Tre modi di vivere la fede cristiana

Cos'è la fede e come si può raggiungere? - Famiglia Cristiana

di: Rinaldo Paganelli

La storia della Chiesa presenta diverse modalità di vivere e di pensare la fede cristiana. Senza avere la pretesa di schematizzare troppo e di inscatolare la realtà, si può rilevare che l’evangelizzazione si inscrive dentro l’eredità di tre modalità di essere cristiani.

Il cristianesimo del dogma e della legge
È il cristianesimo imparato e vissuto da numerose generazioni di cristiani, caratterizzato dai tre bisogni che scandiscono i catechismi classici: la verità che bisogna credere, i comandamenti che bisogna osservare, i sacramenti che bisogna ricevere.

In tempi non tanto lontani, la vita cristiana appariva come un ordine da eseguire, un imperativo da onorare, una conformità da rispettare, in sintesi, come una forma di obbedienza a Dio e alla Chiesa.

Questo cristianesimo ha educato e affinato la coscienza di numerose generazioni. Molti vi hanno trovato una guida e vi hanno riconosciuto non solo un dovere, ma un ideale di vita che si sono impegnati ad assolvere con fedeltà e – riconosciamolo – con sufficiente amore e libertà da sentirsi veramente felici.

Ma questo cristianesimo di osservanza ha generato ugualmente molte coscienze infelici, rinchiuse nell’immagine di un Dio giudice, nell’ossessione della colpa, a dispetto della buona notizia evangelica.

Anche se non più dominante, questo cristianesimo della legge è sempre vivo come uno strato ricevuto in eredità il quale, in certe circostanze, riaffiora con forza. L’aspetto legalista continua ad essere ben presente nella memoria profonda di coloro che se ne sono allontanati, perché lo hanno sperimentato come un peso che può soffocare anziché liberare.

Non sono convinzioni negative quelle che hanno dato forma a tante generazioni, e potremmo anche dire che oggi – in contesti senza regole – le situazioni sono più complicate e difficili.

È anche vero, però, che una simile visione della fede ha portato molti ad allontanarsi dalla Chiesa. Col tempo, si è arrivati quasi solo ad un’appartenenza morale, e ciò ha generato una riduzione ingiusta del cristianesimo.

Diverse persone, ripensando al loro allontanarsi dalla Chiesa, conservano, in maniera duratura e senza possibilità di ritorno, un ricordo amaro. All’uomo d’oggi il cristianesimo della legge appare assai poco adatto a suscitare il gusto, il desiderio, la gioia di essere cristiani.

È il frutto – amaro – di una lettura idolatrica della legge, non a servizio della vita ma della morte, allorquando la legge diventa castigo in proporzione al male che hai commesso.

Si assiste, allora, al tentativo di rapportare la vita all’ideale perfetto della legge. Ma il perfezionismo è una forma di gnosticismo. Per uscire dalla schiavitù della legge, occorre scoprire che la forza sta nel riconoscimento della debolezza di fronte alla legge. Perché ci possa essere salvezza non si può continuare a ragionare sul binario virtù-vizio, come se la virtù fosse l’emancipazione dal vizio, lo sforzo per liberarsi dal vizio o dal peccato. È un’antitesi moralistica da cui non è possibile sfuggire.

Allora, quale atteggiamento assumere? Si deve sostituire alla coppia legge-peccato, che genera solo sofferenza, la coppia fede-peccato. È la fede che salva. La fede aiuta una certa lettura della legge, non contro la vita, ma per la vita. La fede fa esistere una legge a servizio della vita. E la legge che è al servizio della vita si chiama amore.

Pensare la legge nella logica dell’amore, significa emancipare la legge dall’idea che essa sia il luogo del castigo, della tortura della vita.

Il cristianesimo interpretativo e di impegno
È il cristianesimo di coloro che hanno trovato nel messaggio cristiano non un dovere da compiere, ma un appello a impegnarsi liberamente nel mondo per renderlo migliore, testimoniando la potenza liberatrice del vangelo.

È il cristianesimo del militante, dei movimenti di Azione cattolica, delle organizzazioni caritative, delle comunità di base che, in nome del vangelo, prendono decisamente a carico le cause umanitarie e le sfide sociopolitiche, con uno spirito di servizio soprattutto verso i più poveri.

È, questo, un cristianesimo di azione e di impegno, che mira a rendere presenti, nella misura del possibile e già da ora, le promesse del Regno, con la speranza che si compiranno definitivamente alla fine dei tempi. Questo impegno per un mondo migliore è costitutivo della vita cristiana e della missione di evangelizzazione.

Tuttavia, occorre riconoscere che anche questo cristianesimo, considerato o presentato in maniera isolata, non basta più.

Prima di tutto, per il fatto che la militanza si rivela oggi difficile in un mondo interdipendente, estremamente complesso e governato da logiche economiche implacabili, di fronte alle quali gli individui si sentono presto impotenti.

Poi, perché l’impegno per la trasformazione del mondo necessita anzitutto di convinzioni forti, le quali non nascono nelle persone che non hanno attraversato le questioni esistenziali del senso della vita, la ricerca di identità e l’integrazione nel proprio ambiente sociale.

A differenza del modello dogmatico precedente, quello interpretativo, non si accontenta di esporre e di spiegare i dogmi della fede cattolica, ma cerca di manifestare il significato sempre attuale della parola salvifica di Dio, guardando alle nuove prospettive storiche della Chiesa e dell’essere umano.

Ciò detto, bisogna però evitare che, una volta superata l’inflazione moralistica, ci sia il pericolo di arrivare all’inflazione dell’impegno. Al centro, deve rimanere la capacità di tenere unite, in profondità, la verità della fede e la prassi cristiana, la dottrina e la vita, i contenuti e l’azione quotidiana.

Sostenere che il punto di partenza e l’orizzonte della teologia è il valore dell’impegno sociale, non vuol dire essere adogmatici, ma semplicemente che si prende sul serio la storicità di ogni verità, e ciò implica una nuova comprensione del messaggio cristiano e una nuova incarnazione.

La rivelazione di Dio avviene nella realizzazione dell’uomo. Dio ha voluto “limitarsi” e, nonostante voglia rivelarsi in pienezza, riesce a farlo solo nella misura in cui l’uomo lo scopre, lo accetta e lo capisce. Per questo, quanto più ci si immerge nella condizione umana, tanto meglio ci si può rendere conto di chi, in essa, ci parla e cosa ci dice.

Il cristianesimo della grazia
Dentro questa terza prospettiva, essere cristiani non è prima di tutto assolvere un dovere o agire per un mondo migliore, ma, in ogni circostanza e senza condizioni, ricevere un dono gratuitamente offerto. L’annuncio evangelico dice, infatti, che ci è donata una relazione di grazia con Dio e che si è invitati a viverla e a diffonderla in tutti i rapporti umani. La relazione di grazia è connotata dalla gratuità.

La grazia, nel cuore stesso delle infelicità e delle sofferenze che possono segnare la vita, tiene in piedi, custodisce, rialza o riconduce nella dignità di figli e figlie di Dio. Se è possibile separarsi dall’amore di Dio, non è però possibile spegnere l’amore che Dio ha per noi.

La focalizzazione inequivocabile sull’amore e la misericordia sconfinata di Dio spaventa alcuni perché potrebbe essere fraintesa. Chi desidera la sicurezza non ama la “perplessità”. Se si permette alla “libertà inafferrabile” dello Spirito Santo di agire nella vita, si viene spinti a fare cose che verranno fraintese. L’opera di Dio consiste nello strappare dall’insignificanza nella quale ci si può mettere e nel non sprofondare in essa.

Il cristianesimo della grazia include sia la dimensione della legge sia quella dell’impegno, ma in una nuova prospettiva. La grazia, infatti, tocca i soggetti nel loro intimo, ma non li allontana dall’impegno, dall’azione per la trasformazione del mondo. Perché la grazia conferisce a tutti, indipendentemente dalla loro storia, la più elevata dignità e promessa.

Vivere nella grazia sarà, dunque, impegnarsi con un’accresciuta determinazione nel compito di stabilire, per quanto possibile, le condizioni sociali che corrispondono alla dignità e alla vocazione di eternità di tutti gli esseri umani, soprattutto là dove le condizioni sono più carenti.

Ciò che rende possibile abbandonare la versione formalistica della legge che non lascia scampo e fa sempre sentire indegni, è l’incontro con Cristo che cambia la vita.

Quando c’è chiamata, quando il desiderio chiama, si ha sempre la possibilità di voltare le spalle alla chiamata, rifiutare la tribolazione della fede.

L’azione della grazia aiuta a comprendere che la fede invita a essere chiamati fuori, «esci dalla tua terra» (Gen 12,1), non è far parte di un luogo protetto, è perdere la possibilità di un luogo protetto, non c’è casa, non c’è rifugio, la fede è esposizione, è chiamata a una speranza senza visione della speranza.

La responsabilità del soggetto è risposta alla chiamata. La legge non è fatta solo per essere ascoltata, è fatta per essere messa in opera e rispondere alla chiamata. Essere coerenti con il proprio desiderio è ciò che salva la vita, altrimenti la vita si ammala.

La fratellanza è riconoscere la vita dell’altro come immensamente sacra al di là del sangue. In un tempo dove rinascono nazionalismi, dove non ci sono ponti, ma muri, dove si assiste a un ritorno aggressivo e reazionario di identità etniche, chi risponde alla chiamata diventa capace di ripensare la fratellanza, si dispone a fare la verità non solo a dire la verità.

Non è la stessa cosa, aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, poterlo ascoltare o meno. Si sa che stare con Cristo Gesù la vita diventa più piena ed è per questo che si continua ad evangelizzare.

Il problema più grande dell’evangelizzazione oggi è di rendere il cristianesimo non solo comprensibile, ma desiderabile, buono per la propria vita. La vita cristiana trova la sua sorgente nella buona novella.
settimananews.it

Giovani incontro a Dio: ecco la vera felicità

Dal 3 al 5 gennaio i Missionari del Preziosissimo Sangue invitano i ragazzi a un incontro nel segno dell’allegria e della preghiera. Tra gli ospiti anche Lele Spedicato, dei Negramaro

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avvenire.it

«Felice e grande quando ti unisci a Dio». Questa frase del fondatore san Gaspare del Bufalo è stata scelta come titolo del Convegno nazionale rivolto ai giovani promosso dall’Ufficio di pastorale giovanile della congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, presso la Fraterna Domus a Sacrofano alle porte di Roma dal 3 al 5 gennaio prossimi. Sono attesi 300 giovani dai 15 ai 20 anni che appartengono alla «Unione Sanguis Christi» o simpatizzano per la spiritualità del Sangue di Cristo. «È un incontro pensato dai giovani per i giovani, per tutti coloro che nutrono il desiderio di mettersi in gioco ancora una volta con Gesù» si legge nel comunicato di presentazione dell’appuntamento. «Tre giorni in cui c’è spazio per la riflessione e l’ascolto, per il divertimento e l’allegria – prosegue la nota della congregazione -. Il Convegno, però, è anche e soprattutto luogo di conversione, se vissuto con profondità. Ogni giorno i giovani ricevono tante provocazioni che li inducono ad interrogarsi sul senso della loro esistenza o su come stanno spendendo la loro vita. Il Convegno può essere una sollecitazione a fare un salto di qualità, da una visione superficiale del mondo ad una densa di significato».

Prevista anche la presenza di alcuni atleti paralimpici «per sensibilizzare sulla diversità come ricchezza». Ma sono previsti anche gli interventi di «Vito Alfieri Fontana ex produttore di mine antiuomo con cui parleremo di guerra; Lele Spedicato, chitarrista dei Negramaro e l’Associazione Italiana Carlo Urbani con cui rileggeremo il periodo della pandemia». A concludere questi tre giorni a Sacrofano sarà la Veglia eucaristica nella serata finale.

Anniversario. Charles Péguy, fede e realtà contro gli intellettualismi

Per lo scrittore francese, nato il 7 gennaio 1873 e approdato al cattolicesimo dal socialismo, la vita richiede «l’inserzione dell’eterno nel temporale»
Charles Péguy (1873-1914)

Charles Péguy (1873-1914) – archivio

avvenire.it

«La Speranza sola non risparmia nulla». Pur essendo stato un uomo dalla triplice fedeltà, a Dio, alla civiltà contadina e alla nazione, la Fede ricopre un primato, perché esito di un cammino. Essa è testimoniata da Charles Péguy, alla pari della Carità, «il primo movimento del cuore», non in maniera intellettualistica, ancorata com’è al corpo e alla realtà concreta. Ma entrambe perderebbero vigore se non fossero sorrette dalla Speranza, «una bambina da nulla/ che traverserà i mondi» e che «sola guiderà le Virtù», come annunciano i versi di Il Portico del mistero della seconda virtù (1910). Erede della cultura paysanne e campione di una religiosità popolare radicata nel cattolicesimo, lo scrittore e pensatore francese è, secondo Hans Urs von Balthasar, uno dei dodici cristiani essenziali dai tempi di Cristo. E il suo tortuoso cammino esistenziale, che finirà nel 1914 nelle trincee della Grande Guerra, va colto, per il teologo svizzero, in maniera «indivisibile. Esso lo è grazie a un radicarsi nel profondo, là dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si compenetrano sino a essere inscindibili».

Dissidente nell’animo, a suo agio nella polemica e nel corpo a corpo, Péguy, sia nell’essere socialista, nazionalista o cattolico, è uno scrittore che risponde costantemente agli eventi e ama essere al centro della mischia. Le idee per lui sono carne e richiedono una pugna spiritualis, anche quando si allontana dalla Chiesa. Egli lotta contro la disincarnazione del mondo moderno, esito di quello spirito di sistema e di quella ragione rigida, che lui osteggiava per la sua «dura arroganza nei confronti della realtà, nell’insolenza verso ogni specie di realtà». «Il mondo moderno avvilisce – scriverà nelle Situations -. È la sua specialità… è il suo mestiere… Avvilisce la città, avvilisce l’uomo, avvilisce l’amore, avvilisce la donna, avvilisce la razza, avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. È riuscito ad avvilire ciò che c’è forse di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé, nel suo tessuto, una sorta di particolare dignità, come un’incapacità di essere avvilita: esso avvilisce la morte».

Péguy nasce il 7 gennaio 1873, esattamente centocinquanta anni fa, a Orléans da una famiglia di piccoli artigiani. Rimasto orfano di padre, morto per le conseguenze dell’assedio di Parigi ai tempi della guerra franco-prussiana, è cresciuto dalla madre, riparatrice di sedie, e dalla nonna, ultima testimone di una Francia oramai sul punto di eclissarsi. Da loro imparerà l’“onore del lavoro”, che permetteva di «impagliare sedie esattamente con lo stesso spirito e lo stesso cuore, e con la stessa mano con cui questo medesimo popolo aveva tagliato le sue cattedrali» scriverà in Il denaro (1913). Alla tradizione paysanne e alla sua terra natale rimarrà sempre legato, non solo perché aveva regalato a Giovanna d’Arco la sua prima vittoria militare, ma anche perché aveva assicurato a lui quel radicamento nella concretezza della vita perso altrove. Anche a causa di quella scuola repubblicana, lontana dalla cultura contadina resa obbligatoria a partire dal 1880, che comunque gli consentirà di entrare addirittura all’École Normale Supérieure. Da questa istituzione di prestigio si dimise nel 1897, dopo l’adesione a un socialismo che sarà, secondo uno dei suoi primi biografi, «più il socialismo di san Francesco che non quello di Karl Marx». Allora Péguy comincerà a scrivere per “La Revue Socialiste” testi intrisi di utopismo, anche se sarà l’affaire Dreyfus a gettarlo davvero nell’arena. A questa battaglia politica e civile dedicherà La nostra giovinezza (1910), il capolavoro del dreyfusismo scritto in polemica con Daniel Halévy, in cui non esitò a mostrare come la vita richiedesse «l’inserzione dell’eterno nel temporale».

Nel 1900 aveva fondato i “Cahiers de la Quinzaine”, la tribuna da cui condusse le battaglie contro il mondo moderno. La redazione si trovava in rue de la Sorbonne 8, proprio di fronte alla venerabile istituzione, il suo nemico più potente, il difensore del pensiero sistematico che avvilisce la realtà, la casa del “partito degli intellettuali” che alla concretezza dell’esistenza preferisce l’astrattezza della ragione. Esposto per tutta la vita agli attacchi dei corifei del razionalismo scientifico e del positivismo, Péguy incontrerà nella filosofia dell’amico Henri Bergson una percorso che gli consentirà di respingere l’intellettualismo dei professori e dei politici di professione, assicurandogli sempre l’accesso alla realtà. In lui la “durata” del futuro premio Nobel diventa la profondità della storia e l’intuizione l’antidoto all’intellettualismo della sua generazione. In una parola, libertà. La stessa offerta dai “Cahiers” dove non è soggetto ai vincoli dell’editoria, né a quelli del giornalismo. Il periodico, che raggiungerà i 229 numeri, è l’opera della sua vita ma anche un’avventura collettiva. Il numero degli abbonati, che gli assicurerà il supporto economico, oscillerà tra 900 e 1200. Tra loro figureranno Raymond Poincaré, il capitano Dreyfus, Claude Debussy, Joseph Reinach, l’ex capo di gabinetto del presidente del consiglio Léon Gambetta. Per non parlare dei prestigiosi collaboratori, da Daniel Halévy a Julien Benda, da Romain Rolland a Georges Sorel.

Legato alla cultura popolana, la sola a rappresentare l’aristocrazia del mondo del lavoro, dalla tribuna del suo quindicinale, Péguy ingaggiava battaglia contro la mitologia del progresso, perché «la miseria dell’uomo moderno, la sua angoscia, è una delle più profonde che la storia abbia mai registrato», preda com’è del denaro facile e del degrado. Ai pochi testi utopici dell’inizio sono seguiti rapidamente le critiche al mondo moderno, che recano tracce della potente nostalgia per il vecchio mondo. Il suo non è però un requiem per una società cristiana e popolana, in via di disgregazione sotto il regime del denaro. Per essa occorre ancora combattere, essere miles Christi, ma non per salvare se stessi, ma per salvare anche gli altri. «Non si deve salvare la propria anima come si salva un tesoro – dirà in Il mistero della carità di Giovanna d’Arco -. La si deve salvare come si perde un tesoro. Con il buttarla via. Noi ci dobbiamo salvare insieme. Noi dobbiamo arrivare presso il buon Dio insieme. Che cosa direbbe se arrivassimo presso di lui, arrivassimo a casa senza gli altri».

Gli studi di prosperi e Bruno
«Charles Péguy, ci ha lasciato pagine stupende sulla speranza», ha assicurato di recente papa Francesco. E a guidare alla scoperta di questo aspetto del pensiero dello scrittore d’Oltralpe, di cui oggi ricorre il 150° anniversario della nascita, ora arriva in libreria Mistero dei misteri di Paolo Prosperi (Morcelliana, pagine 178, euro 16,00). L’autore apre un varco certo nel pensiero di Péguy per comprendere come la virtù della Speranza, che «vede quello che non è ancora e che sarà / ama quello che non è ancora e che sarà», costituisca l’architrave per la addentrarsi nel mistero della storia e di ogni singola esistenza umana. Ma per inquadrarne, nell’insieme, la biografia, le amicizie, lo stile e le sue battaglie in favore della vita vissuta e non dello spirito di sistema e dell’astrattezza così presenti nel mondo moderno, un ottimo portolano è Charles Péguy. Amico presente di Giorgio Bruno (Ares, pagine 256, euro 16,00).

Musica / Massimo Ranieri: devo a Dio il mio successo


Fonte: famigliacristiana.it
Finalmente incontriamo per Credere Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. L’occasione è di quelle belle: l’uscita del suo nuovo album, Tutti i sogni ancora in volo (Warner Music). Un album di dodici brani inediti scritti da nomi importanti della musica italiana e da giovani promesse, fortemente voluto da Massimo Ranieri dopo oltre vent’anni di musica napoletana. È l’album di un altro “nuovo inizio”, con quel titolo che richiama la strofa di una delle sue canzoni più amate, Perdere l’amore, nonché il suo ultimo libro, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno. Perché, dice, «il sogno di continuare a vivere la vita non mi abbandona: non smetto di sognare, e ringrazio Dio per questo e per tutta la mia vita meravigliosa. Sogno di sognare sempre».

LA CADUTA “PROVVIDENZIALE”
Lo scorso 6 maggio, un grave incidente lo mette fuori gioco per un lungo periodo: durante uno dei suoi spettacoli al Teatro Diana di Napoli, l’artista cade dal palco, perdendo l’equilibrio: si rompe quattro costole, l’omero e un polso. «C’è il video della caduta, ma non voglio vederlo: mi sembrerebbe di rivivere tutto il dolore provato. So soltanto io quante notti sono stato in poltrona perché non riuscivo a dormire: non trovavo la posizione. Mi faceva male dappertutto. E la ripresa è stata lunga. È stato un momento buio: ho capito poi che era una manna dal cielo. Era stato il buon Dio a tirarmi per la giacca, per avvertirmi, come mi avesse detto: “Non ti vuoi fermare, capatosta? Mo’ ti fermo io”. E aveva ragione, dovevo fermarmi, perché ero davvero molto stanco. Mi ha ricordato un po’ mia mamma che quando andavo a Napoli diceva: “Guaglio’, devi riposarti un poco figlio mio, sei stanco”, e io le dicevo: “Appena finisco queste serate…”, ma non le davo mai ascolto. Ecco, è arrivato Lui». Riprende l’artista: «È stato per me un periodo di riflessione: quei 50 giorni fermo e la lunga riabilitazione li ho vissuti come un giusto riposo − anche se forzato e doloroso − che mi ha fatto capire tante cose: innanzitutto che anche se me ne sento 30, ho già compiuto 71 anni e il fisico, certe volte, non risponde più come prima. Bisogna farci i conti: devo tener presente che non posso pretendere troppo da me stesso come quando ero un ragazzo».

TENERE STRETTO IL BUONO

«E poi ho compreso quanto sia importante accorgersi delle cose che ti capitano, tenere strette quelle buone e lasciarsi alle spalle le zavorre, ciò che conta poco. Non dico che comincio a fare i conti, ma inizio ad acchiappare le cose a cui prima non avrei fatto caso, a dire “questa mi serve” oppure “questa non mi serve”. Sempre con il sogno di continuare a vivere e di dare la giusta importanza alla vita. Quella caduta, che poteva davvero finire peggio, è stata la pacca di Dio sulla mia spalla. Nessuno però riuscirà a togliermi le mie corsette sul Lungotevere, quelle no!», ride. Giovanni Calone “il buon Dio” lo nomina spesso e lo ringrazia, e non è un modo di dire, un intercalare, ma è un riferirsi a un amico, a Qualcuno che ha sempre sentito vicino, fin dai primi anni della sua esistenza. Nato a Napoli, nel rione Pallonetto di Santa Lucia, il 3 maggio 1951 in una famiglia tanto povera quanto unita, Giovanni è il quinto degli otto figli di Giuseppina Amabile e Umberto Calone. Abitavano tutti in un’unica stanza al quinto piano, il ballatoio era la cucina e c’era una solidarietà tra vicini che Massimo non ha più trovato e che rimpiange.

L’INCONTRO CON DE SICA
Della sua famiglia Massimo parla con amore e tanta gratitudine, ricorda la pasta e patate così odiata che la madre metteva insieme con fatica, della fame in agguato, dei primi lavori a sette anni come garzone di una vineria, poi fattorino, ragazzo di bottega, commesso, barista e intrattenitore nelle cerimonie. E, anche, dell’incontro con Vittorio De Sica che, ascoltandolo cantare in italiano, lo rimprovera: «Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi… Dovresti cantare Napoli!». Il resto è storia: della musica, del teatro, del cinema e della televisione, perché da allora Massimo Ranieri non si è più fermato. «In ogni cosa c’è sempre Dio, che mi ha dato un grande dono, un talento che non va sciupato: è come aver ricevuto una chiamata, la più importante. Non sprecare i miei doni è il mio modo di ringraziarlo, è la mia risposta di responsabilità. Perché ha scelto me tra milioni di persone. Dietro a ogni successo, io sento l’intervento di Dio: e vale per tutti. Qualsiasi sia la propria vocazione».

L’ESEMPIO DEI GIOVANI

Una fede, quella di Massimo, che non lo abbandona e che gli arriva dai genitori: «La fede è tutto. Ti dà coraggio, ti fa sentire più forte. Non ti fa dimenticare gli altri. Chi ha fede crede sempre nel prossimo e cerca di aiutare il più debole, chi in quel momento ha più bisogno. Nella vita ci sono momenti belli e brutti: la fede ti aiuta ad affrontarli. Quando vivi dei momenti belli bisognerebbe accorgersene: è lì che vince la fede e ti mette le ali. Ma anche nelle difficoltà ti indica la possibilità di giornate con il sole e non con le nuvole». Così, per tornare al titolo dell’album, per Massimo Ranieri i sogni sono ancora in volo, tutti lì ad aspettarlo: «Sto lanciando il disco ma sto già pensando al prossimo progetto: è un sogno che ho da sempre. Riuscire a fare un concerto accompagnato da una grande orchestra di 120 elementi: sono 47 anni che ho questo desiderio!», e batte il pugno sul tavolo, ridendo, «Ho la testa dura!». «Mia madre ci ha messo nove mesi per mettermi al mondo, mio padre è quello che mi ha creato come cantante, ha creduto in me, mi ha permesso di diventare l’uomo che sono, ha continuato a sognare con me: ma io dico sempre grazie Patatè (Patatèrno: Padreterno in napoletano, ndr) che mi hai messo al mondo. Grazie a Dio ancora mi diverto e non mi annoio mai, magari sono stanco, ma la mia fede è questa: mi hai messo al mondo e mi stai facendo fare un viaggio meraviglioso e incredibile, e nessun sogno poteva regalarmelo».

CANTANTE, ATTORE E SHOWMAN
Cantante, attore, conduttore televisivo, showman e regista teatrale italiano. La carriera di Massimo Ranieri è lunga e ricca di successi. Nel 1964, a soli 13 anni, con lo pseudonimo di Gianni Rock incide il suo primo disco e sbarca a New York in tournée come spalla di Sergio Bruni. Nel 1969 vince al Cantagiro con Rose rosse. Nel 1988 vince il Festival di Sanremo con il brano Perdere l’amore. Ha pubblicato 31 album e 36 singoli, raggiungendo anche “picchi record” di vendite, segno dell’amore che il pubblico nutre per lui: con quattordici milioni di dischi è tra gli artisti italiani che hanno venduto di più nel mondo. Ha avuto alcuni amori importanti ma non si è mai sposato. Ha una figlia, Cristiana, che lo ha reso nonno.

CHI É
Età 71 anni
Professione Artista a tutto tondo
Famiglia Proviene da una famiglia umile e credente
Fede Sincera, ereditata dai genitori