L’analisi. Ipotesi Flat tax: grandi costi scarsa equità

Tra gli obiettivi, oltre alla riduzione della pressione anche il sostegno ai ceti medi e la riduzione delle diseguaglianze Fra le alternative possibili, ognuna con vantaggi e svantaggi specifici, agire sulle aliquote esistenti, lasciar aumentare l’Iva, adottare una patrimoniale, ripristinare imposte di successione più alte

Avvenire

Un piano di tagli fiscali da 30 miliardi sui redditi e sulle imprese. Matteo Salvini, il vincitore del voto europeo, ha appena rilanciato la pluriannunciata Flat tax. Non è ancora certo che la tassa piatta entrerà nella manovra d’autunno: i conti pubblici sono sotto esame Ue, lo spread volteggia a quote pericolose e il governo esce più instabile dal voto europeo. Ma il tema è all’ordine del giorno. Come è sotto i riflettori anche un altro argomento: quello delle crescenti diseguaglianze economiche. A parole, tutti i partiti affermano di voler ridurre le disparità e contrastare il declino delle classi medie, fenomeno che spaventa l’Occidente per i suoi risvolti economici e per i maggiori rischi politici che già sta comportando. Ma come inciderebbe la Flat tax sulle diseguaglianze? Come possono coesistere l’obiettivo di tagliare il prelievo fiscale e quello di ridurre i divari sociali crescenti?

Un Paese ricco con molti poveri L’Italia di oggi è una foto in bianco e nero. La ricchezza delle famiglie resta tra le più alte del mondo (è aumentata a fine 2018). Ma il numero dei poveri durante la crisi è raddoppiato a 5 milioni. Secondo dati derivanti dalle successioni ereditarie, l’1% più ricco degli italiani ha aumentato dal 18 al 25% la sua quota parte della ricchezza nazionale tra il 1995 e il 2016. Tra i maggiori Paesi Ue l’Italia ha, con la Spagna, il maggior tasso di diseguaglianza (indice di Gini). In tutti i Paesi il divario tra i redditi di mercato è sempre considerevolmente maggiore di quella che si registra dopo il prelievo fiscale e la redistribuzione messa in atto dall’intervento pubblico. Ma la portata di questo riequilibrio varia considerevolmente: secondi i dati del Forum Disuguaglianze, oggi in Italia fisco e welfare riducono le disparità di reddito di 18 punti, meno di quanto avvenga in Francia e Austria (22 punti), Germania (21) o Spagna (19).

Il nodo progressività Una riforma del fisco avrebbe ricadute importanti tanto sul gettito complessivo (se si riduce vanno tagliati servizi e investimenti o aumentato il deficit) quanto sulla distribuzione del prelievo (cioé sul peso specifico delle tasse sui diversi ceti economici del Paese). A parità di gettito, più un sistema fiscale è progressivo e più riduce le diseguaglianze di reddito. Non a caso la progressività è prescritta dalla nostra Costituzione (art. 53). Per rispettarla occorre che il prelievo aumenti in modo più che proporzionale al reddito. Finora questo è stato assicurato dalle aliquote crescenti Irpef. L’introduzione di un’aliquota fissa dovrebbe essere quindi accompagnata da correttivi (come esenzioni o deduzioni) per non essere incostituzionale.

La struttura dell’Irpef È opinione diffusa che l’attuale imposta sul reddito sia molto evasa e poco equa. Su oltre 40 milioni di contribuenti 13 milioni non pagano nulla. I 5 milioni con reddito sotto i 15mila euro versano meno del 4% del totale. Il 57,5% del gettito è assicurato dai 20 milioni di cittadini con imponibile tra i 15 e i 50mila euro. E poco meno del 40% dai due milioni di italiani che guadagnano oltre 50mila euro. C’è quindi una forte progressività. Che diventa palese iniquità tenendo conto dell’evasione dell’Irpef, che è una sorta di tassa negativa regressiva. Nel 2015 valeva 38 miliardi di euro sui 163 del gettito Irpef. Il recupero del ‘nero’ permetterebbe da solo di finanziare una forte riduzione del livello o del numero delle aliquote, anche a parità di prelievo complessivo. Ma finora nessuno ha voluto o saputo ridurre in maniera significativa l’area dell’evasione, in Italia al top in Europa. Pur con tutti i suoi limiti, comunque, nell’attuale sistema italiano è l’Irpef ad assicurare la progressività del prelievo sulle persone fisiche, come ricordano gli economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo nel loro recente volumetto ‘Flat Tax. Parti uguali tra diseguali?’ Le imposte indirette, come l’Iva, diminuiscono la loro incidenza all’aumentare del reddito, sono quindi regressive: pesano oltre il 25% sul 20% più povero della popolazione e circa il 10% sul 20% più ricco. Peraltro il raggio d’azione dell’Irpef è stato già ridotto negli anni. Sono nate imposte sostitutive di tipo proporzionale, che hanno ridotto la progressività del sistema. L’ultima è la Flat tax al 15% per le partite Iva, estesa dal governo in carica fino ai 65mila euro di reddito (al 20% fino a 100mila euro dal 2020). Da qualche anno c’è la cedolare sugli affitti: una tassa piatta (21%) indipendente dal reddito e dal patrimonio che ha favorito soprattutto i ceti medio-alti, tra i quali si concentra la pluri-proprietà immobiliare.

La Flat tax (in varie versioni) Baldini e Rizzo hanno calcolato che per garantire lo stesso gettito dell’attuale Irpef una Flat tax su base familiare e con una fascia di esenzione di 10 mila euro dovrebbe avere un’aliquota del 35% (ben più alta del 15-20% del programma di governo): comporterebbe una riduzione del prelievo per le fasce di reddito più basse e per il 5% dei più ricchi ma un aggravio fiscale per la classe media. Per assicurare sgravi anche ai ceti medi l’aliquota unica dovrebbe essere posta addirittura al 43%. Ipotizzando invece di far scendere l’asticella al 25% ci sarebbero vantaggi per tutte le classi di reddito, anche se molto più pronunciate per le più benestanti. In entrambi i casi diminuirebbe la progressività e aumenterebbe la diseguaglianza tra i redditi netti. Ma con l’aliquota al 25% ci sarebbe anche una forte diminuzione del gettito, calcolata in circa 50 miliardi di euro l’anno. Una voragine che nessuna revisione della spesa è in grado di colmare se non riducendo drasticamente l’area dei servizi pubblici. L’ipotesi più recente è quella di una Flat tax familiare al 15% fino a 50 mila euro, che avrebbe un costo più contenuto (comunque importante, sui 15 miliardi). Ma non sarebbe affatto piatta, perché superata quella soglia di reddito resterebbero le attuali aliquote Irpef. Con un netto salto di imposizione tra chi sta sotto e chi sta sopra: un incentivo all’evasione al crescere del reddito. Dal punto di vista dell’equità, poi, avvantaggerebbe molto più chi sta a 50mila che a 1520 mila, e le famiglie monoreddito più di quelle con due stipendi.

Le alternative possibili Uno sgravio Irpef potrebbe essere finanziato anche attraverso altre forme di imposizione, se occorre salvaguardare il gettito. È il caso dell’Iva, destinata a salire automaticamente da gennaio se il governo non disattiverà le clausole salva-deficit. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria preferirebbe trasferire su questa imposta parte del gettito che pesa su redditi e lavoro. Ma come abbiamo visto, l’effetto sulle famiglie è tutt’altro che progressivo. Un’altra strada sarebbe l’imposta patrimoniale, che ha molti detrattori (ma anche sponsor di rango, come l’Ocse o il Fmi), e presenta sia controindicazioni che vantaggi: tra i primi la spinta alla fuga di capitali (se attuata anche sui beni finanziari) tra i secondi il fatto che le proprietà sono più difficili da nascondere al fisco del reddito. Una patrimoniale di fatto esiste già, l’Imu, ma è concentrata sugli immobili (che valgono ben il 50% delle ricchezza delle famiglie) e non è progressiva. L’imposta infatti non si paga sulla prima casa (piccola o grande che sia). Ma dalla seconda proprietà in su prevede aliquote fisse, tanto per chi ha solo la vecchia abitazione dei nonni che per il proprietario di un intero quartiere. Un’altra opzione per un possibile riequilibrio di risorse passa dall’imposta di successione. Da questo punto di vista l’Italia è una sorta di ‘paradiso fiscale’. Siamo ultimi nell’area Ocse per il livello di tassazione. In Usa e Gb si arriva ad aliquote del 3040%. Da noi l’aliquota sui passaggi diretti è al 4%, con esenzione fino a un milione di euro (calcolata per gli immobili sul ‘benevolo’ valore catastale). L’apporto delle tasse di successione al gettito fiscale è sceso negli ultimi decenni e oggi è quasi irrilevante: vale circa mezzo miliardo.

Made in Italy: 46 le eccellenze protagoniste sul mercato

Aziende in crescita che puntano sulla qualità e si distinguono per capacità organizzativa, performance, strategia, innovazione, internazionalizzazione e sostenibilità. Sono le 46 imprese italiane, individuate da Deloitte, a cui va il riconoscimento di ‘Best Managed Companies’, il premio nato per supportare e valorizzare le eccellenze del Made in Italy. Queste imprese sono oggi protagoniste in Borsa Italiana nell’ambito dell’iniziativa Deloitte sostenuta da Altis Università Cattolica, Elite (programma del London Stock Exchange Group che supporta lo sviluppo e la crescita delle imprese ad alto potenziale) e Confindustria. 

Le quarantasei eccellenze sono distribuite su tutto il territorio nazionale, ma a fare la parte del leone è la Lombardia con 17 realtà (37%), seguita da Emilia Romagna (13%), Piemonte (10,9%) e Veneto (8,9%). Mediamente le aziende ‘best managed’hanno registrato una crescita del fatturato del 20% e un incremento del risultato netto del 13,5% in un anno (2016-2017). Il settore più rappresentato è quello manifatturiero (74%), seguito da informazione e comunicazione (7%) e consulenza (4%) a pari merito con wholesale e retail. “Il livello di fatturato -spiega Deloitte – non è un driver determinante per la vittoria. Le aziende vincitrici, infatti, considerano l’eccellenza dei prodotti e servizi il vero fattore differenziante (indicato dal 63%), ma sono importanti anche la gestione delle relazioni con i clienti (41%), la promozione dell’innovazione a tutti i livelli aziendali (39%) e una strategia strutturata e ben definita (32%)”. (ANSA).

ALLARME CONTI, AFFONDO GOVERNO SU BANKITALIA E CONFINDUSTRIA

CONTE, ‘E’ TROPPO PRESTO PER PARLARE DI UNA MANOVRA BIS’ Non si fermao le polemiche sulle previsione di crescita, in negativo, rese note ieri da Bankitalia e tacciate dal vicepremier Di Maio di essere “apocalittiche” e venire da un Istituto che “sono anni che non ci prende”. Oggi è l’opposizione ad attaccare Di Maio. Se Brunetta si chiede “come spiega Di Maio il boomn economico con la recessione”,Fratelli d’Italia chiedono se il M5s “voterà la nazionalizzazione di Bankitalia’”. Pd: “per Di Maio chi dice la verità è un sabotatore”. Sulla necessità di una manovra bis risponde Conte da Matera: “E’ troppo presto per ragionare di manovra bis”. M5s attacca anche Confindustria: Buffagni: “se fa politica le imprese non la finanzino”.

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GIOVEDì IL DECRETO, FONDI PER I DISABILI E NORME PER I RIDER

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TRIA, ‘STAGNAZIONE, L’EUROPA DEVE CAMBIARE IL FISCAL COMPACT’ Appuntamento al Cdm di giovedì per il decretone su reddito e quota 100, la conferma arriva da Salvini che rivendica di aver ottenuto i fondi per i disabili. Collegate al provvedimento anche le norme per regolare il lavoro dei rider. In un documento inviato alle parti dal ministero del Lavoro, sono indicati il divieto di pagamento a cottimo, il rimborso spese per le bici e il forfait di fine rapporto. Dopo il crollo della produzione, è allarme sui conti 2019: ‘Non vedo recessione, ma l’Italia è in stagnazione’, dice Tria che chiede all’Ue la modifica del fiscal compact e esclude dimissioni: ‘Solo se il governo impazzisse’.

CROLLA LA PRODUZIONE INDUSTRIALE, ALLARME RECESSIONE IN UE

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SALVINI, CRISI? ITALIA PREPARATA. DI MAIO, UN BOOM DIGITALE Crolla la produzione industriale a novembre in Italia, -1,6% su ottobre e -2,6% su novembre 2017. Profondo rosso per il settore auto che segna -19,5% sull’anno e -8,6% sul mese. L’Istat stima che la fase di debolezza dell’economia prosegua. I dati negativi della produzione anche negli altri principali paesi Ue lasciano presagire una possibile recessione in tutta Europa, mentre anche negli Usa il rischio recessione sale al massimo degli ultimi sei anni. ‘Crisi? Faremo il contrario dei governi del Pd, che avevano una situazione economica positiva e hanno tagliato; noi, in una situazione internazionale negativa, mettiamo più soldi nelle tasche degli italiani, è l’unica cosa intelligente da fare’, dice Salvini. Mentre Di Maio parla di un ‘nuovo boom economico da anni ’60’ a partire dalle autostrade digitali.

Termini Imerese. Nuova protesta degli operai di Blutec. Stenta a partire la riqualificazione industriale a due anni dalla cessione dello stabilimento Fiat

Nuova protesta degli operai di Blutec

Nuova protesta oggi pomeriggio per gli operai di Blutec di Termini Imerese. Mentre si svolgeva la prova spettacolo della Targa Florio gli operai hanno bloccato un’auto e hanno sistemato per qualche minuto uno striscione unitario, firmato Fim Fiom Uilm, sulla vettura. “Abbiamo manifestato in modo pacifico, bloccando la prima macchina per un minuto per ribadire la situazione di disagio e incertezza degli operai Blutec, vissuta dopo che Invitalia ha ritenuto non in linea con l’accordo ministeriale la rendicontazione fornita dall’azienda, di conseguenza bloccando il progetto e chiedendo indietro la prima tranche di 20 milioni versati all’azienda” spiegano Giuseppe Liuzzo Rampino Rsu Fim Cisl Palermo Trapani e Antonino Cirivello responsabile Cisl Termini Imerese. “Non si possono lasciare circa 700 famiglie nella continua ansia dell’incertezza, chi aveva garantito la reindustriallizzazione del sito cerchi la soluzione per far sì che il progetto non venga bloccato causando il licenziamento di tutti gli operai Blutec e di conseguenza qualsiasi speranza per un possibile indotto e per la rinascita dell’area industriale di Termini Imerese”, concludono.

Blutec S.r.l. è una carrozzeria italiana di proprietà del gruppo Metec. Nel 2016 ha acquistato lo stabilimento di Termini Imerese. Da quando Blutec ha riaperto la fabbrica, solo un centinaio di ex metalmeccanici su 700 ex Fiat sono rientrati al lavoro, gli altri sono ancora in cassa integrazione. Erano due i progetti ipotizzati da Blutec per l’area industriale: uno da 95 milioni di euro riguardava la produzione di componentistica per auto: l’altro da 190 milioni di euro per la produzione di auto ibride. Il primo aveva ricevuto il vaglio di Invitalia, il secondo no. L’accordo di programma quadro, siglato quattro anni fa, destinava 360 milioni di euro tra fondi statali e regionali per la riqualificazione dell’area. Termini Imerese dovrebbe diventare la sede di un centro di ricerca e sviluppo per la mobilità sostenibile e un centro di produzione di batterie a ioni per le autovetture elettriche.

avvenire

Nella Barbiana del Malawi la dignità genera sviluppo

Nella Barbiana del Malawi la dignità genera sviluppo

Procediamo per una strada sterrata, rossa e polverosa. Ai due lati campi di mais visibilmente sofferenti: piante rade, basse e mezze secche. I contadini lamentano una stagione delle piogge avara di acqua, chiaro effetto dei cambiamenti climatici. Siamo in Malawi, un terzo dell’Italia, paese incuneato fra Zambia e Mozambico. L’80% della popolazione vive in campagna, potremmo proprio dire che Cristo si è fermato a Blantayre, cittadina del sud in cui ci troviamo. In città, la povertà la cogli se hai la capacità di abbandonare le grandi arterie: allora ti trovi di fronte a casupole con pareti in terra battuta e tetto con materiale raccapezzato in discarica: pezzi di lamiera, plexiglass, plastica, tenuti fermi da pietre, in lotta perenne contro il vento che batte particolarmente forte quando si preannuncia un temporale.

E se hai il coraggio di andare oltre, allora in mezzo ai rigagnoli di acqua putrida, chiare fogne a cielo aperto, ti ritrovi nel bel mezzo di mercati rionali formati da banchetti allestiti per terra con ogni genere di mercanzia: dai mango al pesce secco, dalla legna da ardere agli abiti usati, unico punto di contatto con la ricca Europa.

In campagna, la povertà ti si fa incontro da sola. Mentre l’auto procede, incontri donne e bambini di ritorno dalla fontana con il loro prezioso carico di acqua in testa. Le donne colpiscono per i loro vestiti variopinti, ma i bambini per la loro magrezza, per i loro pantaloncini e canottiere strappate, per i piedi scalzi, al massimo protetti da ciabatte infradito. Di quando in quando il segno di qualche assembramento commerciale.

Ai due lati della strada, chi esibisce una serqua di uova, chi una gallina, chi qualche papaya, e dietro, a ricordare che si tratta di mercati permanenti, piccoli tuguri, bui e scalcinati, che solo dalle scritte esposte direttamente sulle pareti, capisci che vogliono essere macellerie, punti di contatto telefonico, barbieri, addirittura saloni di bellezza. Di elettricità nessun segno, se non qualche raro e minuscolo pannello solare. Per l’acqua va già bene quando in un angolo scorgi una pompa a mano. Impietosa, la nostra auto procede sobbalzando su un fondo stradale pieno di solchi e dopo un tratto fra due ali di fitta vegetazione, che poi risulta essere una piantagione artificiale di eucalipti, all’improvviso un ampio cancello.

Un guardiano si fa incontro per sapere chi siamo e riconosciuto il nostro accompagnatore ci spalanca la strada verso l’interno. Un cartello ci avvisa che siamo in uno dei quattro istituti che l’associazione Dapp gestisce in Malawi per la formazione di insegnanti rurali. Mentre scendiamo dall’auto, sentiamo già il benvenuto intonato dal coro degli studenti: ragazze e ragazzi sulla ventina che hanno deciso di dedicare la loro vita professionale all’elevazione culturale dei bambini delle campagne. E non solo. Parlando con loro scopriamo che stanno ricevendo una formazione per essere sia insegnanti elementari sia, addirittura, animatori sociali capaci di aiutare le comunità rurali a risolvere le sfide ambientali ed economiche che sempre di più si parano davanti a loro, attraverso nuove conoscenze e una più stretta solidarietà di villaggio. È la strategia dell’empowerment che significa mettere i poveri in condizione di gestire essi stessi il proprio cambiamento.

Dapp, che sta per ‘Aiuto allo sviluppo da persona a persona’ è un’organizzazione non governativa attiva dagli anni 90 del Novecento che riesce ad andare avanti grazie a un mix di contributi di origine pubblica, privata e commerciale che la rende particolarmente interessante anche sotto il profilo finanziario. Il suo partner pubblico è il Governo del Malawi, mentre il suo principale partner privato è Humana, una realtà ormai estesa a livello mondiale, che ha come missione il sostegno a organizzazioni africane, asiatiche e latinoamericane, che cercano di promuovere lo sviluppo umano delle fasce più povere in un’ottica di sostenibilità. E se la strategia di sviluppo umano si fonda sulla convinzione che i poveri sanno trovare essi stessi la soluzione ai loro problemi purché aiutati ad arricchire le proprie conoscenze e a rinsaldare i vincoli di comunità, la strategia finanziaria di Humana, che poi si estende anche a Dapp, consiste in un’attività industriale a sfondo ambientale.

Di fatto Humana trasforma in aiuto allo sviluppo lo spreco del Nord, ossia gli abiti che noi gettiamo. Un rifiuto che solo in Italia ammonta a 240mila tonnellate all’anno di cui solo la metà è raccolta in forma differenziata. Humana riesce a raccogliere 20mila tonnellate, che in parte rivende nei propri negozi italiani ed europei, in parte invia ai propri partner del Malawi e di altri Paesi dell’Africa, affinché possano procurarsi, localmente e in forma autonoma, denaro per i propri progetti. In effetti, Dapp rivende in loco gli abiti che riceve in dono dall’Europa, in parte al dettaglio tramite negozi propri, in parte all’ingrosso rifornendo i negozianti di abiti usati. Insomma, la triangolazione messa in piedi cerca di mettere a disposizione dei poveri soldi versati dai poveri stessi riciclando lo spreco del Nord. Una formula che sicuramente pone qualche domanda da un punto di vista politico e della proposta economica, ma che ha il merito di avere permesso a progetti importanti di autofinanziarsi migliorando la vita di oltre 15 milioni di persone a livello mondiale.

In Malawi i progetti di Dapp solo formalmente sono divisi in progetti di tipo agricolo e di tipo educativo. Di fatto sono gli uni la continuazione degli altri, perché in ambito agricolo l’attività comprende anche la disseminazione di nuovi saperi, mentre in ambito educativo l’attività comprende anche l’allenamento a risolvere i problemi esistenti. Una linea pedagogica in perfetta sintonia con la scuola di Barbiana e la proposta di Paulo Freire. In occasione della nostra visita alla scuola per maestri, gli studenti erano orgogliosi di raccontarci che non si limitano a studiare aspetti teorici, ma che fanno anche pratica di responsabilità non solo dando mano nell’orto, nelle pulizie, nella cucina, ma anche allevando piantine di alberi di alto fusto che poi mettono a dimora come contributo contro i cambiamenti climatici. E l’aspetto interessante è che propongono questa stessa iniziativa ai villaggi circostanti affinché facciano altrettanto anche loro.

Il rapporto di integrazione fra scuola e società lo si nota, del resto, anche dal fatto che il programma prevede uscite continue per conoscere le problematiche vissute dalla gente e fare pratica di animazione comunitaria. Esperienze che poi si rivelano estremamente preziose quando, una volta maestri, questi giovani uomini e giovani donne debbono confrontarsi con scuole rurali che vedono 80 bambini per classe, senza banchi, senza libri e con strutture così fatiscenti per cui fare scuola sotto l’ombra di un albero è quasi meglio che fra le mura.

da Avvenire

Crisi economica e nascite. Se la crisi lascia in eredità la «paura» del secondo figlio

Se la crisi lascia in eredità la «paura» del secondo figlio

La crisi economica ha giocato un ruolo determinante nel crollo delle nascite che interessa l’Italia. Per intuirlo non sono necessarie ricerche particolari. Tuttavia indagare a fondo come e perché le difficoltà hanno trasformato la composizione delle famiglie e le attese delle coppie può fornire indicazioni molto importanti. Un contributo in questo senso arriva da un ricerca fresca di pubblicazione che ha cercato di capire come mai tra il 2002 e il 2012, cioè nel decennio che va dal periodo precedente la crisi del 2007-2008 alle prime tre recessioni successive, molte madri hanno deciso di non avere un secondo figlio. Quello che emerge è abbastanza sorprendente: la crisi non ha aumentato le disuguaglianze, al contrario ha avvicinato le donne di diverse condizioni sociali nella rinuncia ad avere una famiglia numerosa.

L’insicurezza e la sfiducia, insomma, hanno livellato verso il basso l’universo delle madri, contagiando anche chi non ha sperimentato direttamente problemi economici.

La prospettiva del secondo figlio, come angolatura di analisi, ha un forte valore. Il calo delle nascite che affligge il nostro Paese quasi alla stregua di una malattia cronica si deve da un lato all’aumento del numero di donne in età riproduttiva che non diventano madri, percentuale che ha ormai superato il 20%, ma in parte maggiore è dovuto alla rinuncia ad avere il secondo e soprattutto il terzo figlio e oltre. Il calo della natalità è in sostanza un problema di fratelli che mancano, non solo di donne e uomini che non diventano genitori, anche se questo aspetto si sta comunque affermando sempre di più. La ricerca a cura di Francesca Fiori ed Elspeth Graham, dell’Università di St Andrews nel Regno Unito, e di Francesca Rinesi dell’Istat (goo.gl/eKyk4z) rivela proprio che in un decennio la percentuale di madri che esprimono l’intenzione di fermarsi al figlio unico è salita dal 21% al 25%.

Ma che cosa è cambiato negli anni della Grande Crisi? L’aspetto forse più importante da rilevare è il fatto che la rinuncia al secondo figlio non riguarda più solo una categoria specifica di donne che sperimenta una condizione particolare, si tratti di una difficoltà economica ovvero della decisione di puntare a una carriera importante: la percezione di insicurezza diffusa, di paura di andare incontro a problemi in futuro, ha come cancellato le differenze. Prima della crisi la ‘rinuncia’ a una famiglia numerosa, in termini di intenzioni, riguardava più le donne con bassa istruzione o chi aveva contratti a termine, o ancora le disoccupate; durante la crisi la probabilità di non volere un secondo figlio ha interessato sempre di più anche le donne con media o alta istruzione, con contratti di lavoro stabili, le casalinghe, e in particolar modo le ragazze più giovani. La motivazione economica è diventata rapidamente la ragione principale per dire no al secondo figlio (dal 16,7% al 25,8% dei casi), seguita dal fatto che si è raggiunto il limite di età (dal 14,1% al 18,8%), mentre l’idea di aver già soddisfatto i propri desideri riproduttivi è crollata significativamente di 7 punti (al 16%).

«Il risultato ci ha sorprese – spiega una delle ricercatrici, Francesca Fiori –. La rinuncia al secondo figlio per ragioni economiche non ha riguardato solo le madri in situazioni di disagio, ma anche quelle in condizioni migliori. Da un lato la situazione economica è peggiorata per tutte le famiglie giovani, dall’altro l’aumento della disoccupazione maschile ha probabilmente lasciato molte donne occupate nella condizione di unico percettore di reddito. Ma di sicuro la crisi ha agito anche a livello più intimo, aumentando l’incertezza e la sfiducia nel futuro. Spesso di fronte alle difficoltà la rinuncia a un figlio interessa proprio chi ha più da perdere, mentre chi è in condizione di svantaggio trova nella maternità un valore in più».

Le ragioni per essere ottimisti ci sono, soprattutto in una fase di ripresa. Se i problemi economici impattano sulla natalità, l’uscita dalla crisi può favorire una ripartenza delle nascite. La ricerca in effetti rileva un aumento delle madri di due o più bambini che esprimono il desiderio di avere altri figli, anche se questo sembra riguardare più le straniere. E in ogni caso il rischio può essere anche un altro: che l’abitudine all’insicurezza si sia sedimentata in maniera così forte da avere rivoluzionato comportamenti storici. Il tema dell’insicurezza come ragione della denatalità è più vischioso dei semplici motivi economici e più difficile da aggredire. La crisi della fiducia incide sui desideri e sulla progettualità, e questo aspetto, spiegano le ricercatrici, è più preoccupante di altri fattori legati alla rinuncia ad avere figli.

Le persone, soprattutto le generazioni più giovani, in questi anni hanno conosciuto un aumento significativo della disoccupazione e della precarietà del lavoro, oltre a un calo delle retribuzioni. L’insicurezza tuttavia è un concetto molto ampio, che non riguarda solo i più fragili. Una recente ricerca a cura di Chiara Ludovica Comolli (goo.gl/SkLrUQ), dell’Università di Stoccolma ha dimostrato come la tensione sugli spread vissuta dall’Italia tra il 2011 e il 2012 ha contribuito in modo importante a limare i tassi di natalità. D’altra parte si potrebbe pensare che in un Paese con un elevato debito pubblico come l’Italia, oggi al 130% del Pil, in mancanza di una seria strategia di stabilizzazione dei conti le famiglie possano avere atteggiamenti più prudenti in diversi ambiti, dai consumi alla famiglia.

Negli ultimi 40 anni l’Italia non ha mai conosciuto tassi di fecondità particolarmente alti, tuttavia le coppie hanno storicamente manifestato una preferenza netta per la famiglia con due figli. Ancora nel 2012 il 75% delle neo madri con un figlio esprimeva la volontà di avere almeno un altro bambino. Ma se il persistere dell’incertezza trasformasse in breve tempo la ‘regola dei due figli’ in una regola del figlio unico più subìta che voluta? Al momento non sembra essere così. «Non abbiamo indicazioni in questa direzione – spiega Francesca Fiori – in Italia la preferenza per la famiglia con due figli è dura da sovvertire. A differenza di altri Paesi da noi c’è una fetta ampia di desiderio non soddisfatto in fatto di dimensione della famiglia. Perché si mantenga vivo servono soprattutto misure di ampio respiro capaci di creare un contesto favorevole in tutto alle famiglie, dalle politiche per il lavoro ai servizi che favoriscono la conciliazione, dalle misure per ridurre le disuguaglianze a un welfare in grado di rispondere veramente ai bisogni dei genitori».

da Avvenire