1 settembre. Nella Giornata del Creato la preghiera di 2,2 miliardi di cristiani

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Da oggi per 34 giorni i cristiani di tutto il mondo pregano per rinnovare la propria relazione con Dio e con la Creazione. Parla padre Kureethada (Dicastero per lo sviluppo umano integrale)

Il primo settembre la Giornata per la salvaguardia del Creato

Il primo settembre la Giornata per la salvaguardia del Creato – Archivio Ansa

«Una casa per tutti? Rinnovare l’oikos di Dio». È questo il tema del Tempo del Creato 2021. Da oggi, per trentaquattro giorni, i 2,2 miliardi di cristiani spari per il mondo si uniscono nella preghiera, nella riflessione e nell’impegno comune per rinnovare la propria relazione con Dio e la Creazione. «Oikos» significa sia casa sia famiglia. «La casa è il pianeta – spiega Cecilia Dall’Oglio, direttore dei programmi europei del Movimento Laudato si’ –: e la famiglia siamo noi che lo abitiamo. La crisi climatica mette in pericolo entrambi. La nostra chiamata battesimale ci spinge a rinnovare l’oikos». Il simbolo scelto per questa edizione dell’iniziativa è la “tenda di Abramo”, emblema biblico di accoglienza ed espressione alla chiamata ecumenica all’ospitalità radicale, dando posto a tutti. «Durante questo mese, invitiamo a esporla e a pregare per i più vulnerabili, in particolare per quanti sono costretti ad abbandonare la propria terra a causa del riscaldamento globale. In questo modo, il Tempo del Creato – un kairos per tutti i cristiani – si lega alla Giornata del migrante e del rifugiato del 26 settembre», prosegue Cecilia Dall’Oglio, che rivolge anche un appello a tutti i cattolici affinché si uniscano a papa Francesco nell’alzare una voce profetica per la giustizia ecologica. In tal senso, i fedeli sono invitati a firmare e a far firmare la petizione “per un pianeta sano, persone sane”  Nel testo si chiede ai leader mondiali di adottare misure concrete a tutela della biodiversità e dell’ambiente ai due vertici internazionali in programma questo autunno: la Cop15 in programma in Cina a ottobre e la successiva Cop26 di novembre a Glasgow.

Auguro a tutti noi di vivere questo Tempo del Creato con gli occhi, con il cuore e con i piedi. Con gli occhi, perché possiamo maturare uno sguardo contemplativo sulla natura. Con il cuore, perché riusciamo a sentire il grido della terra che si fa tutt’uno con quello dei poveri. Con i piedi, perché non restiamo fermi, prigionieri dei vecchi paradigmi, ma abbiamo il coraggio di camminare spediti, anzi di correre verso un nuovo orizzonte, più umano. E di farlo insieme». È questo l’auspicio di padre Josh Kureethadam, coordinatore del settore Ecologia e creato del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. L’odierna sedicesima Giornata nazionale per la custodia del Creato (che si collega a quella mondiale di preghiera, istituita da papa Francesco nel 2015) e i trentaquattro giorni successivi dedicati alla riflessione sulla casa comune cadono in un momento cruciale. Qualche settimana fa, 234 esperti, riuniti sotto l’egida dell’Onu nell’International panel on climate change (Ipcc), hanno lanciato un codice rosso al mondo: ancora pochi anni e poi sarà impossibile contrastare il riscaldamento globale. Per evitare il peggio, fra due mesi, inoltre, i leader internazionali saranno chiamati a decidere alla Conferenza Onu sul clima (Cop26) di Glasgow quali azioni concrete intraprendere. «L’angoscia per la situazione ambientale è tanta: siamo sull’orlo dell’abisso – sottolinea padre Josh –. Ma ho anche una forte speranza».

Che cosa le dà speranza?

Ho l’abitudine di recitare ogni giorno il Salmo 127 e mi soffermo spesso sulla frase: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori». La nostra “casa comune” ha un ottimo artefice: Dio. Certo, anche noi dobbiamo essere dei buoni co-giardinieri… È segno di speranza poi che il Tempo del Creato abbia un carattere ecumenico. L’impegno per la cura del Creato è più forte di ogni divisione. Con questo spirito, il 4 ottobre, ci sarà un grande incontro dei leader religiosi in Vaticano.

Eppure, ancora adesso molti cristiani, incluso tanti cattolici, si chiedono che cosa c’entri l’ecologia con la fede…

È alquanto strano. Il cristianesimo non è un vago spiritualismo, è la religione dell’Incarnazione. Il mondo ci riguarda. Le sofferenze dei poveri ci riguardano, perché Cristo si identifica con loro. E tra questi poveri, c’è la nostra casa comune, tanto ferita. Restare indifferenti a questo dolore, significa ignorare il dolore di Gesù.

La strada per attuare una transizione ecologica autentica, e non un semplice slogan, è quella indicata nella Laudato si’. Implica, per prima cosa, vedere crisi ambientale e crisi sociale come un’unica emergenza. Richiede, inoltre, uno sguardo contemplativo sulla realtà: non è semplice materia inerte ma opera palpitante di Dio. I Padri della Chiesa ci ricordavano che il Signore si rivela in due opere: il libro delle parole, ovvero le Scritture, e il libro delle opere, il Creato. A tal fine, è necessario che questi temi diventino parte integrante della formazione, della catechesi, degli studi. L’approccio deve poi essere comunitario. Non possiamo “appaltarlo” solo a politici ed esperti. Siamo “ecclesia”, cioè comunità e come tale dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra casa comune. Tutti, dunque, dobbiamo contribuire a cambiare il paradigma tecnocratico, altrimenti i cambiamenti saranno solo ritocchi cosmetici. Da qui l’impegno per mutare i nostri stili di vita.

Quando si parla di cambiare il paradigma e mutare gli stili di vita, tanti agitano lo spettro della distruzione del sistema economico e di un impoverimento generale. Sono davvero incompatibili economia e ecologia?

È l’esatto contrario. Lo dicono gli esperti e lo vediamo con i nostri occhi: dove la terra soffre, soffrono le popolazioni che la abitano. Ciò non vuol dire che la transizione ecologica non abbia costi. Li ha: tra il 3 e il 5 per cento del Pil mondiale, dicono gli esperti. Il riscaldamento del pianeta ci costa, però, tre o quattro volte tanto: tra il 15 e il 20 per cento del Pil mondiale.

La questione sinodale richiede una ricostruzione storica condivisa che permetta di uscire da alcuni pantani ecclesiali che sembrano oggi ineluttabili

Non ho la possibilità di rispondere puntualmente alle riflessioni qui svolte da Sergio Ventura a partire dalla mia rubrica su Jesus dello scorso luglio. Provo tuttavia a reagire in spirito di dialogo.

Accostare due sinodi così lontani è chiaramente una provocazione che, in quanto tale, resta precaria e fragile. L’intento era unirmi a coloro che avvertono urgente la necessità di una narrazione di parresìa sui decenni coincisi con le presidenze della CEI del card. Ruini e dei suoi immediati successori (a scanso di equivoci, «parresìa» non è qui da intendersi come «grande sincerità e coraggio individuali», ma nel senso molto più complesso che Andrea Grillo ha ben spiegato qui).

Non sono uno storico, ma occupandomi di teologia, posso riconoscere come non esista quasi nessun tema di grande attualità per la Chiesa italiana che non si trovi a dover fare i conti con quanto è successo negli ultimi quarant’anni, su cui è tuttavia difficile una narrazione condivisa. Trattando ad esempio del tema «teologia e cultura», due anni fa scrivevo insieme alla prof.ssa Stella Morra che:

«a metà degli anni ’80, la Conferenza Episcopale Italiana, su richiesta esplicita di papa Giovanni Paolo II, insistette molto sulla promozione di alcuni valori identitari, intorno cui costruire un profilo riconoscibile del cristiano cattolico italiano. Tali intenti trovarono una concretizzazione esplicita in una serie di iniziative sfociate nel Progetto Culturale della fine degli anni ’90. Lo scopo dichiarato era strutturare su valori o principi – che poi avrebbero trovato nei documenti magisteriali la qualifica di «non negoziabili» – una sorta di scheletro culturale del popolo di Dio. Esso, tuttavia, ha creato una situazione di conflitto – per certi versi diremmo inevitabile – che la chiesa italiana non aveva mai vissuto con questi toni, a differenza di altri paesi vicini come la Francia. La forte polarizzazione che ne è scaturita – anche all’interno della chiesa stessa – ha portato a una sconfitta di tutte le parti: abbiamo infatti quasi completamente rigettato una matrice popolare senza tuttavia conquistarne altre, consumandoci in scontri duri e spesso sterili» (Incantare le Sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, 234).

Questo embrionale tentativo di valutazione – molto più articolati sono ad esempio i saggi di Sorge giustamente citati da Ventura, o gli studi di De Rita – non vuole essere un giudizio di valore sull’operato dei singoli, sui quali ci sembra pleonastico ricordare che tra cristiani vale sempre l’attribuzione delle migliori intenzioni e il riconoscimento dell’assunzione di responsabilità in spirito di servizio, quanto piuttosto una ricostruzione che permetta di uscire da alcuni pantani in cui oggi vige quasi una sensazione di ineluttabilità, più che di immobilismo. Pur riconoscendo ai protagonisti del tempo la loro retta intenzione e la bontà di alcune scelte, penso che oggi sia evidente come i prezzi pagati siano stati molto alti. E non solo per la «cultura», ma anche per molti altri campi dell’evangelizzazione.

Faccio un altro esempio. Negli stessi anni del testo che evocavo nel pezzo su Jesus, il prof. Severino Dianich avvertiva che interpretare la «missione» nel senso del «compito pastorale» – come poi è stato spesso fatto – avrebbe portato inevitabilmente a una «strozzatura individualistica, soprattutto quando missione e compito pastorale restano determinati da un’ecclesiologia della struttura invece che dell’evento, da una teologia della chiesa nella quale, in maniera esplicita o nascosta, si pensa la chiesa esistente quando esiste il suo apparato sociale, dal quale essenzialmente emana la sua operosità, e non quando esiste il fatto comunionale come principio del suo agire. […] Se alla chiesa “piantata” resta da svolgere un compito pastorale che non è la missione, il suo problema principale non è più quello del rapporto con il mondo, ma quello della salvezza dei singoli cristiani. Il problema del rapporto con il mondo, dalla grande questione dell’impatto del vangelo con la storia si riduce alla piccola questione della rivalità fra la chiesa e lo stato, e della distribuzione delle competenze fra autorità religiosa e civile nella determinazione della vita pubblica dei cittadini. Succede così che si ha una chiesa decisamente apolitica alla base e una chiesa fortemente politicizzata al vertice: l’abbondantissima letteratura sul problema chiesa-stato, dove la chiesa non è la comunità cristiana ma solo la gerarchia, e dove lo stato non è la comunità civile ma la sua organizzazione nelle strutture dell’autorità, testimonia della grave restrizione di interessi nella quale una simile teologia prima o poi va a finire» (Chiesa estroversa, San Paolo, Cinisello Balsamo 20182, 133-134. [ed. or. 1987]) [1].

Era il 1987. Internet era fantascienza e il delitto d’onore era stato abrogato da solo 6 anni. Ma i grandi teologi hanno questo di bello, che vedono lontano. E i loro insegnamenti sono qualcosa cui si può tornare. A patto ovviamente che la storia sia raccontata tutta e, in quegli anni, la posizione di Dianich non fu certo tra le più ascoltate.

Tornare alla dignità del sacerdozio battesimale, vivere senza paura l’ecumenismo, riconoscere le questioni di genere, ridare slancio al movimento liturgico, stare dalla parte dei poveri anche quando non è comodo, affrontare il conflitto imparando la fraternità: l’elenco potrebbe continuare, ma questi temi non vanno interpretati come i singoli campi di battaglia in cui oggi dobbiamo entrare per sconfiggere l’avversario di turno (fuori e dentro la chiesa), quanto piuttosto le direttrici della forma che la chiesa italiana prenderà nel prossimo futuro. Questa prospettiva si acquisisce, a mio giudizio, assumendo anche un valido punto di vista storico, di cui abbiamo necessità urgente.
vinonuovo.it

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Città del Vaticano, 23 lug. (askanews) – Il Segretario del Sinodo, cardinale Mario Grech, ha ricevuto il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, in vista del “cammino sinodale” italiano, sintomo di un’accelerazione del lavoro per una convergenza tra il sinodo nazionale e quello mondiale.
La Segreteria del Sinodo, che ha fisicamente luogo in Vaticano, organizza, da quando Paolo VI nell’immediato post-concilio creò questa istituzione, le assemblee sinodali generali, ordinarie o straordinarie, che radunano periodicamente a Roma vescovi da tutto il mondo o da alcune macro aree geografiche per discutere, e deliberare, su alcune specifiche questioni, sulle quali poi il papa, pastore universale, si esprime con una esortazione apostolica (che non necessariamente, come è accaduto a valle del sinodo panamazzonico, sostituisce il documento finale approvato con votazione dai padri sinodali).

Altro sono i sinodi (o percorsi sinodali, o cammini sinodali, o concili plenari) nazionali: che, in particolare sotto Francesco, si sono moltiplicati, ma restano iniziative confinate alle Chiese nazionali: Germania, Irlanda, Australia, Italia…
Se alcuni di questi sinodi sono partiti a spron battuto, come quello tedesco, fino a sollevare a Roma una qualche apprensione per il rischio di fughe in avanti di natura dottrinale, altri, come quello italiano, è sembrato stentare a prendere il via, con il papa che è più volte intervenuto, personalmente o tramite i suoi emissari, per sollecitare l’episcopato a fare il fatale passo di aprire un cammino sinodale. Alla fine, all’ultima assemblea plenaria dei vescovi, in primavera, la Cei ha annunciato che in autunno partirà tale processo.

Nel frattempo, però, il papa ha annunciato che sempre il prossimo autunno prenderà le mosse una consultazione globale del “popolo di Dio”, che dovrà coinvolgere i fedeli, le diocesi, gli episcopati di tutto il mondo, per sfociare in una assemblea generale da celebrare nell’autunno del 2023.
I due piani, così, quello dell’assemblea sinodale mondiale e quello dei singoli sinodi nazionali inevitabilmente si intrecciano. E lo stesso Francesco ha consigliato ad esempio al presidente della conferenza episcopale tedesca Georg Baetzing, ricevuto lo scorso 24 giugno, di “continuare sulla strada sinodale” intrapresa, “discutere apertamente e onestamente le questioni in gioco” e “giungere a raccomandazioni per un mutato agire della Chiesa”, ha riferito lo stesso vescovo di Limburgo, ma “allo stesso tempo, ha chiesto che la Chiesa in Germania contribuisse a plasmare il cammino della sinodalità che egli ha proclamato in vista del Sinodo dei Vescovi nel 2023”. Dunque procedere nel sinodo nazionale, ma poi convergere nel sinodo globale.

Qualcosa di analogo avviene ora con il “cammino sinodale” italiano. I contatti, le interconnessioni sono notevoli: il papa, ad esempio, ha recentemente nominato il vescovo di Modena-Nonantola-Carpi Erio Castellucci, da poco vicepresidente della Cei, tra i membri della segreteria del sinodo, e lo stesso Castellucci è stato nominato nei giorni scorsi, insieme a monsignor Pierangelo Sequeri, preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, e a padre Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali nonché figura-chiave nelle ultime due assemblee sinodali generali (giovani e Amazzonia) nel “comitato consultivo di orientamento” della prossima assemblea. Ora, però, Grech ha ricevuto direttamente il presidente della Cei, card. Bassetti, “per uno scambio fraterno”, ha riferito la segreteria del Sinodo sui social, “sul processo sinodale della Chiesa italiana”.

 

Parole nuove per comunicare la comunità

Dall’Incontro online dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani spunti e riflessioni per ripensare la comunicazione.

Quale significato ha assunto il termine “comunità” in un mondo globalizzato e allo stesso tempo centrato sull’individuo? Come si può comunicare, senza limitarsi a trasferire delle informazioni? Come restituire corpo e peso alle parole ormai svuotate del loro senso? Come gestire la comunicazione in una situazione di crisi? Liturgia e tecnologia: può una supplenza diventare ordinarietà? Sono solo alcune delle domande che hanno puntellato l’Incontro online “Comunicare una comunità in cammino”, promosso dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, che nei giorni 13, 14 e 15 luglio ha visto la partecipazione dei direttori e collaboratori degli uffici diocesani, dei corsisti Anicec e di quanti nel territorio, a vario titolo, sono impegnati sul fronte della comunicazione.
Il confronto con alcuni esperti – Nando Pagnoncelli, presidente di Ispos Italia, don Mario Castellano, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale, Silvano Petrosino, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Yago de la Cierva, docente alla Pontificia Università della Santa Croce – ha stimolato la riflessione sulla necessità di ripensare la comunicazione, alla luce di quanto vissuto durante la pandemia e nel contesto attuale dei social media. A partire da un recupero del valore delle parole. “C’è un eccesso di ricorso al termine ‘comunità’, usato con accezioni diverse e spesso anche frainteso”, ha osservato Pagnoncelli che ha invitato rileggere il vocabolo nel rapporto tra “legittime aspirazioni individuali e doveri verso il gruppo”, tra “identità e consapevolezza degli ancoraggi comuni” per poter quindi promuovere una “comunicazione volta a valorizzare la ricchezza delle differenze”. “Bisogna avere il coraggio di abbandonare alcuni termini che non parlano più, individuare gli aspetti essenziali e nuovi modi per comunicarli”, gli ha fatto eco Petrosino per il quale “occorre dare parola alle ‘minuscole’, ossia ai piccoli gesti e al bene quotidiano”.
Del resto, ha ribadito Vincenzo Corrado, direttore dell’Ucs, “la comunicazione è parte integrante della persona e dunque dimensione essenziale dell’evangelizzazione e dell’azione pastorale”. Ecco perché non si può ridurla al suo aspetto tecnico: “l’uso della tecnologia ha permesso a tanti sacerdoti di farsi prossimi, di spezzare la Parola con meditazioni, lectio e catechesi”, ha spiegato don Castellano che tuttavia ha messo in guardia dal rischio di “far diventare ordinario lo straordinario”. “La liturgia – ha rilevato – nutre il corpo e ha bisogno del corpo che diventa via di accesso ad un’esperienza di incontro che trasfigura e risana”.
Nel corso dei lavori, moderati da don Domenico Beneventi, collaboratore dell’Ucs, è emersa più volte la necessità di un ritorno all’essenziale e una comunicazione efficace, in particolare nella sezione dedicata alla gestione delle situazioni di crisi. “Comunicare è una parte indispensabile della risoluzione di un problema, non un optional”, ha affermato de la Cierva, che ha presentato un piano articolato in sei tappe: convocare la squadra, pensare, decidere la posizione e formalizzarla, assumere l’iniziativa e comunicare. “In una situazione di crisi – ha avvertito – il silenzio non funziona”. Servono le parole: quelle giuste. ​
CEI

Venerdì 9 Luglio. Cei, Consiglio permanente straordinario sul Sinodo

I lavori, che si svolgeranno in videoconferenza, prevedono una condivisione sul “cammino sinodale” avviato. Sabato 10 luglio il comunicato finale
Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021

Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021 – Ansa / Ufficio stampa Cei

Avvenire

Il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana torna a riunirsi venerdì mattina in sessione straordinaria per mettere a tema il cammino sinodale della Chiesa in Italia e raccordarlo con la preparazione dell’Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, già iniziata.

Lo ha comunicato una nota dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, diffusa questa mattina. I lavori si svolgeranno in videoconferenza e non è prevista la consueta introduzione del cardinale presidente Gualtiero Bassetti. Ci sarà una condivisione sul “cammino sinodale”, avviato dalla 74ª Assemblea generale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Pontefice.

Il Consiglio Permanente, in base a quanto stabilito dalla mozione votata dall’Assemblea generale, ha «il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea». E probabilmente proprio la costituzione del gruppo di lavoro per il cammino sinodale della Chiesa italiana sarà uno dei temi principali della mattina di lavoro (al momento non è prevista una ripresa pomeridiana, che pure in altre occasioni si è verificata). Ad ogni modo il comunicato finale verrà diffuso sabato mattina.

Come si ricorderà il tema del cammino sinodale della Chiesa in Italia era stato al centro dell’Assemblea generale svoltasi a maggio a Roma. Un cammino, aveva sintetizzato il cardinale Bassetti, per rilanciare l’evangelizzazione ed essere vicini ai problemi concreti della gente.

Sinodo Italia: se non ora, quando?

settimananews

chiesa italiana

«Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).

C’è un tempo per ogni cosa, come sostiene il sapiente della Bibbia (Qo 3). E questo, certo, è il tempo per interrogarsi a fondo sul significato di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il pianeta, a oggi tutt’altro che conclusa.

Ma per la Chiesa che vive in Italia – al pari delle altre Chiese della cattolicità sparse nel mondo intero – è altresì il tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi con una certa speditezza per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro 74ª Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi (si badi: una scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico).

Il titolo programmatico, “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”, è destinato a diventare verosimilmente anche lo slogan del prossimo evento.

L’intera operazione dovrebbe articolarsi in tre fasi nell’arco di un biennio, cominciando a livello diocesano locale nell’ottobre 2021, passando poi al livello nazionale e, di seguito, a quello europeo, previsto per l’ottobre 2023.

Un impegno, va detto da subito, da far tremare i polsi, solo limitandosi a scrutare il piano organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e da sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte dei laici, dei presbiteri, dei vescovi, non sarà per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

La posta in gioco

La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa.

Una generazione che – forse – può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei giovani connazionali probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Credo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su che cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità possibile e sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, com’è capitato in un recente passato (penso a Verona 2006), bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e non di rado ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (inevitabile richiamare l’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita Christoph Theobald che, sulla scorta dei lavori di Danièle Hervieu-Léger, parla dichiaratamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura occidentale).

Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo.

Tutte da riempire, perché ha ragione il vescovo Erio Castellucci, eletto nell’occasione alla vicepresidenza dei vescovi italiani, che ne ha parlato lo scorso 31 maggio in un’intervista a Settimananews: «Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti oggi ammaccati, confusi, oltre che mascherati.

Fedeli allo stile di Gesù

Nei limiti di un intervento che ha l’obiettivo di gettare appena qualche sassolino per agitare acque che ci si augura possano divenire lustrali, vorrei evidenziare tre punti che in questo momento percepisco – da un’angolatura del tutto limitata e periferica – come cruciali per la felice riuscita dell’impresa.

Tre passaggi che contribuirebbero a misurare, fra l’altro, quanto la scelta episcopale sia stata dettata da una convinzione profonda, oppure da una rassegnazione ormai obbligata di fronte all’insistenza del papa: il primo richiamo del quale alla necessità di un sinodo nazionale è ormai di sei anni fa, novembre 2015, a Firenze al quinto convegno della Chiesa italiana…

Per prima cosa, a dispetto della pubblicistica che si pasce di argomenti divisivi e caldi più o meno sentiti, bisognerà avere consapevolezza che il cammino sinodale, se vorrà riuscire, dovrà concentrarsi su questioni di metodo, più che di contenuti (i quali, naturalmente, non mancheranno, come non dovranno mancare le decisioni e gli sguardi di prospettiva, pena ulteriori frustrazioni per ciò che resta del mondo cattolico).

Perché? Perché sinora, come si accennava, salvo benemerite eccezioni, nei sinodi precedenti, la parola d’ordine della sinodalità, del camminare insieme, sia pur proclamata, è rimasta spesso sulla carta; ed è necessario che si passi finalmente dalla carta alla vita.

E che lo si faccia sulla scia dell’unico Maestro possibile e veritiero, Gesù di Nazaret. Ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri, nei vangeli, costituisce un tutt’uno con il suo essere: in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre. Una bellezza che, a saperla guardare, affascina e può ancora affascinare il mondo.

Dallo stile di Gesù emerge la provocazione di un messaggio che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità – sono leggibili come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.

Quando prevale la forma, si produce un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura, dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule alle quali credere, ma priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone.

Gesù, dal canto suo, ha indicato piuttosto un metodo da adottare, la strada di un vangelo capace di apprendimento, e creato uno spazio di libertà attorno a sé comunicando, con la sua sola presenza, una prossimità benefica a tutti quelli che incontrava.

Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, né ovviamente come societas perfecta, bensì quale spazio in cui le persone possono trovare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.

Ogni persona, infatti – quali che siano la sua appartenenza religiosa, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di schiudersi, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione divina propria di ogni religione e di ogni pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna.

In ascolto del popolo di Dio

In seconda battuta, affinché il processo sinodale non si ponga su un binario morto, sarà necessario che esso dia fiducia e prenda sul serio il popolo santo di Dio (con tutte le sue manchevolezze, le nostre manchevolezze, i suoi limiti, le sue fragilità).

Ascoltandolo attentamente in tutte le modalità possibili, ma soprattutto affidandogli, per quanto possibile, la scelta del menu di argomenti da trattare. Cosa che potrà causare delusioni e inciampi, ma che potrebbe anche invece produrre esiti sorprendenti.

Parafrasando papa Francesco nella Gaudete et exsultate, mi verrebbe da dire: prendiamo sul serio i cristiani della porta accanto, quelli semmai affaticati da una quotidianità che costantemente ci rincorre, forse con pochi titoli ma tanta vita da raccontare e da condividere.

Mi torna in mente la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

Insomma, come avrebbe risposto don Tonino Bello: una Chiesa del grembiule. Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducitàfriabilitàprovvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzioneincoerenzasorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura di cifre su quanto pochi siano i seminaristi oggi in Italia o su quanti fedeli non siano più tornati all’eucaristia domenicale dopo il lockdown del 2020.

Potrebbe peraltro rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà.

«La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’esortazione Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà».

L’invito, dunque, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Osare il dialogo

In terzo luogo, coerentemente con quanto detto sinora, c’è da augurarsi che esso scelga di aprirsi, il più possibile. Solo rapportandomi all’altro, posso capire qualcosa di ciò che sono. Coinvolgiamo perciò donne e uomini dotati di professionalità di alto livello, interni ma anche esterni a percorsi ecclesiali, interrogandoli a fondo, e non pro forma, sulla loro percezione della Chiesa, sui problemi e sui futuri immaginabili.

Certo, le istanze delle fedi sono oggi sempre più provocate da un mondo regolato su stili civili, sociali e culturali in cui tanto il bricolage di codici religiosi quanto l’indifferenza verso il divino e una certa banalizzazione del sacro si stanno via via accentuando.

Eppure siamo chiamati, e saremo chiamati ancor più domani, a osare il dialogo, sforzandoci di edificare ponti (e non muri) nella Babele che abitiamo.Tornando alla citata esortazione Evangelii gaudium e ai quattro princìpi che dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune, il primo di essi è: il tempo è superiore allo spazio. Ecco come viene descritto dal papa (citazione lunga, ma vitale):

«Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione.
Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).

C’è di che meditare, in vista dell’ormai imminente cammino sinodale. Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene» (Pirkè Avot 2,18-19).

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?

Natale: Cei, a Messa con autocertificazione in chiesa vicina

 © EPA

Nelle nuove norme per le festività “non ci sono cambiamenti circa la visita ai luoghi di culto e le celebrazioni: entrambe sono sempre permesse, in condizioni di sicurezza e nella piena osservanza delle norme”. Lo riferisce la Cei aggiungendo: “Durante i giorni di ‘zona rossa’ si consiglia ai fedeli di avere con sé un modello di autodichiarazione per velocizzare le eventuali operazioni di controllo”.

I vescovi ricordano anche la Circolare del ministero dell’Interno (7 novembre 2020) che precisa che i luoghi di culto dove ci si può recare “dovranno ragionevolmente essere individuati fra quelli più vicini”.
“Durante i giorni di ‘zona arancione’ – precisa Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei – i fedeli potranno raggiungere liberamente qualsiasi luogo sacro sito nel Comune di residenza, domicilio o abitazione. Se esso ha una popolazione non superiore a 5.000 abitanti è possibile recarsi in chiese situate in altri Comuni che non siano capoluoghi di provincia e distanti non oltre i 30 km”.
(ANSA).

Online i sussidi per l’Avvento

È online, all’indirizzo https://liturgico.chiesacattolica.it/camminiamo-nella-speranza-fratelli-tutti-55-2/, il sussidio liturgico–pastorale dedicato al tempo di Avvento– Natale. Il sussidio è suddiviso in tre parti per agevolarne l’uso. L’intento è offrire un’occasione di riflessione e, con discrezione e sobrietà, accompagnare la preghiera della comunità ecclesiale, nel desiderio di potersi trovare riunita a celebrare. Si vuole altresì accompagnare la preghiera in casa, sostenendo la fede delle nostre famiglie e nutrendo la carità come espressione conseguente e spontanea di una vita alimentata dalla Parola e dal Pane di Vita. Le proposte di preghiera per le famiglie rimandano ad un link con indicazioni, letture e attività per favorire la preghiera con bambini piccoli o ragazzi con disabilità intellettiva, a cura dell’Ufficio per la pastorale delle persone con disabilità. Nel sito dell’Ufficio liturgico nazionale è disponibile un file pdf per la stampa e uno con i file audio dei canti consigliati, per favorire, mediante l’ascolto, la preghiera e la meditazione

Dalla prima Domenica di Avvento la nuova edizione del volume sarà utilizzata nella maggioranza delle parrocchie italiane

In attesa del «nuovo» messale. Come accogliere la terza edizione italiana del Messale Romano

Dalla prima Domenica di Avvento la nuova edizione del volume sarà utilizzata nella maggioranza delle parrocchie italiane. Il cardinale Bassetti: molti gli arricchimenti e con un linguaggio attuale

Una Messa al tempo del Covid

Una Messa al tempo del Covid – Ansa

Avvenire

È un libro in cui entra l’«esperienza maturata nelle nostre Chiese particolari», che contiene «arricchimenti» da scoprire passo dopo passo e che soprattutto vuole essere «maggiormente rispondente al linguaggio e alle situazioni pastorali delle nostre comunità». Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, riassume in maniera efficace lo “spirito” del nuovo Messale Romano in italiano che da domenica prossima, prima Domenica d’Avvento e inizio dell’Anno liturgico, sarà sugli altari della maggioranza delle parrocchie della Penisola. Lo scrive in apertura del volume, nella disposizione dove stabilisce che sarà obbligatorio usarlo dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021.

Sarebbe, comunque, riduttivo considerare il rinnovato libro per celebrare l’Eucaristia soltanto una «raccolta di testi da comprendere e proclamare». Perché la liturgia è «luogo privilegiato di trasmissione dell’autentica tradizione della Chiesa e di accesso ai misteri della fede, in un collegamento sempre più stretto con le diverse dimensioni della vita», si legge nell’introduzione al volume firmata dalla Cei. Quanto si celebra deve tradursi in vita, in «impegno quotidiano», chiarisce. Infatti nella Messa si «mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito» e il Messale «indica anche gesti da porre in atto e valorizzare» con cui «si è coinvolti nel mistero celebrato», ricorda la Cei. Del resto, il culto liturgico «non è anzitutto una dottrina» ma «sorgente di vita e di luce per il nostro cammino di fede».

 

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei – Avvenire

 

Il libro è anche segno di «unità della Chiesa orante». Quindi, ammonisce la Conferenza episcopale, il sacerdote non deve «togliere o aggiungere alcunché di propria iniziativa». E avverte: la «superficiale propensione a costruirsi una liturgia a propria misura» non solo «pregiudica la verità della celebrazione ma arreca anche una ferita alla comunione ecclesiale». Poi ricorda le parole pronunciate da Paolo VI alla vigilia dell’entrata in vigore del Messale Romano riformato dal Concilio: no a tendenze che possano «costituire una fuga, una rottura; e perciò uno scandalo, una rovina». Tuttavia la Cei consente «opportune e brevi monizioni», ossia spiegazioni durante il rito. Con un’accortezza però: la «parola umana non soffochi l’efficacia della Parola di Dio e del gesto liturgico». Insomma, non bisogna esagerare. Perché tutto ciò mina la «nobile semplicità» della liturgia che deve essere «insieme seria» e «bella». Inoltre non va dimenticato che il Messale offre «diverse possibilità di scelta e di adattamento» che non necessitano di ulteriori integrazioni.

I vescovi spiegano le novità del volume: dalla traduzione revisionata ai nuovi formulari, soprattutto i prefazi; dall’aggiornamento delle agiografie nel Proprio dei santi all’utilizzo dei testi biblici secondo l’ultima traduzione della Scrittura approvata nel 2007. La Cei chiarisce che «nessuna modifica è stata introdotta nelle risposte e nelle acclamazioni del popolo». Con tre eccezioni: il Gloria e il Padre Nostro che sono stati rivisti recependo la più recente versione della Bibbia; e il Confesso con la formula inclusiva «fratelli e sorelle». Ampio spazio viene riservato al canto che l’introduzione definisce «non mero elemento ornamentale ma parte necessaria e integrante della liturgia solenne». Da qui la scelta di inserire «nel corpo del testo» del Messale «alcune melodie che si rifanno alle formule gregoriane» della precedente edizione del libro datata 1983.

 

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei

Il nuovo Messale Romano in italiano promosso dalla Cei – Avvenire

 

Benché «la migliore catechesi sull’Eucaristia sia la stessa Eucaristia ben celebrata», l’episcopato italiano incoraggia «un’azione pastorale tesa a valorizzare la conoscenza e il buon utilizzo del libro liturgico». Se il Messale rimane «il primo ed essenziale strumento» per «la celebrazione dei misteri», è anche il «fondamento più solido di un’efficace catechesi liturgica». Ecco il richiamo a una «conoscenza attenta e partecipe» che va favorita nelle parrocchie. Nell’introduzione la Cei sottolinea inoltre che la liturgia è «scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto» e permette al credente di «imparare a “gustare com’è buono il Signore”». Per questo le Commissioni liturgiche diocesane o regionali sono chiamate a lanciare alleanze formative con famiglie, parrocchie, associazioni, movimenti o gruppi ecclesiali.
Le nozze dell’agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale

Infine i vescovi tengono a ricordare che il Messale di Paolo VI, di cui questa edizione della Cei è la terza tradotta in italiano, rappresenta «uno dei fulcri portanti» della riforma liturgica scaturita dal Vaticano II che è «ormai irreversibile». Una riforma che non va ripensata «rivedendone le scelte» ma della quale occorre «conoscere meglio le ragioni sottese». E il Messale lo permette in maniera potente.

Il Sussidio Cei sul Messale per aiutare le parrocchie ad accoglierlo

 

«Un Messale per le nostre assemblee» è il titolo del sussidio Cei predisposto dall’Ufficio liturgico nazionale e dall’Ufficio catechistico nazionale che vuole accompagnare l’arrivo della terza edizione italiana del Messale Romano nelle parrocchie del Paese. Uno strumento per permettere a sacerdoti, animatori liturgici e catechisti ma anche a tutti i fedeli di conoscere meglio il libro liturgico e metterne in atto tutte le potenzialità. Il Sussidio, nato su richiesta del Consiglio episcopale permanente, vuole favorire l’accoglienza del volume e suggerire itinerari di formazione per celebrare e vivere meglio l’Eucaristia. Il testo può essere scaricato dalla pagina dell’Ufficio liturgico del sito della Cei.

VIA LE MASCHERINE PER GLI SPOSI SULL’ALTARE. LO HA DECISO LA CEI. GUANTI NON PIÙ OBBLIGATORI PER COMUNIONE

Cade già da oggi l’obbligo per gli sposi di indossare la mascherina al momento della celebrazione del matrimonio. Resta invece per il sacerdote l’indicazione di proteggere le vie respiratorie e di mantenere la distanza di almeno un metro dagli sposi. A riferire la novità è la Conferenza Episcopale Italiana. Il Comitato Tecnico Scientifico, interpellato dal Viminale, osserva che, “non potendo certamente essere considerati estranei tra loro, i coniugi possano evitare di indossare le mascherine, con l’accortezza che l’officiante mantenga l’uso del dispositivo e rispetti il distanziamento fisico di almeno un metro”.

ansa

Ministero dell’Istruzione e Conferenza episcopale italiana per la definizione dell’intesa sul prossimo concorso per gli insegnanti di religione, previsto dal decreto scuola

Al via il Tavolo di lavoro congiunto tra il ministero dell’Istruzione (Mi) e la Conferenza episcopale italiana (Cei) per l’approfondimento delle diverse tematiche che riguardano l’insegnamento della religione cattolica e per la definizione dell’intesa sul prossimo concorso per gli insegnanti di religione previsto dal decreto scuola approvato lo scorso dicembre.

Questa mattina si è svolta la prima riunione, in un clima di assoluta collaborazione, alla presenza di rappresentanti del Ministero e della Conferenza episcopale. Il Tavolo è presieduto dalla dottoressa Lucrezia Stellacci, consigliere della Ministra Lucia Azzolina.

Il concorso sarà bandito entro il 2020. Dovrà essere però preceduto, come previsto dal decreto di dicembre, da un’intesa tra Mi e Cei.

Il Tavolo seguirà l’iter dell’intesa con l’obiettivo di chiuderla in breve tempo e procedere poi con la stesura del bando. Ciò consentirà al Ministero di procedere con l’emanazione del bando di concorso nei tempi previsti per coprire i posti per l’insegnamento di Religione Cattolica che risulteranno vacanti e disponibili nell’arco del prossimo triennio. Resta fermo quanto previsto dal decreto di dicembre circa lo scorrimento delle graduatorie generali di merito del precedente concorso.

da Avvenire

Giornata nazionale di sensibilizzazione 2019. A cosa sono destinati i fondi dell’8xmille?

Trasparenza e informazione al centro Giornata nazionale di sensibilizzazione sull’8xmille, domenica 19 maggio. Nelle 25mila parrocchie italiane sacerdoti, volontari, incaricati diocesani per il sovvenire e componenti del Consiglio affari economici inviteranno le comunità a scoprire da dove vengono i fondi che hanno dato man forte nell’ultimo anno alla missione della Chiesa, a documentarsi sulla stampa diocesana e sui media nazionali, oltre che a riconfermare la firma anche nel 2019. Nelle chiese, dove sono già affisse le locandine della Giornata e della campagna nazionale di comunicazione “C’è un Paese”, verranno distribuiti pieghevoli informativi, che danno conto di dove trovare bilanci diocesani e rendiconti nazionali. Dal sito 8xmille.it dove la documentazione è disponibile tutto l’anno, alla pubblicazione sui principali quotidiani nazionali, fino alla “Mappax8mille”, consultabile sullo stesso sito istituzionale, che ‘geolocalizza’ il bene realizzato per regione, provincia e comune, spesso anche con foto e video.

Anche quest’anno gli animatori della Giornata nazionale 8xmille ricorderanno a tutti i titolari dei modelli fiscali che la firma è un diritto importante da esercitare.

L’invito è soprattutto rivolto ai titolari di modelli fiscali Cu, per lo più pensionati, che oggi non sono più obbligati a consegnare la dichiarazione e spesso rinunciano a firmare.

Molte parrocchie hanno da anni attivato un servizio ‘consegna-Cu’ che dà una mano riducendo gli oneri burocratici e recapitando per conto dei contribuenti agli uffici postali, in busta chiusa e con una ricevuta, le schede con la scelta 8xmille.

Un invito a conoscere il bene realizzato per riconfermare la firma anche nel 2019. La Giornata nazionale per la sensibilizzazione alla firma 8xmille punta anche a diffondere nelle comunità gli strumenti per orientarsi nella rendicontazione. A partire dalla ripartizione delle risorse nazionali da parte della Conferenza episcopale italiana. Lo scorso anno, in base alle indicazioni dei cittadini che le hanno destinato quest’importante quota Irpef, la Chiesa cattolica ha potuto ripartire i fondi ricevuti secondo le tre grandi direttrici ‘culto e pastorale’ (356 milioni di euro), sostentamento dei 34mila sacerdoti diocesani compresi circa 500 missionari nel Terzo mondo (367 milioni di euro) e progetti caritativi in Italia e all’estero (275 milioni di euro).
Nella prima voce sono comprese risorse destinate alla formazione dei catechisti, ai seminari e alle facoltà teologiche, ai restauri che tramandano fede e cultura, alla manutenzione delle strutture diocesane, all’accessibilità dei tribunali ecclesiastici con tariffe contenute, alla costruzione di nuovi spazi parrocchiali.

La seconda voce è invece ispirata al modello di Chiesa-comunione ribadito dal Concilio Vaticano II e ispirato al modello delle prime comunità cristiane, dove i presbiteri erano affidati ai fedeli. In questa quota sono compresi anche i preti ormai anziani o malati (circa 3mila) che dopo una vita di servizio vengono accolti e curati nelle case religiose diocesane. Infine la terza direttrice –l’azione caritativa- oggi assicura progetti nelle diocesi che vanno dalle mense alle case-famiglia, dal Progetto Policoro (il piano anti-disoccupazione della Chiesa italiana che forma i giovani all’autoimprenditorialità, dotato di 1,7 milioni di euro annui dall’8xmille, finora ha dato vita ad oltre 700 cooperative) alla Consulta nazionale anti-usura. Nei Paesi in via di sviluppo, i fondi Cei hanno significato interventi di promozione umana (dalle scuole agli ospedali), di formazione di medici e insegnanti, la promozione dei corridoi umanitari, oltre al soccorso nelle emergenze umanitari e ambientali.

agensir

On line. La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

In occasione della Festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e della stampa cattolica, è stata pubblicata la nuova App della Conferenza episcopale italiana: “App CEI“. L’applicazione è composta da sette sezioni con una navigazione aiutata da un’interfaccia semplice, funzionale per chi usa lo smartphone ma anche il tablet. L’App è caratterizzata da una grafica che non appesantisce la navigazione dell’utente e da una top bar stilizzata.

La prima delle sette sezioni è “CEInews” a cui l’utente approda una volta avviata l’app. Qui è possibile leggere le informazioni del portale www.ceinews.it on line da maggio 2018 con i rilanci ai media collegati alla Conferenza Episcopale Italiana (Avvenire, Agenzia Sir, Tv2000, inBlu Radio) grazie alle “card” a scorrimento orizzontale.

Nella sezione MyCei è possibile selezionare gli argomenti preferiti per leggere le ultime notizie grazie a canali tematici, come giovani o bioetica, oppure associazioni… La sezione “Chiesa Cattolica” attinge le notizie dal sito chiesacattolica.it. La sezione “Agenda” riprende i contenunti presenti sul sito chiesacattolica.it. In più la sezione offre la possibilità di navigare sugli appuntamenti della settimana, presentandoli sotto forma di timeline.

La sezione “Nomine” è caratterizzata dall’elenco di tutte le nomine dei vescovi, con riferimento al giorno e al luogo mentre la sezione “catalogo App” aggrega tutte le App della CEI con l’opportunità di accedere direttamente al relativo store. La sezione “impostazioni” offre all’utente la possibilità di personalizzare tipi di fonte e grandezza del testo, ma anche la luminosità dello schermo.

Disponibile gratuitamente sugli store di Apple e Google

Gmg. Bassetti: «Cari giovani l’Italia attende il vostro slancio»

da Avvenire

Il cardinale Bassetti (al centro, in piedi) con un gruppo di giovani (foto d'archivio)

Il cardinale Bassetti (al centro, in piedi) con un gruppo di giovani (foto d’archivio)

A Panama ci sarà anche lui. Accanto al Papa e al fianco dei giovani italiani. «Non sarà facile per me a 76 anni», confida l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. Ma non ha voluto mancare. Panama 2018 ha infatti una molteplicità di valenze pastorali e sociali che meritano di essere viste da vicino. La continuità con il Sinodo, l’abbraccio al mondo da una terra ponte per vocazione, il superamento della mentalità del successo a tutti i costi e l’adozione di uno stile di servizio, il ruolo dei nostri ragazzi a servizio del Paese. Il porporato sottolinea: «I giovani abbattono i muri. Impariamo da loro».

Molti sostengono che la Gmg di Panama sia la continuazione del Sinodo sui giovani. È d’accordo? E se sì, in che senso lo è?
In effetti la prossima Gmg si inserisce sulla scia del Sinodo sui giovani, una grande intuizione di papa Francesco. Il tema del raduno che inizierà nei prossimi giorni è la risposta della Vergine alla chiamata di Dio: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Le parole di Maria sono un “sì” coraggioso e generoso. Il “sì” di chi ha capito il segreto della vocazione: uscire da se stessi e mettersi al servizio degli altri. Proprio la fede e il discernimento vocazionale sono stati al centro del Sinodo dello scorso ottobre.

Vede qui il collegamento con il Sinodo?
Un tempo come il nostro, segnato dall’incertezza e dalla paura, non incoraggia risposte che impegnino per tutta la vita. E non incoraggia risposte che siano nel segno del dono. Invece, oggi più che mai noi tutti, a cominciare dai giovani, siamo chiamati a spenderci per l’altro, oltre quella mentalità mondana che incita al successo personale, al benessere individuale, all’apparenza effimera e che di fatto alimenta una concezione egoistica della vita. La Madre di Dio, rispondendo all’Angelo, non ha timori. E con il suo “eccomi” ci mostra Cristo. Tanti giovani sono affascinanti dalla figura di Gesù. La sua vita appare loro buona e bella perché povera e semplice, fatta di amicizie sincere e profonde, spesa per i fratelli con generosità, mai chiusa verso nessuno, ma sempre disponibile al dono. La vita di Gesù rimane anche oggi profondamente attrattiva e ispirante; essa è per i giovani una provocazione che interpella.

Lei che cosa ha portato a casa dall’esperienza del Sinodo?
Dalla ricca esperienza del Sinodo ho potuto cogliere i bellissimi e molteplici volti dei giovani nel mondo intero. La diversità è ricchezza, allarga gli orizzonti, ci fa andare oltre i nostri schemi. Nel mio cuore porto il grido dei giovani che fuggono dalle guerre o dalla povertà in Africa; le piaghe sociali di quelli che vivono nell’America Latina; lo sfruttamento di quelli in Asia; le disillusioni di una parte della gioventù dell’Occidente. Ma anche il desiderio comune a tutti i giovani di essere protagonisti, di poter dare un contributo fattivo alla crescita della società e della Chiesa. Non quindi giovani in ritirata, come talvolta si può immaginare, ma in prima linea, in uscita. Dobbiamo però metterli nelle condizioni di agire, dare loro fiducia, non ingabbiarli.

Si è insistito molto sulla dimensione dell’ascolto dei giovani. Qualcuno sostiene che questo significhi rinunciare alla missione di insegnare loro la fede e i comportamenti conseguenti. Qual è la sua opinione al proposito?
I giovani sono portatori di un’inquietudine che va prima di tutto accolta, rispettata e accompagnata, scommettendo con convinzione sulla loro libertà e responsabilità. La Chiesa sa per esperienza che il loro contributo è fondamentale per il suo rinnovamento. I giovani, per certi aspetti, possono essere più avanti di noi pastori. Ascoltarli è il primo passo per renderli “missionari” e non semplicemente esecutori.

Che Gmg si immagina? Panama è un luogo di unione (tra due oceani, tra due continenti), ma anche di grandi contraddizioni (violenza, narcotraffico, povertà). Che cosa ha voluto dirci il Papa scegliendo questa terra come sede della Gmg?
Immagino una Gmg che abbraccia il mondo. Del resto è la caratteristica delle Giornate mondiali della gioventù che sono frutto della visione profetica di san Giovanni Paolo II. Francesco è il Papa arrivato dalla “fine del mondo” e guarda all’intera umanità: anche, e direi in modo particolare, a quella ferita in Paesi dove il contesto sociale è difficile. Panama è quasi un “ponte” che unisce il Sud con il Nord del continente americano. Viene da pensare che sia una sorta di baricentro fra il Sud del mondo e il nostro Occidente. A noi è chiesto di essere “ponti” fra i popoli. E i giovani ce lo mostrano con il loro desiderio di incontrare chi vive dall’altra parte del pianeta, con la loro curiosità di scoprire terre lontane, con la loro apertura alle differenze. I giovani non alzano muri: li abbattono. Impariamo da loro…

I giovani italiani questa volta non saranno tantissimi. In Italia non è estate. Ma da coloro che porteranno il tricolore sulle sponde del Canale che cosa si aspetta il presidente della Cei, che ha anche scelto di accompagnarli?
Ho 76 anni. E per me non sarà una passeggiata un viaggio in aereo di oltre 12 ore per andare a Panama. Ma non sono voluto mancare a fianco dei nostri giovani italiani, poco meno di un migliaio. È vero che il numero può apparire non elevato. Ma dice anche il desiderio di mettersi in cammino, di seguire Pietro che li chiama ad attraversare l’oceano per portare a Panama il volto giovane della Chiesa italiana. Una Chiesa dalle radici profonde, capace di testimoniare il Risorto anche oltre i suoi confini nazionali, in grado di trasmettere la gioia del Vangelo di generazione in generazione. Ai giovani italiani dico: impegnatevi per il Signore, per la Chiesa e per il nostro Paese. Il Signore vi esorta ad annunciarlo a tutti dai “tetti”, che oggi sono anche i social network in cui un giovane cristiano deve essere presente. La Chiesa italiana ha bisogno del vostro slancio, del vostro entusiasmo, persino della vostra critica costruttiva. L’Italia necessita di un nuovo impegno socio-politico che non può che partire dai giovani. Il Paese può riscattarsi dalla crisi e dalle divisioni se una nuova generazione, anche di cristiani giovani, saprà spendersi per il bene comune e non alimentare interessi di parte.

Sarà anche la Gmg di san Romero. Qual è il messaggio che viene da questa figura?
L’arcivescovo Romero ci dice che ogni credente deve essere martire, ossia testimone. Ha amato il Signore e il suo popolo fino a spargere il suo sangue sull’altare mentre celebrava Messa. Guardando all’arcivescovo di El Salvador i giovani incontrano un “gigante della fede” che ha denunciato i mali del potere e ha abbracciato gli ultimi, i “senza voce”. La voce di Romero è diventata la voce degli indifesi. Ed è stato uomo della riconciliazione. Mai cedere alla perversa logica dell’odio. E, come Romero ben ci ricorda, dobbiamo essere “apostoli” di pace, di concordia, di misericordia ovunque, cominciando dalle nostre famiglie, dalle nostre scuole o università, dai nostri luoghi di lavoro, dalle nostre città.

Una riflessione sulle donne nella Chiesa. Identità e compiti diversi

Mondo

L’Osservatore Romano

(Giorgia Salatiello) Nel 1964, cioè durante il concilio, Karl Rahner tenne una relazione al congresso della Lega donne cattoliche tedesche, poi tradotta in italiano con il titolo La donna nella nuova situazione della Chiesa (Paoline, 1968) e risulta oggi proficuo tornare a questo testo per alcuni spunti non solo pienamente attuali, ma capaci di aprire prospettive future che interpellano la comunità ecclesiale.
Non sarebbe qui di alcuna utilità tentare una sintesi del testo di Rahner, che è lungo e molto denso, ma appare, invece, significativo e ricco di stimoli concentrarsi su alcuni nuclei concettuali che conservano oggi tutta la loro validità, chiedendo una sempre rinnovata riflessione.
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