IL FESTIVAL DEI MEDIA CEI «L’informazione ponga domande»

«La comunicazione ha un grande spazio che è aiutare a porre le domande giuste, a far percepire la sfida che è dinanzi a noi. Senza questo rischia di essere un’informazione che non comunica. Soprattutto nel contesto della cultura digitale, con milioni di informazioni ogni giorno». È l’allarme quello di monsignor Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione nella prima giornata della Festa della Comunicazione “Media Cei Insieme per… passione!”. Tema dell’evento le parole di Cristo “La gente, chi dice che io sia” … “Ma voi, chi dite che io sia?”. Monsignor Fisichella, va oltre. «La prima domanda che ci dobbiamo fare è “chi sono io?”. Nel momento in cui Gesù chiede “ma voi chi dite che io sia?”, sta chiedendo ai suoi discepoli chi sono loro, se sono veramente capaci di seguire, se hanno occhi per vedere il mistero che hanno davanti a loro, se hanno orecchie capaci di ascoltare veramente il suo messaggio, se hanno parole per comunicarlo in maniera coerente ». E alla domanda su cosa avrebbe risposto lui alla domanda di Cristo, l’arcivescovo risponde. «Gli avrei detto “sei il senso della mia vita”. Davanti a Cristo non si può rimanere neutrali, dopo l’incontro con lui non si è più come prima». Ma, torna ad avvertire, «c’è il grande rischio di non cogliere la complessità della realtà che ci viene posta dinanzi». In primo luogo, sottolinea Fisichella, «il grande evento della rivelazione di Gesù che è la capacità di Dio di parlare il nostro linguaggio per fare capire a noi chi siamo veramente». Ricordando che «l’uomo è chiamato ad amare, perché il primo incontro di Dio con l’uomo è una relazionalità di amore. Se non riscopriamo questa dimensione profonda che è la natura stessa di Dio, non riusciremo a dare una risposta soddisfacente alla sofferenza, al limite, alla morte dell’innocente, alla violenza. E la presenza dell’amore di Dio non è una teoria ma sono fatti concreti ». Come i Venerdì della Misericordia di papa Francesco dei quali Fisichella è stato l’organizzatore. «Il Papa dice che bisogna sollecitare la cultura dell’incontro, perché nell’incontro si crea relazionalità e ci si sente amati. Non possiamo dimenticare che nel Vangelo il Signore ci dice “siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”, e anche “siate perfetti come perfetto è il Padre vostro”. Le due affermazioni si illuminano a vicenda. Devi scoprire la misericordia come la via che ti porta alla perfezione, che ti unisce di più a Dio». E, conclude, «quella del Papa è la provocazione a scoprire che cosa si nasconde dietro quelle persone, un richiamo alla vicinanza, a non giudicare, a sostenerle. Per mostrare come l’orizzonte della speranza cristiana è molto più forte di qualsiasi debolezza, ma anche una sollecitazione a seguire l’esempio. Il Papa desidera che questo sia il cammino dei credenti».

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L’arcivescovo lancia l’allarme sul «grande rischio di non cogliere la complessità della realtà che ci sta davanti»

1 settembre. Nella Giornata del Creato la preghiera di 2,2 miliardi di cristiani

Avvenire

Da oggi per 34 giorni i cristiani di tutto il mondo pregano per rinnovare la propria relazione con Dio e con la Creazione. Parla padre Kureethada (Dicastero per lo sviluppo umano integrale)

Il primo settembre la Giornata per la salvaguardia del Creato

Il primo settembre la Giornata per la salvaguardia del Creato – Archivio Ansa

«Una casa per tutti? Rinnovare l’oikos di Dio». È questo il tema del Tempo del Creato 2021. Da oggi, per trentaquattro giorni, i 2,2 miliardi di cristiani spari per il mondo si uniscono nella preghiera, nella riflessione e nell’impegno comune per rinnovare la propria relazione con Dio e la Creazione. «Oikos» significa sia casa sia famiglia. «La casa è il pianeta – spiega Cecilia Dall’Oglio, direttore dei programmi europei del Movimento Laudato si’ –: e la famiglia siamo noi che lo abitiamo. La crisi climatica mette in pericolo entrambi. La nostra chiamata battesimale ci spinge a rinnovare l’oikos». Il simbolo scelto per questa edizione dell’iniziativa è la “tenda di Abramo”, emblema biblico di accoglienza ed espressione alla chiamata ecumenica all’ospitalità radicale, dando posto a tutti. «Durante questo mese, invitiamo a esporla e a pregare per i più vulnerabili, in particolare per quanti sono costretti ad abbandonare la propria terra a causa del riscaldamento globale. In questo modo, il Tempo del Creato – un kairos per tutti i cristiani – si lega alla Giornata del migrante e del rifugiato del 26 settembre», prosegue Cecilia Dall’Oglio, che rivolge anche un appello a tutti i cattolici affinché si uniscano a papa Francesco nell’alzare una voce profetica per la giustizia ecologica. In tal senso, i fedeli sono invitati a firmare e a far firmare la petizione “per un pianeta sano, persone sane”  Nel testo si chiede ai leader mondiali di adottare misure concrete a tutela della biodiversità e dell’ambiente ai due vertici internazionali in programma questo autunno: la Cop15 in programma in Cina a ottobre e la successiva Cop26 di novembre a Glasgow.

Auguro a tutti noi di vivere questo Tempo del Creato con gli occhi, con il cuore e con i piedi. Con gli occhi, perché possiamo maturare uno sguardo contemplativo sulla natura. Con il cuore, perché riusciamo a sentire il grido della terra che si fa tutt’uno con quello dei poveri. Con i piedi, perché non restiamo fermi, prigionieri dei vecchi paradigmi, ma abbiamo il coraggio di camminare spediti, anzi di correre verso un nuovo orizzonte, più umano. E di farlo insieme». È questo l’auspicio di padre Josh Kureethadam, coordinatore del settore Ecologia e creato del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. L’odierna sedicesima Giornata nazionale per la custodia del Creato (che si collega a quella mondiale di preghiera, istituita da papa Francesco nel 2015) e i trentaquattro giorni successivi dedicati alla riflessione sulla casa comune cadono in un momento cruciale. Qualche settimana fa, 234 esperti, riuniti sotto l’egida dell’Onu nell’International panel on climate change (Ipcc), hanno lanciato un codice rosso al mondo: ancora pochi anni e poi sarà impossibile contrastare il riscaldamento globale. Per evitare il peggio, fra due mesi, inoltre, i leader internazionali saranno chiamati a decidere alla Conferenza Onu sul clima (Cop26) di Glasgow quali azioni concrete intraprendere. «L’angoscia per la situazione ambientale è tanta: siamo sull’orlo dell’abisso – sottolinea padre Josh –. Ma ho anche una forte speranza».

Che cosa le dà speranza?

Ho l’abitudine di recitare ogni giorno il Salmo 127 e mi soffermo spesso sulla frase: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori». La nostra “casa comune” ha un ottimo artefice: Dio. Certo, anche noi dobbiamo essere dei buoni co-giardinieri… È segno di speranza poi che il Tempo del Creato abbia un carattere ecumenico. L’impegno per la cura del Creato è più forte di ogni divisione. Con questo spirito, il 4 ottobre, ci sarà un grande incontro dei leader religiosi in Vaticano.

Eppure, ancora adesso molti cristiani, incluso tanti cattolici, si chiedono che cosa c’entri l’ecologia con la fede…

È alquanto strano. Il cristianesimo non è un vago spiritualismo, è la religione dell’Incarnazione. Il mondo ci riguarda. Le sofferenze dei poveri ci riguardano, perché Cristo si identifica con loro. E tra questi poveri, c’è la nostra casa comune, tanto ferita. Restare indifferenti a questo dolore, significa ignorare il dolore di Gesù.

La strada per attuare una transizione ecologica autentica, e non un semplice slogan, è quella indicata nella Laudato si’. Implica, per prima cosa, vedere crisi ambientale e crisi sociale come un’unica emergenza. Richiede, inoltre, uno sguardo contemplativo sulla realtà: non è semplice materia inerte ma opera palpitante di Dio. I Padri della Chiesa ci ricordavano che il Signore si rivela in due opere: il libro delle parole, ovvero le Scritture, e il libro delle opere, il Creato. A tal fine, è necessario che questi temi diventino parte integrante della formazione, della catechesi, degli studi. L’approccio deve poi essere comunitario. Non possiamo “appaltarlo” solo a politici ed esperti. Siamo “ecclesia”, cioè comunità e come tale dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra casa comune. Tutti, dunque, dobbiamo contribuire a cambiare il paradigma tecnocratico, altrimenti i cambiamenti saranno solo ritocchi cosmetici. Da qui l’impegno per mutare i nostri stili di vita.

Quando si parla di cambiare il paradigma e mutare gli stili di vita, tanti agitano lo spettro della distruzione del sistema economico e di un impoverimento generale. Sono davvero incompatibili economia e ecologia?

È l’esatto contrario. Lo dicono gli esperti e lo vediamo con i nostri occhi: dove la terra soffre, soffrono le popolazioni che la abitano. Ciò non vuol dire che la transizione ecologica non abbia costi. Li ha: tra il 3 e il 5 per cento del Pil mondiale, dicono gli esperti. Il riscaldamento del pianeta ci costa, però, tre o quattro volte tanto: tra il 15 e il 20 per cento del Pil mondiale.

La questione sinodale richiede una ricostruzione storica condivisa che permetta di uscire da alcuni pantani ecclesiali che sembrano oggi ineluttabili

Non ho la possibilità di rispondere puntualmente alle riflessioni qui svolte da Sergio Ventura a partire dalla mia rubrica su Jesus dello scorso luglio. Provo tuttavia a reagire in spirito di dialogo.

Accostare due sinodi così lontani è chiaramente una provocazione che, in quanto tale, resta precaria e fragile. L’intento era unirmi a coloro che avvertono urgente la necessità di una narrazione di parresìa sui decenni coincisi con le presidenze della CEI del card. Ruini e dei suoi immediati successori (a scanso di equivoci, «parresìa» non è qui da intendersi come «grande sincerità e coraggio individuali», ma nel senso molto più complesso che Andrea Grillo ha ben spiegato qui).

Non sono uno storico, ma occupandomi di teologia, posso riconoscere come non esista quasi nessun tema di grande attualità per la Chiesa italiana che non si trovi a dover fare i conti con quanto è successo negli ultimi quarant’anni, su cui è tuttavia difficile una narrazione condivisa. Trattando ad esempio del tema «teologia e cultura», due anni fa scrivevo insieme alla prof.ssa Stella Morra che:

«a metà degli anni ’80, la Conferenza Episcopale Italiana, su richiesta esplicita di papa Giovanni Paolo II, insistette molto sulla promozione di alcuni valori identitari, intorno cui costruire un profilo riconoscibile del cristiano cattolico italiano. Tali intenti trovarono una concretizzazione esplicita in una serie di iniziative sfociate nel Progetto Culturale della fine degli anni ’90. Lo scopo dichiarato era strutturare su valori o principi – che poi avrebbero trovato nei documenti magisteriali la qualifica di «non negoziabili» – una sorta di scheletro culturale del popolo di Dio. Esso, tuttavia, ha creato una situazione di conflitto – per certi versi diremmo inevitabile – che la chiesa italiana non aveva mai vissuto con questi toni, a differenza di altri paesi vicini come la Francia. La forte polarizzazione che ne è scaturita – anche all’interno della chiesa stessa – ha portato a una sconfitta di tutte le parti: abbiamo infatti quasi completamente rigettato una matrice popolare senza tuttavia conquistarne altre, consumandoci in scontri duri e spesso sterili» (Incantare le Sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, 234).

Questo embrionale tentativo di valutazione – molto più articolati sono ad esempio i saggi di Sorge giustamente citati da Ventura, o gli studi di De Rita – non vuole essere un giudizio di valore sull’operato dei singoli, sui quali ci sembra pleonastico ricordare che tra cristiani vale sempre l’attribuzione delle migliori intenzioni e il riconoscimento dell’assunzione di responsabilità in spirito di servizio, quanto piuttosto una ricostruzione che permetta di uscire da alcuni pantani in cui oggi vige quasi una sensazione di ineluttabilità, più che di immobilismo. Pur riconoscendo ai protagonisti del tempo la loro retta intenzione e la bontà di alcune scelte, penso che oggi sia evidente come i prezzi pagati siano stati molto alti. E non solo per la «cultura», ma anche per molti altri campi dell’evangelizzazione.

Faccio un altro esempio. Negli stessi anni del testo che evocavo nel pezzo su Jesus, il prof. Severino Dianich avvertiva che interpretare la «missione» nel senso del «compito pastorale» – come poi è stato spesso fatto – avrebbe portato inevitabilmente a una «strozzatura individualistica, soprattutto quando missione e compito pastorale restano determinati da un’ecclesiologia della struttura invece che dell’evento, da una teologia della chiesa nella quale, in maniera esplicita o nascosta, si pensa la chiesa esistente quando esiste il suo apparato sociale, dal quale essenzialmente emana la sua operosità, e non quando esiste il fatto comunionale come principio del suo agire. […] Se alla chiesa “piantata” resta da svolgere un compito pastorale che non è la missione, il suo problema principale non è più quello del rapporto con il mondo, ma quello della salvezza dei singoli cristiani. Il problema del rapporto con il mondo, dalla grande questione dell’impatto del vangelo con la storia si riduce alla piccola questione della rivalità fra la chiesa e lo stato, e della distribuzione delle competenze fra autorità religiosa e civile nella determinazione della vita pubblica dei cittadini. Succede così che si ha una chiesa decisamente apolitica alla base e una chiesa fortemente politicizzata al vertice: l’abbondantissima letteratura sul problema chiesa-stato, dove la chiesa non è la comunità cristiana ma solo la gerarchia, e dove lo stato non è la comunità civile ma la sua organizzazione nelle strutture dell’autorità, testimonia della grave restrizione di interessi nella quale una simile teologia prima o poi va a finire» (Chiesa estroversa, San Paolo, Cinisello Balsamo 20182, 133-134. [ed. or. 1987]) [1].

Era il 1987. Internet era fantascienza e il delitto d’onore era stato abrogato da solo 6 anni. Ma i grandi teologi hanno questo di bello, che vedono lontano. E i loro insegnamenti sono qualcosa cui si può tornare. A patto ovviamente che la storia sia raccontata tutta e, in quegli anni, la posizione di Dianich non fu certo tra le più ascoltate.

Tornare alla dignità del sacerdozio battesimale, vivere senza paura l’ecumenismo, riconoscere le questioni di genere, ridare slancio al movimento liturgico, stare dalla parte dei poveri anche quando non è comodo, affrontare il conflitto imparando la fraternità: l’elenco potrebbe continuare, ma questi temi non vanno interpretati come i singoli campi di battaglia in cui oggi dobbiamo entrare per sconfiggere l’avversario di turno (fuori e dentro la chiesa), quanto piuttosto le direttrici della forma che la chiesa italiana prenderà nel prossimo futuro. Questa prospettiva si acquisisce, a mio giudizio, assumendo anche un valido punto di vista storico, di cui abbiamo necessità urgente.
vinonuovo.it

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Città del Vaticano, 23 lug. (askanews) – Il Segretario del Sinodo, cardinale Mario Grech, ha ricevuto il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, in vista del “cammino sinodale” italiano, sintomo di un’accelerazione del lavoro per una convergenza tra il sinodo nazionale e quello mondiale.
La Segreteria del Sinodo, che ha fisicamente luogo in Vaticano, organizza, da quando Paolo VI nell’immediato post-concilio creò questa istituzione, le assemblee sinodali generali, ordinarie o straordinarie, che radunano periodicamente a Roma vescovi da tutto il mondo o da alcune macro aree geografiche per discutere, e deliberare, su alcune specifiche questioni, sulle quali poi il papa, pastore universale, si esprime con una esortazione apostolica (che non necessariamente, come è accaduto a valle del sinodo panamazzonico, sostituisce il documento finale approvato con votazione dai padri sinodali).

Altro sono i sinodi (o percorsi sinodali, o cammini sinodali, o concili plenari) nazionali: che, in particolare sotto Francesco, si sono moltiplicati, ma restano iniziative confinate alle Chiese nazionali: Germania, Irlanda, Australia, Italia…
Se alcuni di questi sinodi sono partiti a spron battuto, come quello tedesco, fino a sollevare a Roma una qualche apprensione per il rischio di fughe in avanti di natura dottrinale, altri, come quello italiano, è sembrato stentare a prendere il via, con il papa che è più volte intervenuto, personalmente o tramite i suoi emissari, per sollecitare l’episcopato a fare il fatale passo di aprire un cammino sinodale. Alla fine, all’ultima assemblea plenaria dei vescovi, in primavera, la Cei ha annunciato che in autunno partirà tale processo.

Nel frattempo, però, il papa ha annunciato che sempre il prossimo autunno prenderà le mosse una consultazione globale del “popolo di Dio”, che dovrà coinvolgere i fedeli, le diocesi, gli episcopati di tutto il mondo, per sfociare in una assemblea generale da celebrare nell’autunno del 2023.
I due piani, così, quello dell’assemblea sinodale mondiale e quello dei singoli sinodi nazionali inevitabilmente si intrecciano. E lo stesso Francesco ha consigliato ad esempio al presidente della conferenza episcopale tedesca Georg Baetzing, ricevuto lo scorso 24 giugno, di “continuare sulla strada sinodale” intrapresa, “discutere apertamente e onestamente le questioni in gioco” e “giungere a raccomandazioni per un mutato agire della Chiesa”, ha riferito lo stesso vescovo di Limburgo, ma “allo stesso tempo, ha chiesto che la Chiesa in Germania contribuisse a plasmare il cammino della sinodalità che egli ha proclamato in vista del Sinodo dei Vescovi nel 2023”. Dunque procedere nel sinodo nazionale, ma poi convergere nel sinodo globale.

Qualcosa di analogo avviene ora con il “cammino sinodale” italiano. I contatti, le interconnessioni sono notevoli: il papa, ad esempio, ha recentemente nominato il vescovo di Modena-Nonantola-Carpi Erio Castellucci, da poco vicepresidente della Cei, tra i membri della segreteria del sinodo, e lo stesso Castellucci è stato nominato nei giorni scorsi, insieme a monsignor Pierangelo Sequeri, preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, e a padre Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali nonché figura-chiave nelle ultime due assemblee sinodali generali (giovani e Amazzonia) nel “comitato consultivo di orientamento” della prossima assemblea. Ora, però, Grech ha ricevuto direttamente il presidente della Cei, card. Bassetti, “per uno scambio fraterno”, ha riferito la segreteria del Sinodo sui social, “sul processo sinodale della Chiesa italiana”.

 

Parole nuove per comunicare la comunità

Dall’Incontro online dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani spunti e riflessioni per ripensare la comunicazione.

Quale significato ha assunto il termine “comunità” in un mondo globalizzato e allo stesso tempo centrato sull’individuo? Come si può comunicare, senza limitarsi a trasferire delle informazioni? Come restituire corpo e peso alle parole ormai svuotate del loro senso? Come gestire la comunicazione in una situazione di crisi? Liturgia e tecnologia: può una supplenza diventare ordinarietà? Sono solo alcune delle domande che hanno puntellato l’Incontro online “Comunicare una comunità in cammino”, promosso dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, che nei giorni 13, 14 e 15 luglio ha visto la partecipazione dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani, dei corsisti Anicec e di quanti nel territorio, a vario titolo, sono impegnati sul fronte della comunicazione.
Il confronto con alcuni esperti – Nando Pagnoncelli, presidente di Ispos Italia, don Mario Castellano, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale, Silvano Petrosino, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Yago de la Cierva, docente alla Pontificia Università della Santa Croce – ha stimolato la riflessione sulla necessità di ripensare la comunicazione, alla luce di quanto vissuto durante la pandemia e nel contesto attuale dei social media. A partire da un recupero del valore delle parole. “C’è un eccesso di ricorso al termine ‘comunità’, usato con accezioni diverse e spesso anche frainteso”, ha osservato Pagnoncelli che ha invitato rileggere il vocabolo nel rapporto tra “legittime aspirazioni individuali e doveri verso il gruppo”, tra “identità e consapevolezza degli ancoraggi comuni” per poter quindi promuovere una “comunicazione volta a valorizzare la ricchezza delle differenze”. “Bisogna avere il coraggio di abbandonare alcuni termini che non parlano più, individuare gli aspetti essenziali e nuovi modi per comunicarli”, gli ha fatto eco Petrosino per il quale “occorre dare parola alle ‘minuscole’, ossia ai piccoli gesti e al bene quotidiano”.
Del resto, ha ribadito Vincenzo Corrado, direttore dell’Ucs, “la comunicazione è parte integrante della persona e dunque dimensione essenziale dell’evangelizzazione e dell’azione pastorale”. Ecco perché non si può ridurla al suo aspetto tecnico: “l’uso della tecnologia ha permesso a tanti sacerdoti di farsi prossimi, di spezzare la Parola con meditazioni, lectio e catechesi”, ha spiegato don Castellano che tuttavia ha messo in guardia dal rischio di “far diventare ordinario lo straordinario”. “La liturgia – ha rilevato – nutre il corpo e ha bisogno del corpo che diventa via di accesso ad un’esperienza di incontro che trasfigura e risana”.
Nel corso dei lavori, moderati da don Domenico Beneventi, collaboratore dell’Ucs, è emersa più volte la necessità di un ritorno all’essenziale e una comunicazione efficace, in particolare nella sezione dedicata alla gestione delle situazioni di crisi. “Comunicare è una parte indispensabile della risoluzione di un problema, non un optional”, ha affermato de la Cierva, che ha presentato un piano articolato in sei tappe: convocare la squadra, pensare, decidere la posizione e formalizzarla, assumere l’iniziativa e comunicare. “In una situazione di crisi – ha avvertito – il silenzio non funziona”. Servono le parole: quelle giuste. ​
CEI

Venerdì 9 Luglio. Cei, Consiglio permanente straordinario sul Sinodo

I lavori, che si svolgeranno in videoconferenza, prevedono una condivisione sul “cammino sinodale” avviato. Sabato 10 luglio il comunicato finale
Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021

Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021 – Ansa / Ufficio stampa Cei

Avvenire

Il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana torna a riunirsi venerdì mattina in sessione straordinaria per mettere a tema il cammino sinodale della Chiesa in Italia e raccordarlo con la preparazione dell’Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, già iniziata.

Lo ha comunicato una nota dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, diffusa questa mattina. I lavori si svolgeranno in videoconferenza e non è prevista la consueta introduzione del cardinale presidente Gualtiero Bassetti. Ci sarà una condivisione sul “cammino sinodale”, avviato dalla 74ª Assemblea generale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Pontefice.

Il Consiglio Permanente, in base a quanto stabilito dalla mozione votata dall’Assemblea generale, ha «il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea». E probabilmente proprio la costituzione del gruppo di lavoro per il cammino sinodale della Chiesa italiana sarà uno dei temi principali della mattina di lavoro (al momento non è prevista una ripresa pomeridiana, che pure in altre occasioni si è verificata). Ad ogni modo il comunicato finale verrà diffuso sabato mattina.

Come si ricorderà il tema del cammino sinodale della Chiesa in Italia era stato al centro dell’Assemblea generale svoltasi a maggio a Roma. Un cammino, aveva sintetizzato il cardinale Bassetti, per rilanciare l’evangelizzazione ed essere vicini ai problemi concreti della gente.

Sinodo Italia: se non ora, quando?

settimananews

chiesa italiana

«Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).

C’è un tempo per ogni cosa, come sostiene il sapiente della Bibbia (Qo 3). E questo, certo, è il tempo per interrogarsi a fondo sul significato di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il pianeta, a oggi tutt’altro che conclusa.

Ma per la Chiesa che vive in Italia – al pari delle altre Chiese della cattolicità sparse nel mondo intero – è altresì il tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi con una certa speditezza per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro 74ª Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi (si badi: una scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico).

Il titolo programmatico, “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”, è destinato a diventare verosimilmente anche lo slogan del prossimo evento.

L’intera operazione dovrebbe articolarsi in tre fasi nell’arco di un biennio, cominciando a livello diocesano locale nell’ottobre 2021, passando poi al livello nazionale e, di seguito, a quello europeo, previsto per l’ottobre 2023.

Un impegno, va detto da subito, da far tremare i polsi, solo limitandosi a scrutare il piano organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e da sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte dei laici, dei presbiteri, dei vescovi, non sarà per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

La posta in gioco

La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa.

Una generazione che – forse – può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei giovani connazionali probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Credo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su che cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità possibile e sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, com’è capitato in un recente passato (penso a Verona 2006), bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e non di rado ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (inevitabile richiamare l’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita Christoph Theobald che, sulla scorta dei lavori di Danièle Hervieu-Léger, parla dichiaratamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura occidentale).

Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo.

Tutte da riempire, perché ha ragione il vescovo Erio Castellucci, eletto nell’occasione alla vicepresidenza dei vescovi italiani, che ne ha parlato lo scorso 31 maggio in un’intervista a Settimananews: «Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti oggi ammaccati, confusi, oltre che mascherati.

Fedeli allo stile di Gesù

Nei limiti di un intervento che ha l’obiettivo di gettare appena qualche sassolino per agitare acque che ci si augura possano divenire lustrali, vorrei evidenziare tre punti che in questo momento percepisco – da un’angolatura del tutto limitata e periferica – come cruciali per la felice riuscita dell’impresa.

Tre passaggi che contribuirebbero a misurare, fra l’altro, quanto la scelta episcopale sia stata dettata da una convinzione profonda, oppure da una rassegnazione ormai obbligata di fronte all’insistenza del papa: il primo richiamo del quale alla necessità di un sinodo nazionale è ormai di sei anni fa, novembre 2015, a Firenze al quinto convegno della Chiesa italiana…

Per prima cosa, a dispetto della pubblicistica che si pasce di argomenti divisivi e caldi più o meno sentiti, bisognerà avere consapevolezza che il cammino sinodale, se vorrà riuscire, dovrà concentrarsi su questioni di metodo, più che di contenuti (i quali, naturalmente, non mancheranno, come non dovranno mancare le decisioni e gli sguardi di prospettiva, pena ulteriori frustrazioni per ciò che resta del mondo cattolico).

Perché? Perché sinora, come si accennava, salvo benemerite eccezioni, nei sinodi precedenti, la parola d’ordine della sinodalità, del camminare insieme, sia pur proclamata, è rimasta spesso sulla carta; ed è necessario che si passi finalmente dalla carta alla vita.

E che lo si faccia sulla scia dell’unico Maestro possibile e veritiero, Gesù di Nazaret. Ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri, nei vangeli, costituisce un tutt’uno con il suo essere: in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre. Una bellezza che, a saperla guardare, affascina e può ancora affascinare il mondo.

Dallo stile di Gesù emerge la provocazione di un messaggio che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità – sono leggibili come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.

Quando prevale la forma, si produce un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura, dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule alle quali credere, ma priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone.

Gesù, dal canto suo, ha indicato piuttosto un metodo da adottare, la strada di un vangelo capace di apprendimento, e creato uno spazio di libertà attorno a sé comunicando, con la sua sola presenza, una prossimità benefica a tutti quelli che incontrava.

Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, né ovviamente come societas perfecta, bensì quale spazio in cui le persone possono trovare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.

Ogni persona, infatti – quali che siano la sua appartenenza religiosa, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di schiudersi, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione divina propria di ogni religione e di ogni pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna.

In ascolto del popolo di Dio

In seconda battuta, affinché il processo sinodale non si ponga su un binario morto, sarà necessario che esso dia fiducia e prenda sul serio il popolo santo di Dio (con tutte le sue manchevolezze, le nostre manchevolezze, i suoi limiti, le sue fragilità).

Ascoltandolo attentamente in tutte le modalità possibili, ma soprattutto affidandogli, per quanto possibile, la scelta del menu di argomenti da trattare. Cosa che potrà causare delusioni e inciampi, ma che potrebbe anche invece produrre esiti sorprendenti.

Parafrasando papa Francesco nella Gaudete et exsultate, mi verrebbe da dire: prendiamo sul serio i cristiani della porta accanto, quelli semmai affaticati da una quotidianità che costantemente ci rincorre, forse con pochi titoli ma tanta vita da raccontare e da condividere.

Mi torna in mente la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

Insomma, come avrebbe risposto don Tonino Bello: una Chiesa del grembiule. Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducitàfriabilitàprovvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzioneincoerenzasorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura di cifre su quanto pochi siano i seminaristi oggi in Italia o su quanti fedeli non siano più tornati all’eucaristia domenicale dopo il lockdown del 2020.

Potrebbe peraltro rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà.

«La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’esortazione Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà».

L’invito, dunque, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Osare il dialogo

In terzo luogo, coerentemente con quanto detto sinora, c’è da augurarsi che esso scelga di aprirsi, il più possibile. Solo rapportandomi all’altro, posso capire qualcosa di ciò che sono. Coinvolgiamo perciò donne e uomini dotati di professionalità di alto livello, interni ma anche esterni a percorsi ecclesiali, interrogandoli a fondo, e non pro forma, sulla loro percezione della Chiesa, sui problemi e sui futuri immaginabili.

Certo, le istanze delle fedi sono oggi sempre più provocate da un mondo regolato su stili civili, sociali e culturali in cui tanto il bricolage di codici religiosi quanto l’indifferenza verso il divino e una certa banalizzazione del sacro si stanno via via accentuando.

Eppure siamo chiamati, e saremo chiamati ancor più domani, a osare il dialogo, sforzandoci di edificare ponti (e non muri) nella Babele che abitiamo.Tornando alla citata esortazione Evangelii gaudium e ai quattro princìpi che dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune, il primo di essi è: il tempo è superiore allo spazio. Ecco come viene descritto dal papa (citazione lunga, ma vitale):

«Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione.
Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).

C’è di che meditare, in vista dell’ormai imminente cammino sinodale. Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene» (Pirkè Avot 2,18-19).

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?

Natale: Cei, a Messa con autocertificazione in chiesa vicina

 © EPA

Nelle nuove norme per le festività “non ci sono cambiamenti circa la visita ai luoghi di culto e le celebrazioni: entrambe sono sempre permesse, in condizioni di sicurezza e nella piena osservanza delle norme”. Lo riferisce la Cei aggiungendo: “Durante i giorni di ‘zona rossa’ si consiglia ai fedeli di avere con sé un modello di autodichiarazione per velocizzare le eventuali operazioni di controllo”.

I vescovi ricordano anche la Circolare del ministero dell’Interno (7 novembre 2020) che precisa che i luoghi di culto dove ci si può recare “dovranno ragionevolmente essere individuati fra quelli più vicini”.
“Durante i giorni di ‘zona arancione’ – precisa Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei – i fedeli potranno raggiungere liberamente qualsiasi luogo sacro sito nel Comune di residenza, domicilio o abitazione. Se esso ha una popolazione non superiore a 5.000 abitanti è possibile recarsi in chiese situate in altri Comuni che non siano capoluoghi di provincia e distanti non oltre i 30 km”.
(ANSA).