EUROPEI Questa Italia ha già vinto. Siamo i più belli d’Europa

Se non ora, quando? Forse lo vinceremo, questo Europeo. O forse no. La verità è che abbiamo già vinto, il resto sarà una conseguenza, una carezza o uno schiaffo che poco cambieranno la sostanza delle cose. L’Italia che l’altra sera ha battuto il Belgio ha onorato il calcio, traducendo in bellezza l’idea del suo condottiero – Roberto Mancini – e certificando un nuovo status nel panorama calcistico internazionale. Sorpresa delle sorprese: siamo i più belli d’Europa. Lo siamo già. Senza aspettare quest’ultimo giro di giostra. Non ci credeva nessuno. E invece siamo la squadra più coraggiosa, più spettacolare, più squadra, più tutto. Siamo l’Italia che attacca e che impone il proprio gioco, controvento alla tradizione che la vuole “squadra femmina” come scriveva Gianni Brera; smentendo quell’Europa impantanata a vecchi ricordi che derubrica ancora gli azzurri alla voce “catenaccio e contropiede”.

Eravamo la bozza di un progetto, siamo diventati un modello. Donnarumma, Barella, Insigne, Verratti, Chiesa, Spinazzola, Berardi, Pessina, ragazzi di casa esplosi all’ombra dei due totem, Bonucci e Chiellini. Una generazione è sbocciata, all’improvviso ma non per caso. Un gruppo è cresciuto, lentamente e poi in un attimo, l’attimo che si snoda in poche settimane e custodisce questo torneo. I giovani hanno ribadito la loro freschezza, i veterani hanno messo in gioco la loro esperienza. Il calcio trova la sua sublimazione nella fortunata coincidenza di molti destini. Lo sa bene Mancini, che quei destini li ha plasmati, guidati, indirizzati verso un orizzonte sconosciuto. E in fondo la parabola dell’Ita- lia somiglia al “tiro a giro” di Insigne, il colpo da artista con cui lo scugnizzo del Napoli ha steso il Belgio. Talento, lavoro quotidiano, coraggio: mescolare bene, senza agitare.

L’entusiasmo in Italia è alle stelle. Feste e caroselli nelle piazze, come non avveniva da tempo. Il quarto col Belgio è stato seguito da 15 milioni 483 mila telespettatori con il 65,2% di share, dunque ben oltre la metà degli italiani che hanno guardato la tv. Boom di ascolti. E di fiducia. Basti dire che la partita contro l’Austria – una settimana fa – aveva fatto registrare il 61,1% con 13 milioni 275 mila spettatori. Due milioni in più – l’altra sera – si sono piazzati davanti al televisore per quella che l’Équipe ha definito “La lezione di italiano”. Siamo tornati in cattedra, con autorità e personalità. È la “Mancio’s Revolution”.

Gli azzurri hanno fin qui vinto tutte e cinque le partite del torneo: 3-0 alla Turchia e alla Svizzera, 1-0 al Galles, 2-1 all’Austria e 2-1 al Belgio. Undici gol fatti, 2 subiti, di cui uno solo su azione. Andando sempre in vantaggio, spostando i confini del territorio di conquista. È una marcia trionfale quella della gestione Mancini: 15 partite consecutive vinte tra qualificazioni e fase finale degli Europei. Nessun’altra squadra ci era riuscita in precedenza nella storia del torneo. Contro i Diavoli Rossi abbiamo centrato la 32ª partita senza sconfitte. Una striscia lunghissima, una traccia nella storia. Due parole anche sulla compostezza del ct. Ha dimostrato che si può vincere anche senza urlare, senza buttarla in caciara, senza per forza trasformare ogni partita – fin dalla vigilia – in una battaglia epocale, tra il Bene e il Male.

Martedì sera a Wembley (ore 21), contro la Spagna, ci giochiamo l’ingresso in finale. È la settima volta che incrociamo gli spagnoli agli Europei, è un film che abbiamo già visto tante volte. È la quinta volta consecutiva, Italia vs Spagna appuntamento fisso nel menù delle ultime quattro edizioni del torneo: 2008 quarti, 2012 girone e finale, 2016 ottavi e ora, 2021, semifinale. L’ultima volta che siamo andati in semifinale risale a nove anni e due edizioni fa: 2012, si giocava in Polonia e Ucraina, battemmo la Germania nella giornata che consacrò SuperMario Balotelli. In finale trovammo – rieccoci – la Spagna e finì male: 4-0 all’Italia di Prandelli e tutti a casa, umiliati dal tiki taka e smontati, pezzo per pezzo. Ora i favoriti siamo noi, la Spagna che – ai rigori – ha eliminato la Svizzera non ci vale. Furie (poco) Rosse (sicuro). Pensateci: è da una vita che non arriviamo ad una partita ad eliminazione diretta da favoriti. È (anche) da questi particolari che si giudica una Nazionale. All’estero ci guardano con rispetto, riconoscono il valore del “Rinascimento” di Mancini e fa niente se qualcuno se la ride di gusto per la ridicola sceneggiata di Immobile, che crolla in area, reclama rigore, si dimena a terra e si rialza solo quando Barella segna l’1-0. Nello studio della Bbc si sono sganasciati dalle risate e non hanno risparmiato nulla al Ciro nazionale. «È stato patetico e imbarazzante», ha detto l’ex bomber inglese Alan Shearer mentre il suo collega Gary Lineker se l’è cavata con ironia: «Un recupero incredibile», ha sghignazzato.

A Casa Italia intanto si fanno i conti. Con l’approdo in semifinale gli azzurri si sono messi in tasca 150mila euro a testa (lordi), come da accordo trovato nei giorni scorsi tra il presidente della Figc Gravina e i capispogliatoio, Bonucci e Chiellini. Il bonus per la vittoria del torneo sale a 250mila euro. Ma l’eventuale trionfo – come è noto – non ha prezzo. «Questo concetto di bellezza che stiamo diffondendo con questi ragazzi e che sta contaminando tutto il Paese – dice Gravina – non è soltanto legato al calcio che stiamo giocando, ma anche alla qualità dello stare insieme e al sentimento di amicizia». E altri due amici praticamente fraterni, Mancini e Gianluca Vialli, sono in missione assieme, anche per riscattare una delusione vissuta in campo 29 anni fa con la Sampdoria a Wembley.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La forza della Nazionale è quella di un gruppo che unisce giovani e veterani e che è cresciuto prima lentamente, e poi in un attimo L’entusiasmo dei tifosi è alle stelle: in 15,5 milioni hanno seguito davanti alla tv la vittoria sul Belgio

Mancini sta già pensando a domare la Spagna

Euro 2020. Italia-Belgio stasera. Mancini guida la carica degli “oratoriani” azzurri

Tanti i calciatori di questa Nazionale, pronta per la sfida con il Belgio, che devono la loro personalità e la formazione al campetto della chiesa del paese in cui sono nati e cresciuti
Italia-Belgio stasera. Mancini guida la carica degli "oratoriani" azzurri

Ansa

Agli Europei di Polonia-Ucraina 2012 scesero in campo i “pretoriani” di Cesare, Prandelli. Galoppata fino alla finale di Kiev, persa nettamente contro la Spagna, ma comunque vicecampioni d’Europa con una Nazionale che visse momenti di gloria, soprattutto negli attimi di fantasia creati dai due nevroromantici per antonomasia, il “black italian” Mario Balotelli e la peste di Bari Vecchia, Antonio Cassano. Ragazzi di strada, ribelli, sognatori da incubo e fuggitivi, assai distanti dallo spirito di questa Italia di Euro 2020 che questa sera, ai quarti, punta a eliminare il Belgio del gigante buono Lukaku e ad arrivare alla finale di Wembley dell’11 luglio.

 

 

Per centrare l’obiettivo servono tutte le risorse a disposizione, a cominciare da quel valore aggiunto che forse sta nella forza degli ‘oratoriani’. «La mia prima squadra è stata l’Aurora, la formazione dell’oratorio di San Sebastiano, a Jesi». È lì, agli inizi degli anni ’70, nella sua città natale che è cominciata la favola di Roberto Mancini: l’ascesa inarrestabile del baby prodigio del Bologna e poi del n. ’10’ della Samp dell’unico scudetto vinto (1990-’91) con il suo fratello doriano ed eterno compare in azzurro, Gianluca Vialli. Nel campetto della chiesa il primo ad accorgersi delle doti straordinarie del futuro campione e ct della Nazionale fu don Roberto Vigo.

L’idolo di Belotti è don Sergio, mentre Bastoni è «un esempio di fede» per don D’Agostino


 

Una storia che Mancini alla vigilia degli Europei ha raccontato, con timidezza fanciullesca, entrando nei Giardini Vaticani, confrontandosi anche sul tema della fede con don Dario Viganò nella trasmissione di Rai 1 A sua immagine. E questa Nazionale è davvero a sua immagine, quella dell’ex ragazzo di Jesi che a don Viganò ha ribadito «quanto sia stata importante la mia formazione oratoriale». Il gusto del gioco – «del Giuoco», sottolinea il commentatore di Rai Sport ed ex azzurro Eraldo Pecci, cresciuto anche lui all’oratorio di Cattolica – fine a se stesso in un tempo come l’adolescenza, in cui anche il talento si comporta da quel perfetto amateur tanto caro a papa Francesco.

Prima di lui, il “Papa dello sport” è stato Giovanni Paolo II che, anche per spirito agonistico, era assai affine a san Giovanni Bosco, il padre fondatore della cultura oratoriale. «Quando vedo i giovani tutti occupati nel gioco son sicuro che il demonio ha un bel da fare, ma non riesce a nulla».

Il gioco che salva dalle tentazioni e i pericoli della strada l’hanno sperimentato oltre al ct Mancini e il gemello del gol Gianluca Vialli («sono figlio di Grumello e dell’oratorio del Cristo Re») di molti dei suoi azzurri. A cominciare dalla grande rivelazione di questo Euro 2020, Manuel Locatelli. All’oratorio di Pescate (Lecco) lo chiamavano ‘Zizou’, «già come Zidane», ha raccontato divertito tante volte ricordando gli esordi. È lì che Locatelli ha cominciato a fare le cose per bene: sotto la guida paterna ha tirato i primi calci passando presto nella premiata cantera dell’Atalanta per finire a 11 anni nelle giovanili del Milan. Un «predestinato» alla maglia rossonera, che invece gli viene avventatamente tolta, costringendolo a ricominciare la scalata alle vette del grande calcio. Ripartenza del ‘Loca’ dal laboratorio permanente di Sassuolo. Una “retrocessione” avrebbe pensato qualsiasi ventenne ambizioso di Serie A, ma Manuel è uno abituato a «lavorare come Oriali» (canta Ligabue in Una vita da mediano. Già, il Lele Mundial dell’82, ora team manager della Nazionale, anche lui battezzato calcisticamente all’oratorio di via Grandi a Desio. Max Allegri stravede per l’oratoriano Locatelli e lo vorrebbe alla Juventus, ma servono 40 milioni di euro. Cifre distanti anni luce dai lampioni del campetto dell’oratorio dove si gioca gratis e per amore di Dio. Mancini che in gioventù è stato parzialmente vittima dei “blocchi azzurri” (i convocati erano in prevalenza ju- ventini, milanisti o interisti) non c’ha pensato due volte ad affiancare Locatelli al compagno di squadra, il ragazzo di Calabria Mimmo Berardi. E il ct è stato ripagato da prestazioni splendide dal Manuel di Pescate che si è tolto anche lo sfizio di segnare alla Tardelli uno dei due gol realizzati fin qui, e ora sogna il terzo al Belgio.

Tra i due, a Sassuolo è spuntato Giacomo Raspadori, il più giovane del clan azzurro con i suoi 20 anni. I primi li ha trascorsi all’oratorio di Castel Maggiore, nel bolognese, «ma lì si parlava e si faceva quasi solo basket». Disciplina formativa ma Giacomino c’ha pensato un attimo e ha subito virato sul campo di pallone della Progresso. La squadra in cui ha cominciato a dare segnali di quello che ora viene accostato al «nuovo Totò Di Natale», «mi hanno dato anche dell’Aguero», dice orgoglioso Raspadori, «ma sono paragoni troppo forti per uno che ha appena iniziato ». Umiltà e consapevolezza manciniana, la stessa che fa dire al ct, messo a confronto con lo storico selezionatore Vittorio Pozzo: «Lui ha vinto due Mondiali e una Olimpiade, io ancora niente».

Tanti gol in maglia granata ma zero titoli per il cuore Toro Andrea Belotti che è rimasto sempre il ragazzo di Dossena, il paesino della Val Brembana. È qui che predica e fuma il suo buon sigaro toscano quello che il ‘Gallo’ Belotti chiama «l’eroe della mia vita». È l’arciprete don Sergio Carrara, il parroco che quando sulla ‘Gazzetta dello Sport’ lesse la dichiarazione del bomber del Torino si commosse.

Dalle intense emozioni via skype, scambiate in tempi di lockdown, tra don Marco D’Agostino e il suo ex allievo al Liceo Vida di Cremona, l’azzurro Alessandro Bastoni, è nato il libro Se aveste fede come un calciatore (San Paolo Edizioni). Qui è il giovane campione che diventa punto di riferimento del suo Prof. il quale quando lo interroga sul cosa si prova a dover marcare Cristiano Ronaldo, Bastoni candido risponde: «Don Marco, dalla difesa non passa nessuno». Una sicurezza quella del difensore dell’Inter campione d’Italia che ha fatto confessare a don D’Agostino: «Se avessi la stesa fede di Bastoni quando scende in campo, probabilmente la mia vita sarebbe diversa».

È stata sicuramente un’infanzia diversa quella vissuta in oratorio da molti degli azzurri che stanno tentando l’euroimpresa, uniti dalle origini su quei campetti polverosi di provincia e dagli insegnamenti fondamentali di qualche curato di campagna. La pratica cristiana e la fede in Dio fanno parte dell’allenamento quotidiano del centrale della Lazio Andrea Acerbi. Cresciuto nell’humus oratoriale della Voluntas Brescia, la sua storia di rinascita, dopo essere guarito dal tumore, Acerbi l’ha raccontata nell’autobiografia Tutto bene (Sperling & Kupfer). Pagine toccanti in cui rivive il percorso a ostacoli contro tutti gli avversari incontrati nel suo cammino. Il calcio è una fede per Acerbi, ma il suo credo in Dio è quello che lo guida sempre: «Prego due volte al giorno, al mattino e alla sera. Ma non per questo sono diventato un santo. Di casini ne combino ancora, ma adesso grazie a Dio so chi sono».

Ha personalità da vendere Matteo Pessina, che dall’oratorio di Monza si porta dietro la cifra rara del ‘doppio passo’: prima del calcio viene lo studio. Latinista per passione il ‘Gerrard’ dell’Atalanta è iscritto alla facoltà di Economia della Luiss di Roma. Pessina, con Raspadori (studente alla facoltà di Scienze Motorie) seguono le orme dei veterani laureati, la roccia difensiva Giorgio Chiellini e il secondo portiere Salvatore Sirigu. Quest’ultimo, cresciuto a La Caletta di Siniscola (Nuoro) era partito giocando in attacco per la squadra dell’oratorio della chiesa della Madonna di Fatima che «miracolosamente », dice lui, lo ha trasformato in un portiere. Uno dei migliori portieri d’Europa che ancora rimpiangono al Paris Saint Germain. Mancini ha fatto entrare in campo Sirigu nella gara con il Galles (forse l’ultima in azzurro per il 34enne portiere del Toro) al posto di Gigio Donnarumma per far capire una volta di più che «in questa Nazionale, non ci sono riserve, sono tutti titolari». Ciò che conta è il gruppo, lo stare bene insieme nel reciproco rispetto dei ruoli impartiti.

 

L’abbraccio tra il ct della Nazionale Roberto Mancini e Gianluca Vialli

L’abbraccio tra il ct della Nazionale Roberto Mancini e Gianluca Vialli – Ansa

 

E dopo tanta sofferenza in campo la tensione si scioglie nell’abbraccio di fratellanza tra Mancini e Vialli che, dall’alto della sua esperienza di vecchio bomber azzurro e di hombre vertical, proclama in stile oratoriano: «L’importante non è vincere, è pensare in modo vincente: la vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede e per il 90 per cento di come lo affrontiamo».

Venerdì 2 Luglio alle ore 21 in S. Agostino Reggio Emilia visione della partita dell’Italia agli Europei

Alle ore 21 del 2 luglio 2021 sarà possibile vedere insieme nel chiostro della Parrocchia cittadina di S. agostino a Reggio Emilia la partita  Belgio – Italia, che è la partita valida per i quarti di finale degli Europei 2021. La sfida tra la Nazionale di Roberto Martinez e gli Azzurri di Roberto Mancini si gioca domani, venerdì 2 luglio alle ore 21, nell’Allianz Arena di Monaco di Baviera. Dentro o fuori per la Nazionale Italiana, che in caso di vittoria potrebbe incontrare la Svizzera o la Spagna.

Bomba o non bomba (sempre scan­dalistica quella italica), gol o non gol (solo 4 segnati in 4 partite), sia­mo comunque arrivati alla semifinale di Varsavia

E si sappia, non era affatto una meta scontata per questa Nazionale di scapigliati messi insieme da Cesare Pran­delli che qui, in fatto di romanticismo fa concorrenza persino a Chopin. Ci aspetta un “notturno” con fuoco, co­munque vada, da ricordare, contro la beethoveniana Nationalmannschaft. In­tanto ogni polacco di buona volontà, cal­cistica si intende, ha ascoltato il proprio orgoglio e ha deliberato: «Tiferemo tutti per l’Italia e contro la Germania». Tante le ragioni in gioco sulla sponda della Visto­la che lambisce la perla dello Stadio Na­rodowy. Parlando con Jakub, studente u­niversitario e tassista, riemerge prepo­tente, anche nelle ultime generazioni, quella ferita ancora aperta dell’insurre­zione di Varsavia dell’agosto del ’44. «I te­deschi – dice con occhi di tigre – , in quei giorni qui hanno ucciso 100mila polac­chi. Forse loro hanno dimenticato, noi no». “Loew and peace”. Abbiamo ripetuto dal primo giorno di questo bellissimo Euro­peo che il calcio non divide, semmai uni­sce i popoli (o li assortisce, in qualche ma­niera, come ha fatto la Uefa per Polonia-Ucraina 2012). E come predicano i due saggi ct, Prandelli e Loew, «il calcio è un gioco che deve regalare gioia ed emozio- ni alla gente».

Fuori dunque la politica da­gli stadi e anche le sempre più oscure tra­me dei mercati finanziari, avvelenati dal­lo spread, che sembrano aver imposto la Germania di frau Merkel come l’unico Paese di Serie A della Ue. Tutti gli altri, Italia compresa, retrocessi al misero rango di società cadette, costan­temente sull’orlo del fallimento. «Noi non siamo la Grecia, né come economia e tan­to meno in campo. Abbiamo sempre bat­tuto la Germania e vinto un Mondiale più di loro (4 i titoli iridati dell’Italia)», pun­tualizza Fabio da Cassino, arrivato fin qui insieme allo sparuto gruppo di connazio­nali (non più di 2mila) che saranno anco­ra in minoranza stasera sugli spalti, dove sono attesi 30mila supporters dalla Ger­mania. E se i tedeschi hanno il complesso del­l­’Azzurro, noi abbiamo il tabù degli Euro­pei e siamo fermi a quell’unico titolo del 1968. Questa semifinale va dunque con­siderata come la vera sfida della nuova e­ra azzurra o di quella che Loew riconosce come «il cambiamento culturale del cal­cio italiano». Ma l’azzimato e sempre com­posto ct tedesco appena gli ricordano che la Germania con noi non vince mai, per un attimo si scalda e lancia una serie di piccati «Nein, Nein, Nein…» .
Cesare è meno negazionista: «La storia è importante, ma ora bisogna fare i conti con la realtà». Loew è sicuro dei suoi, ma è sbalordito di «come l’Italia abbia reagi­to bene agli scandali» e ha chiesto ai suoi di tenere d’occhio Pirlo, perché «è un gran­de campione che va limitato». Si scontra­no il miglior attacco di Euro 2012, 9 gol (3 di Gomez) quello tedesco, contro la dife­sa meno perforata, 2 reti subite dall’Italia in 390 minuti. Ma è una sfida che si po­trebbe decidere a centrocampo, nel con­fronto al fosforo tra i playmaker Pirlo e O­zil e quello tra l’energico Schweisteger contro l’universale De Rossi. Capitan futuro ha la schiena a pezzi, ma vuole esserci assolutamente: «Sono parti­te in cui non si può mancare», dice De Ros­si che scambia spiccioli di serenità con il suo ct che anche ieri si è concesso l’ormai tradizionale mezz’ora di pennichella. È un’Italia che ha recuperato le energie e tutti e tre gli infortunati (Chiellini, De Ros­si e Abate). Cesare non dorme, ma sogna «una notte storica, perché quando sogno, lo faccio in grande e immagino cose ma­giche».

Per magia, si parla sempre meno di Balo­telli e sempre di più di questo centro­campo di fantasia e di fini palleggiatori che può suonarle anche all’orchestra sinfonica di Loew. Potrebbe partire Dia­manti dal primo minuto (al posto di Cas­sano) e rientrare Chiellini in difesa, spo­stato a sinistra al posto di Balzaretti. Pic­cole modifiche però: «Questa Nazionale non cambia il suo modo di giocare perché significherebbe tornare indietro e cancel­lare il lavoro di due anni», spiega il ct. Un lavoro onesto e pulito che, come sei anni fa, può cancellare le scorie negative di un sistema calcio e di un Paese reale che ha tanto bisogno di tornare a sognare. Ad oc­chi aperti.

avvenire.it