Correre ancora…

di: Antonio Torresin

pasqua

Prima ancora che sorga il sole qualcosa si muove, anzi c’è gente che corre. Corrono le donne a portare gli aromi, corre Maria di Magdala, corrono anche Pietro e il discepolo amato che Maria chiama; tutti corrono ma dove stanno andando così di fretta?

Proprio loro che prima stavano a guardare da lontano – come le donne – o erano fuggiti – come i discepoli, ora corrono. Che fretta c’è? Che cosa li ha smossi dal loro torpore?

Corrono mentre è ancora buio, la luce non è ancora sorta all’orizzonte; sembrano voler “svegliare l’aurora” come dice il salmo. Bel paradosso: dovrebbe essere il sole a risvegliarci! Eppure, nulla sarebbe accaduto se loro non si fossero messi in moto per andare incontro alla luce. Solo chi cerca può trovare, e l’annuncio della risurrezione lo riceve solo chi gli corre incontro.

Ma cosa spinge queste donne (perché sono loro le prime) a sfidare la notte? Non è tutto finito? Non ha ragione chi pensa che ormai non c’è più nulla da fare, che tanto un cadavere non scappa, e quindi non c’è fretta se si tratta solo di elaborare un lutto e una perdita definitiva?

In questa urgenza che muove le donne, che spinge Maria a correre, c’è un presagio forse? Un’intuizione tipica di chi ama e non si arrende alla perdita dell’amato? Un’intuizione d’amore senza contenuto: non sanno cosa sperare, cosa troveranno, ma cercano e sperano perché il loro cuore non smette di battere, perché l’amore non si è spento del tutto.

Corrono per non perdere il contatto con quel corpo – dove l’hanno messo? – con quella storia d’amore, perché senza quel corpo non possono vivere, non potrebbero andare avanti.

La tomba vuota

La sorpresa inaspettata è che ad attenderle trovano una tomba vuota. Quel corpo che cercavano non c’è, e al suo posto un vuoto che all’inizio mette paura alle donne, lascia smarrita Maria. Che cosa significa? All’inizio solo questo: è davvero successo, le hanno portato via il suo Signore, il suo amato.

E il primo atto di fede consiste nel restare davanti a quel vuoto, entrare – come fanno Pietro e il discepolo amato, pur senza capire – prendere atto, accettare una perdita. Maria lo fa con il cuore gonfio d’amarezza: rimane davanti alla tomba vuota, non accetta di andarsene, non riesce a staccarsi da quel vuoto.

È difficile stare davanti alla tomba vuota. Per Maria lo sguardo è velato dalle lacrime: non vede che il suo dolore, ma dovrà proprio attraversare quel lago di lacrime come si attraversa il mare per entrare nella terra promessa, come si attraversa la morte per entrare nella vita. Dovrà vedere meglio perché all’inizio non riconosce nel giardiniere null’altro che un estraneo: ma sempre il Signore si fa vicino senza essere conosciuto, come uno straniero. E come il popolo nel deserto, davanti a quel vuoto, le donne sono prese dalla paura.

Per questo l’annuncio della Pasqua è preceduto da una parola che invita al coraggio: “non abbiate paura” dice l’angelo alle donne.

Attraversare la paura, reggere il vuoto, vedere oltre le lacrime, oltre il dolore: perché quel vuoto possa parlare, possa rivolgere loro una parola inattesa e sorprendente di speranza. Dalla tomba un buon annuncio, un Vangelo. Ed ecco che proprio da quella tomba giunge alle donne una parola, un Vangelo, un annuncio.

Questa parola pasquale ha a che vedere con un passato e con un futuro: restituisce un senso nuovo a quella storia che sembrava finita e che invece le attende davanti a loro, le aspetta in un futuro che si apre.

Così è per le donne al sepolcro: la pietra è tolta, un angelo – un messaggero che porta loro un annuncio, un Vangelo – rivolge loro queste parole: “voi cercate Gesù, il crocefisso. Non è qui, è risorto e vi attende in Galilea”.

Voi cercate Gesù, quel Maestro che vi ha amato, che avete incontrato sulle strade della Galilea e che è morto. Non vi sembra possibile che quell’uomo così unico che vi ha guarito, vi ha dato così tanta vita, ora sia quel crocifisso sconfitto sul quale la violenza sembra aver prevalso. Non è qui. Non è prigioniero della morte, perché la sua fine non è stata una smentita della sua vita, ma il dono totale di quell’amore con cui tutto è iniziato.

E un amore così totale non finisce, non può essere trattenuto dalla morte. Vi aspetta in Galilea: dovete tornare dove tutto è iniziato, dovete riprendere i primi passi della vostra storia con lui, dovete capire da capo quello che è successo e che non è finto. Lo potrete ritrovare nella memoria delle sue parole e delle sue opere, quelle che, mentre accadevano, non potevate capire fino in fondo, ma che ora potete ritrovare e rivivere, perché il Signore è vivo e voi vivrete ancora con lui per sempre.

Anche per Maria di Magdala c’è da raccordare il passato con il futuro. Si sente chiamata per nome, come la prima volta, come nessuno l’aveva chiamata con quella voce, con quell’amore. L’inizio dell’incontro con il Risorto è iscritto in una memoria viva della sua voce, di quella prima parola che aveva dato inizio a tutto.

Una memoria vivente che risveglia l’amore, che permette di attraversare il lago delle lacrime, di uscire dal dolore e vedere in modo nuovo. Così riconosce in quello straniero il suo Maestro – Rabbunì – il suo amato.

Correre ancora

Così le donne corrono in Galilea, con i discepoli, e Maria corre dai suoi fratelli a portare un annuncio di vita nuova. Correre ancora, con un cuore nuovo, con una speranza nuova. Quei discepoli, sopraffatti dalla stanchezza, abbattuti nel sonno la notte della prova, fuggiti per la paura ora corrono ancora.

Quelle donne smarrite che seguivano il crocifisso da lontano, corrono ancora. Maria di Magdala, che sembrava impietrita davanti al sepolcro, incapace di muoversi, paralizzata dalla perdita del suo Signore, corre ancora.

Chiediamo in questa Pasqua che il Signore ci rimetta in cammino, anzi ci faccia correre ancora. Se siamo giunti a questa Pasqua con tutta la stanchezza di anni difficili che ci hanno visto chiuderci nelle case, smarriti e impotenti davanti al male, alla violenza e alla guerra, ora possiamo correre ancora. La vita non è finita, è sempre all’inizio.

La memoria del Signore, delle sue parole e delle sue opere, la voce amorevole con cui ci ha chiamati la prima volta, non è finta: ci attende in avanti, ci aspetta in un futuro che non conosciamo ma che è certo e più forte della morte. Possiamo correre incontro al futuro nella certezza che ad attenderci ci sarà il Risorto, la vita nuova, i fratelli e le sorelle che il Signore sempre raduna da tutti i luoghi in cui ci siamo dispersi.

Correre ancora, amare ancora, sperare ancora, perché il Signore ha vinto la morte. Il futuro non fa più paura.

settimananews

Il primo comandamento di Cristo è l’amore, e l’amore è sempre rischioso. Non diversamente dalla fede, richiede il coraggio di trascendere sé stessi per entrare in un mistero sconosciuto

Tomáš Halík

Tomáš Halík – Epa/Facundo Arrizabalaga

Quest’anno Natale arriva di pomeriggio, in anticipo persino rispetto alla Messa della Vigilia. Di pomeriggio, mentre cui il giorno è ancora nella sua pienezza, e non alla sera, quando si potrebbe temere che sia già troppo tardi. Afternoon of Christianity, “Il pomeriggio del cristianesimo”, è il titolo del nuovo saggio di monsignor Tomáš Halík, in uscita nei prossimi mesi da Vita e Pensiero, la casa editrice che sta proponendo organicamente le opere del teologo ceco, vincitore di premi prestigiosi come il Templeton e il Guardini. Dopo Voglio che tu sia (2017) e Pazienza con Dio (2020), di recente è apparso Tocca le ferite (traduzione di Paolo Baiocchi, pagine 182, euro 16), sorta di manifesto programmatico di una “spiritualità della non-indifferenza” che ha nell’apostolo Tommaso il suo imprevedibile patrono. Nato a Praga nel 1948, Halík è stato segretamente ordinato sacerdote nel 1978 a Erfurt, in Germania. La sua vocazione è maturata nel silenzio delle chiese distrutte dal regime comunista. Da quelle volte devastate, racconta, ha imparato a guardare verso il cielo. Durante il confinamento planetario del 2020, ha pubblicato un breve saggio, Il segno delle chiese vuote, che attinge alla sua esperienza personale per annunciare i temi del nuovo libro. «Ogni tempo – riassume Halík per i lettori di Avvenire – è un tempo propizio».

Il concetto di kairós, in effetti, è decisivo del suo lavoro.

Kairós è il termine biblico che indica appunto il tempo opportuno. Per me praticare un metodo cairologico significa interpretare teologicamente i segni dei tempi, ossia tutto quello che accade nella cultura e nella società contemporanea, comprese le crisi e non esclusi i cambi di paradigma. Un cristianesimo maturo è in grado di abbracciare la vita nella sua interezza: non soltanto la luce del Tabor, ma anche le tenebre del Getsemani. La fede, non dimentichiamolo, cresce proprio grazie alle difficoltà, si tratti della secolarizzazione o della pandemia. Il mistero pasquale è il cuore del cristianesimo, ma di questo mistero fa parte il grido di Gesù abbandonato sulla croce così come il canto dell’allelluia all’alba della Risurrezione.

Tra i credenti, però, permane ancora un sentimento di paura: come mai?

Il comandamento fondamentale di Cristo è l’amore, e l’amore è sempre rischioso. Non diversamente dalla fede, richiede il coraggio di trascendere sé stessi per entrare nella nube di un mistero sconosciuto. Da dove viene la paura? Gesù pone la medesima domanda ai discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», chiede. Ad essere spaventati sono i cristiani che hanno confuso la fede con l’ideologia o con una credenza religiosa. Perché la fede è un orientamento esistenziale, non una visione del mondo.

Per questo motivo lei è così interessato ai testimoni della contraddizione?

Da Pascal, Kierkegaard e Chesterton ho imparato a considerare il cristianesimo come una religione del paradosso. Mi sento ispirato da coloro che camminato nella notte oscura della fede, come hanno fatto molti mistici, da san Giovanni della Croce a Teilhard de Chardin. E poi c’è il genio oscuro di Nietzsche, il più divino tra i senza Dio. A fianco di queste notti individuali, nella storia dell’umanità e della Chiesa ci sono anche le notti oscure collettive. Teilhard ha concepito la sua grandiosa visione di unificazione universale, che per tanti aspetti anticipa l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, nelle trincee della Grande Guerra.

Anche la sua generazione ha sperimentato una notte oscura?

Più di una, direi. Prima sotto la persecuzione comunista, poi con il dilagare degli scandali nella Chiesa. La lezione che possiamo trarne è sempre la stessa: ogni crisi è un kairós, un’occasione per purificarsi, scendere in profondità e crescere. In una parola, un’opportunità di trasformazione, di metànoia. Uno dei mie libri ha preso il titolo da un verso del poeta ceco Vladimír Holan, «Solo chi trema rimane fermo». Solo un medico che sia stato ferito può veramente comprendere e curare, solo una Chiesa ferita può diventare «ospedale da campo». Secondo una leggenda, un giorno il diavolo assunse l’aspetto di Cristo per apparire a san Martino, che però riuscì a smascherarlo con una semplice domanda: «Dove sono le tue ferite?». Sinceramente, non riesco a credere a un Dio, a una Chiesa o a una fede che non mostri le proprie ferite.

Deriva da qui la sua simpatia per gli atei?

Non esiste un ateismo assoluto. Quando cerca di assolutizzarsi, l’ateismo si costituisce in religione sui generis. L’ateismo è un fenomeno che presuppone una relazione, perché ha sempre la necessità di fare riferimento a qualcos’altro, e cioè a una particolare forma di teismo, a una specifica idea di Dio. Ogni volta che sento un ateo negare il Dio che ha in mente, mi viene da rispondergli che, grazie a Dio, io non credo in quel Dio lì. Insomma, laddove entrano in gioco le primitive e addirittura volgari convinzioni dei fondamentalisti, oppure si sostiene l’immagine deleteria di un Dio come crudele poliziotto morale, anch’io mi sento un po’ ateo, nel senso che quello non è il mio Dio. Ci sono tanti tipi di atei, così come ci sono tanti tipi di credenti. Esiste un ateismo non meno stupidamente dogmatico del suo fratello gemello, che è il fondamentalismo religioso, ma ci sono anche gli atei che, come Nietzsche e molti altri, non si stancano di lottare appassionatamente con Dio. Ecco, già l’Antico Testamento ci rivela la predilezione di Dio per questi lottatori dello spirito: Giacobbe e Giobbe, per esempio. Allo stesso modo, la Scrittura mostra il disprezzo verso i tiepidi e gli indifferenti, che sanno vomitati.

Qual è allora il vero avversario della fede?

L’idolatria, che comporta l’assolutizzazione di ciò che è relativo. Durante la pandemia, nel tempo delle «chiese vuote», Dio ci ha invitati a essere così creativi da stabilire una relazione personale con Lui anche al di fuori delle pareti di un edificio consacrato. Dal mio punto di vista, è stato un monito profetico: questo è quello che succederà in molte parti del mondo, se la Chiesa non si impegna subito in una riforma radicale. La chiamata di papa Francesco a intraprendere un percorso sinodale non poteva cadere in un momento migliore. Dobbiamo comprenderlo e agire di conseguenza, altrimenti le chiese, i conventi e i seminari chiuderanno presto e finiranno in vendita, uno dopo l’altro.

Che cos’è «il pomeriggio del cristianesimo»?

Ho preso spunto dalla metafora che Carl Gustav Jung applica alla vita umana. Secondo il fondatore della psicologia del profondo, dopo infanzia e gioventù (che corrispondono al mattino dell’esistenza) verso mezzogiorno arriva la crisi di mezza età, il cui superamento consente di entrare nella maturità del pomeriggio. In maniera analoga, nell’epoca premoderna abbiamo avuto un mattino del cristianesimo, impegnato nella costruzione di strutture istituzionali e dottrinali. La modernità ha portato con sé la crisi meridiana, che ha scosso le strutture tradizionali e che ha ormai raggiunto il culmine. Ma proprio adesso, quando secolarizzazione e ateismo sembrano all’apice, si apre la possibilità di un cristianesimo più consapevole e più fortemente connotato in senso ecumenico. Veniamo da una stagione nella quale la volontà di difendersi dagli esiti della Riforma protestante e della rivoluzione scientifica ci aveva indotti a rifugiarci entro i confini angusti di un cattolicesimo meramente confessionale. Emanciparsi da questo schema non può però indurci a dissolvere il cristianesimo nell’indistinto pluralismo postmoderno, né a perdere la nostra identità per conformarci al pensiero corrente. Al contrario, questo è il momento in cui dobbiamo tornare a interrogarci sulla nostra fede, andando al centro del messaggio evangelico. Questo, a mio avviso, è l’invito che Gesù ci rivolge oggi: operare per la metànoia, essere disponibili al rinnovamento. La metànoia è una forma di esodo, è la disponibilità a svincolarsi dalle strettoie dell’ego per andare incontro al mistero degli altri e di Dio. Un compito che coinvolge tutti, individui e Chiese. Insieme, dobbiamo rinunciare alle seduzione del narcisismo di massa e dell’autocompiacimento.

Non è più il tempo di guardare al passato, dunque?

Le due forme che il cristianesimo ha fin qui conosciuto, vale a dire religio (la perfetta integrazione tra fede e società, come nel Medioevo) e confessio (l’assimilazione della fede a una certa visione del mondo, come nella contrapposizione fra protestantesimo e cattolicesimo), somigliano ad abiti passati di misura a causa della crescita del bambino per cui erano stati confezionati. Nel suo pomeriggio il cristianesimo sarà sì una religione, ma in un altro senso, quello del verbo latino re-legere, “leggere di nuovo”. Abbiamo bisogno di un’ermeneutica inedita, che ci permetta di reinterpretare non solo le Scritture e la nostra tradizione, ma anche e specialmente i segni dei tempi. Il magistero di papa Francesco va esattamente in questa direzione e lo stesso metodo cairologico, in fondo, non è se non la prosecuzione dell’attitudine profetica che, nel corso della storia, ha permesso ai cristiani di rileggere in chiave sapienziale e contemplativa gli eventi nei quali di volta in volta si trovavano coinvolti.

Anche il Natale può spingersi verso il rinnovamento?

Pensi all’esclamazione dell’apostolo Tommaso davanti alle piaghe di Gesù: «Mio Signore e mio Dio!». In nessun altro brano dei Vangeli la divinità di Cristo è proclamata tanto esplicitamente. Ma anche la povertà della grotta di Betlemme è come una finestra attraverso la quale, per paradosso, la divinità del Bambino si rivela a noi. Le ferite e la povertà che incontriamo nel mondo sono le finestre che ci permettono di scrutare nell’intimità del mistero di Gesù, che è la sua unione con il Padre. Se ci rivolgiamo a Gesù come al nostro Dio e Signore, e se riconosciamo Dio nel Padre, sforzandoci di continuare ad ascoltare la Sua voce, non possiamo fare a meno di lasciare aperte le finestre della compassione, non possiamo permettere che il nostro cuore si inaridisca.

La fede è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca

La fede – lo abbiamo già visto – non è una certezza granitica, come mettere i soldi in banca in un conto corrente sigillato. Essa è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca. Anche Giobbe, l’innocente sofferente, ha avuto i suoi momenti di grande instabilità di fede, ma ha sempre mantenuto aperta e viva la relazione con il suo Creatore. Henry Bauchau, scrittore belga di lingua francese, ci dice qualcosa del genere nel suo romanzo Il compagno di scalata (e/o) mentre il protagonista vive la sofferenza della malattia della giovane nuora: «In quel momento pensavo che contasse solo l’amore di Dio, e che gli altri amori, maschili o femminili, fossero solo passeggeri, peregrini. Le cose sono andate diversamente. L’amore di Dio ha illuminato la mia vita con segnali brillanti e intermittenti. Le intermittenze di Dio, ecco la mia reale esperienza. Sono stato irradiato, talvolta illuminato, ma solo l’amore umano mi ha riscaldato».

Bauchau con questa affermazione ci insegna due cose: la prima, che la fede resta un dono gratuito e libero di Dio, una possibilità accordataci di poter guardare la vita con un terzo occhio divino; la seconda, che in queste «intermittenze» si manifesta la decisione dell’uomo di aderire a questa proposta divina.

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Il tempo che vola e non è mai solo nostro e la fede che apre

Lettera ad Avvenire

Caro direttore, i latini dicevano: “Ruit hora” (il tempo vola). C’è chi, un po’ paradossalmente, afferma che non il tempo passa per noi, ma noi passiamo nel tempo. Questo passaggio è estremamente rapido. Economizziamo il tempo, poiché è tanto prezioso! Solo chi potrà dire di averlo saputo spendere bene potrà anche dire di aver veramente vissuto. Mi auguro, dal profondo dell’anima, che l’anno 2021 porti luci di gioia e di speranza nei nostri cuori in un periodo tra i più bui della storia. Fede, speranza e carità siano le vere e invincibili armi di ogni cristiano e di ogni uomo e di buona volontà. Martin Luther King diceva: «Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la fede e vedrai che non c’è nessuno».

Franco Petraglia

Lunghi mesi senza un fuori, la fede dà «diritto di vuoto»

Gli enunciati del Credo alla luce del «vuoto» dei mesi di lockdown. «L’uomo ha diritto di voto, la bellezza ha diritto di vuoto per brillare» scrive il teologo Marco Pozza in ‘Ciò che vuoto non è’ (San Paolo, 224 pag., 16 euro scontato su Amazon). Pozza, parroco in un carcere del Nord-Italia, frequenta «gente abituata a stare chiusa da anni, decenni» ed è «posizione fortunata per poter riflettere sull’andamento del fuori. I miei uomini, a colpi di divieti, si sono abituati al vuoto. Lo chiamano mancanza: della libertà, della casa, degli affetti». L’effetto specchio è immediato. E allora si può indagare quel vuoto già a lungo indagato da qualcuno prima di noi, e farlo con l’aiuto di parole di fede. Di una fede che, da quel mattino di Pasqua del 33 d.C. sa sentire ‘pieno’ un sepolcro ‘vuoto’.

Arte e fede. Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”

Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
L’affresco con una veduta ideale della città di Gerusalemme, dipinto sui meri del Colosseo nel XVII secolo

L’affresco con una veduta ideale della città di Gerusalemme, dipinto sui meri del Colosseo nel XVII secolo – Electa

Avvenire

Si è concluso di recente il cantiere di restauro dell’affresco raffigurante una veduta ideale della città di Gerusalemme, realizzato nell’Anfiteatro Flavio sull’arco di fondo della Porta Triumphalis, verso il Foro Romano. Il dipinto è ascrivibile al XVII secolo, come conferma il risultato del restauro, che ha consentito di confermare la fonte iconografica nella stampa unita alla seconda edizione del volumetto del teologo Christian van Adrichom Urbis Hierosolimae quemadmodum ea Christi tempore floruit (1585), disegnata e incisa da Franz Hogenberg e Arnold de Loose. Il restauro sarà presentato oggi, alle 17.30, con una lectio magistralis del cardinale Gianfranco Ravasi (che ne anticipa in queste colonne i punti principali) la cui registrazione sarà disponibile sul canale Facebook e sulla pagina YouTube del Parco archeologico del Colosseo a partire dalle ore 19.00 di sabato 23 ottobre.

Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.

Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.

Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.

Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.

La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.

Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.

Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni – che pure in Abramo hanno una radice comune – segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così “personale”.

Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).

Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica – adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana – dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».

Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).

Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me – dice il Signore – chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).

Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù – stando al Vangelo di Marco – avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).

È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).

Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.

Il dialogo interreligioso tra i monoteismi “gerosolimitani” e quello ecumenico tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente che proprio nella città di Cristo si sono per secoli divisi e osteggiati è, quindi, nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutte le confessioni religiose trasformarlo da sogno utopico in realtà storica e quotidiana.

Basket. Fede e canestri, il segreto di Miami

Da coach Spoelstra, formato dai gesuiti, alla roulotte in cui è cresciuto Adebayo; da Butler, ex senzatetto, alla preghiera di Dragic: sono gli Heat la squadra rivelazione della Nba
Jimmy Butler (Miami Heat) a canestro contro i Los Angeles Lakers

Jimmy Butler (Miami Heat) a canestro contro i Los Angeles Lakers – Reuters

Avvenire

Comunque vada, Miami ha già vinto. Anche se venerdì notte l’anello andrà ai Los Angeles Lakers (conducono 3-1 la serie finale). Gli Heat hanno messo in campo quanto di più prezioso il basket possa offrire: lo spirito di squadra, la capacità di far fronte alle avversità, la voglia di non mollare mai, la profondità di uomini che hanno trovato nel canestro uno strumento di salvezza. È stata già un’impresa essere approdati in finale. Che i Lakers fossero infatti la squadra da battere in questa anomala stagione Nba era abbastanza prevedibile. Non era invece affatto immaginabile che a contendere il titolo a LeBron James e compagni fossero loro, gli Heat, che non figuravano nemmeno tra le prime teste di serie a Est. Nell’anno in cui il Covid ha travolto le nostre vite, raffreddando anche l’interesse per quel che resta dello sport (tra campionati privi di pubblico e rose condizionate dai contagi), va dato atto a Miami di aver scaldato gli appassionati in collegamento con la surreale “bolla” a porte chiuse di Disney World. Qui, dove l’America del basket ha se non altro trovato una fortezza impermeabile al virus.

Ma poi, mai nome fu più azzeccato: Miami “ Heat”, “caldo”, come il clima estivo di cui beneficia tutto l’anno la città della Florida ma anche come il “calore” con cui viene vissuto questo sport. In quel logo con la palla infuocata che attraversa l’anello del canestro c’è tutta la fame di vincere, bruciante, di una franchigia giovane (nata nel 1988) ma quasi sempre protagonista. Tre i titoli già portati a casa. Nel 2006 grazie alla coppia stellare Shaquille O’Neal-Dwyane Wade. Nel 2012 e nel 2013 con la squadra dei “tre tenori”, Wade (ancora lui) con Bosh e LeBron. Ma se dopo qualche stagione difficile sono tornati a giocarsi il titolo, il merito è di due “registi” speciali: Pat Riley, il presidente, e Erik Spoelstra il coach. Per chi segue da anni la Nba, Riley non ha bisogno di presentazioni: con i Los Angeles Lakers è stato campione Nba già da giocatore, poi da assistente allenatore e quattro volte da coach. Con gli Heat invece ha vinto un titolo da allenatore (nel 2006) e due da presidente (2012-2013). Un vincente in campo e dietro la scrivania che è diventato un’icona soprattutto alla guida dei Lakers degli anni Ottanta. Ultimo di sei figli, è cresciuto più con sua madre, cattolica fervente, che lo chiamò Patrick in onore di san Patrizio. Suo padre, affermato giocatore di baseball, era sempre in giro, ma gli impartì un’educazione spartana. Per svezzarlo aveva ordinato ai fratelli maggiori di portare Pat a giocare nei campetti di basket di quartieri difficili in cui spesso aveva la peggio nelle mischie con ragazzi più grandi. Un aneddoto che lui da coach raccontava spesso ai suoi giocatori per motivarli. Ambizioso e determinato, odiato ma temuto dagli avversari, a 75 anni è arrivato a giocarsi il decimo titolo.

È stato lui stesso a incoronare il suo successore in panchina, il 49enne Spoelstra, suo assistente, che a Miami ha cominciato come coordinatore video ben 25 anni fa. Una lunga gavetta per un uomo che ha costruito il suo successo con pazienza e sacrificio. Ha sempre riconosciuto che la disciplina e l’etica del lavoro gli sono state trasmesse dai gesuiti alla Jesuit High School di Beaverton (Oregon), una scuola con una grande tradizione sportiva. Promosso coach a 37 anni, “Spo” ha subito mostrato talento e carisma, costruendo squadre di gente affamata come lui del resto. Ha portato gli Heat alla conquista di due titoli. Eppure non ha mai vinto un premio da allenatore, perché le sue vittorie sono state sempre attribuite alle star che aveva in squadra. Una scarsa rico- noscenza che ha sottolineato anche il grande ex della finale, LeBron James: «Penso che Spoelstra non abbia mai ricevuto dai media la considerazione che merita», ha tuonato The King che ci ha tenuto a omaggiare anche Riley: «Oggi la Nba non sarebbe la stessa senza di lui, un uomo che sa come vincere e lo ha fatto per 40 anni». Se oggi gli Heat se la giocano punto a punto con i Lakers è proprio in virtù di una super organizzazione in campo, capace di sopperire anche alle assenze più pesanti. Come quella, che alimenta tanti rimpianti, dello sloveno Goran Dragic, il miglior realizzatore dei suoi prima delle Finals. A 34 anni sta vedendo sfumare l’occasione della vita: «Ho lavorato 12 anni per arrivare a questo punto, mi chiedo perché sia successo proprio a me. Passo il tempo a chiedermi, a invocare il Signore che sta lassù e a domandargli: “Perché è dovuto succedere proprio adesso?”. È davvero dura da accettare. Provo a ragionare in questo modo: tutto quello che succede ha una ragione, ha un senso, per questo vedremo come andranno le cose».

Spoelstra ha rivelato di aver dovuto vestire i panni del padre che consola il figlio in lacrime, sia per Dragic che per Bam Adebayo (l’altra stella rientrata se non altro in gara 4). Il gigante di Miami, autore di una stoppata leggendaria contro Boston, ha sofferto a stare fuori, ma è pronto di nuovo a dare tutto. Lui che è riuscito a superare cicatrici ben più profonde. Suo padre non l’ha mai conosciuto è andato via di casa lasciando la madre da sola ad accudire il piccolo in una roulotte. Qui è cresciuto Bam che non si stanca di ripetere: «Ho visto mia madre lottare. Tornare a casa stanca. Crescendo, ho iniziato a pensare: “Non se lo merita”. Tutta il mio impegno è diventato portare mia madre fuori da quella roulotte». Alla madre deve tutto, anche la fede che lui condivide sui social citando san Paolo: «Sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza».

E che dire di Jimmy Butler, il trascinatore, l’eroe di gara 3, che una madre ce l’aveva ma l’ha cacciato di casa quando aveva 13 anni perché lo riteneva un teppista. Una donna provata anche dall’abbandono del padre prima che Jimmy nascesse. Il ragazzo però si è sempre tenuto lontano dai brutti giri, anche quando senza una casa ha dovuto cercare alloggi di fortuna, sotto i ponti all’interno di un cartone. nei sobborghi più malfamati. Fino a quando ha trovato un’altra madre, la mamma di un suo amico, che l’ha adottato donandogli un’altra vita. L’Oliver Twist del basket oggi si sente «benedetto ». «Credo fermamente in Dio – ha spiegato -. E lo adoro. Cerco di andare in chiesa tutte le domeniche. Leggo costantemente la Bibbia, perché so che non avrei potuto scrivere questa storia da solo». Sa di aver incontrato sulla sua strada degli angeli. «Le persone che tengo costantemente nella mia vita sono lì per via di Dio, perché mi conosce e sa che ho bisogno d’aiuto. E Lui mette sempre qualcuno nella mia vita per aiutarmi» Venerdì notte si torna in campo, ma Miami ha già vinto.

I nuovi linguaggi della fede

di: Paola Zampieri (a cura)

media digitali pastorale

I nuovi linguaggi multimediali hanno un ruolo significativo nella cultura attuale e nella pastorale giovanile e si sono mostrati nelle loro potenzialità e limiti, in modo peculiare, durante l’emergenza causata dalla pandemia di Covid-19.

Approfondiamo l’argomento con Assunta Steccanella, docente di Teologia pastorale, e con don Lorenzo Voltolin, docente di Comunicazione, che da ottobre prossimo coordineranno il seminario-laboratorio di teologia pastorale del ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto, dal titolo “I nuovi linguaggi della fede. Una pastorale inedita dall’esperienza del Covid-19”.

– Partiamo dalle prassi pastorali e rituali già in atto. A che punto siamo? 

In realtà, le prassi in atto sono ancora poche. In un recente passato l’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Padova aveva proposto, ad esempio, un accompagnamento multimediale indirizzato agli adulti, #Unattimodipace; un’esperienza originale rispetto ad altre più estemporanee, affidate prevalentemente alla creatività di qualcuno.

Il limite maggiore è rappresentato però dall’attestarsi di molte proposte soprattutto sulla funzionalità dei linguaggi multimediali, intesi come semplici strumenti di regìa e considerati quasi “neutri”. Essi rappresentano invece un prolungamento dei sensi del corpo dell’uomo, e quindi hanno implicazioni profonde a livello sia del soggetto che ne usufruisce che dell’oggetto che intendono mediare.

– Qual è il “grado di efficacia” dei linguaggi multimediali? 

Proprio perché intimamente collegati alla persona che li accosta, i new media non hanno un’efficacia indipendente e automaticamente definibile. Quando sono ancorati alle funzionalità ergologiche del corpo, però, garantiscono una performance assolutamente superiore a quella dei “normali” media.

– Qual è allora il loro rapporto con le dinamiche del corpo? 

Nonostante noi vediamo gli strumenti materiali che rendono possibile la trasmissione del messaggio (computer, tablet, telefonini, ma anche radio e televisione) come oggetti esterni a noi, in realtà attraverso di essi viene raggiunta l’intimità della persona. Nell’usufruirne è implicata la vista, l’udito, il tatto attraverso la tastiera o ancor più il touch screen, e i messaggi giungono al cervello trasportati da stimoli elettrici che ne veicolano il contenuto.

Vita digitale

La vera “rivoluzione digitale” non sta quindi, come comunemente inteso, nell’utilizzo diffuso di alcuni media che tecnologicamente sono più avanzati dei precedenti, piuttosto nel fatto che questi nuovi mezzi sono estensioni del corpo che, con l’evolversi dell’hardware, saranno capaci di riprodurre tutte le facoltà estetiche, includendo quelle emotive, volitive, intellettive, nonché spirituali. Le implicazioni non solo pastorali sono enormi, e chiedono ulteriore studio.

– L’esperienza del Covid-19 come sta cambiando tutto questo?

L’emergenza scatenata dalla diffusione del Covid-19 ha obbligato lo spostamento di molte attività umane dall’ambito della “presenza reale” a quello della “presenza virtuale”. Se, in prima battuta, emergono le inevitabili difficoltà nel riassettamento di un sistema, d’altro canto, si presentano anche le grandi possibilità e i molti limiti dell’esperienza virtualizzata.

media digitali pastoraleÈ quindi essenziale un serio lavoro di riflessione su tali dinamiche, per due motivi: le prospettive temporali dell’interazione coi new media si fanno sempre più ampie, e quindi la qualità di questa interazione deve essere affinata e promossa; in secondo luogo, queste prassi non potranno semplicemente essere accantonate alla fine dell’emergenza ma saranno diventate un canale di evangelizzazione specifico, non sappiamo ancora quanto diffuso ma certo permanente.

– La progettazione pastorale come può/deve tener conto di questi nuovi elementi?

Prima ancora della progettazione pastorale, è la riflessione teologico-pastorale – e teologica tutta – che non può ignorare questi nuovi elementi, per offrire coordinate al magistero. Basti ricordare che, se la Rivelazione è ergologica (Dio si dà in un corpo), la sua recezione non può che essere estetica (avviene attraverso la conoscenza sensibile). I new media si fondano sui sensi estetici, e li amplificano. Strutturano però uno spazio “intermedio”, che non va confuso con la realtà in sé e che è capace di produrre esperienze, di modificare scelte, di orientare la società, di incidere sulla trasmissione della fede.

Non offrono quindi una semplice illusione, un “artefatto”, ma, se impostati correttamente, strutturano un ulteriore e nuovo spazio esistenziale, collocato tra il potenziale e la realtà tout court. Questo chiede un deciso investimento di ricerca e di azione per promuovere una sorta di “inculturazione multimediale” del Vangelo, capace di contribuire a evangelizzare la cultura attuale.

– Qual è il rapporto con le neuroscienze?

Media e neuroscienze, in estrema sintesi, si fondano entrambi sulle dinamiche del corpo e hanno l’elettricità come medium. I new media stanno alle relazioni inter-corporee come le neuroscienze stanno alle relazioni intra-corporee.

Comunità e virtualità

– Rete comunitaria e rete virtuale: quale intreccio? E quali sono gli scenari nuovi e inediti che si aprono per la pastorale?

Per scongiurare il rischio di scivolare nell’illusione e nella non-realtà, una virtual community deve sempre essere collegata con il referente fisico della comunità reale, fatta di corpi che realmente s’incontrano. Questo delinea scenari nuovi per la prassi pastorale: nell’imminente si può ipotizzare un prolungamento virtuale, cioè estetico, della comunità stessa, ad esempio attraverso un rito, una catechesi, che garantiscano un collegamento con la comunità e si estendano nelle case.

È possibile fare alcuni semplici esempi: il parroco, al termine di un momento di preghiera, può conferire il mandato di benedire la famiglia, o il pane della mensa, o proporre di comunicare in chat le intenzioni della preghiera da condividere con tutti. Si tratta di attivare un canale a due direzioni, in e out, un po’ come succede con le conference calls, perché chi partecipa lo faccia sentendosi collegato anche concretamente con la propria comunità.

– I new media offrono possibilità prima sconosciute (o pochissimo usate) per raggiungere persone (anche grandi numeri di persone) che non sarebbero stati raggiunti altrimenti… ma l’approccio virtuale è sufficiente?

Gli strumenti in quanto tali vanno compresi per quello che sono e per quello che possono fare, quindi anche per quanto non possono fare. Raggiungere istantaneamente più persone in diversi punti del globo è senza dubbio uno dei vantaggi sul fronte della missione, dell’annuncio kerygmatico, come pure è evidente che ciò non è sufficiente ma semplicemente un fattore di opportunità maggiore. Tuttavia non è neppure questo l’apporto più rilevante della “rivoluzione digitale”, e sarebbe un errore concentrare solo su di esso la nostra attenzione.

Piuttosto proprio perché agiscono sulla grammatica del corpo, la loro potenziale, amplissima diffusione va abitata e gestita in modo consapevole. In caso contrario, paradossalmente, attraverso i new mediail Vangelo potrebbe davvero raggiungere tutti senza evangelizzare nessuno.

– Un’antropologia e una teologia del corpo come incidono nella ricerca teologico-pratica?

Qui si va a toccare il rapporto rivelazione/fede, e quanto la teologia, o meglio un’ergologia teologica, abbia da dire non solo alle scienze comunicative ma anche all’epistemologia. Il cristianesimo è infatti la religione dell’incarnazione, un dato originario di cui forse non abbiamo tenuto conto a sufficienza per un certo tempo della nostra storia.

Oggi non è più così, in teologia e nello specifico in teologia pastorale: l’antropologia e la teologia del corpo sono sostanzialmente un nodo cruciale della disciplina, oltre che lo sfondo indispensabile su cui si struttura l’utilizzo ragionato dei new media.

– In un momento in cui la realtà virtuale pervade la vita contemporanea che cosa significa scrutare i segni dei tempi?

Chenu, il teologo dei segni dei tempi, li descriveva come una trama intrecciata di fatti, che si verificano per opera dell’uomo, nei quali si percepisce uno iato, una sorta di balzo piccolo o grande, nel sentire comune. Questo iato, questo spazio dischiuso e sorprendente, chiede di essere colto e abitato consapevolmente. Chenu affidava alla Chiesa come popolo di Dio il compito della lettura teologica dei segni dei tempi, ossia dell’interpretazione dell’appello di Dio che in essi risuona. Oggi crediamo sia possibile affermare che la pandemia ha dischiuso un simile iato, almeno nella cultura occidentale ammalata di onnipotenza: il senso della fragilità umana e della comunione di destini si è fatto vivo, forse come non mai in tempi recenti.

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Pastorale a venire

Come Chiesa non possiamo che cercare insieme modi per abitarlo e seminarvi la buona notizia del Vangelo, con tutti i mezzi che la sensibilità di ciascuno potrà individuare (non quindi con un solo strumento, non solo attraverso i new media). È però un compito da svolgere sinodalmente, laici, religiosi, ministri ordinati, uomini e donne, giovani e anziani. Anche questa sarà una dimensione che finalmente impareremo a incarnare.

– Viviamo in una agorà nuova e attiva, che è frequentata e che interroga. Come non farsi trarre in inganno dal potere e dalla rapidità dei new media

È un rischio presente, di cui vediamo continue manifestazioni nelle intemperanze dei social, nel proliferare di fake news, nell’infodemia (epidemia di informazioni) che ci assilla. L’antidoto, dal versante che a noi interessa, consiste proprio nel mantenere il collegamento con la comunità reale. L’aggancio al referente fisico è un poderoso strumento di realismo, che offre consistenza al virtuale e toglie spazio tanto all’illusione di onnipotenza che all’individualismo, che esso tenderebbe a instaurare se vissuto solo passivamente, e da soli.

– Come integrare questa sorta di “pastorale d’emergenza” che stiamo vivendo (dove si tratta di esserci, con creatività ma anche con solidità) nella più ampia pastorale in presenza (che comunque non potrà più essere la stessa), senza perdere ciò che di positivo questa esperienza ci ha fatto scoprire? Come potremo continuare a “stare nel nuovo” riconvertendoci per i nuovi scenari?

La domanda è nevralgica. In questo tempo si intrecciano sensibilità diverse, a causa di condizioni diverse, non solo tra il popolo di Dio ma anche dentro la comunità teologica: c’è chi cerca di abitare il presente con tutte le sue provocazioni e considera che, data l’evoluzione veloce e continua delle cose, sia il caso di spostare alla fine dell’emergenza ogni tentativo di progettazione; c’è chi è immerso nel dolore e nella fatica e chiede semplicemente la forza per vivere questa croce, nella preghiera e nel silenzio; c’è chi gode di condizioni di relativa tranquillità e si propone di iniziare fin da subito a individuare delle coordinate per il domani.

Nessuno però ha “la” ricetta: ciò che conta è attivare le energie disponibili, nei tempi, nei luoghi e nelle forme in cui a ciascuno è possibile, per preparare il terreno a un ripensamento dell’azione ecclesiale di oggi e del futuro. Insieme è possibile trovare una strada verso quella conversione pastorale che invocavamo da tanto e che adesso ci viene imposta dalla storia.

– La Chiesa non potrà esimersi dal rigenerarsi anche “dal basso”, dalla realtà storica e sociale…

Gaudium et spes, al n. 44, recita: «Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano […]. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta». Un dettato quanto mai attuale.

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