Storia e fine del cardinalato CARDINALI: QUALE RIFORMA?

Pubblichiamo da un dattiloscritto degli anni 60 del Novecento queste “note storiche” del prof. Giuseppe Alberigo sulla vicenda dottrinale del cardinalato con una postilla successiva al Concilio

È certa, per quanto non conosciuta nei particolari, l’antica origine del collegio cardinalizio dal presbyterium, origine analoga a quella di tutti i capitoli delle chiese cattedrali:: intorno al vescovo, e a quello di Roma in particolare, vi è un collegio come organo di collegamento e di sintesi a tutti i livelli tra il vescovo e i fedeli, clero e popolo; sin dal quarto-quinto secolo le principali deliberazioni sono prese in conventufratrum. Non si può qui affrontare il problema dello sviluppo in Roma del collegio cardinalizio nei secoli della tarda antichità e del Medio Evo, sviluppo sulquale peraltro abbiamo pochissima documentazione. Certo è che quando il papato dopo la crisi del decimo secolo riafferma con il movimento della riforma gregoriana l’Indipendenza delle sue funzioni da ogni potere politico e la sua autorità primaziale sull’Occidente, organo fondamentale per l’attuazione di questi fini diviene il collegio dei cardinali.

Alla funzione tradizionale di collaborazione e di consiglio, propria del collegio, si unisce la funzione elettiva. Con il noto decreto di Nicola II (1059) e con il can. 1 del Concilio Lateranense III (1179) il quale rimane ancor oggi immutato nella sua sostanza, il collegio diviene corpo elettorale del pontefice e quindi garanzia della continuità e dell’ indipendenza del governo universale della Chiesa. Ma questo è solo un aspetto e quasi una conseguenza della partecipazione che viene ad assumere il collegio cardinalizio stesso nel governo della Chiesa universale,partecipazione che cresce con il crescere stesso di questo governo: nei secoli seguenti fino alla crisi del XVI secolo il collegio ne è l’ingranaggio essenziale. Non solo i pontefici attingono da esso i propri collaboratori più vicini nell’amministrazione, ilegati inviati a rappresentarli nelle varie parti d’Europa, ma il collegio stesso in quanto tale diviene il vero organo di sintesi tra le Chiese particolari e la Chiesa romana. Tutti i problemi più importanti vengono discussi e deliberati nei concistori-i quali sono riuniti a partire dal XII secolo tre volte alla settimana; tutti i più importanti atti ufficiali dei pontefici (bolle, decreti eccetera) non hanno piena validità giuridica se non sono controfirmati dai componenti del collegio.

Non entriamo qui nell’esame delle dottrine teologiche e canonistiche che si sono sforzate dalsecolo XII al XVI di dare una sistemazione teorica e razionale alla figura del collegio:vi sono fautori del de jure divino sostenenti la successione del collegio cardinalizio al collegio degli apostoli in quanto riunito intorno a Pietro (mentre i vescovi succedono agli apostoli in quanto preposti alle singole Chiese); vi sono coloro che più ponderatamente richiamano i fondamenti scritturistici collegando i cardinali ai 70 anziani di Mosè, ecc.Vi sono pure diverse valutazioni delle funzioni e dei poteri del collegio: se il papa sia obbligato a ottenere il consenso dei cardinali negli atti più importanti di governo o se il pontefice non abbia che il vincolo di chiedere consiglio.Sembra prevalere la teoria media che il papa nella sua potestà ordinaria (sottomessa ai canoni) è tenuto a chiedere il consenso del collegio in maximis et in arduis, mentre può essere sciolto da questi obblighi nell’uso della potestà straordinaria. Ma non possiamo approfondirel’esame delle varie correnti, dei vari trattati: Ciò che importa è che sempre è ribadita da tutti gli autori la concezione del collegio cardinalizio come Senato della Chiesa universale, da san Pier Damiani (che chiama i cardinali “spiritualesEcclesiaeuniversalissenatores”) a Martino Laudensis che ne approfondisce il concetto in analogia con la società civile: “Ut senatusassistit principi, sic cardinales domino nostro papae assistere debent…;. quaeriturutrumpapa se connumeret inter cardinales.Respondeo quosic,quia imperator est de numero senatorum…”

Soprattutto il collegio dei cardinali è visto universalmente da tutti i canonisti come “parscorporispapae”, da esso non separabile né distinguibile. Così ad esempio lo stesso M.Laudensis:“Papa et coetuscardinaliumsunt unumcorpus…Cardinalesfaciunt unumcorpus cum papa in gubernationeuniversalisEcclesiae… Cardinales non iurantfidelitatempapae, qui a cardinalis et papa dicuntur unum corpus”..Anche i pontefici, come ad esempio Pio II, chiamano ripetutamente i cardinali con il nome di coniudices della Chiesa universale.

Un organo di sintesi per la Chiesa universale

Nessun dubbio quindi che al di sopra di tutti gli organi di pura amministrazione e giudiziari il collegio si afferma dalla riforma gregoriana in poi come il supremo organo di sintesi su cui si basa lo sforzo universale del papato. Naturalmente come conseguenza e nello stesso tempo premessa indispensabile si pone fin dal secolo XII il problema di una universalizzazione del collegio: la Chiesa universale deve rispecchiarsi nel collegio perché questo la rappresenti presso e nel pontefice. Già san Bernardo chiaramente diceva (De considerationelib. IV c. 4): “An non eligendi de toto orbe orbemiudicari?”Sempre più numerosi sono quindi parallelamente all’aumento della importanza del collegio i rappresentanti in esso delle differenti cristianità delle nascenti nazioni d’Europa.

Quando le tensioni disgregatrici travolgono il mondo politico ed ecclesiastico medievale e si arriva allo scisma d’Occidente (1378-1417) papato e collegio cardinalizio sono ancora inscindibilmente uniti nella crisi delle scissioni e delle diverse obbedienze.Il collegio sembra dimostrare la sua essenzialità proprio in queste circostanze: l’episcopalismo conciliarista nelle sue teorie estreme lo combatte, ma non riesce a sostituirlo anche se frantumato nella Chiesa divisa. Così anche quando l’unità della Chiesa è ristabilita a Costanza su basi conciliari nessuno aspira a mutare la posizione dei cardinali quale si era venuta formando negli ultimi secoli a fianco del pontefice, sia pure nel quadro della nuova struttura della Chiesa imperniata (decreto Frequens) sulla regolare e frequente convocazione dei concili generali. A Costanza si vollero solo prendere provvedimenti di riforma che garantissero la possibilità del collegio di esercitare con capacità e pienezza le sue funzioni.Il collegio dei cardinali, con la riunione delle obbedienze, ha ancora un ruolo determinante nel ristabilire l’unità della Chiesa con l’elezione di Martino V (1417). Nei successivi concordati stabiliti da Martino V con le varie nazioni il primo punto è sempre De numero etqualitatedominorumcardinalium(A. Mercati, Raccolta di concordati10 p. 45 e seguito).

Vi sono tre ordini di problemi che si pongono dal sec. XV per una riforma del collegio cardinalizio:Primo, quello beneficiale-finanziario; secondo, quello morale-personale; terzo,quello istituzionale riguardante la posizione del collegio nella Chiesa universale.  Anche se ora i primi:due punti  non hanno una consistenza di problemi, bisogna tener presente che essi storicamente hanno contribuito in modo determinante all’evoluzione del terzo punto, quello istituzionale. Determinazione di rendite autonome e indipendenti dal cumulo dei benefici,doti morali e culturali,  la stessa provenienza equilibrata dalle varie nazioni, sono tutti fattori che condizionavano nella realtà storica lo svolgimento delle funzioni costituzionali ormai riconosciute al collegio. All’interno di queste vengono specificati i casi particolari delle res arduae nelle quali i cardinali hanno diritto di essere ascoltati, il diritto allo scrutinio scritto per la nomina di nuovi cardinali, il diritto di con-governo in ambiti determinati (Basilea,sess.XXIII, fissa anche un principio rimasto poi inapplicato, di distribuzione del lavoro all’interno del collegio: ai cardinali vescovi la sorveglianza della fede, ai preti della disciplina ecclesiastica, ai diaconi dei problemi politici e finanziari), il diritto di correzione nei riguardi del pontefice in caso di grave negligenza.Questi principi rimangono validi nella loro sostanza anche dopo la fine dell’epoca conciliarista.Secondo Nicolò da Cusa il diritto-dovere dei cardinali al con-governo della Chiesa è fondato su questo, che essi sono i rappresentanti della cattolicità universale,un concilio permanente nel cui consenso alle deliberazioni del pontefice si esprime il consenso dell’intera Chiesa, così come nell’elezione del papa.I cardinali secondo lo stesso Da Cusa, sono rappresentanti dell’intera Chiesa in un doppio modo: in quanto rappresentanti delle varie nazioni  e in forza del loro diritto autonomo come membra della Chiesa romana.

Anche il decreto sui cardinali nella bolla di riforma della curia emanata nella nona sessione del V Concilio Lateranense da Leone X(5 maggio 1514) oltre a parlare dei compiti singoli deicardinali come collaboratori (legazioni, ecc.) richiama la funzione senatoriale propria del collegio riallacciandosi alle decisioni di Costanza e Basilea:“Et quoniam ad cardinalesmaximespectatoperumoptimorum cura, pro viribuslaborabuntscire, quaeregioneshaeresibus, erroribusqueacsuperstitionibus contraveram etorthodoxamfideminfectaesint, et ubidivinorummandatorum ecclesiastica deficiat disciplina;quiqueregesacprincipesseupopulibellisinfestentur, velinfestaritimeant. Haec ethuiusmodiscire acnobiset Romano pontifici pro tempore existentireferreoperamdabunt, ut opportuna etsalutariatalibusmalisacpestibusremedia vigilanti studio excogitarevaleant”.

Questo decreto di Leone X conteneva anche norme finali al fine di garantire attraverso il segreto sugli atti concistoriali una“major in sacro Senato libertasvotorum”. In realtà quando questi principi vengono qui ancora teoricamente ribaditi il collegio versa già in una grave crisi che lo rende incapace in concreto di adempiere ai suoi compiti. La crisi del papato rinascimentale rappresenta anche una crisi del collegio per la politicizzazione,la prevalenza del profano, dello spirito di potenza e di arricchimento (con tutte le conseguenze ben note di nepotismo ecc.).Anche i cardinali perdono di vista le loro funzioni nella Chiesa universale per trasformarsi in un organo di tipo corporativo preoccupato soprattutto di difendere i propri privilegi finanziari e la propria potenza particolarmente per mezzo delle capitolazioni elettorali che fioriscono in questo periodo. Spesso il cardinalato diviene possesso continuo di potenti famiglie (nel ‘500 abbiamo tra i cardinali 8Carafa 8 Della Rovere 7 Gonzaga ecc.).

Vengono quindi a cadere tutte e tre le condizioni preliminari all’esercizio della funzione senatoriale cioè le condizioni beneficiali-finanziarie, morali-personali, di rappresentanzainternazionale.

Sempre più italiano

Gli abusi connessi alle prime due di queste condizioni nella crisi del ‘500 sono noti e non vìè bisogno di soffermarsi.Meno noto è l’abuso relativo al terzo punto cioè alla rappresentanza internazionale. Il collegio a partire dalla metà del secolo XV diviene sempre meno rappresentativo delle nazioni, sempre più Italiano: nel 1449 vi sono fra i cardinali 10 italiani,  22 non italiani; nel 1500 vi sono fra i cardinali 21 italiani 12 non italiani. Si può anche notare che fra i 12 ultramontani a quest’ultima data ben 11 sono francesi e spagnoli. Durante la prima metà del 500 gli italiani continuano a costituire più di due terzi del collegio.

Nonè qui il luogo per riflessioni sull’importanza che ha avuto questa diminuzione della rappresentanza delle nazioni nel governo universale della Chiesa come una delle cause della tragedia religiosa del secolo XVI, della frattura della cristianità occidentale. Qui basta dire che il Concilio di Trento ebbe ben chiaro questo problema almeno durante l’ultima fase dei lavori. Il Tridentino Infatti si ricollega attraverso una serie ininterrotta di progetti di riforma rimasti inattuati durante più di un secolo, ai concili di Costanza e di Basilea col capitolo 1 del decreto di riforma della ventiquattresima sessione. Per superare le opposizioni della curia l’abile presidente Cardinale Morone, appoggiato e approvato da Pio IV, unì  la riforma dei cardinali a quella riguardante l’elezione dei vescovi – stabilendo come necessarie le stesse doti morali personali ecc. – e aggiungendo solo come peculiare per i cardinali la provenienza equamente distribuita tra le nazioni.

Il Concilio di Trento quindi, pur non volendo determinare il compito dei cardinali come collegio nella struttura della Chiesa, cerca di ristabilire tutte le condizioni preliminari affinché esso possa ritornare a essere l’organo centrale, di sintesi, Il Senato della Chiesa. Tipica dimostrazione di questa volontà del Concilio è che nello stesso decreto viene stabilito che le decisioni più importanti della vita ordinaria della Chiesa, cioè l’approvazione dei nuovi vescovi, vengano prese in riunioni plenarie del concistoro e non in una sola seduta ma in due successive – nella prima delle quali si svolgesse la relazione, e nella seconda si prendesse la decisione – per garantire un intervento veramente collegiale e cosciente.

La crisi dopo il Concilio di Trento

In realtà il decreto tridentino incomincio ad avere,sia pure lentamente, esecuzione per la parte riguardante il De vita et moribuscardinalium ma non ebbe alcuna attuazione riguardo al punto più cruciale relativo alla rappresentanza delle nazioni nel collegio. Anzi il processo di italianizzazione che abbiamo visto compiersi dalla seconda metà del Quattrocento si aggrava dopo il Concilio di Trento in un modo pauroso con uno squilibrio sempre più accentuato. Nel 1565 su 74cardinali solo 16 sono ultramontani, nel 1598 su 57 cardinali solo 11 sono stranieri,gli italiani formano più dell’80% del collegio e questa stessa percentuale è destinata a rimanere presso a poco invariata nei tre secoli seguenti.

Per comprendere completamente il problema occorre tener presente che la questione della internazionalizzazione per il Tridentino era solo preliminare condizione alla vitalizzazione del collegio come senato della Chiesa.

È in questo punto centrale che il Concilio rimase assolutamente inapplicato. Nel giro di pochi decenni, dalla conclusione del Tridentino alla fine del secolo il collegio perde quasi completamente questa sua essenziale caratteristica senatoriale. Le decisioni più importanti vengono prese sempre di più dai pontefici personalmente, con consultazioni private e nelle congregazioni – di cui parleremo più avanti – e presentate in concistoro come già deliberate definitivamente.

Durante il pontificato di Sisto V il concistoro continua ad essere convocato regolarmente come organo di consiglio, ma la libertà di discussione sconta l’attribuzione della parola ai cardinali solo dietro richiesta del pontefice e senza possibilità di replica, come si deduce del diari concistoriali (allocuzione di Sisto V del 5 novembre 1586e, ancora, il 16 gennaio 1589 lo stesso pontefice ricorda in concistoro che non è lecito a un religioso interrompere il proprio superiore che parla in capitolo e in refettorio:.”Ita est cum papa loquitur;  nonoportet ei respondere, nisi quandoexquirit vota velsententiascardinalium.Quando enimpapaiudicatvelvult iudicare, antequamproferatsententiam, ut de eorumconsiliovelassensualiquidstatuatveldecernat, tunccardinales rogatide eorumsententiisdebentrespondere”.

Infine,dalla fine del ‘500 gli stessi concistori vengono convocati sempre più raramente (nella prima metà del ‘600 due volte al mese) mentre le convocazioni stesse sempre più sono dedicate non ad affrontare i grandi problemi della vita della Chiesa ma a consultazioni puramente formali e a cerimonie. Alcuni cardinali dell’epoca tridentina videro bene che illoro collegio si riduceva sempre di più a essere solo il corpo elettorale del pontefice e che l’esercizio del governo della Chiesa veniva modificato rispetto agli ideali  secolare di riforma. Gli stessi pontefici ritenuti più autoritari come PioV e Sisto Vavvertirono in questa evoluzione un pericolo e prescrissero anche per i loro successori la necessità del consenso del collegio per alcune delle massime decisioni politiche come quelle contemplate dalla bolla De non infeudandoe da quella sull’uso del tesoro accumulato in Castel Sant’Angelo. In realtà non si seppe incanalare queste esigenze in una riforma organica e il processo storico di depauperamento dell’autorità del Sacro collegio fu continuo e inarrestabile. Perché?

Perché il declino

È naturalmente impossibile dare una risposta unica. Fattori importanti furono indubbiamente costituiti dal distacco dalla Chiesa dell’Inghilterra, di gran parte della Germania, distacco che alterò il preesistente equilibrio delle nazioni. Anche nelle nazioni rimaste cattoliche gli stretti legami che unironole Chiese nazionali ai nuovi Stati assoluti portavano al prevalere delle forze centrifughe e delle pressioni direttamente politiche nella condotta degli affari ecclesiastici.Questi furono risolti sempre più non sul piano della vita interna della Chiesa,ma con rapporti giuridici internazionali allacciati direttamente dalla Santa Sede con i singoli Stati, nei concordati.

Il papato stesso non poté non reagire a questa situazione e risentire l’evoluzione comune a tutta la civiltà europea verso forme di esercizio monarchico e assoluto del potere. Già alla metà del Quattrocento questa tendenza era stata illustrata del vescovo di Treviso Teodoro De Lelliin modo evidentemente analogico con lo sviluppo dell’assolutismo statale: “… sirexhabetadministrationematqueius regni ut solusregerepossit et ardua quaequedisponere, indignum est existimareplenitudinempotestatisecclesiasticae, abillomanantemqui est rexregum et dominus dominantium,  cui universaesubsuntcreaturae et cui data est omnispotestas in coelo ed in terra quibusdamnexibuset vinculiscompeditamatqueligatam”.

Ad uno sviluppo delle concezioni assolute di esercizio del potere corrisponde, in campo ecclesiastico e civile, un parallelo sviluppo delle istituzioni di governo. Mentre negli Stati assoluti si sviluppano I moderni governi con la suddivisione dei compiti e dei dicasteri, un analogo processo si compie nella curia romana. Fino alla metà del Cinquecento si può dire che esisteva una netta distinzione tra gli uffici di curia (cancelleria,datarìa, penitenzieria ecc.) e il collegio cardinalizio in quanto tale, anche se i cardinali erano per lo più coloro che ricoprivano le piùalte cariche della curia. Con la nascita delle congregazioni cardinalizie invece tutto ciò cambia radicalmente. Questo processo è lento, graduale, copre tutta la seconda metà del Cinquecento; dapprima abbiamo la formazione di commissioni temporanee per particolari compiti e problemi, poi la nascita delle prime congregazioni permanentiin seno al concistoro, da quella dell’Inquisizione (1542) alla congregazione del Concilio (1564) alla sistemazione definitiva data da Sisto V nella bolla Immensa Deidel 22 gennaio 1588, con l’ordinamento della curia in 15 congregazioni permanenti.

La strutturazione della curia

Non si può qui fare la storia ben nota della nascita delle congregazioni, dei dicasteri romani. Occorre solo sottolineare che esse alla loro origine e nei primi decenni di vita sono concepite come inserite nel collegio cardinalizio, costituite solo al fine di portare a termine le questioni minori e preparare le maggiori per la discussione nel concistoro;  solo a poco a poco esse si svincolano dal concistoro, dal senato della Chiesa, divenendo organi burocratici indipendenti. Ancora verso la fine del XVI secolo era dottrina comune che esse non rappresentassero che una fase preparatoria rispetto al concistoro.

Un certo legame rimase ancora forzatamente tra la congregazione concistoriale e il collegio essendo essa stata creata esclusivamente per la preparazione di concistori. Ma anche questo legame divenne col passare del tempo sempre più formale fino a perdersi del tutto.

Con il decadere dell’autorità del collegio, con la crescita delle congregazioni come organi burocratici di governo e la conseguente trasformazione dei cardinali da senatori-collaboratori in alti funzionari della curia, venne a mancare durante l’età moderna un organo che presiedesse alla sintesi delle varie componenti del governo della Chiesa e che fosse tramite e strumento di quello scambio vitale tra le Chiese particolari e la Chiesa romana come era stato, pur se attraverso gravi crisi, nei secoli precedenti.

La mancanza di un organo di sintesi si avverte sia in una frequente mancanza di coordinamento e di unitarietà chiara nel governo della Chiesa universale (questo è anche uno dei motivi del parziale insuccesso della riforma tridentina) sia nella prevalenza che ebbe nella storia moderna della Chiesa l’uno o l’altro dicastero nell’ improntare tutto il governo generale della Chiesa stessa. Questa funzione per così dire egemonica fu esercitata in un primo tempodall’Inquisizione (specialmente sotto Paolo IV), in un secondo tempo dalla congregazione del Concilio, la quale si trasformò però ben presto da organo propulsore di una riforma generale della cattolicità in supremo organo giudiziario-interpretativo delle norme conciliari nel quadro del Corpus Iuris canonici. Dagli inizi del secolo XVII e per i secoli seguenti questa funzione direttiva nel campo del governo della Chiesa sembra essere rimasta possesso del nuovo organismo creato con la Segreteria di Stato: la prevalenza dell’aspetto politico, dei problemi interni relativi allo Stato della Chiesa -la cui presenza pesa sempre di più negli affari generali della Chiesa -, dei rapporti con gli altri Stati d’Europa determinarono questa situazione che è rimasta pressoché invariata sino ad oggi.

Solo lo sviluppo dell’ecclesiologia e della vita della Chiesa che è avvenuto a partire dalla costituzione De Ecclesia del Concilio Vaticano I ha portato gradualmente alla constatazione della necessità di superare questa concezione e prassi dell’esercizio di governo. Si è compreso che l’organizzazione della curia romana creata negli ultimi secoli è ormai insufficiente e minaccia di soffocare l’ampiezza dei compiti della Santa Sede. Da questa diffusa constatazione non si è però ancora passati ad una azione positiva di riforma organica.

Il Codexiuris canonici al can. 230 ribadisce che i cardinali costituiscono il senato della Chiesa Romana, ma questa rimane un’affermazione generica ereditata dalla tradizione senza alcuna specificazione e applicazione nei canoni seguenti relativi alle funzioni dei cardinali. Il can. 233 enunciasolo il diritto all’elezione del pontefice e rinvia al lungo elenco dei privilegi inerenti alla dignità cardinalizia: “Cardinalescreantur et publicantura SummoPontifice in consistoriosicque creati et publicatiobtinentius ad electionem Romani Pontificis et privilegia de quibus in can. 239”.Il concistoro non viene nominato nel Codex che a proposito della cerimonia formale della creazione dei nuovi cardinali (nella quale il quid vobisvidetur?che sino alla fine del Cinquecento dava inizio al dibattito è rimasto una pura interrogazione retorica),a  proposito delle opzioni interne al collegio (can.236 ora abolito da Giovanni XXIII) e incidentalmente a proposito dei compiti della congregazione concistoriale (can. 248 § 2). In realtà a parte le cerimonie formali riesce Impossibile sapere quali siano le “agenda In consistoriis”, quale sia il concreto esercizio della funzione senatoriale espressa teoricamente.. Il codice èconfuso ed equivoco perché rispecchia una realtà che è tale.

Eppure anche negli ultimi decenni è rimasta chiara, nel supremo insegnamento dei pontefici il principio della necessità vitale per la Chiesa della funzione senatoriale spettante al collegio cardinalizio. Ancora Pio X, ad esempio, nelmotu proprio del 24 maggio 1905 chiamava i cardinali “coniudicestotius mundi”. Pio XII (allocuzione nel concistoro del 12 gennaio 1953)ribadiva la funzione senatoriale del collegio e la condizione preliminare della rappresentatività. Di fatto si è venuta verificando negli ultimi decenni un’evoluzione nella realtà concreta della Chiesa al di fuori degli schemi giuridici e istituzionali che ha portatoad una rappresentatività sempre più forte da parte del collegio delle varie cristianità; nel Concilio ecumenico Vaticano II il collegio sembra avere almeno in parte ripreso, sia pure spezzettato nei vari organismi conciliari, le sue antiche funzioni.

UNA VICENDA CONCLUSA?

A questa storia del cardinalato si può aggiungere quanto lo stesso prof. Alberigo scriveva a conclusione del suo libro “Cardinalato e collegialità”pubblicato nel 1969, a Concilio concluso, presso la Casa Editrice Vallecchi di Firenze:

La vicenda dottrinale del cardinalato, scrive Alberigo, riceve nuova luce dopo che il Vaticano II ha approvato l’impegnativa serie di documenti sull’episcopato. Questo argomento è stato sviluppato intorno a un principio teologico determinante ed alcuni corollari di maggiore significato: Il principio di fondo è costituito dal rapporto di continuità “statuente domino” tra il collegio apostolico e il collegio episcopale. Sutale base la consacrazione episcopale è qualificata come un sacramento vero e proprio, in forza del quale ogni nuovo vescovo entra a far parte del collegio episcopale.

Dal momento che ogni vescovo riceve con la consacrazione Imunerasanctificandi,docendiet regendi in ordine non solo alla chiesa locale cui presiede ma anche alla comunione universale di tutte le chiese,  il collegio episcopale – comprendente fisiologicamente anche il vescovo di Roma – esprime e promuove la comunione tra le chiese, avendo ricevuto da Cristo nel Collegio apostolico il munusligandiacsolvendi.

Come conseguenza istituzionale ed operativadi tali affermazioni, il Vaticano IIha prefiguratoun modo di esercizio collegiale della suprema autorità nella chiesa universale. In tal modo ilConcilio si è ricollegato ad una grande tradizione dottrinale e pratica nella chiesa mai venuta meno  neppure nella coscienza del cristianesimo latino, né nella teologia cosiddetta ‘romana’.

In sostanza cioèil Vaticano II ha sanzionato con la propria autorità tutto ciò che dal punto di vista dottrinale la teologia del cardinalato riconosceva al collegio cardinalizioma assegnandolo al collegio episcopale.

Tale risultato cui si è giunti attraverso complesse vicende teologiche edecclesialì, è stato reso possibile dalla ricomposizione tra successione apostolica, valore sacramentale della consacrazione episcopale e origine sacramentale dell’autorità nella chiesa.

Da un punto di vista. dottrinale la vicenda del cardinalato è così totalmente consumata e definitivamente conclusa. Esso cioè risulta ormai privo non solo di una motivazione rigorosamente ecclesiologica che a ben vedere non ha mai avuto, ma anche della ragione di supplenza che lo reggeva come organo che garantiva ed esercitava prerogative autenticamente apostoliche.

Dopo la formulazione dell’ecclesiologia del Vaticano II il collegio cardinalizio ha visto non solo il tramonto di ogni fondamento dottrinale della sua esistenza, ma addirittura il riassorbimento della sua giustificazione ecclesiologica nel suo alveo proprio ed autentico, quello della dottrina sull’episcopato  e sulla sua natura collegiale. Se l’esigenza di un esercizio collegiale della suprema autorità ecclesialesi fosse postaa livello esclusivamente istituzionale,vi si sarebbe potuto provvedere, per ipotesi, anche mediante una ripresa del collegio cardinalizio; ma nella misura in cui essa è l’effetto di un approfondimento teologico dei valori sacramentali e di comunione dell’ecclesiologia cristiana,tale eventualità appare storicamente superata.I problemi dell’assetto del centro della comunione ecclesiale si pongono di nuovo come nell’XI secolo a livello ecclesiologico;volerli ridurre a questioni istituzionali o addirittura di efficienza  non consente alcun possibilità di soluzioni valide ma conduce a modesti e spesso tortuosi risultati.

La ricerca storica consente di vedere che in una situazione tanto diversa ma analoga come momento di transizione da un assetto teologico a un altro, i promotori della riforma gregoriana hanno avutolucida coscienza del dovere che incombevaloro di dare espressione coerente alla concezione della chiesa che li ispirava. .La prospettiva storica aiuta a cogliere oggi i limiti e le deformazioni in cui la loro soluzione è incorsa, ma anche lo sforzo di fedeltà e di creazione che li muoveva.

Giuseppe Alberigo

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