Il momento costringe anche i pastori a una certa distanza fisica; non è allora solo questione di ripensare la liturgia, ma anche la pastorale, per una conversione ad una maggiore prossimità al gregge affidato, condividendo l’uguaglianza del battesimo e delle preoccupazioni in un momento difficile

in Settimana News

di: Piotr Zygulski

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«Possiamo vivere senza?». O della Chiesa che sopravvivrà alla pandemia

Ai tempi della pandemia, la risposta a come interviene Dio è, a mio avviso, ben incarnata dai tanti parroci ricoverati negli ospedali, come e accanto ai loro parrocchiani, sino all’ultimo respiro. La conta dei preti diocesani deceduti dopo aver contratto il virus raggiunge purtroppo circa un centinaio di persone (particolarmente colpita la diocesi di Bergamo), con un tasso di mortalità venti volte superiore rispetto al resto della popolazione, sia per l’età media del clero che si avvicina ai 65 anni (e i morti mediamente ne avevano 80, sebbene in Campania se ne sia andato anche un prete di 45 anni), ma anche evidentemente per la “vicinanza alle pecore”.

Francesco Ognibene su Avvenire ne ha raccolto i nomi e qualche testimonianza, ricordando che ad essi vanno aggiunti tante e tanti religiosi caduti “in trincea”. Alcune diocesi, come quella di Rimini, hanno pensato a uno sportello psicologico proprio per aiutare il clero in questo momento difficile, in cui tutte le attività e le relazioni devono inevitabilmente essere ripensate. Papa Francesco ha sottolineato una parola: creatività.

Qualcosa di nuovo

Cioè cogliere in modo nuovo che Dio sta facendo una cosa nuova per noi nella storia. La creatività può emergere allora in ambito liturgico, teologico, ecclesiale, pastorale; tra gli esempi, il progetto #lachiesachecè di Martina Pastorelli narra esperienze variegate, dalle suore che pregano sul tetto dei conventi a preti medici che tornano in corsia dopo tanti anni, passando per chi organizza reti telefoniche parrocchiali per chi avesse necessità di ogni tipo. Ma tra il clero serpeggia anche una certa insofferenza per i confratelli che stanno approfittando di questo tempo per non fare più alcunché; qualcuno propone persino una riduzione del loro sostentamento, perlomeno per chi proprio ha staccato la spina.

E, dopo, la Chiesa tornerà a fare ciò che faceva prima, archiviando sbrigativamente questa “brutta parentesi” come se nulla fosse? Ne uscirà più consapevole del dono di questo cambiamento di epoca e della preziosità del ritrovarsi a celebrare insieme l’eucaristia, che è una grazia e non un “precetto” dovuto? Oppure risulterà ancora più irrilevante, perché in fondo anche senza si riesce a vivere comunque?

Giuliano Guzzo osserva come sociologicamente, dopo alcune catastrofi, le persone coinvolte siano tornate alla fede e quindi «anche la disposta chiusura delle chiese, paradossalmente, potrebbe incentivarne una più intensa frequentazione». In alcuni contesti potrebbe effettivamente andare così, ma in altri, persino nella medesima diocesi, potrebbe essere una spinta ulteriore verso la completa secolarizzazione.

Per Antonio Ballarò, dottorando dell’università Gregoriana, «studiare l’impatto dell’epidemia sul cattolicesimo significherà soprattutto verificare se e dove riprendere la parola non sarà stato indolore, in antropologia teologica, ma anche in ecclesiologia». Qualcosa potrà dipendere anche dal tipo di accompagnamento pastorale che sarà dedicato alle parrocchie; il lavoro è quindi maggiore, e non minore rispetto al solito: costringe a ripensare alcuni cardini.

Il primo può essere esemplificato dal vettore ascolto passivo/partecipazione attiva. La stessa messa in streaming può essere vissuta secondo differenti disposizioni del cuore. Un conto è metterla come sottofondo mentre si fa dell’altro, un altro è disporsi con attenta devozione, anche con il proprio corpo, come se si fosse in Chiesa. E magari cogliendo l’occasione per condividere la propria risonanza con il celebrante e con i parrocchiani, mantenendo così una partecipazione – seppur mediata – attiva, in grado di rinsaldare il legame di unità con la parrocchia tutta. La “partecipazione attiva”, del resto, non doveva e non dovrà darsi per scontata per il solo fatto di essere presenti fisicamente alla celebrazione.

Ad ogni modo penso vada suggerito come le messe in TV possano essere, rispetto al nulla, una buona cosa per chi non ha altri mezzi; mentre a chi dispone di una connessione internet o di un breviario occorre fare un passo in più, per una celebrazione domestica della Parola di Dio. Affermare inclusivamente che l’una non esclude l’altra e che i mezzi tecnologici possono consentire una certa interattività non deve però mettere sullo stesso piano la mediazione virtuale di una celebrazione (che può offrire solamente uno spunto di preghiera) e una liturgia viva, in prima persona, possibilmente familiare/comunitaria.

Il nesso liturgia-vita

Un altro, già menzionato, riguarda la sacramentalizzazione della fede che spesso confligge con un’esperienza viva della Parola. Già durante le vacanze estive in svariate parrocchie si viveva una sorta di “chiusura della baracca”, come se anche la Chiesa andasse in ferie. Sia allora, ma più che mai adesso, è bene che questo difficile “tempo vuoto” che ci costringe a sperimentare la mancanza venga vissuto non nello svago né nella noia in attesa che passi presto, ma nella pienezza del Vangelo, alla luce del quale abbiamo tutto l’essenziale per lavorare su noi stessi, come ha suggerito Gero Marino, vescovo di Savona-Noli.

È quindi – osserva Rocco Gumina – un tempo per ritessere le fila tra liturgia e vita, nella quale i credenti celebrano in modo straordinario la liturgia della vita osservando le disposizioni dell’autorità pubblica e contribuendo a salvare vite umane; prendendo sul serio la nostra cittadinanza nella comunità politica che ci ospita, si ha che l’esito di questa è legato a doppio filo con la nostra vera Patria.

La responsabilizzazione del laicato è quindi molto di più che attribuire un ruolo a una catechista, perché riguarda in generale l’impegno di tutti al bene comune, cioè a vivere intensamente la vocazione battesimale, che è sacerdotale (offrire ogni cosa a Dio), profetica (testimoniare in ogni contesto) e regale (far regnare l’amore in ogni relazione). Resta parimenti viva l’esigenza di ripensare la figura e il ruolo del prete, soprattutto a causa delle messe in “assenza di popolo”; ma il Popolo può mai essere davvero assente? Tali messe, impropriamente dette “in privato”, non devono mai diventare “private”, nel senso di esclusive per una cerchia di pochi eletti, fossero anche il prete e il suo cameraman di fiducia.

Il rischio di una riproposizione del modello tridentino, segnalato dalla teologa Segoloni Ruta, non è da sottovalutare: alcune celebrazioni anziché riunire la comunità la dividono; non era forse meglio insegnare a pregare in famiglia e digiunare tutti?

Il momento costringe anche i pastori a una certa distanza fisica; non è allora solo questione di ripensare la liturgia, ma anche la pastorale, per una conversione ad una maggiore prossimità al gregge affidato, condividendo l’uguaglianza del battesimo e delle preoccupazioni in un momento difficile, anziché usare i mezzi di comunicazione per riaffermare l’unidirezionalità del rapporto clericale tra chi, celebrando, comanda e chi, invece, è un mero destinatario delle indicazioni da espletare o della fama dei suoi followers.

Dove ci porterà?

di: *Marco Vitale
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La cattedrale di Quimper deserta (foto di Fred TANNEAU/AFP)

fonte: Settimana News

La pandemia da COVID-19 sta mettendo in crisi la vita sociale ed ecclesiale. La Chiesa, in Italia, sta vivendo un’esperienza totalmente nuova: da alcune settimane sono vietate le celebrazioni comunitarie dell’eucaristia, i funerali, i matrimoni… Tutto questo ha conseguenze che avranno risvolti ben più profondi di quelli già scaturiti, qua è là, da una immediata reazione emotiva.

Questa crisi ci deve far sentire il dovere di rileggere – sotto diversi punti di osservazione – l’esperienza che stiamo vivendo, per comprendere e assimilare ciò che di buono c’è sicuramente in essa.

La formazione

È imbarazzante, in questi giorni, leggere ed ascoltare, singoli o gruppi di cattolici (non esclusi qualche sacerdote) che fanno affermazioni forti. Saremmo tentati, nell’immediato, di dividerci in favorevoli e contrari ma la domanda di fondo è: quale formazione hanno ricevuto i cattolici italiani? È evidente che la risposta è articolata e non riassumibile in poche righe ma credo che, nei tempi e nei luoghi più idonei, sia un impegno ineludibile trovare risposte.

Solo per accennare ad alcuni ambiti prioritari: quale immagine di Dio stiamo trasmettendo? Quale ecclesiologia stiamo portando avanti? Come stiamo spiegando i sacramenti e la vita spirituale? E soprattutto, come di tutto questo ne stiamo facendo e facendo fare esperienza autenticamente evangelica?

In questi giorni non è raro imbattersi sui social o in televisione nell’idea di una religiosità magica, di un dio che vorrebbe un «prezzo» dalle sue creature per proteggerle, di un culto a un dio come deus ex machina, di una spiritualità fatta di oggetti, di formule, di riti, di luoghi.

Lo spazio per una riflessione seria sulla catechesi per l’iniziazione cristiana e per gli adulti e sui programmi delle facoltà teologiche sarebbe davvero molto ampio.

La pastorale

Le misure di prevenzione dall’infezione da COVID-19 hanno dimostrato tante fragilità delle nostre comunità cristiane. Vietate le celebrazioni eucaristiche comunitarie e gli incontri di catechesi, tutto si è bloccato. Ovviamente la paralisi era inevitabile ed è indubbiamente il risultato che si voleva ottenere per salvaguardare la salute delle persone. Ma ci dice anche altro.

Ci dice, ad esempio, che tutta la nostra azione pastorale è concentrata per quelle poche persone (e in continua diminuzione) che frequentano fisicamente le nostre parrocchie e le nostre riunioni senza porsi almeno due domande: e chi non frequenta? Come interpretare questo crollo della partecipazione? Si va avanti perseveranti e fedeli… verso un crash frontale!

Le prime risposte pastorali, in questi giorni, evidenziano palesemente il desiderio dei presbiteri di rimanere accanto ai loro fedeli ma ci dicono anche come lo schema di fondo del ragionamento sia cortocircuitato. Un esempio: sono proliferate le messe in streaming sui social, anche nei giorni feriali, quando è risaputo che gli abituali frequentatori erano solo pochi anziani… che sicuramente non sono in grado si usare le nuove tecnologie di comunicazione.

Uno sguardo sul clero

È innegabile che in questa esperienza, il clero sia un «pezzo» della Chiesa in grande sofferenza.

I vescovi, in queste settimane, sono spesso impegnati nel dover rispondere alle normative governative, alle indicazioni della CEI, alla fatica nel rapportarsi più intensamente con gli altri vescovi «confinanti», al rispondere alle sollecitazioni di preti, religiosi e laici.

Anche i diaconi, impegnati nella carità, nella catechesi e nella liturgia, si ritrovano a dover ripensare, insieme alle loro mogli, nuove forme di ministero o a gestire – in qualche modo – una pausa forzata delle attività.

Ovviamente, fosse anche solo per quantità, molta sofferenza è concentrata tra i nostri preti.

Per alcuni, essere prete senza fare le cose del prete e senza l’«esposizione» quotidiana alle persone può essere motivo di confusione, di frustrazione, di crisi per la propria autostima. Questo concorso di stimoli può determinare un complesso contesto intrapsichico nel prete (alla pari di qualsiasi altra persona) che può spingere la persona verso un vero e proprio disagio psicologico con comportamenti non salubri.

Nel momento in cui l’equilibrio psicologico si compromettesse, anche la vita spirituale andrebbe in sofferenza. È come se la dimensione psicologica sofferente «logorasse» la dimensione spirituale esattamente come quando, se sana, contribuisce alla «sanità» della vita spirituale.

Due rotaie di uno stesso binario

In queste settimane così anomale mi sembra che due «rotaie» balzino agli occhi degli osservatori più attenti della vita della Chiesa.

La prima è la realtà della «carità». Il mondo, attraverso la «filigrana» della carità mossa dalla fede, riesce oggi a intercettare «pillole» di Vangelo. Ovunque si parla dei poveri, degli anziani, degli ammalati, dei senza fissa dimora. Se vorremo, avremo davanti a noi uno spazio infinito da dove ricominciare con un cuore e una mente nuovi!

L’altra «rotaia» la definirei il bisogno di una vita spirituale in chiave comunitaria. Tante persone oggi gridano il loro bisogno di messe, rosari, via crucis, funerali… Se avremo coraggio, potremmo partire da queste domande per aiutare i nostri fedeli a formulare le loro domande più profonde e inespresse sulla vita, sulla morte, sul tempo, sull’amore.

Potremo aiutarli, in una relazione personale (se avremo il coraggio di abbandonare una forma di comunicazione strutturata per rivolgersi alle folle, ormai inesistenti), a entrare in nuovi tipi di comunità «reticolari», leggere, per fare esperienza – tra cristiani «connessi» – di una vita spirituale più radicata nella Parola di Dio e dell’uomo e meno nel codice di diritto canonico e storia della Chiesa (che rimangono un tesoro prezioso ma da gestire con cautela e da chi è preparato a farlo).

Non mi rimane che concludere tentando di rispondere alla domanda che forse, giunti a questo punto, è sorta: il binario costituito da queste due «rotaie» dove ci porterà?

La mia risposta è disarmante: non lo so! Non so dove concretamente potremmo arrivare seguendo questo «binario», ma sono certo che ci porterà lì dove il Signore vorrà. Dobbiamo capire che non è importante la meta ma piuttosto il percorso. In termini più teorici, credo che non siano più importanti i contenuti ma i processi.

Camminare su queste «rotaie» permetterebbe alle comunità cristiane e ai singoli cristiani di entrare in dinamiche sinodali e di discernimento personale e comunitario per recuperare lo Spirito originale del Vangelo, incarnato nel mondo di oggi.

*Don Marco Vitale è presbitero della diocesi di Roma; dal 2018 si dedica alla formazione permanente del clero e all’accompagnamento spirituale dei sacerdoti. È membro della redazione della rivista Presbyteri e guida di esercizi spirituali ignaziani.

Papa Francesco rinnova la Chiesa

Il 2019 di Papa Francesco ha l’aspetto di una statuetta che se fosse europea apparterrebbe al Neolitico, ma siccome viene dall’Amazzonia parla alla contemporaneita’ come nemmeno un milione di tweet potrebbero fare. Si chiama Pachamama, parola che in lingua Quechua vuol dire Madre Terra. Sembra fatta di legno, in realta’ e’ fatta di pietra: la pietra dello scandalo, e pace se ha il capo chino ed il grembo rigonfio come una Vergine Annunciata di Matteo Civitali. Quando ad ottobre viene inaugurato un sinodo sull’Amazzonia che in molti ritengono epocale, la Pachamama viene esposta in una chiesa vicino al Vaticano; arrivano un paio di integralisti cattolici che gridano all’idolatria e la buttano nel Tevere. Eccola, la Chiesa di Bergoglio negli ultimi 12 mesi: un cavo teso tra un futuro che e’ quasi un’avventura e le controspinte di chi teme si smarrisca la tradizione, oppure la fede tout court. Forte l’azione e forti anche le reazioni che, almeno secondo la fisica, sono sempre uguali e contrarie. Non e’ un caso che nel corso di quest’anno lo stesso Papa abbia pronunciato una parola che e’ quasi un tabu’: “scisma”. Andando a memoria, non la si sentiva pronunciare dai tempi di monsignor Lefebvre (quella volta venne consumato, poi Benedetto XVI lo fece rientrare). Subito dopo il Concilio se ne parlo’ a proposito di una parte della chiesa olandese, alle prese con i sommovimenti susseguenti al Vaticano II. Paolo VI, fine diplomatico, in quell’occasione non pronuncio’ mai la parola che inizia con la S, ma mise a pregare le suore di clausura di tutto il mondo. Papa Francesco invece l’ha evocata direttamente lui, ma per rassicurare. Serenamente, ma non troppo delicatamente, perche’ e’ vero, “nella Chiesa ce ne sono stati tanti”. E’ vero anche che si tratta di “una delle azioni che il Signore lascia alla liberta’ umana”. Ma sia chiaro: “il cammino nello scisma non e’ cristiano”, e tra i cattolici ci sono “tante scuole di rigidita’ che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male”. Si’, Francesco dice proprio cosi’: “finiranno male”, ed aggiunge che dietro quei “cristiani, vescovi e sacerdoti rigidi non c’e’ la sanita’ del Vangelo”.

Pontefice combattente e dialogante, Francesco vuole l’apertura missionaria al mondo di una Chiesa poco trionfante ma molto battagliera. I lavori del sinodo sull’Amazzonia non a caso si concludono con quella che molti interpretano come il richiamo ad un ruolo della donna nella Chiesa sempre piu’ forte (c’e’ chi vi legge una porta socchiusa anche al sacerdozio femminile) e a quattro conversioni. Nell’ordine: sinodale, nel senso di un cammino all’unisono della comunita’; culturale, perche’ e’ necessario saper parlare alle differenti culture; ecologica, perche’ lo sfruttamento egoistico dell’ambiente porta alla distruzione dei popoli; pastorale, perche’ e’ urgente l’annuncio del Vangelo ad un mondo distratto e neopaganeggiante. Un programma estremamente impegnativo. Al momento il colloquio con le altre culture registra segni incoraggianti, come anche quello dell’ecumenismo, e la difesa del Creato e’ cosa che importa ad un numero sempre crescente di cristiani e non. Quanto al camminare insieme, pero’, gli ostacoli non sono pochi, e la stessa Chiesa si trova lacerata non solo e non tanto da casi come quello della Pachamama, quanto piuttosto dagli strascichi velenosi della questione pedofilia. Lo scorso febbraio Francesco ha chiamato a Roma i rappresentanti delle Chiese di tutti i continenti per affrontare la faccenda. Certo, non ha mancato di ricordare la maggioranza degli abusi sono compiuti da familiari e educatori, senza contare la piaga del turismo sessuale e le altre violenze. Il fatto pero’ che si tratti di un problema universale non diminuisce la sua mostruosita’ all’interno della Chiesa. Segue il Motu proprio Vos estis lux mundi: Bergoglio stabilisce nuove procedure per segnalare abusi, molestie e violenze, e assicurare che vescovi e superiori religiosi rendano conto del loro operato. Viene introdotto l’obbligo di denuncia. Francesco abolisce inoltre il segreto pontificio per questi casi e cambia la norma riguardante il delitto di pedopornografia facendo ricadere nella fattispecie dei “delicta graviora” – i delitti piu’ gravi – la detenzione e la diffusione di immagini pornografiche che coinvolgano minori fino all’eta’ di 18 anni. Ma non rinuncia a richiamare anche gli altri: riceve a novembre i rappresentanti dei principali colossi social del mondo ed e’ dritto quanto immediato: “non potete eludere le vostre responsabilita’”.

Nel frattempo va incancrenendosi una delle questioni piu’ controverse all’interno di quel mare oscuro che e’ la lotta per riportare la pulizia dove erano fiorite le perversioni degli abusi. Da una parte il Papa rida’ un arcivescovo a Santiago del Cile e a Puerto Montt, iniziando l’opera di normalizzazione di una delle chiese piu’ colpite dal fenomeno. Dall’altra deve contrastare i veleni messi in circolo riguardo il caso di Theodore McCarrick, ex vescovo di Washington. Francesco lo ha ridotto allo stato laicale, dopo le rivelazioni sulla sua condotta, ma attraverso dossier e siti qualcuno lascia emergere dubbi e mezze verita’. Viene decisa una inchiesta: tra pochi mesi se ne conosceranno gli esiti. Tutti l’attendono, ad iniziare dalla stessa chiesa americana. Dentro le Sacre Mura invece si attende la conclusione di un altro tipo di lavoro, quello della commissione dei sei cardinali chiamati a riformare la Curia Romana. Si sta ultimando l’esame della bozza della nuova Costituzione Apostolica, il cui titolo provvisorio e’ “Praedicate evangelium”. Il Papa riforma, intanto, il ruolo del Decano del Collegio cardinalizio: accetta la rinuncia del cardinale Sodano, in carica dal 2005, e con un Motu proprio rende a scadenza l’incarico: cinque anni, eventualmente rinnovabili. Avanti anche la riforma in campo finanziario, sul versante della trasparenza e del contenimento dei costi. Papa Francesco rinnova lo Statuto dello Ior: viene introdotta stabilmente la figura del Revisore esterno per la verifica dei conti secondo gli standard internazionali. Si precisano i principi cattolici a fondamento della missione dello Ior, perche’ sia piu’ fedele alla sua missione originaria. Il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves viene nominato prefetto della Segreteria per l’Economia. Giunge sotto la luce del sole un nuovo caso di gestione imbarazzante del denaro della Chiesa: l’acquisto di un palazzo in uno dei quartieri piu’ cool di Londra. Insomma, una speculazione dai contorni tutti da chiarire. Il Papa autorizza una indagine della magistratura vaticana nei confronti di diverse persone al servizio della Santa Sede riguardo alcune operazioni finanziarie. E a proposito dell’Obolo di San Pietro, precisa che e’ buona amministrazione far fruttare i soldi ricevuti e non metterli nel cassetto. Ma l’investimento deve essere sempre “morale”, perche’ il denaro sia al servizio dell’evangelizzazione e dei poveri. Tutto il resto si sa da dove viene.Piu’ che di palazzi, ci si occupi quindi di capanne. Il primo dicembre Francesco firma a Greccio la Lettera apostolica Admirabile signum in cui esorta a riscoprire e rivitalizzare la bella tradizione del presepe. “Rappresentare l’evento della nascita di Gesu’ – scrive – equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicita’ e gioia”. E’ un atto di evangelizzazione, bello da vedere “nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze”. La cosa ha una particolare eco in Italia dove la politica, da un paio di anni a questa parte, si gioca anche sui rosari baciati in pubblico e i giuramenti sui vangeli. Una pratica che ha fatto sollevare piu’ di un sopracciglio Oltretevere, come anche la politica di chiusura dei porti nei confronti dei migranti. Bergoglio ricorda il loro dramma anche il giorno di Natale: e’ gente costretta “a solcare i mari trasformati in cimiteri e che trova muri di indifferenza” una volta arrivata sulla riva nord del Mediterraneo. La vita da difendere non e’ solo quella di chi fugge dalle guerre, ed i muri di indifferenza non sono solo quelli eretti contro i migranti. La Famiglia di Nazareth e’ simbolo della fuga dalla persecuzione e dalla violenza, ma e’ anche nella sua composizione la famiglia per eccellenza, luce e frutto del Creato che si vuole difendere. Il Papa, il 25 marzo a Loreto, ribadisce che, in particolare per il mondo di oggi, “la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna assume un’importanza e una missione essenziali. Inoltre si Interviene direttamente per Vincent Lambert, l’infermiere francese di 42 anni in stato di coscienza minima, lasciato morire nel luglio scorso: la vita, i diritti e la dignita’ si difendono sempre. Anche per questo Bergoglio compie in un anno sette viaggi internazionali, visitando 11 paesi. Negli Emirati Arabi Uniti firma col Grande Imam di al Azhar uno storico Documento sulla fratellanza umana; in Marocco ribadisce l’importanza del dialogo interreligioso; in Thailandia, lancia appelli per la promozione dei diritti delle donne e dei bambini, e in Giappone, viaggio centrato sulla pace, ripete che e’ immorale non solo l’uso ma anche il possesso delle armi nucleari. In tempi che vedono la rinascita della Guerra Fredda, i nuovi missili russi capaci di volare e colpire come meteoriti, i grandi trattati sul disarmo lasciati scadere tra gli sbadigli, non si tratta di una rievocazione del passato, ma di un allarme per il futuro.(AGI)Fonte foto: Vatican Media

I divorziati e l’eucarestia. La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa

da Avvenire

È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita

Giuseppe Sala, sindaco di Milano

Giuseppe Sala, sindaco di Milano – Fotogramma

È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de “la Repubblica”, il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».

Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.

In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo – l’VIII – la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).

Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis – gli atti ufficiali della Santa Sede – a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.

Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.

Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione – spiega il Papa – può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.

Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.

Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.

Al via la Conferenza delle Chiese europee sulla pace

Mettersi insieme in ascolto delle “dure lezioni del passato” per impegnarsi ad essere oggi in Europa e nel mondo strumenti di pace e di riconciliazione. Lo ha sottolineato il rev. Christian Krieger, presidente della Conferenza delle Chiese europee, aprendo l’assemblea. Krieger ha ricordato – riferisce l’Agenzia Sir – che il contesto storico in cui 60 anni fa nacque la Cec (1959), era “un’Europa frammentata e divisa dopo la Seconda Guerra mondiale. A quel tempo c’era una reale necessità di superare le divisioni politiche e lavorare per la guarigione e la pace”. È questa la missione che le Chiese cristiane in Europa continuano a svolgere ancora oggi per far emergere “un’Europa umana, sociale e sostenibile in pace con se stessa e con i suoi vicini, in cui prevalgono i diritti umani e la solidarietà”.

Pace e riconciliazione

Rifacendosi quindi al Trattato di Pace che fu firmato proprio a Palazzo di Versailles nel 1919, il pastore protestante ha detto: “La prima guerra mondiale ha portato alla fine di un ordine mondiale. La mappa dell’Europa fu ridisegnata così come la maggior parte della mappa del mondo”. In questi giorni, rappresentanti delle Chiese aiutati da esperti e politici, esploreranno “le dure lezioni del nostro passato europeo e globale”, identificando quali sono oggi “le minacce alla pace in Europa e nel mondo”. “Speriamo – ha aggiunto – di trarre ispirazione dal ruolo e dal lavoro della Conferenza delle Chiese europee, sin dalla sua creazione, come strumento ecumenico impegnato nella costruzione della pace, nella guarigione delle ferite del passato e nella riconciliazione”.

Dialogo ecumenico

La Conferenza delle Chiese europee è un organismo ecclesiale ed ecumenico che unisce 114 Chiese di tradizioni ortodosse, protestanti e anglicane in Europa per il dialogo, la difesa e l’azione comune per la promozione della pace e per l’unità della Chiesa. (Sir)

Quale Chiesa oggi? Locanda dell’ospitalità e faro nella notte…

“Dopo la bufera riapparirà ancora il sole.

Come sempre dopo la prova si è più contenti,

si gusta di più il sole”

-Soren Kierkegaard-

In un tempo in cui i riflettori sono accesi sulla crisi di governo e la politica male-educata italiana, vorrei spostare l’asse della riflessione su un altro terreno, quello della vita della Chiesa, quasi all’inizio di un nuovo anno pastorale.

La domanda che fa da titolo all’articolo non è una domanda nuova, ma antica e sempre nuova. È quasi la stessa domanda sulla quale si sono soffermati  i padri del Concilio Vaticano II quando si chiedevano: Chiesa, che dici di te stessa?

Oggi, nel momento storico e culturale che viviamo, questa domanda torna davanti agli occhi di coloro che riflettono e operano nella Chiesa.

E il sottotitolo di questo articolo si propone di offrire due risposte alla domanda posta, risposte che si presentano nel linguaggio delle immagini e dei simboli, i quali – come amava dire Ricoeur – “danno a pensare” e che hanno il più delle volte più incisività delle parole.

La prima immagine è squisitamente evangelica: la locanda è il luogo dove il buon Samaritano del vangelo di Luca porta e fa curare il malcapitato finito nelle mani dei briganti.

La locanda è l’immagine di quella Chiesa che accoglie e si prende cura dei malcapitati della storia e del tempo, è l’immagine di una Chiesa dell’ospitalità che vede nel debole e nel malato la carne di quel Cristo che tanto predica e prega.

Questo simbolo, pertanto, richiama non solo l’accoglienza (direbbe papa Francesco “una Chiesa dalle porte aperte”) ma anche un altro aspetto, quello della missionarietà della Chiesa (direbbe sempre il papa “una Chiesa in uscita”). Questi due aspetti sono complementari tra loro: il primo è un movimento centripeto che va dalla piazza alla chiesa, dall’esterno all’interno; il secondo, invece, è centrifugo perché va dalla sacrestia alla strada, dall’interno all’esterno.

Un teologo e vescovo cattolico, Erio Castellucci, commentando la pagina dei discepoli di Emmaus ed evidenziandone la straordinaria attualità di essa nell’oggi della Chiesa, scrive: “I due discepoli aggiungono un posto a tavola. Non hanno paura di allargare lo spazio della loro casa, non si barricano dietro alla loro porta. Hanno intuito, sentendo parlare Gesù, che quello straniero può solo arricchire la loro vita. Hanno capito, senza forse averlo sentito direttamente da Gesù, quello che aveva detto alla fine del Vangelo di Matteo: “ero straniero e mi avete accolto”. L’esperienza dell’essere accolti e dell’accogliere è uno degli elementi fondamentali della Chiesa. Molti di quegli adulti e non solo che si accostano o riaccostano alla fede lo fanno perché si sono sentiti accolti e non respinti, accompagnati e non giudicati, presi per mano e non segnati a dito. Se è possibile ottenere qualcosa da chi ci appare più lontano dall’esperienza cristiana, non è certamente etichettandolo, ma accompagnandolo”.

Oggi le comunità dovrebbero crescere ancor di più in questo senso e in questo stile.

La seconda immagine, proposta nel sottotitolo, è invece squisitamente patristica.

Il faro della notte e nella notte richiama quello che i padri della Chiesa amavano chiamare il “misterium lunae”, il mistero della luna.

La Chiesa, infatti, era paragonata alla luna, la quale illumina la notte e i sentieri degli uomini sulla terra. Ma la luna ha una caratteristica degna di nota: non si dà luce da se stessa, ma riceve luce dal sole.

Quindi, per analogia, come la luna non trova luce in se stessa ma dal sole, così la Chiesa è illuminata dal Sole di giustizia, che è Cristo.

Il Concilio Vaticano II sapientemente ha intitolato la costituzione dogmatica sulla Chiesa proprio “lumen gentium”, luce delle genti.

Altra missione, allora, della Chiesa è quella di illuminare, di fare luce sulle vicende degli uomini. Ma non può assolvere a questo compito se essa stessa non è a sua volta illuminata dalla luce solare della parola di Cristo.

Ovviamente la luce della luna non è come quella del sole, ma non per questo non illumina.

Direbbe ancora mons. Castellucci: “L’esperienza cristiana, per chi vi si affaccia – bimbo, ragazzo o adulto che sia – ha il volto stesso della comunità cristiana. È nel contatto vivo con la comunità cristiana che le persone possono ricevere questa testimonianza, possono vedere nei fatti come la fede renda più vivi, attivi risorse altrimenti sopite, susciti relazioni autentiche. Pensando a comunità talvolta smorte, colpite da invidie e rivalità, occupate da alcuni che si ritagliano dei piccoli feudi, comprendiamo ancora meglio quale sia la responsabilità della comunità cristiana. Non basta avere “bravi catechisti”, perché è di fatto la comunità intera ad avere un impatto, nel bene e nel male, sulla vita di fede delle persone che la stanno scoprendo. E non pensiamo che non ci si renda conto del clima di una comunità: lo vediamo benissimo, lo respiriamo, come si respira perfettamente il clima della famiglia”.

I cristiani di oggi, quindi, saranno credibili solo se la loro testimonianza diventa luminosa, cioè capace di fare la differenza e distinguersi nel bene.

Queste due immagini di Chiesa devono intrecciarsi, completarsi. La Chiesa deve avere il coraggio di accendere la luce nella locanda e, allo stesso tempo, di mettere la locanda nella luce.

fonte: odysseo.i

 

Chiesa tra le case

di: Edizioni Dehoniane Bologna
Chiesa tra le caseDescrizione dell’opera

Nei grandi centri urbani, dove aumenta l’anonimato, le appartenenze sono fluide e si moltiplicano i «non luoghi», le parrocchie sembrano soffrire di un’ impostazione ancora «rurale» che non sembra essere in grado di rispondere ai bisogni spirituali del presente.  Nelle città, soprattutto in quelle di grandi dimensioni, la parrocchia è ancora più sfidata a immergersi nelle esperienze del territorio, nei poli che costruiscono socialità e cultura, negli spazi che esprimono bisogni, solidarietà e di democrazia di base. Al tempo stesso, la sfida consiste nel non perdere una delle qualità più belle della parrocchia, ovvero di essere Chiesa tra le case in grado di ascoltare e di interpretare il territorio per annunciare il vangelo a tutti, in ogni luogo.

Sommario

Introduzione (vescovo Domenico Sigalini)Essere Chiesa tra le case.  I. La contestazione della solitudine(Antonio Mastantuono). 1. Città osservabile e società urbana.  2. Mobilità, dislocazione, eterotopia. La mobilità. La dislocazione e l’eterotopia.  3. La parrocchia e la città. Quale stile per una parrocchia in una grande città?  II. Parrocchia e territorio (Giovanni Villata). 1. La nostra prospettiva.  2. Che cosa fanno le parrocchie.  3. Le nuove sfide che vengono dal territorio oggi. Il problema. Siamo tutti vulnerabili. Una diversa visione dell’uomo.  4. Come la parrocchia può accogliere tali sfide?  5. Parrocchie, punti di riferimento.  III. La parrocchia come rete(Augusto Bonora). 1. La rete come immagine evangelica.  2. L’immagine della rete, come modello di accostamento alla Chiesa.  3. Il volto concreto della comunità parrocchiale come rete.  4. Una Chiesa di rete, in uscita, verso le periferie cittadine.  Conclusione.  IV. La parrocchia ha una progettualità? (Salvatore Ferdinandi). Premessa. 1. Presupposti teologico-pastorali.  2. La Chiesa a servizio della comunione. Necessità di una pastorale generativa, dentro le caratterizzazioni e i contesti attuali. Come farsi compagni di cammino nella fede e alla fede, alla luce del racconto di Emmaus (Lc 24,13-35).  3. La parrocchia impara a «pensarsi al futuro», per una rinnovata progettualità pastorale. Necessità che le nostre comunità s’interroghino.  4. Verso una pastorale progettuale e integrata, stile della parrocchia missionaria. Alcune attenzioni per una progettualità pastorale rinnovata.  5. Qualche provocazione come conclusione.

Note sugli autori

Domenico Sigalini è vescovo di Palestrina ● Antonio Mastantuono è docente di Teologia pastorale alla Pontificia Università Lateranense ● Giovanni Villata è direttore del Centro studi e documentazione dell’arcidiocesi di Torino ● Augusto Bonora è parroco di san Galdino a Milano  ● Salvatore Ferdinandi è vicario generale della diocesi di Terni-Narni- Amelia.

Mastantuono, Villata, Bonora, Ferdinandi, Chiesa tra le case. La parrocchia alla prova delle grandi città, collana «Cammini di Chiesa», EDB, Bologna 2017, pp. 72, € 7,50. 9788810521540

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