L’organo come strumento musicale PRINCIPALE nella Liturgia

“Il principale e solenne strumento musicale liturgico della Chiesa latina fu e rimane l’organo classico, cioè a canne”
(S. Congregazione dei Riti, Istruzione “De musica sacra et sacra Liturgia”)
di Raimondo Mameli

Introduzione

Ci occuperemo, in questo studio, dell’organo e della musica organistica nella liturgia della Chiesa Cattolica di rito latino, attraverso una lettura dei principali documenti di Magistero.

Avevamo fatto qualche accenno all’oggetto del presente nell’articolo Il canto gregoriano e la liturgia tradizionale, apparso sul precedente numero di questa rivista (cfr. Una Voce dicentes, Anno V, N. 1, Gennaio-Aprile 2006, pg. 9-19).

Sempre in quella sede avevamo ricordato ai nostri lettori come il musicista di Chiesa, cantore o organista, eserciti un vero e proprio ministero.

Oltre a parlare principalmente dell’organo, faremo riferimento all’uso dei vari strumenti musicali nella liturgia.

Non è nostra intenzione proporre al lettore i nostri gusti personali; richiamando i pronunciamenti della Chiesa su questa delicata materia, capirà egli stesso cosa sia auspicabile e cosa da rigettare.

Del Magistero della Chiesa Cattolica sull’organo e la musica organistica

San Pio X

Dal “Motu Proprio de musica sacra” del Sommo Pontefice San Pio X Tra le sollecitudini (22 novembre 1903) [1]:

Sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale, nondimeno è permessa eziandio la musica con accompagnamento d’organo. In qualche caso particolare, nei debiti termini e coi convenienti riguardi, potranno anche ammettersi altri strumenti, ma non mai senza licenza speciale dell’Ordinario, giusta la prescrizione del Caerimoniale Episcoporum.
Siccome il canto deve sempre primeggiare, così l’organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo.
Non è permesso di premettere al canto lunghi preludi o d’interromperlo con pezzi di intermezzo.
Il suono dell’organo negli accompagnamenti del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra e che si sono precedentemente annoverate.
È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili.
È rigorosamente proibito alle cosiddette bande musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche caso speciale, posto il consenso dell’Ordinario, sarà permesso di ammettere una scelta limitata, giudiziosa e proporzionata all’ambiente, di strumenti a fiato, purché la composizione e l’accompagnamento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conveniente e simile in tutto a quello proprio dell’organo.
Nelle processioni fuori di chiesa può essere permessa dall’Ordinario la banda musicale, purché non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie Congregazioni che prendono parte alla processione.
Non è lecito, per ragione del canto o del suono, fare attendere il sacerdote all’altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della Messa deve essere compiuto prima della elevazione, e però anche il celebrante deve in questo punto avere riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta la tradizione gregoriana, devono essere relativamente brevi.
In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.

Pio XI

Pio XI, Costituzione apostolica “Divini cultus sanctitatem” del 20 dicembre 1928 (traduzione nostra) [2]:

La Chiesa ha il suo strumento musicale tradizionale, l’organo, il quale, per la sua meravigliosa grandiosità e maestà, fu stimato degno di secondare i riti liturgici, sia accompagnando il canto, sia durante i silenzi del coro e secondo le prescrizioni della Chiesa, diffondendo armonie soavissime. Però si eviti la commistione di sacro e di profano che, da un lato per le modifiche introdotte dai costruttori, per le arditezze musicali di alcuni organisti dall’altro, minaccia quella purezza della santa missione che l’organo è destinato a realizzare in chiesa.

Pio XII

Per conoscere il magistero di Pio XII, i musicisti che anelino a occuparsi di liturgia dovranno studiare l’Enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia (1947) [3]. Nel 1955, Papa Pacelli scriverà Musicae sacrae disciplina, dove leggiamo:

Queste norme [eseguire sia i capolavori degli antichi maestri sia composizioni di autori recenti, con decoro del sacro rito] devono applicarsi altresì all’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali. Fra gli strumenti a cui è aperto l’adito al tempio viene a buon diritto in primo luogo l’organo, perché è particolarmente adatto ai canti sacri e sacri riti e dà alle cerimonie della chiesa notevole splendore e singolare magnificenza, commuove l’animo dei fedeli con la gravità e la dolcezza del suono, riempie la mente di gaudio quasi celeste ed eleva fortemente a Dio e alle cose celesti.

Oltre l’organo vi sono altri strumenti che possono efficacemente venire in aiuto a raggiungere l’alto fine della musica sacra, purché non abbiano nulla di profano, di chiassoso, di rumoroso, cose disdicevoli al sacro rito e alla gravità del luogo. Tra essi vengono in primo luogo il violino e altri strumenti ad arco, i quali, o soli, o insieme con altri strumenti e con l’organo, esprimono con indicibile efficacia i sensi di mestizia o di gioia dell’animo.

Nel 1958 la Sacra Congregazione dei Riti pubblicò la famosa Istruzione sulla musica sacra e la Santa Liturgia [4], che ribadisce il ruolo centrale dell’organo a canne come strumento principe nella liturgia (prima di essere utilizzato, dovrà essere benedetto); l’Istruzione ne raccomanda la manutenzione.

Accanto all’organo, potrà essere utilizzato l’harmonium. Gli organi a trasmissione elettrica possono essere temporaneamente utilizzati, con il permesso dell’Ordinario del luogo, laddove non siano reperibili le risorse finanziarie per l’acquisto di un organo a canne. All’organista è richiesta abilità tecnica, capacità di accompagnare il canto o altri strumenti, raffinatezza come solista e capacità di improvvisare.

L’organo dovrà essere collocato, di norma, in prossimità dell’altare maggiore, salva diversa consuetudine o grave motivo che dovrà essere approvato dall’ordinario del luogo.

Nelle azioni liturgiche, soprattutto in quelle più solenni, possono essere utilizzati, in concomitanza all’organo o come ensemble strumentale, altri strumenti musicali, prima di tutto gli archi. Gli strumenti che vengono giudicati confacenti alla musica profana, non dovranno essere tollerati.

Non è ammessa la riproduzione, durante la liturgia, di musica registrata. L’uso dei microfoni e degli amplificatori può essere utilizzato soltanto per diffondere convenientemente la voce dei ministri e del commentatore.

Concilio Vaticano II

La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia (1963) [5] prescrive:

Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli.

A sintesi dell’insegnamento conciliare, valga quanto ricordava il Papa Paolo VI:

Se il Concilio Ecumenico ha aperto nuove strade per il futuro della musica sacra, stabilendo che nelle sacre celebrazioni il primato del canto liturgico spetti all’assemblea, non per questo viene diminuito il ruolo delle Cappelle musicali o delle «scholae cantorum»: il loro compito anzi è divenuto di ancor maggiore rilievo e importanza, perché devono servire di sostegno, di modello, di stimolo per una musica più elevata ed elevante (Discorso del 25 Settembre 1977: L’Osservatore Romano, 26-27 Settembre 1977).

Nel 1967 apparve l’Istruzione Musicam Sacram del «Consilium» e della Sacra Congregazione dei Riti [6]:

Gli strumenti musicali possono essere di grande utilità nelle sacre celebrazioni, sia che accompagnino il canto sia che si suonino soli. Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere una notevole grandiosa solennità alle cerimonie della Chiesa e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del luogo sacro e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli.
Nel permettere l’uso degli strumenti musicali e nella loro utilizzazione si deve tener conto dell’indole e delle tradizioni dei singoli popoli. Tuttavia gli strumenti che, secondo il giudizio e l’uso comune, sono propri della musica profana, siano tenuti completamente al di fuori di ogni azione liturgica e dai pii e sacri esercizi. Tutti gli strumenti musicali, ammessi al culto divino, si usino in modo da rispondere alle esigenze dell’azione sacra e servire al decoro del culto divino e alla edificazione dei fedeli.
L’uso di strumenti musicali per accompagnare il canto, può sostenere le voci, facilitare la partecipazione e rendere più profonda dell’assemblea. Tuttavia il loro suono non deve coprire le voci, rendendo difficile la comprensione del testo; anzi gli strumenti musicali tacciano quando il sacerdote celebrante o un ministro, nell’esercizio del loro ufficio, proferiscono ad alta voce un testo loro proprio.
Nelle Messe cantate o lette si può usare l’organo, o altro strumento legittimamente permesso per accompagnare il canto della «schola cantorum» e dei fedeli; gli stessi strumenti musicali, soli, possono suonarsi all’inizio, prima che il sacerdote si rechi all’altare, all’offertorio, alla comunione e al termine della Messa. La stessa norma vale, fatte le debite applicazioni, anche per le altre azioni sacre.
Il suono, da solo, di questi stessi strumenti musicali non è consentito in Avvento, in Quaresima, durante il Triduo sacro, nelle messe e negli uffici dei defunti.
È indispensabile che gli organisti e gli altri musicisti, oltre a possedere un’adeguata perizia nell’usare il loro strumento, conoscano e penetrino intimamente lo spirito della sacra liturgia in modo che, anche dovendo improvvisare, assicurino il decoro della sacra celebrazione, secondo la vera natura delle sue varie parti, e favoriscano la partecipazione dei fedeli.

Giovanni Paolo II

Nella lettera apostolica Dies Domini [7], al n. 50, a proposito di una celebrazione gioiosa e canora, il Papa scrive:

Dato il carattere proprio della Messa domenicale e l’importanza che essa riveste per la Vita dei fedeli, è necessario prepararla con speciale cura. Nelle forme suggerite dalla saggezza pastorale e dagli usi locali in armonia con le norme liturgiche, bisogna assicurare alla celebrazione quel carattere festoso che s’addice al giorno commemorativo della Risurrezione del Signore. A tale scopo è importante dedicare attenzione al canto dell’assemblea, poiché esso è particolarmente adatto ad esprimere la gioia del cuore, sottolinea la solennità e favorisce la condivisione dell’unica fede e del medesimo amore. Ci si preoccupi pertanto della sua qualità, sia per quanto riguarda i testi che le melodie, affinché quanto si propone oggi di nuovo e creativo sia conforme alle disposizioni liturgiche e degno di quella tradizione ecclesiale che vanta, in materia di musica sacra, un patrimonio di inestimabile valore.

Il Papa ha richiamato incisivamente la necessità di «purificare il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra» (Udienza generale del 26 Febbraio 2003: L’Osservatore Romano, 27 Febbraio 2003, p. 4).

Ordinamento generale del Messale Romano

Ecco invece cosa prescrive l’Ordinamento generale del messale Romano [8], ossia i praenotanda posti in apertura del libro liturgico:

Tra i fedeli esercita un proprio ufficio liturgico la schola cantorum o coro, il cui compito è quello di eseguire a dovere le parti che le sono proprie, secondo i vari generi di canto, e promuovere la partecipazione attiva dei fedeli nel canto87. Quello che si dice della schola cantorum, con gli opportuni adattamenti, vale anche per gli altri musicisti, specialmente per l’organista.
La schola cantorum, tenuto conto della disposizione di ogni chiesa, sia collocata in modo da mettere chiaramente in risalto la sua natura: che essa cioè è parte della comunità dei fedeli e svolge un suo particolare ufficio; sia agevolato perciò il compimento del suo ministero liturgico e sia facilitata a ciascuno dei membri della schola la partecipazione sacramentale piena alla Messa.
L’organo e gli altri strumenti musicali legittimamente ammessi siano collocati in luogo adatto, in modo da poter essere di appoggio sia alla schola sia al popolo che canta e, se vengono suonati da soli, possano essere facilmente ascoltati da tutti. È conveniente che l’organo venga benedetto prima di esser destinato all’uso liturgico, secondo il rito descritto nel Rituale Romano.
In tempo d’Avvento l’organo e altri strumenti musicali siano usati con quella moderazione che conviene alla natura di questo tempo, evitando di anticipare la gioia piena della Natività del Signore.

In tempo di Quaresima è permesso il suono dell’organo e di altri strumenti musicali soltanto per sostenere il canto. Fanno eccezione tuttavia la domenica Laetare (IV di Quaresima), le solennità e le feste.

Conclusione

Nelle pagine precedenti abbiamo voluto rammentare i pronunciamenti magisteriali sulla musica organistica nella liturgia.

Ad essi, come al magistero in generale, il cattolico deve fare riferimento come lucerna pedibus suis.

Come fedeli, chiediamo ai Vescovi di favorire, presso le Diocesi, la nascita delle Scuole di Musica Sacra, in attuazione delle direttive del Concilio Vaticano II.

La Chiesa Cattolica ha il dovere di formare i musicisti di Chiesa, istruendoli da un punto di vista liturgico e bandendo il dilettantismo cui siamo purtroppo avvezzi; dovrà altresì offrire loro un riconoscimento ministeriale e contrattuale.

Esistono trattative in tal senso tra la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e gli organisti e maestri di cappella italiani; rivolgiamo a Santa Cecilia la preghiera di una particolare protezione per questa giusta causa, affinché sia raggiunto presto un accordo bilaterale che, una volta sottoscritto, favorirà quel cambiamento di rotta circa la vexata quaestio della musica nella liturgia, che tutti noi, seguaci di Cristo, in comunione con tutta la Chiesa, impetriamo dal Santo Padre Benedetto XVI, Vescovo di Roma e successore di Pietro.

Cagliari, 23 giugno 2006, nella solennità del Sacro Cuore di Gesù

NOTE

[1] Motu proprio Fra le sollecitudini: Acta Pii X, vol. I, p. 77.

[2] Pio XI, Const. apost. Divini cultus: AAS 21(1929), p. 33s.

[3] AAS 39(1947), pp. 521-595; EE 6/430ss.

[4] A. A. S. 50 (1958) 630-663

[5] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium

[6] S. Congregazione dei Riti, Istr. sulla musica nella sacra Liturgia Musicam sacram (5 marzo 1967), 50: AAS 59 (1967), 314.

[7] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dies Domini (31 maggio 1998), 50: AAS 90 (1998), 745

[8] Institutio generalis Missalis Romani, editio typica III, 2000

https://associazioneorganisticadellitorale.wordpress.com/

Giuseppe Dossetti, biografia di una «sentinella»

di: Giulia Cella

copertina

Esce in questi giorni, per i tipi delle EDB, Giuseppe Dossetti di Fabrizio Mandreoli, un volume agile e intenso che ripercorre la biografia di una personalità difficilmente compendiabile, oggetto di «tenacissime resistenze», «sentinella» dei grandi problemi dell’umanità, per sua stessa definizione «strumento e non sostituto» dell’azione del Signore.

Le tappe fondamentali di questa singolare esperienza di vita vengono ripercorse con cura storica e bibliografica. L’impegno politico nella DC e il successivo ritiro proprio all’apice del consenso personale e di quello raccolto dal partito, perché «bisogna guardarsi dal fare per il fare, da un attivismo dissennato. Occorre il contatto con il mondo contemplativo e la dimensione storica degli elementi del sistema». La partecipazione ai lavori preparatori della Costituzione, considerata uno strumento per guardare al futuro e porre «le basi di un ordine nuovo e andare verso nuovi rapporti sociali». La presenza, accanto a Lercaro, al concilio Vaticano II e l’apporto teologico su temi quali la povertà della Chiesa e il superamento della sua visione prevalentemente giuridica in favore della dimensione sacramentale, il rapporto dei cristiani con Israele, il problema della pace e della guerra. Poi ancora la fondazione della Piccola Famiglia, l’esperienza in Medio Oriente e i contatti con i relativi mondi culturali e spirituali, il ritorno in Italia e la proposta di un progetto per Bologna e per l’attività politica dei cristiani.

Quale contributo apporta, oggi, questo libro alla riflessione comune e in particolare al cattolicesimo contemporaneo? Nell’introduzione di Enrico Galavotti leggiamo: «Non si può comprendere la vicenda di Dossetti senza tenere conto del dato che essa è anzitutto la storia di un cristiano sul serio», che ha mostrato una particolare capacità di mettere a disposizione le proprie risorse culturali per favorire radicali processi di riforma basati su un’adesione sempre più netta al dettato evangelico e una sincera apertura all’azione della grazia in vista di un’autentica promozione degli ultimi.

«Sicuramente – spiega Mandreoli – l’itinerario biografico, di discepolato e di pensiero di Giuseppe Dossetti permette di rinvenire nuclei generatori di vita e modi di procedere utili a chi cerca strumenti interpretativi del nostro presente. In particolare, credo sia importante ricordare il suo metodo del “circuito delle due parole”: un incessante confronto tra il discorso dei libri biblici e l’analisi approfondita della storia dei popoli ad ogni livello attraverso un’attenzione ai dinamismi profondi che la percorrono interamente».

Il volume mostra come questo rapporto venga vissuto costantemente da Dossetti all’interno di un dialogo continuo, un «modo sinodale di riflettere» fatto di riflessioni personali e comuni, preghiera, letture attente. Ma soprattutto – conclude Mandreoli – è praticato «a partire dalla vicinanza con i poveri e dal tentativo di condividere la vita dei “senza storia”, di coloro che, per ingiustizie sistemiche, sono deprivati della capacità di esprimere la propria potenzialità e creatività umana. Una storia letta quindi dal basso, dalla prospettiva dei liminali, di coloro che nella corsa globale non riescono a gareggiare, dei popoli, dei subcontinenti e delle categorie marginalizzate. In definitiva, Dossetti ci mostra che la prospettiva preziosa di coloro che nella vita non ce la fanno è il contesto dentro il quale ascoltare la parola di Dio e le parole della storia umana».

Fabrizio MandreoliGiuseppe Dossetti, Prefazione di Enrico Galavotti, EDB, Bologna 2020, 152 pp., 13,50 euro. Recensione pubblicata su Avvenire «Bologna Sette» del 12 luglio 2020.

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Vademecum su alcuni punti di procedura nel trattamento dei casi di abuso sessuale di minori commessi da chierici

Non un nuovo testo normativo, ma uno strumento offerto a vescovi, superiori di ordini religiosi e operatori del diritto per istruire e gestire correttamente le cause concernenti abusi sessuali che coinvolgono diaconi, sacerdoti o membri dell’episcopato. È questo il senso del Vademecum su alcuni punti di procedura nel trattamento dei casi di abuso sessuale di minori commessi da chierici, pubblicato nel pomeriggio di giovedì 16 luglio.

Il documento è stato messo a punto dalla Congregazione per la dottrina della fede sulla base di quanto era emerso durante l’incontro su «La protezione dei minori nella Chiesa» svoltosi in Vaticano dal 21 al 24 febbraio dello scorso anno. Proprio Papa Francesco, al termine del summit, aveva sottolineato con forza «l’esigenza dell’unità dei vescovi nell’applicazione di parametri che abbiano valore di norme e non solo di orientamenti».

Il Vademecum — la cui versione attuale viene denominata “1.0” perché resta aperta a futuri aggiornamenti in base agli sviluppi della normativa canonica e alle eventuali indicazioni provenienti dalle realtà locali e da chi opera nel campo del diritto — ha come obiettivo accompagnare «chiunque si trovi nella necessità di procedere all’accertamento della verità nell’ambito dei delitti» di abuso su minori, a partire dalla “notizia” di eventuali reati fino alla conclusione della causa. «Il desiderio — si sottolinea nell’introduzione — è che questo strumento possa aiutare le Diocesi, gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita apostolica, le Conferenze episcopali e le diverse circoscrizioni ecclesiastiche a meglio comprendere e attuare le esigenze della giustizia su un delictum gravius che costituisce, per tutta la Chiesa, una ferita profonda e dolorosa che domanda di essere guarita».

Dopo aver precisato che il delitto in questione «comprende ogni peccato esterno contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore» e aver ricordato che nella categoria di “minore” rientrano tutte le persone che non hanno ancora compiuto diciotto anni, il Vademecum dà indicazioni sulla procedura da seguire qualora si riceva un’informazione su un possibile abuso. Per quanto si insista sull’opportunità di «usare molta cautela», si consiglia di prendere in considerazione anche le denunce anonime, così come quelle provenienti da fonti di dubbia attendibilità o vaghe e indeterminate. In ogni caso, non viene meno il «sigillo sacramentale» che vincola il sacerdote venuto a conoscenza di un delitto durante l’esercizio del ministero della Confessione.

Quanto all’«indagine previa» prescritta in questi casi, si evidenzia tra l’altro che essa «non è un processo» ma va utilizzata per raccogliere «dati utili ad approfondire la notitia de delicto» e ad «accreditarne la verisimiglianza». Si raccomanda l’accuratezza nel vaglio e nell’accertamento delle informazioni, ma anche la necessità di mantenere il «segreto d’ufficio» e di attenersi «all’eventuale volontà di rispetto della riservatezza manifestata dalle presunte vittime». Già in questa fase è prevista la possibilità di adottare misure cautelari come il divieto di esercizio del ministero. Ogni caso, «anche in assenza di un esplicito obbligo normativo», il Vademecum invita l’autorità ecclesiastica a presentare «denuncia alle autorità civili competenti ogni qualvolta ritenga che ciò sia indispensabile per tutelare la persona offesa o altri minori dal pericolo di ulteriori atti delittuosi».

Il testo chiarisce poi il campo successivo di azione assegnato alla stessa Congregazione per la dottrina della fede, che spazia dall’archiviazione del caso fino all’apertura di un «processo penale» — giudiziale o extragiudiziale — con la possibilità anche di deferire direttamente alla decisione del Papa i casi più gravi, allorché «consta manifestamente il compimento del delitto, dopo che sia stata data al reo la facoltà di difendersi». Si specificano infine le modalità di ricorso previste al termine della procedura penale.

Vademecum

Tabulato per casi di delicta reservata (pdf)

Presentazione del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer

Intervista di Vatican News al Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, S.E. Mons. Giacomo Morandi

Per gli organismi ecclesiali a dimensione europea, è questo il tempo per rendere più solide le radici dell’Unione, intensificando la collaborazione

chiesse ue

Questa fase di iniziale uscita dall’epidemia da coronavirus ha visto la COMECE (Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea) al centro di una serie di iniziative che segnano, insieme alla conferma di una linea di attenzione costante all’evoluzione dell’UE, il rafforzamento di una serie di rapporti con altre istituzioni che vanno nella direzione di un collegamento stabile e da uno stile di lavoro in rete.

Prima che dalle parole e dai documenti, dalla serie di iniziative traspare il messaggio di fondo che essa vuole mandare alle istituzioni della Unione Europea, ma anche alle conferenze episcopali nazionali e alle rispettive comunità ecclesiali.

E il messaggio che ne risulta è la richiesta di una maggiore cooperazione tra i Paesi dell’Unione come condizione per uscire dalla fase di crisi nella quale tutti siamo entrati.

In questa fase, tutte le criticità che accompagnano da anni il cammino europeo si sono come addensate determinando una situazione nuova che impone nuove scelte. L’epidemia ha fatto capire che uscirne veramente richiede una rimodulazione di tutte le questioni e dei tradizionali approcci. Per questa ragione ad emergere con maggiore chiarezza è la scarsa e instabile coesione che caratterizza in misura variabile i Paesi membri dell’Unione.

Le Chiese cristiane e l’Unione

Un incontro delle Presidenze della COMECE e della CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee) ha segnato la ripresa di rapporti, mai interrotti, nella prospettiva di una nuova stagione.

L’occasione era duplice: la valutazione dell’esperienza delle Chiese nel tempo dell’epidemia e la predisposizione di una serie di attività comuni da mettere in cantiere. Ne è risultata una visione condivisa delle fatiche e delle promesse che vengono fuori da questa fase particolare di storia europea e mondiale, tra le quali possono essere richiamati l’allentamento del rapporto con la Chiesa della fascia più anziana della popolazione, l’esperienza rinnovata dell’unità delle famiglie e della fede vissuta spesso anche nella preghiera domestica, la crescita di un senso di solidarietà che ha aperto il cuore e le mani ai più bisognosi nei territori, tornati a un senso nuovo di appartenenza e di protagonismo.

Nella differenza delle forme di rapporto istituzionale, nei vari Paesi si è lamentato lo scarso riconoscimento della libertà della Chiesa e dell’esercizio del culto. In questo senso, il recente ritorno di attenzione al tema della libertà religiosa nell’Unione Europea va salutato positivamente.

Nel quadro di questi rapporti si segnala l’iniziativa spontanea di un’alleanza tra organismi internazionali denominata Elsi’A (Alleanza Enciclica Laudato si’), il cui interesse dominante è costituito dalla “cura della casa comune” e alla quale guardano anche le due istituzioni episcopali europee, e in modo particolare la COMECE.

Più di recente la COMECE si è fatta promotrice di un passo avanti nel dialogo con l’UE incontrando insieme alla CEC (Conferenza delle Chiese Europee) la Presidenza tedesca dell’Unione che è appena entrata nel semestre di competenza.

L’occasione è particolarmente propizia per sollecitare a rinnovare l’impegno per il progetto europeo e i suoi valori fondanti al fine di rendere l’Europa più giusta, equa e sostenibile. Presentando un documento comune, l’iniziativa ecumenica ha ricordato quanto sia vitale l’apporto delle Chiese e delle comunità religiose per un progetto europeo che abbia un’anima ideale e valoriale.

chiese UE

COMECE: stimolare le Chiese cattoliche dell’UE

L’iniziativa più recente della Presidenza della COMECE riguarda l’invito rivolto ai presidenti e ai segretari generali delle conferenza episcopali dei Paesi dell’Unione per un incontro congiunto a fine settembre. L’incontro ha lo scopo di valutare la situazione che si è determinata a seguito della pandemia da Covid-19 e la «possibilità di un’azione comune della Chiesa in Europa per affrontare tale situazione, per aiutarci a vicenda, dando un segnale di unità e solidarietà, e per inviare un messaggio forte».

Si conferma così, attraverso lo sviluppo di un’azione propriamente ecclesiale, la volontà di stimolare uno stile e far giungere una sollecitazione che dica quanto sia indispensabile ai Paesi dell’Unione lavorare insieme per il bene di ciascuno di loro e di tutti insieme, senza dimenticare il ruolo delicato che la storia le affida in questa fase della sua storia.

Sono, questi, motivi presenti anche nella presa di posizione della Commissione per gli affari sociali della COMECE in occasione della presentazione del Piano di rilancio della Commissione Europea.

Legami solidali nell’UE

Sebbene in ritardo nel raccogliere il bisogno di aiuto dei Paesi più colpiti dall’epidemia, l’Unione sembra aver trovato la lucidità e la volontà di intervenire. Ora si richiede più che mai di agire insieme. Come dice il titolo del documento: “Nessuno può salvarsi da solo!”.

E infatti ciò che alla fine emerge prepotente è la consapevolezza che la necessità di dare risposta ad una urgenza improvvisa e drammatica, ripropone in modo nuovo la questione di fondo che riguarda, più che la sopravvivenza dell’Unione Europea, la sua capacità di darsi una forma compiuta di unione che non sia solo economica, ma anche politica, sociale e culturale.

Finché la coscienza e le occasioni per sentirsi richiamati a tale compito non mancheranno, si potrà rimanere fiduciosi; il dramma sarà quando verranno a mancare.

Aprirsi al soffio dello Spirito: il cristianesimo e le sfide dell’oggi

Tiziano, «Discesa dello Spirito Santo»(particolare, 1545-1546)

Oggi si sente dire che c’è bisogno di “nuove narrazioni” del Vangelo come servizio alla crescita nella giustizia, nella pace e nella fraternità della famiglia umana. Questa pertinente esigenza rischia però di lasciare un sottile retrogusto pelagiano nel cuore e nella mente: come se le cose solo da noi dipendessero, mentre dobbiamo sempre di nuovo «riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia» (Gaudete et exsultate, 55). Non è proprio questo il punto? E cioè che lo Spirito di Dio sta già attuando Egli stesso, nella nostra travagliata transizione storica, una narrazione “nuova” che è “antica” come il Vangelo, anzi come la storia di Dio con il suo Popolo. Una narrazione che a noi tocca discernere, far nostra e promuovere in spirito di fraterna compagnia. E ciò risulta ancor più interpellante oggi, quando l’interruzione necessaria — lo possiamo dire a posteriori — per prenderne coscienza, per immaginare le vie di conversione del progetto, per misurare la decisione e le forze per metterlo in atto, c’è stata, eccome, calata come un imprevedibile e impietoso colpo di mannaia sul corpo dell’umanità. A tutti rendendo evidente che “il re è nudo”: perché la corsa in cui l’umanità s’è lanciata negli ultimi secoli, con velocità accelerata e con un’estensione che ormai ha raggiunto i confini del mondo, denuncia il suo fallimento.

Non che i risultati raggiunti dalla tecnologia a livello di promozione della qualità della vita, dello sviluppo economico, della giustizia sociale, delle relazioni tra i popoli costituiscano un fatto negativo. Ne conosciamo tutti i benefici, anche se non tutti, anzi in troppo pochi, ne godiamo. Perché l’ideologia che, come una gabbia d’acciaio — per dirla con Max Weber — determina e imprigiona questo processo è in definitiva iniqua e disumana. Essa, infatti, non guarda al “chi?”, al “perché?”, al “come?” della sua realizzazione e della condivisione dei suoi risultati: ma scarta una porzione già enorme, e tuttavia ancora crescente, di persone, gruppi sociali e intere popolazioni; estingue surrettiziamente la domanda decisiva intorno al senso e al fine ultimo di quanto persegue; non bada a mezzi per raggiungere i risultati e i profitti che, come presa in un inarrestabile vortice, si prefigge. Senza dire che, in questo modo, vengono sradicati dall’orizzonte del cuore e della mente quei rapporti sui quali s’intesse il vissuto di un’esistenza bella e ricca: il rapporto con Dio, il rapporto con gli altri, il rapporto con la casa comune. Questa è la prima e fondamentale presa di coscienza che la pandemia che ancora stiamo vivendo impone: siamo un’unica cosa, noi umani, e con noi lo sono tutti gli altri esseri che popolano la nostra casa comune. E allora: che cosa comporta prendere sul serio questo dato di fatto che è al tempo stesso una precisa responsabilità? Quali impegni e quali atteggiamenti ne derivano? Si tratta di compiere una svolta. È ciò che siamo abituati a chiamare “conversione”. Una parola che, nel greco del Nuovo Testamento, dice appunto una trasformazione del modo di vedere, di sentire, di pensare, di agire: metánoia. Una conversione, dunque, che non investe solo le forme culturali e sociali in cui esprimiamo ciò che vogliamo essere e fare: ma anche le forme di comprensione e incarnazione del Vangelo di Dio che abbiamo ereditato e che esercitiamo. Occorre aprirsi al soffio scompigliante e trasformante dello Spirito e attraversare con fiducia e speranza il rischio, l’azzardo anche, e persino la “notte” che comporta l’abbandono di un certo modo di essere e vivere per aprirsi a uno nuovo, in parte almeno inedito e imprevedibile.

Nel suo celebre saggio Insight del 1957 Bernard Lonergan, a fronte del vorticoso cambio d’epoca che già si andava producendo, e di cui il Vaticano II registrerà le sfide per l’esercizio della fede, auspicava la gestazione di una “cosmopoli” «che non sia né classe, né stato, che stia al di sopra di tutte le loro pretese, che le ridimensioni, che sia fondata sul distacco e sul disinteresse nativi di ogni intelligenza, che ispiri la prima fedeltà dell’uomo, che renda effettiva se stessa primariamente mediante tale fedeltà», impedendo «che i gruppi dominanti ingannino l’umanità mediante la razionalizzazione delle loro colpe», invitando piuttosto «le potenzialità ampie e le energie represse del nostro tempo a contribuire alla soluzione [dei vasti e urgenti problemi di cui siamo diventati via via consapevoli] sviluppando un’arte e una letteratura, un teatro e una comunicazione, un giornalismo e una storia, una scuola e una università, una profondità personale e una opinione pubblica, che attraverso discernimento e critica diano agli uomini l’opportunità e l’aiuto di cui hanno bisogno e che desiderano» (traduzione italiana, 2007, pagine 322-326).

Con Papa Francesco, nel solco tracciato dal Vaticano II, la Chiesa cattolica si riscopre oggi alla ricerca, nell’ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (cfr. Apocalisse, 2, 7), delle vie per sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda nella nuova tappa dell’evangelizzazione che è consapevole d’essere chiamata a vivere (cfr. Evangelii gaudium, 1). M’ispiro alle linee d’impegno disegnate da Papa Francesco nel proemio della Veritatis gaudium a proposito della teologia e più in generale della cultura animata dalla fede come «laboratorio in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo» (n. 3). Ne enuncio quattro.

La prima: «Dio, il Dio di Gesù Cristo, riscoperto per Chi Egli è e si promette, il garante del futuro della famiglia umana e della casa comune». La Chiesa (sarebbe fatale obliarlo o anche solo sottostimarlo) è chiamata ad annunciare e testimoniare il kerigma, e cioè a rendere presente e operante il lievito dell’avvento di Dio, l’”Abbà” del Signore nostro Gesù Cristo, nel soffio inesauribile dello Spirito. Senza di ciò, il sale non ha più sapore e a null’altro serve se non ad essere gettato per terra e calpestato dagli uomini (cfr. Matteo, 5, 13). Di qui la gioiosa declinazione di quattro verbi idealmente ispiratori e in concreto orientatori della missione: contemplare, dimorare, accogliere, ascoltare.

“Contemplare”: è urgente come il pane di cui ci nutriamo, re-imparare il solenne, semplice, liberatore gesto di sollevare lo sguardo verso il Cielo squarciato dall’avvento del Figlio di Dio che s’è fatto figlio dell’uomo. Levare lo sguardo verso il Cielo, verso Dio, per poter guardare con gli occhi giusti la terra e la storia. Perché la carne del Cristo, aprendo alla contemplazione dell’Abbà nella luce e nel soffio dello Spirito («chi vede me, vede il Padre», cfr. Giovanni, 12, 45), rinvia con ciò senza possibilità d’appello alla carne dell’uomo: «Ciò che avete fatto al minimo, è a me che l’avete fatto» (cfr. Matteo, 25, 40).

E così, secondo verbo, chiama a “dimorare”: a «essere in-Cristo Gesù». Il che significa — lo dico con l’incisiva formula di Papa Francesco — imparare a essere insieme contemplativi della Parola di Dio e contemplativi del Popolo di Dio (Evangelii gaudium, 154). Di qui il terzo verbo: “accogliere”. È questa la cifra della sequela cristiana: la “mistica del noi” (cfr. Evangelii gaudium, 87, 272) come mistica dell’accoglienza e dell’ospitalità reciproca che si fa lievito di fraternità universale (cfr. Veritatis gaudium, proemio, 4a). «Il nostro impegno — così l’Evangelii gaudium — non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro “considerandolo come un’unica cosa con se stesso”» (Evangelii gaudium, 199, in riferimento a Tommaso d’Aquino, Summa theologiae., ii-ii, q. 27, art. 2).

Di qui l’ultimo verbo: “ascoltare” «nel cuore e far risuonare nella mente il grido dei poveri e della terra» (Veritatis gaudium, proemio, 4a). Questo è decisivo per una sequela che non sia insipida e cieca nel leggere la storia. «Ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del popolo; ascolto del popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama» (Discorso in occasione della Veglia di preghiera in preparazione al Sinodo sulla famiglia, 4 ottobre 2014). Si tratta di «dare concretezza» alla «dimensione sociale dell’evangelizzazione» quale parte integrale della missione della Chiesa: perché «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini» (Veritatis gaudium, proemio, 4a).

Seconda linea: «Il dialogo, via per generare con tenacia e creatività un’effettiva ed incisiva cultura dell’incontro, senza dimenticare il sale dell’istanza critica e della croce». Lo affermava Paolo VI nell’Ecclesiam suam: «Se davvero la Chiesa ha coscienza di ciò che il Signore vuole ch’ella sia, sorge in lei una singolare pienezza e un bisogno di effusione […] La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (66-67). Il dialogo non è buonismo, compromesso, gioco al ribasso, ma esigente arte dell’incontro, del rispetto, della reciprocità. Arte che implica l’esercizio del discernimento, dello spirito critico, della denuncia: «Perchè non sia svuotata la croce di Cristo» (cfr. i Corinzi, 1, 17).

Per questo, l’annuncio del Vangelo del Regno ha da esprimersi secondo tre dinamiche: quella del “dentro”, in quanto non solo non è alieno rispetto a nessuna religione e cultura, ma è destinato a trovarvi casa e a vivervi; quella dell’“oltre”, in quanto rende incisiva e impellente la spinta intrinseca a ogni vera cultura ad aprirsi e trascendersi; quella del “tra”, in quanto è chiamato a mettere in relazione ogni cultura con le altre, predisponendo lo spazio propizio in cui ciò può con frutto accadere. Papa Francesco parla di «cultura condivisa dell’incontro», di «civiltà globale dell’alleanza», che si genera dall’incontro tra le diverse religioni e culture nello Spirito dell’avvento del Regno di Dio. È il contributo evangelicamente pertinente e storicamente decisivo a ciò che lavora in profondità — anche se con evidenti chiaroscuri e anche tragici pericoli d’involuzione — la stagione odierna. «Alla celebre massima antica “conosci te stesso” dobbiamo affiancare “conosci il fratello”: la sua storia, la sua cultura e la sua fede, perché non c’è conoscenza vera di sé senza l’altro». È questo il principio che emblematicamente ispira il documento firmato ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande imam di Al-Azhar lo scorso anno (cfr. Discorso al Founder’s Memorial, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019).

Ora, è evidente che anche rispetto a tutto ciò il dialogo tra i cristiani in vista della piena e visibile unità, rispettosa e anzi promotrice delle legittime diversità, non è solo impegno irrevocabile, ma decidente banco di prova. Senza scorciatoie, in ascolto disarmato del Vangelo di Cristo, in un cammino che non può non vederci attori convinti e che non può non essere al primo posto nei nostri impegni e nella nostra preghiera.

Terza linea direttrice: «La convergenza inter- e trans-disciplinare dei saperi per promuovere la nuova civiltà oggi in travagliata gestazione». In un momento storico come quello che viviamo, con la crisi — anche a livello di coscienza epistemologica — della modernità, e con la conseguente tentazione pendolare di consegnarsi o alla resa (spesso tutt’altro che tollerante) della post-verità o alla resistenza cieca (anch’essa violenta, perché in fondo disperata) del fondamentalismo, occorre ribadire con forza la possibilità — già lo indicava Giovanni Paolo II nella Fides et ratio —, anzi la necessità vitale di «giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico» (n. 85). La sfida radicale è infatti oggi quella di «ripensare il pensiero», come scrive Edgar Morin, e cioè di lavorare insieme a «una nuova episteme» che «riguardi tutto l’arco dei saperi, non solo quelli umanistici ma anche quelli naturali, scientifici e tecnologici» (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti della conferenza internazionale per dirigenti di Università: «New Frontiers for University leaders: the future of health and the University ecosystem», Aula Paolo VI, 4 novembre 2019).

Il compito è epocalmente decisivo. E sottrarvisi significa non solo non onorare l’eredità incalzante della Rivelazione, ma rendere la performance dell’ispirazione cristiana di più in più marginale sino a diventare irrilevante. Come sottolinea Papa Francesco si tratta d’interpretare e gestire il principio di interdisciplinarietà non nella sua «forma “debole” di semplice multidisciplinarietà», ma nella sua «forma “forte” di transdisciplinarietà», «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio», in una prospettiva aperta al e fondata nel farsi presente della trascendenza di Dio alla storia dell’uomo in Cristo (Veritatis gaudium, proemio, 4c).

Quarta linea direttrice: «Fare rete, integrare i conflitti, promuovere l’arcobaleno della diversità». “Fare rete” con e tra tutte le istanze positive di crescita e sperimentazione attive, a vari livelli e nei diversi ambiti culturali, religiosi, sociali, politici, economici, scientifici, soprattutto tra i giovani, potrebbe apparire di primo acchito una prospettiva meramente pragmatica e tattica. In verità, se correttamente intesa ed eseguita, riveste piuttosto un preciso significato teologale. Occorre prendere coscienza del fatto che, in corrispondenza con «la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune» (Laudato si’, 164; Veritatis gaudium, proemio, 4d) — cosa che tutti «ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune» (ibidem) — la Chiesa è chiamata a sperimentare e promuovere in concreto «la cattolicità che la qualifica come fermento di unità nella diversità e di comunione nella libertà» (ibid.). Il che — suggerisce Papa Francesco — va pensato e messo in atto secondo il modello del «poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (Evangelii gaudium, 236; Veritatis gaudium, proemio, 4d)

Ciò implica — ed è questo l’impegno più oneroso, ma ineludibile dei discepoli di Cristo — farsi carico delle molteplici conflittualità storiche nell’impegno a una effettiva loro risoluzione su di un piano superiore che conservi in sé le eventuali, spesso preziose, potenzialità custodite dalle polarità in contrasto (Veritatis gaudium, proemio, 4d): «Ora che il cristianesimo occidentale ha imparato da molti errori e criticità del passato — auspica Papa Francesco — può ritornare alle sue fonti nella speranza di poter testimoniare la Buona Notizia ai popoli dell’oriente e dell’occidente, del nord e del sud. La teologia — tenendo la mente e il cuore fissi sul “Dio misericordioso e pietoso” (cfr. Genesi,  4,2) — può aiutare la Chiesa e la società civile a riprendere la strada in compagnia di tanti naufraghi» (Discorso presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli, 21 giugno 2019).

Le linee direttrici appena abbozzate sono ambiziose: ma questo è il tempo della visione e dello slancio in avanti. Tanto più quando la forza propulsiva ne è il Vangelo di Dio che è Gesù Cristo. Egli inaugura quella nuova situazione dell’esistere in cui è escatologicamente offerta all’uomo l’omousía del Figlio, fattosi carne e grido dell’uomo, col Dio che è Abbà, in ciò stesso istituendo l’omousía di grazia, e cioè la fraternità, tra tutti gli uomini e tutte le donne, nel Figlio fattosi carne e grido, in quel soffio di Vita che più non muore e in quel chiarore di Luce che più non tramonta, pur nelle angosce e nelle oscurità della nostra storia: lo Spirito stesso dell’amore del Padre e del Figlio, sempre nuovo e sempre di nuovo riversato nei nostri cuori (cfr. Romani, 5, 6).

di Piero Coda / osservatoreromano.va

La Chiesa in uscita ha bisogno di una teologia in uscita

«Io penso che una Chiesa in uscita abbia bisogno di una teologia in uscita». Lo afferma con convinzione don Pino Lorizio, dal 1993 docente di teologia fondamentale alla Pontificia università Lateranense e coordinatore del nuovo percorso di licenza in Teologia interconfessionale, in prospettiva ecumenica e comunionale, che l’ateneo del Papa attuerà dal prossimo anno accademico 2020-2021. «Il primo passo in uscita dobbiamo farlo proprio noi teologi cattolici — spiega Lorizio — cercando di incontrare gli altri fratelli in Cristo. Ma poi speriamo che il percorso verso l’esterno continui e che la teologia cristiana vada sempre di più incontro a un mondo che sembra sempre di più allontanarsi dalla fede in Cristo».

Il nuovo corso biennale di laurea magistrale della Lateranense non punta infatti a fornire semplicemente competenze ma a formare presbiteri, pastori, suore, religiosi e laici che sappiano annunciare il Vangelo e che tornando nelle loro comunità di origine siano in grado di animarle e servirle nello spirito della “cultura dell’incontro” cara a Papa Francesco. Era stato proprio il Pontefice a incoraggiare l’iniziativa accademica nella sua visita all’ateneo lateranense dello scorso 31 ottobre. «Cercare ed esplorare ogni opportunità per dialogare non è solo un modo per vivere o coesistere, ma piuttosto un criterio educativo», aveva sottolineato il Papa intervenendo in chiusura di un convegno su «Educazione, diritti umani e pace. Gli strumenti dell’azione interculturale ed il ruolo delle religioni». In questa linea, aveva proseguito il Pontefice, «trova giusta collocazione il percorso di studi in teologia interconfessionale avviato in questa Università. Andate avanti, con coraggio. Quanto abbiamo bisogno di uomini di fede che educano al vero dialogo, utilizzando ogni possibilità e occasione!». E seguendo l’invito del Papa, dopo un anno di incontri seminariali nei quali ci si è interrogati sul futuro del cristianesimo, un comitato scientifico formato da rappresentanti delle diverse confessioni cristiane ha individuato sei moduli nei quali sarà articolato il nuovo corso della Lateranense: storico-patristico, biblico-fondamentale, dottrinale dogmatico, etico-morale, liturgico-cultuale e missionario. «Quest’ultimo è il punto di arrivo ma vuole essere anche una dimensione trasversale dell’intero percorso», sottolinea ancora il professor Lorizio. «La dimensione sottesa a tutte le materie è infatti quella della missione nel mondo contemporaneo, una prospettiva che abbia a cuore il futuro del cristianesimo». Ma la novità più importante, secondo il coordinatore del corso, sarà la modalità didattica. «I singoli moduli non saranno tenuti da un solo docente — spiega Lorizio — ma sempre da almeno tre: una voce cattolica, una voce protestante e una ortodossa che terranno lezioni sulla stessa tematica». Al termine di ogni modulo una tavola rotonda dimostrerà i risultati delle indagini e della didattica che si è attivata durante le lezioni.

Grazie al coinvolgimento della cappellania universitaria della Lateranense il cammino accademico interconfessionale sarà accompagnato da momenti di preghiera comune, in occasione di tempi forti come l’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, Natale, Pasqua e altre occasioni.

L’itinerario interconfessionale, nell’orizzonte della Veritatis gaudium, sarà inoltre interdisciplinare e trans-disciplinare. «La costituzione apostolica di Papa Francesco sulle università e le facoltà ecclesiastiche ci aiuta molto come docenti a non pensare in maniera ristretta restando ciascuno all’interno della propria disciplina», spiega ancora don Lorizio. «Ci spinge a cercare il rapporto tra le diverse discipline teologiche ma anche tra la teologia e gli altri ambiti del sapere. Trans-disciplinarietà significa andare oltre e quindi, come dice la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, far maturare la scienza in sapienza».

Il corso di Teologia interconfessionale è destinato solo a chi è già laureato in teologia o ha una licenza in scienze religiose? «Nient’affatto», conclude il professor Lorizio. «Per avere il titolo accademico bisognerà avere i titoli precedenti. Siamo aperti, però, alla possibilità di conferire diplomi a persone che non abbiano il titolo compiuto e ad accogliere semplici ospiti e uditori». Venerdì 19 giugno alle 18.30, sulla pagina Facebook della Pontificia università Lateranense, durante un webinar che si aprirà con una preghiera ecumenica i rappresentanti delle diverse teologie presenteranno il percorso.

di Fabio Colagrande – osservatoreromano.va

Il cristiano e la città. Essere donne oggi

Edward Hopper, «Intermission» (1963, particolare)

osservatoreromano.va

«Qual è l’immagine tipica della donna in una città? Cosa salta subito agli occhi di chi cammina frettolosamente per andare al lavoro o di chi attende ancora assonnato il semaforo verde? Che donne sono quelle che affollano la metro e gli autobus di prima mattina e dove vanno? Un sano esercizio per superare la propria smania di protagonismo o staccarsi dai problemi che ci amareggiano è guardare gli altri e cercare di vedere oltre l’apparenza».

Si è fatto quasi profetico in questo tempo di pandemia l’invito concreto che Caterina Ciriello rivolge al lettore in Essere donna nella città attuale (Padova, Edizioni Messaggero, 2020, pagine 120, euro 12), nuovo volume della fortunata collana Percorsi di teologia urbana, diretta da Armando Matteo. «Sarebbe utile osservare le donne — prosegue Ciriello — i loro volti, il loro corpi, “il potere simbolico” che ne traspare. Il corpo delle donne parla, ma i mass media ne stravolgono il linguaggio trasformando ciò che è buono e naturale, ciò che è sensibile, materno, coraggioso (…) in cibo per gli appetiti sessuali di maschi giovani e adulti. Sono ormai pochi quelli che riescono a leggere questo potente linguaggio e molti coloro che tentano di svilirlo, trasformando le donne in corpi privi di anima e intelligenza».

Nella sua riflessione sulla presenza femminile nel contesto urbano attuale Ciriello inizia giustamente da lontano, o meglio dall’origine. Docente di teologia spirituale presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma e autrice di numerose ricerche sulla storia della Chiesa e sulla storia delle donne, l’autrice parte infatti dal racconto della creazione, perché è da lì «che nascono tutte le relazioni».

Ma perché se Dio ha creato l’uomo e la donna con uguale dignità, affinché insieme si prendessero cura della creazione, gli stessi cristiani hanno dimenticato ciò che Dio ha voluto? Perché nella società e nell’ambiente ecclesiale la donna vive una grave sottomissione psicologica e materiale? Chi e cosa ha permesso una reinterpretazione indebitamente maschilista della Parola? Se violenze sessuali, femminicidi e spose bambine sono la triste realtà, quel che Ciriello invita a fare non è solo di riflettere partendo da un’analisi della realtà ma di farlo appoggiandosi al magistero pontificio. E, in particolare, alla Evangelii gaudium in cui Papa Francesco riconosce «l’insostituibile contributo di unicità che la specificità femminile apporta al genere umano».

In linea con lo spirito della collana ideata e diretta da Matteo, anche il libro in esame intende dunque ripensare l’annuncio del cristianesimo nelle città a partire dalle provocazioni dell’Evangelii gaudium, avanzando proposte concrete per metterla in pratica. Rispondendo così alla chiara e limpida indicazione di Papa Francesco secondo cui «è necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città». E che quella che stiamo vivendo sia, più che un’epoca di cambiamento, un vero e proprio cambiamento d’epoca diventa di un’attualità sconcertante alla luce di ciò che da mesi il mondo intero sta vivendo.

Nessun dubbio, dunque, su come la città contemporanea sia lo scenario privilegiato per l’annuncio del Vangelo. Una città segnata da misoginia, violenze sessuali, mercificazione del corpo femminile, soprusi e prevaricazioni innanzitutto tra le pareti domestiche. Dove infatti secondo Francesco — come ricorda Ciriello — la donna rientra nella categoria che il Papa definisce i «non cittadini», i «cittadini a metà» o gli «avanzi urbani».

Come è tristemente noto, e come Ciriello riflette in un percorso che è insieme teologico, storico e biografico, la posizione della donna nella città attuale non è facile, come non lo è stato in passato. Ma se è vero che i passi avanti compiuti a livello sociale non sono stati una marcia vittoriosa e se, quindi, molto resta ancora da fare, l’autrice rende però merito alla Chiesa di ciò che è stato comunque raggiunto.

Il punto di svolta è stato il concilio Vaticano II, suffragato poi dal pontificato di Giovanni Paolo II che ha rimesso la questione femminile al centro della scena, in chiave antropologica, sociologica e teologica. Un percorso proseguito con Benedetto XVI e quindi con Papa Bergoglio, che l’ha ancora più radicato nell’attualità del mondo e della Chiesa (se è l’icona della Vergine «quella che aiuta a crescere la Chiesa», ne deriva che «non si può capire una Chiesa senza donne»).

Per uscire da quello che ancora non va, Caterina Ciriello auspica — inserendosi nel solco di una tradizione ricca e nutrita — una nuova alleanza. Edificabile solo — ricorda giustamente l’autrice — attraverso nuovi percorsi di istruzione e formazione. In famiglia, nella scuola, nei seminari.

In un discorso che riguarda sia la società che la Chiesa, è soprattutto a quest’ultima che Ciriello si rivolge. In risposta alla donna «che, aggrappata a un ramo, cerca di sfuggire alla corrente per non finire nel nulla dell’indifferenza», occorre superare perduranti «luoghi comuni e offensivi», interpretazioni bibliche «misogine» per riscoprire una Parola vera, giusta e sacra.

Anche perché «non può vivere secondo natura e secondo il Vangelo — chiosa Ciriello — una società dove le donne sono considerate “scarti”, merce da usare e gettare. E Papa Francesco lo ha sempre detto sin dall’inizio del suo pontificato: no alle donne schiavizzate, sfruttate, private della loro dignità. E non può che “sopravvivere” una chiesa dove prevale il maschilismo, il clericalismo, e l’idea che la donna sia stata creata per “servire e riverire” l’uomo».

di Silvia Gusmano

La solitudine ecclesiale dei nostri ragazzi

di: M. N.

giovani

Gli episodi sono contingenti, si sa. Alcune volte però ti danno a pensare, forse perché sembra di scorgere in essi qualcosa di emblematico. Almeno così è stato per me oggi, nella parrocchia bolognese dove vado a messa la domenica quando sono in città.

Fin dalla ripresa delle celebrazioni dopo il lockdown, un gruppetto di ragazzi e ragazze (credo scouts) svolgono il servizio di accoglienza della comunità che si riunisce per la messa. Gentili, cordiali, educati – e… infinitamente pazienti. Se una comunità parrocchiale celebra la domenica del Signore in questi tempi è (anche) grazie a loro. Non sono un “servizio d’ordine”, ma attori liturgici a cui dobbiamo la possibilità di riunirci domenicalmente ad ascoltare la Parola e condividere il pane dell’eucaristia. Ma forse non ce ne accorgiamo e li scambiamo solo per dispenser di gel igienizzante e commessi che ci accompagnano al posto – errore fatale per una comunità.

Veniamo a oggi: messa delle 11, un paio di banchi avanti a me una coppia, non più giovane ma dove nessuno dei due aveva bisogno di una qualche assistenza fisica, è seduta una accanto all’altro – anziché ai due posti esterni del banco. Un ragazzo dell’accoglienza si avvincina loro, garbato e gentile, chiedendo alla signora di spostarsi. La signora inizia ad argomentare, immagino fossero marito e moglie; il ragazzo la ascolta con attenzione, poi le chiede educatamente di sedersi comunque dall’altra parte del banco.

La signora rifuta borbottando e gesticolando. Il ragazzo, sempre con tono gentile, le chiede per favore di spostarsi. A questo punto la signora si muove di un palmo, per tornare immediatamente dove era prima non appena il giovane si era girato per aiutare altre persone della comunità parrocchiale. Quando si volta e vede la signora imperterrita aggrappata al suo posto, il ragazzo si rivolge ancora a lei con grande pazienza e un volto cordiale chiedendole di andare a occupare il posto marcato sul banco dall’altra parte. Non ottenendo nulla, ovviamente.

Mi ha colpito non solo la mancanza di rispetto della donna verso il giovane della parrocchia, che era lì affinché tutti si potesse celebrare insieme con intelligenza e sensibilità gli uni verso gli altri. Quello che più mi è rimasto impresso è la solitudine in cui questo ragazzo si è trovato mentre esercitava un servizio celebrativo per tutta la comunità. Nessun “adulto” che si alzasse per aiutarlo; intorno a lui il vuoto glaciale di una comunità assente.

È questo che mi ha fatto pensare… mi è sembrata una scena emblematica della solitudine comunitaria a cui abbandoniamo i nostri ragazzi, le generazioni più giovani, nella Chiesa odierna. Con la sua attenzione, delicatezza, educazione, questo ragazzo stava celebrando per noi la nostra possibilità di celebrare l’eucaristia – nella solitudine del farlo per tutta la comunità parrocchiale.

Sono sicuro che la settimana prossima sarà ancora lì, gentile col suo sguardo sorridente – e paziente, sopportando per passione comunitaria e senso della fede nonostante la nostra assenza. Non ce lo meritiamo; non ci meritiamo la sua generosità; non ci meritiamo la sua liturgia che consente la nostra.

Come in un flash mi sono scorse davanti agli occhi le scene delle troppe volte in cui come Chiesa non riusciamo a essere all’altezza dei nostri giovani – smettiamo di lamentarci di loro, quindi.

settimananews