Nucleare addio, parola di teologo

Pubblichiamo quasi integralmente l’intervista a Robert Spaemann uscita il 12 luglio scorso sul quotidiano svizzero «Tagesanzeiger» di Zurigo. Spaemann, 84 anni, è uno dei più noti filosofi e teologi tedeschi, apprezzato anche da Benedetto XVI. Il suo ultimo libro, "Dopo di noi, la fusione del nucleo. Arroganza nell’era atomica" (Klett-Cotta, 2011) raccoglie interventi sull’energia atomica.

La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approviggionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benchè io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno. Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati. Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica? L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà – non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo. L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perchè ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo. Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un "principio speranza". Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo? Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future? Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo. Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. "Funziona davvero", fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofo tedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante. Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan "Con noi avanza la nuova era". L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso. Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

Guido Kalberer – avvenire.it 22 luglio 2011 ore 11:43

Natura e religione

di Giancarlo Rocca

Lo studio di Olivier Landron, Le catholicisme vert. Histoire des relations entre l’Église et la nature au xx siècle, (Paris, Cerf, 2008, pagine 527, euro 48), è interessante fin dal titolo. L’autore insegna storia del cristianesimo contemporaneo nella facoltà di teologia dell’università di Angers in Francia ed è già noto, non solo in Francia, per la sua tesi di dottorato in storia sulle nuove comunità francesi, sintetizzata nel libro Les nouvelles communautés (Paris, Cerf, 2004). Basato su una notevole informazione e su una vasta bibliografia, Le catholicism vert è strutturato in quattro parti, la prima delle quali ("Nature et réflexion") è dedicata a un esame dei numerosi pensatori (teologi e filosofi in particolare) che nel corso del ventesimo secolo hanno riflettuto sui rapporti tra natura e religione. In questo quadro un posto particolare occupano sia il concilio Vaticano i che il concilio Vaticano ii, il pensiero dei Pontefici (in particolare Paolo VI, che già nel 1972 alla Conferenza di Stoccolma aveva ricordato lo stretto legame tra uomo e ambiente, e Giovanni Paolo II, il cui messaggio per la pace del primo gennaio 1990 costituisce, secondo Landron, una specie di manifesto della Chiesa sul tema della protezione dell’ambiente) il gesuita Teilhard de Chardin, la teologia della liberazione, la teologia femminista e, in una ricostruzione storica che Landron ovviamente desidera completa, anche i movimenti ecologici anticristiani, tra i quali la New Age. Nella seconda parte, "Nature et contemplation", Landron si sofferma su alcuni movimenti religiosi e artistici (pittura, musica, cinema, letteratura) nei quali il rapporto con la natura acquista un ruolo notevole. Nota come l’eremitismo, in ripresa in Francia dopo il 1960, è certamente diverso dalle nuove comunità neo-rurali, ma alla base di entrambi c’è il "deserto": un luogo di rifugio, di riparo per un avvicinamento a se stessi, di contemplazione, di stretto rapporto tra uomo e Dio. E questo tema (deserto, Eden, salmi, e così via) trova espressione anche nelle arti: pittura, cinema, letteratura, qui con Léon Bloy, Charles Péguy e Paul Claudel. La riscoperta di Ildegarda di Bingen, con i suoi lavori di teologia ma anche di medicina e sulla natura, nonché di san Francesco d’Assisi – designato da Papa Giovanni Paolo II nel 1979 "patrono degli ecologisti" – con il suo Cantico delle creature, senza ovviamente dimenticare la sua attrattiva per l’eremitismo, documentata dalla sua regola per i frati che vogliono vivere nei romitori, costituiscono un ulteriore capitolo di questa seconda parte del lavoro. La terza parte, "Nature et animation" prende in considerazione i tanti movimenti e iniziative che hanno voluto porre la natura al centro delle loro riflessioni. In questo ambito l’interesse della Chiesa per la natura si è manifestato anche attraverso la fondazione di movimenti e di istituzioni a favore dell’infanzia e della gioventù: in primo luogo le colonie di vacanze, lo scoutismo, i campi estivi, i pellegrinaggi, la pastorale del turismo, la difesa della terra. Uno spazio particolare è assegnato, in questa rassegna, ai Compagni di san Francesco, fondati in Francia nel 1927, la cui posizione è significativa per la rivalorizzazione del pellegrinaggio e la critica al mondo industriale. E in questa terza parte non poteva mancare un esame dei rapporti tra politica e religione, sempre sul tema natura (che però Landron aveva in qualche modo già anticipato, ricordando nel primo capitolo una religiosa americana, suor Dorothy Mae Stand, che si era prodigata in difesa dei contadini senza terra e dell’Amazzonia e che nel 2005 era stata assassinata) nonché un capitolo sugli animali e sul loro ruolo terapeutico. La quarta parte, "Nature et protection", prende in esame la posizione della Chiesa, qui intesa come istituzione, nei confronti della natura, e quindi: i vari movimenti a protezione della natura, il movimento Pax Christi, il commercio equo e solidale (secondo cui la miglior difesa a favore del commercio equo è quella di "consumare di meno") lo sviluppo durevole, la salvaguardia dell’acqua, degli oceani, l’agricoltura biologica, la protezione degli animali, e la questione della corrida in Spagna. Il quadro che risulta da questa ricostruzione storica è ricco di luci e ombre. A ritardare la presa di coscienza del valore dell’ambiente da parte della Chiesa starebbe il fatto, secondo Landron, che il cristianesimo ha anzitutto poggiato sul rapporto uomo-Dio, considerando, sulla base di Genesi, 1, 26, che l’uomo avrebbe avuto a sua disposizione tutto il creato. D’altro canto c’è il fatto, testimoniato dallo stesso Landron, che la prima esperienza di valorizzazione delle colonie di vacanze venne avviata da don Bosco nel 1848, quando ancora nulla esisteva in ambito civile e quando non v’era alcuna teorizzazione circa la salvaguardia dell’ambiente. Inoltre, alcune discussioni di principio (per esempio, se gli animali abbiano o no un’anima, se il creato possa essere considerato una reale espressione di Dio, in una visione panteistica) hanno certamente contribuito in alcuni ambienti a frenare l’entusiasmo e la stima per il creato, così come aveva suscitato discussioni il portare gli animali in chiesa per la messa e una loro benedizione. C’è dell’ambiguità, di fatto, o, se si vuole, qualche cosa di discutibile in questo ritorno alla natura e Landron non manca di annotarlo: nei "verdi" che misconoscono qualsiasi legame con la trascendenza; il rischio di panteismo nel modo di considerare il creato; l’amore esagerato degli animali in bambini (e anche in adulti) che sembra rimandare al bisogno di spiegazioni psicologiche sulla mancanza di amore. In tutte queste esperienze un ruolo notevole giocano i religiosi, sia nella elaborazione teorica di una difesa dell’ambiente, e quindi dell’ecologia; sia nelle numerosissime iniziative che consapevolmente i religiosi hanno sviluppato, legandosi in vario modo alla natura. Nell’elaborazione teorica trovano posto, e forse in primo piano, i gesuiti (Paul Beauchamp) e i francescani, accusati di essere rimasti a una visione un po’ romantica del Poverello, hanno ripreso lo studio del loro fondatore vedendolo come "protettore della natura", in contrasto con la società industriale che tende invece a dominarla e a sfruttarla. Per quanto riguarda le iniziative pratiche, esse spaziano dalle colonie di vacanze al microcredito elargito da tante congregazioni religiose nelle missioni per facilitare lo sviluppo locale; dalla difesa della terra (in Francia e all’estero) all’agricoltura biologica (in questo contesto interessante risulta quanto fatto dai monaci dell’abbazia de La Pierre-qui-Vire, una delle prime abbazie francesi ad adottare l’agricoltura biologica) dalla promozione dello scoutismo (il gesuita padre Jacques Sevin vi occupa un posto di rilievo) alla difesa degli animali (il padre Carré, domenicano, diventa membro del Comitato consultivo della Lega francese dei diritti dell’animale). Le esperienze presentate nel volume di Landron sono fondamentalmente francesi, anche se non mancano indicazioni per altre di carattere internazionale (come per esempio, quanto viene detto circa la cosiddetta "ecologia francescana") o sovranazionale, come il pellegrinaggio a Santiago di Compostella, e sarebbe facile indicare altre esperienze analoghe in tante nazioni, arricchendo l’informazione: i pellegrinaggi ad Assisi e a Loreto, per l’Italia; i tanti eremiti ed eremite negli Usa; le nuove comunità che hanno fatto del legame con la natura la base del loro nuovo monachesimo. Se poi si volesse andare indietro nel tempo, ricordando, nel monachesimo i giardini, la medicina (e i tantissimi orti presenti in quasi tutti i monasteri per la coltivazione delle erbe medicinali) l’astronomia, la botanica nella congregazione di Vallombrosa o addirittura la viticultura (il monaco Pierre Pérignon che nel 1698 avviava la produzione dello Champagne) si otterrebbe certamente un quadro di stretta vicinanza tra religiosi e mondo della natura molto più ricco di quanto le riflessioni teoriche in difesa della natura, necessariamente più tardive, possono lasciar supporre. (©L’Osservatore Romano – 5 settembre 2010)