On line. La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

In occasione della Festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e della stampa cattolica, è stata pubblicata la nuova App della Conferenza episcopale italiana: “App CEI“. L’applicazione è composta da sette sezioni con una navigazione aiutata da un’interfaccia semplice, funzionale per chi usa lo smartphone ma anche il tablet. L’App è caratterizzata da una grafica che non appesantisce la navigazione dell’utente e da una top bar stilizzata.

La prima delle sette sezioni è “CEInews” a cui l’utente approda una volta avviata l’app. Qui è possibile leggere le informazioni del portale www.ceinews.it on line da maggio 2018 con i rilanci ai media collegati alla Conferenza Episcopale Italiana (Avvenire, Agenzia Sir, Tv2000, inBlu Radio) grazie alle “card” a scorrimento orizzontale.

Nella sezione MyCei è possibile selezionare gli argomenti preferiti per leggere le ultime notizie grazie a canali tematici, come giovani o bioetica, oppure associazioni… La sezione “Chiesa Cattolica” attinge le notizie dal sito chiesacattolica.it. La sezione “Agenda” riprende i contenunti presenti sul sito chiesacattolica.it. In più la sezione offre la possibilità di navigare sugli appuntamenti della settimana, presentandoli sotto forma di timeline.

La sezione “Nomine” è caratterizzata dall’elenco di tutte le nomine dei vescovi, con riferimento al giorno e al luogo mentre la sezione “catalogo App” aggrega tutte le App della CEI con l’opportunità di accedere direttamente al relativo store. La sezione “impostazioni” offre all’utente la possibilità di personalizzare tipi di fonte e grandezza del testo, ma anche la luminosità dello schermo.

Disponibile gratuitamente sugli store di Apple e Google

Dio racchiude il grande nel piccolo, l’eternità nell’attimo. Commento al Vangelo Domenica 17 Giugno 2018

XI Domenica
Tempo ordinario Anno B

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra (…)».

Gesù, narratore di parabole, sceglie sempre parole di casa, di orto, di lago, di strada: parole di tutti i giorni, dirette e immediate, laiche. Racconta storie di vita e le fa diventare storie di Dio, e così raggiunge tutti e porta tutti alla scuola delle piante, della senape, del filo d’erba, perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della natura coincidono; quelle che reggono il Regno di Dio e quelle che alimentano la vita dei viventi sono le stesse. Reale e spirituale coincidono.

Accade nel Regno ciò che accade nella vita profonda di ogni essere. C’è una sconosciuta e divina potenza che è all’opera, instancabile, che non dipende da te, che non devi forzare ma attendere con fiducia. Gesù ha questa bellissima visione del mondo, della terra, dell’uomo, al tempo stesso immagine di Dio, della Parola e del regno:
tutto è in cammino, un fiume di vita che scorre e non sta fermo. Tutto il mondo è incamminato, con il suo ritmo misterioso, verso la fioritura e la fruttificazione. Il paradigma della pienezza regge la nostra fede. Mietiture fiduciose, abbondanti. Gioia del raccolto. Sogni di pane e di pace. Positività.
Il
terreno produce da sé, per energia e armonia proprie: è nella natura della natura di essere dono, di essere crescita. È nella natura di Dio. E anche dell’uomo. Dio agisce in modo positivo, fiducioso, solare; non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, incremento di vita. Con l’atteggiamento determinante della fiducia!
Il terreno produce spontaneamente. Non fa sforzo alcuno il seme, nessuna fatica per il terreno, la lucerna non deve sforzarsi per dare luce se è accesa; il sale non fa sforzo alcuno per dare sapore ai piatti. Dare è nella loro natura. È la legge della vita: per star bene anche l’uomo deve dare. Quando è maturo infine il frutto si dà, si consegna, espressione inusuale e bellissima, che riporta il verbo stesso con cui Gesù si consegna alla sua passione. E ricorda che l’uomo è maturo quando, come effetto di una vita esatta e armoniosa, è pronto a donarsi, a consegnarsi, a diventare anche lui pezzo di pane buono per la fame di qualcuno. Nelle parabole, il Regno di Dio è presentato come un contrasto: non uno scontro apocalittico, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio viene come un contrasto vitale, come una dinamica che si insedia al centro, un salire, un evolvere, sempre verso più vita. Quando Dio entra in gioco, tutto entra in una dinamica di crescita, anche se parte da semi microscopici:

Dio ama racchiudere
il grande nel piccolo:
l’universo nell’atomo
l’albero nel seme
l’uomo nell’embrione
la farfalla nel bruco
l’eternità nell’attimo
l’amore in un cuore
se stesso in noi.
(Letture: Ezechiele 17, 22-24; Salmo 91; 2 Corinzi 5,6-10; Matteo 4, 26-34).

di Ermes Ronchi – Avvenire

Domenica 12 ottobre è la Giornata diocesana di Avvenire

Domenica 12 ottobre è la Giornata diocesana di Avvenire. Il quotidiano cattolico è uno strumento di grande importanza per la formazione cristiana adulta, non solo per i commenti dei fatti secondo una lettura credente, ma anche per la scelta delle notizie e del rilievo che queste ricevono rispetto ad altre. Proprio a chi non conosce ancora Avvenire o lo acquista sporadicamente è dedicata la giornata di domenica, allorché, all’interno del supplemento Bologna7, i lettori troveranno una pagina a colori che Avvenire riserva alla Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, realizzata dalla redazione giornalistica de La Libertà.

Nelle nostre parrocchie saranno disponibili per l’occasione quantitativi congrui di copie di Avvenire, sperabilmente offerti ai fedeli, su sagrato e dintorni, dagli animatori della cultura e della comunicazione.
Nella pagina si Bologna7 ci sarà un testo scritto appositamente da monsignor Camisasca, e poi notizie e anticipazioni di vita diocesana.

primapaginaAvvenire

laliberta.info

La donna cananea che «cambia» Gesù. Commento al Vangelo di Domenica 17 Agosto 2014

XX Domenica
Tempo Ordinario – Anno A

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

La straniera delle briciole, uno dei personaggi più simpatici del Vangelo, mette in scena lo strumento più potente per cambiare la vita: non idee e nozioni, ma l’incontro. Se noi cambiamo poco, nel corso dell’esistenza, è perché non sappiamo più incontrare o incontriamo male, senza accogliere il dono che l’altro ci porta.
Gesù era uomo di incontri, in ogni incontro realizzava una reciproca fecondazione, accendeva il cuore dell’altro e lui stesso e ne usciva trasformato, come qui. Una donna di un altro paese e di un’altra religione, in un certo senso, «converte» Gesù, gli fa cambiare mentalità, lo fa sconfinare da Israele, gli apre il cuore alla fame e al dolore di tutti i bambini, che siano d’Israele, di Tiro e Sidone, o di Gaza: la fame è uguale, il dolore è lo stesso, identico l’amore delle madri. No, dice a Gesù, tu non sei venuto per quelli di Israele, tu sei Pastore di tutto il dolore del mondo.
Anche i discepoli partecipano: Rispondile, così ci lascia in pace. Ma la posizione di Gesù è molto netta e brusca: io sono stato mandato solo per quelli della mia nazione, per la mia gente. La donna però non molla: aiutami! Gesù replica con una parola ancora più ruvida: Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani. I pagani, dai giudei, erano chiamati «cani». E qui arriva la risposta geniale della madre: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. È la svolta del racconto. Questa immagine illumina Gesù. Nel regno di Dio, non ci sono figli e no, uomini e cani. Ma solo fame e figli da saziare, anche quelli che pregano un altro dio.
Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che prega un altro dio, per Gesù è donna di grande fede. La sua grande fede sta nel credere che nel cuore di Dio non ci sono figli e cani, che Lui prova dolore per il dolore di ogni bambino, che la sofferenza di un figlio conta più della sua religione. Non ha la fede dei teologi, ma quella delle madri che soffrono. Conosce Dio dal di dentro, lo sente all’unisono con il suo cuore di madre, lo sente pulsare nel profondo delle sue piaghe. E sa che Dio è felice quando vede una madre, qualsiasi madre, abbracciata felice alla carne della sua carne, finalmente guarita.
Avvenga per te come desideri. Gesù ribalta la domanda della madre, gliela restituisce: Sei tu e il tuo desiderio che comandate. La tua fede è come un grembo che partorisce il miracolo: avvenga come tu desideri.
Matura, in questo racconto, un sogno di mondo da far nostro: la terra come un’unica grande casa, una tavola ricca di pane, e intorno tanti figli. Una casa dove nessuno è disprezzato, nessuno ha più fame.
(Letture: Isaia 56, 1.6-7; Salmo 66; Romani 11, 13-15.29-32; Matteo 15, 21-28)

di Ermes Ronchi – avvenire

vangelo.domenica.parrocchia.s.stefano

Risuscitati perché amati. Commento al Vangelo V Domenica di Quaresima – Anno A

vangelo.domenica.gesu

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (…)

Gesù è faccia a faccia con l’amicizia e con la morte, con l’amore e il dolore, le due forze che reggono ogni cuore; lo vediamo coinvolto fino a fremere, piangere, commuoversi, gridare come in nessun’altra pagina del Vangelo. Di Lazzaro sappiamo solo che era fratello di Marta e Maria e che Gesù era suo amico: perché amico è un nome di Dio.
Per lui l’Amico pronuncia due tra le parole più importanti del Vangelo: «Io sono la risurrezione e la vita». Non: io sarò la vita, in un domani lontano e scolorito, ma qui, adesso, al presente: io sono. Notiamo la disposizione delle due parole: prima viene la Risurrezione e poi la Vita.
Noi siamo già risorti nel Signore; risorti da tutte le vite spente e immobili, risorti dal non senso e dal disamore, che sono la malattia mortale dell’uomo. Prima viene questa liberazione, e da qui una vita capace di superare la morte.
Risuscitati perché amati: il vero nemico della morte non è la vita, ma l’amore, «forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti» (Cantico 8,6). Noi tutti risorgiamo perché Qualcuno ci ama, come accade a Lazzaro riconsegnato alla vita dall’amore fino alle lacrime di Gesù. Io invidio Lazzaro, e non perché esce dalla grotta di morte, ma perché è circondato da una folla di persone che gli vogliono bene. La sua fortuna è l’amicizia, la sua santità è l’assedio dell’amore.
Lazzaro, vieni fuori! e Lazzaro esce avvolto in bende come un neonato. Morirà una seconda volta, è vero, ma ormai gli si spalanca davanti un’altissima speranza: Qualcuno è più forte della morte.
Liberatelo e lasciatelo andare! Parole che ripete anche a ciascuno di noi: vieni fuori dal tuo piccolo angolo; liberati come si liberano le vele, come si sciolgono i nodi della paura. Liberati da ciò che ti impedisce di camminare in questo giardino che sa di primavera.
E poi: lasciatelo andare: dategli una strada, orizzonti, persone da incontrare e una stella polare per un viaggio che conduca più in là.
Gesù mette in fila i tre imperativi di ogni ripartenza: esci, liberati e vai! Quante volte sono morto, quante volte mi sono addormentato, mi sono chiuso in me: era finito l’olio nella lampada, era finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta oscura dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né altro; non vale la pena vivere.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, non so perché. Una pietra si è smossa, è filtrato un raggio di sole, un grido di amico ha spezzato il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le mie bende. E ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: era Dio in me, amore più forte della morte.
(Letture: Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45).

di Ermes Ronchi – avvenire

Rubrica in Latino… De amicitia quae censuerit Cicero

Dopo il felice esperimento dell’anno precedente, anche quest’anno alla ripresa di settembre nelle nostre pagine culturali diamo spazio a una rubrica in latino. Passatismo? Voglia di difendere una lingua morta? Niente affatto. Lo testimonia il boom di attenzione che la lingua latina ottiene oggi in tutto il mondo. Del resto, da sempre il nostro giornale è attento alla valorizzazione delle lingue classiche: la rubrica vuole poi essere un’occasione per riflettere sui nostri giorni alla luce della sapienza che gli antichi scrittori, classici e cristiani, elaborarono nel passato. È questo lo scopo degli articoli che appariranno, a cadenza settimanale, ogni martedì, nella rubrica «Laelius». Al martedì successivo, oltre al nuovo testo in latino, apparirà anche la traduzione del testo precedente. Autore della rubrica è Luigi Castagna, docente di Letteratura latina e di Storia della lingua latina all’Università Cattolica di Milano, che succede a don Roberto Spataro, professore di Letteratura cristiana antica presso la Facoltà di lettere cristiane e classiche dell’Università Pontificia Salesiana, il quale ha tenuto la rubrica dal settembre 2012 al luglio 2013.

Anno sexagesimo secundo aetatis suae Cicero, hortante Attico suo, de amicitia libellum conscripsit. Sententias suas non ipse voce sua expressit sed graeco more verba sua ornate divisit ad modum colloquii, et in scaenam induxit Laelium illum, qui Sapiens nuncupatur. Laelius omnem vitam degerat una cum delectissimo suo Scipione Aemiliano, quem multi vocant Africanum Minorem. Cicero fingit id evenisse colloquium inter Laelium duosque adulescentes, doctos quidem et nobili loco natos, brevi tempore post Africani minoris mortem. Adulescentes cum Laelium vidissent aeque pati luctum suum, eum interrogarunt quomodo tantum dolorem posset ferre. “Mortuum amicum non lugeo: de se ipse plorat qui putat se de amico amisso plorare”. Nam qui perfecerit tempus vitae suae omnibus peractis rebus
quae in animo habuisset, nullis incommodis angi potest: nec tantum dico de gloria militari vel de triumphis, aut de auctoritate quam meruit in officiis civilibus pro re publica exercendis, sed fuit ille in primis amicus fidelis erga bonos cives et in se amicitiam bonorum attraxit. An censemus Scipionem Aemilianum sperasse vel optasse immortalem fieri? Amicitia est enim privilegium quoddam, ut ita dicam, inter bonos homines et ad virtutem deditos. Valde errant qui putent amicitias curandas esse quia utilitati possint esse. Non utilitas quidem sed vera virtus quasi mater et nutrix amicitiae est, nam amicitia ad virtutem impellimur et meliores evadimus quam antea fueramus. Nuper diximus de amicitiis quae inter doctos et sapientes germinant, at interdum aliae reperiuntur amicitiae quae non ad virtutem spectant sed quasi ad secretam conscientiam vitiorum. Plures amicitiae inter pares coniunguntur sed quid si amici differant aetate vel dignitate ordinis? Adhibeant amici tantulum prudentiae et omnis difficultas honeste solvebitur. Quibus in rebus humanis ceterum prudentia adhibenda non est, addito insuper quodam grano salis?

avvenire.it

Commento al Vangelo Domenica 23 Giugno 2013 XII Domenica Tempo ordinario – Anno C

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno (…) 

Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare… Silenzio, solitudine, preghiera sono il grembo in cui si chiarisce l’identità profonda. Sono i momenti in cui la verità si fa come tangibile, la senti sopra, sotto, intorno a te come un manto luminoso; in cui ti senti docile fibra dell’universo. E in quest’ora speciale Gesù pone la domanda decisiva, qualcosa da cui poi dipenderà tutto: fede, scelte, vita… ma voi chi dite che io sia?
Preceduta da un «ma», come in contrapposizione alle risposte della gente: dicono che sei un profeta, bocca di Dio e dei poveri, una creatura di fuoco e luce. Quella di Gesù non è una domanda per esaminare il livello di conoscenza che gli apostoli hanno di lui, ma contiene il cuore pulsante dei miei giorni di credente: Chi sono io per te? Non è in gioco l’esatta definizione di Cristo, ma la presa, lo spazio che occupa in me, nei pensieri, nelle parole, nella giornata. Il tempo e il cuore che mi ha preso.
Gesù, maestro di umanità, non impone risposte, ti conduce con delicatezza a cercare dentro di te. Allora il passato non basta, non serve riandare ad Elia o a Giovanni. In Gesù c’è un presente di parole mai udite, di gesti mai visti, una mano che ti prende le viscere e ti fa partorire (A. Merini). Partorire vita più grande.
Pietro risponde con la sua irruenza: tu sei il Cristo di Dio. Il messia di Dio, il suo braccio, il suo progetto, la sua bocca, il suo cuore. Ma Pietro non sa che cosa lo aspetta. La risposta di Gesù ci sorprende ancora: ordinò severamente di non dire niente a nessuno. Severamente, perché c’era il grave rischio di annunciare un Messia sbagliato. Ed è lui stesso a tracciare il vero volto del Figlio dell’Uomo che deve soffrire molto, venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Dio è passione, passione d’amore. Passione che sacrifica se stessa. Una passione che nessuna tomba può imprigionare.
Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Seguire Cristo significa portare avanti il suo progetto. Ma come? Gesù non dice «prenda la mia croce», ma la sua, ciascuno la sua. Il progetto è unico, ma ognuno percorrerà la sua strada libera e creativa, diversa da tutte, che deve tracciare, che non è già tracciata. La croce è la sintesi del Vangelo. Qualunque sia il tuo stato di vita, l’età, il lavoro, la salute, tu puoi, con le tue fatiche, i tuoi talenti e le debolezze, prendere il Vangelo su di te e collaborare con Cristo alla sua stessa missione, allo stesso sogno di una umanità incamminata verso una vita buona, lieta e creativa, «non come un esecutore di ordini ma come un artista sotto l’ispirazione dello Spirito» (Maritain).
(Letture: Zaccaria 12,10-11;13,1; Salmo 62; Galati 3,26-28; Luca 9, 18-24).

di Ermes ronchi – avvenire.it
 

Domenica delle Palme con il Papa In San Pietro l’abbraccio dei giovani

NIZIA LA SETTIMANA SANTA Domenica delle Palme con il Papa In San Pietro l’abbraccio dei giovani

Nella Domenica delle Palme e della Passione del Signore papa Francesco benedirà le palme provenienti da Savona, in Liguria e gli ulivi arrivati da Terlizzi, in Puglia. La curiosità per quest’anno, fa sapere la Sala stampa della Santa Sede, è stata l’idea di rievocare sul Sagrato di piazza San Pietro i cinque continenti. Per fare questo sono utilizzate cinque tonalità differenti di terra di coltura. Intorno alle 9,30 la benedizione, a seguire la Messa della Passione del Signore celebrata sul Sagrato della Basilica Vaticana e la recita dell’Angelus.

Il rito ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, acclamato dalla folla festante che sventola rami di ulivo. La cerimonia rivive un momento di trionfo nella vita di Gesù, subito prima dell’arresto, del processo, della condanna a morte nel modo più umiliante, la Crocifissione. Per questo la Messa delle Palme apre la Settimana santa, che proseguirà da giovedì con il triduo pasquale. Saranno presenti decine di migliaia di giovani in piazza San Pietro, per la ricorrenza diocesana della Giornata mondiale della gioventù, preludio dell’incontro internazionale in programma dal 23 al 28 luglio a Rio de Janeiro, in Brasile.
E da arcivescovo di Buenos Aires papa Bergoglio i giovani li ha sempre incoraggiati a sognare perché «i vostri sogni devono essere patrimonio di tutti. Allora non rischiate la vita per un piacere che passa dopo 10 minuti, rischiate la vita per Gesù – aveva richiamato in diverse occasioni di incontro con le nuove generazioni -. Lui ci ha lasciato il sogno più grande. Lui ci ha detto che siamo tutti fratelli». E in preghiera al Santuario mariano a Lujan ancora li invitava a «non avere paura della libertà» e a «costruire il futuro attraverso la memoria che hanno lasciato i nostri anziani e vi trasmettono i genitori» e «vedere il mondo con occhi di grandezza».

A seguito della celebrazione della Domenica delle Palme, il Pontefice sarà impegnato mercoledì 27 nella prima udienza generale, mentre il 28 marzo, Giovedì Santo, Francesco celebrerà al mattino nella Basilica di San Pietro la Messa Crismale e, al pomeriggio, si recherà all’Istituto penale per minori di “Casal del Marmo” per la celebrazione della Messa nella Cena del Signore, alle 17.30. L’annuncio, dato giovedì, ha favorevolmente sorpreso. Un comunicato della Sala Stampa vaticana ricorda che «com’è noto la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del Comandamento dell’amore e dal gesto della Lavanda dei piedi». Perciò, dato che «nel suo ministero come arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Bergoglio usava celebrare tale Messa in un carcere o in un ospedale o in un ospizio per poveri o persone emarginate», con la celebrazione a Casal del Marmo, spiega la nota, «il papa Francesco continua tale uso, che dev’essere caratterizzato da un contesto di semplicità».

Il 29 marzo, Venerdì Santo, saranno i giovani del Libano a dar voce alle meditazioni della Via Crucis al Colosseo. A loro, sotto la guida del patriarca di Antiochia dei maroniti, il cardinale Béchara Boutros Raï, Benedetto XVI aveva chiesto di esprimere, nelle XIV stazioni della Passione di Cristo, le ansie e le attese dei popoli del Medio Oriente. E così, nell’anfiteatro Flavio, la cristianità conoscerà le ingiustizie, le divisioni fra cristiani, il fondamentalismo e la violenza che dilaniano i popoli mediorientali, ma anche le sofferenze e i mali dell’intera umanità.