, un valido strumento per biblisti e studiosi ma anche per chiunque voglia accostarvisi per approfondire quel legame fra storia, geografia e fede così importante come illumina in modo mirabile il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Un legame che peraltro aiuta a far luce su quella storia e quella geografia che caratterizzano la nostra stessa vita concreta.