Brasile: bus cade da viadotto, 16 morti

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(ANSA) – RIO DE JANEIRO, 5 DIC – Un autobus è precipitato da un viadotto alto 20 metri in Brasile per un probabile guasto ai freni uccidendo almeno 16 persone. Altre 27 sono rimaste ferite nell’incidente che è accaduto nei pressi della città di Joao Monlevade, nello stato sud-orientale del Minas Gerais.

L’autobus si è schiantato sulla sottostante ferrovia dopo che l’autista ne ha perso il controllo. Sei persone – tra cui il conducente – sono riuscite a lanciarsi dal mezzo e a salvarsi prima del drammatico volo dal viadotto. Tra il 2015 e il 2019 sono morte circa 30mila persone l’anno in incidenti stradali in Brasile.

È una buona notizia a far ripartire la nostra vita. Commento al Vangelo II Domenica Avvento

II Domenica di Avvento

Anno B

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano (…).

Due voci, a distanza di secoli, gridano le stesse parole, nell’arsura dello stesso deserto di Giuda. La voce gioiosa di Isaia: «Ecco, il tuo Dio viene! Ditelo al cuore di ogni creatura». La voce drammatica di Giovanni, il Giovanni delle acque e del sole rovente, mangiatore di insetti e di miele, ripete: «Ecco, viene uno, dopo di me, è il più forte e ci immergerà nel turbine santo di Dio!» (Mc 1,7). Isaia, voce del cuore, dice: «Viene con potenza», e subito spiega: tiene sul petto gli agnelli più piccoli e conduce pian piano le pecore madri. Potenza possibile a ogni uomo e a ogni donna, che è la potenza della tenerezza. I due profeti usano lo stesso verbo, sempre al presente: «Dio viene». Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Due frasi molto intense aprono e chiudono questo vangelo. La prima: Inizio del vangelo di Gesù Cristo, della sua buona notizia. Ciò che fa ricominciare a vivere, a progettare, a stringere legami, ciò che fa ripartire la vita è sempre una buona notizia, una fessura di speranza. Inizio del vangelo che è Gesù Cristo. La bella notizia è una persona, il Vangelo è Gesù, un Dio che fiorisce sotto il nostro sole, venuto per far fiorire l’umano. E i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce, e che perdona. E che disegna un altro mondo possibile. Un altro cuore possibile. Dio si propone come il Dio degli inizi: da là dove tutto sembra fermarsi, ripartire; quando il vento della vita «gira e rigira e torna sui suoi giri e nulla sembra nuovo sotto il sole» (Qo 1,3-9), è possibile aprire futuro, generare cose nuove. Da che cosa ricominciare a vivere, a progettare, a traversare deserti? Non da pessimismo, né da amare constatazioni, neppure dalla realtà esistente e dal suo preteso primato, che non contengono la sapienza del Vangelo, ma da una «buona notizia». In principio a tutto c’è una cosa buona, io lo credo. A fondamento della vita intera c’è una cosa buona, io lo credo. Perché la Bibbia comincia così: e vide ciò che aveva fatto ed ecco, era cosa buona. Viene dopo di me uno più forte di me. La sua forza? Gesù è il forte perché ha il coraggio di amare fino all’estremo; di non trattenere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È il più forte perché è l’unico che parla al cuore, anzi, parla «sul cuore», vicino e caldo come il respiro, tenero e forte come un innamorato, bello come il sogno più bello.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 84; II Lettera di san Pietro 3,8-14; Marco 1,1-8)

di Ermes Ronchi – Avvenire

Covid: Ue, quarantena per viaggi non riduce trasmissione

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“Restrizioni come la quarantena non contribuiscono in modo significativo alla riduzione della trasmissione del Covid nel quadro dei viaggi. Per questo il Centro europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie (Ecdc) e l’Agenzia europea per la sicurezza dei voli (Easa) nelle loro linee guida, riprese dalla strategia della Commissione, non raccomandano quarantena e test nel quadro dei viaggi in Paesi con la stessa situazione epidemiologica”.

Così un portavoce dell’Esecutivo Ue ad una domanda sulle ultime misure dell’Italia. Il portavoce ha specificato di non voler commentare le iniziative italiane ,ma di parlare in generale.

Covid: Lopalco, scuola un incubatore di infezione

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La scuola è stata “effettivamente un incubatore di infezione”: è quanto sottolinea l’assessore alla Salute della Regione Puglia, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, in una relazione trasmessa al governatore Michele Emiliano e riportata nell’ordinanza firmata la notte scorsa dallo stesso Emiliano, con la quale è stata confermata per le scuole elementari e medie la possibilità per i genitori di scegliere la didattica digitale integrata per i propri figli. “È di particolare rilievo – sottolinea Lopalco – l’evidenza che la maggior parte dei contagi nella prima fase della ripresa epidemica abbia interessato principalmente gli studenti mentre successivamente sia stato interessato anche il personale scolastico.

I dati in questione mostrano in maniera evidente come l’attività scolastica abbia rappresentato nell’area metropolitana di Bari un facilitatore dei contagi e che i focolai scolastici abbiano avuto inizio dalla popolazione studentesca”. “Se così non fosse stato – spiega – i casi riportati nelle comunità scolastiche avrebbero dovuto rispecchiare l’andamento della curva epidemica nella comunità generale e studenti e personale scolastico avrebbero dovuto essere coinvolti in maniera totalmente casuale e in modo uniforme lungo tutto il periodo”. Invece, “nella nostra regione – scrive Lopalco – a seguito dell’apertura delle scuole si era assistito ad un incremento dei casi nelle fasce di età scolare fortemente sproporzionato rispetto all’incremento nelle altre fasce di età”. (ANSA).

SGUARDI Occhi aperti per vedere nelle cose

 

GIORGIO AGNISOLA Avvenire

Raramente consideriamo quanto lo sguardo rappresenti non solo un ordinario canale di conoscenza, ma anche una straordinaria risorsa umana, da coltivare ed affinare anche in chiave spirituale e teologica. Soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui la mascherina nasconde gran parte del volto e lascia liberi di fatto solo gli occhi.

Guardare, un bel libro da poco uscito, di Emanuela Mancino e Monica Quirico (Cittadella), approfondisce la dimensione dello sguardo focalizzandone aspetti fondanti: il senso del vedere in relazione alla vita personale e sociale e le sue relazioni con la fede. Il saggio della Mancino muove dalla definizione di sguardo «come gesto che riconduce a un senso di distanza»: distanza che occorre imparare a colmare interrogando la vita e soprattutto lasciandosi interrogare. L’autentico guardare «costruisce un sapere tutt’altro che distante. È un sapere che soppesa il proprio stare in relazione alle cose, al tempo vivo, all’attenzione». Guardare, scrive la studiosa, è pensare e stare al mondo sentendosi presenti, ossia «mettersi in ascolto». Ne deriva che lo sguardo è soprattutto sentire, sentire con gli occhi e curare il proprio vedere, farne una via di autentica partecipazione: «Lo sguardo si fa attento quando at-tende, e non quando pr-tende; quando accoglie e impara a ricostruire relazioni nascoste tra le cose: quando guardare diviene declinabile in azioni dinamiche di riattivazioni del sentire e del sentirsi». Quel sentire con gli occhi che è appunto un modo di ascoltare, «di prestare attenzione perché accada la visione, perché si dia l’avvenire dell’incontro, perché si produca vita dal dischiudersi e dal sentire». Monica Chirico invece approfondisce il senso del guardare in relazione alla Parola: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato», scrive Giovanni. Dunque nel Vangelo vedere è credere, avere consapevolezza dell’evento della Rivelazione. In realtà, sottolinea la Chirico, «la scrittura è un invito costante e appassionato al guardare, contemplare le meraviglie di Di». «Guardare il volto di Gesù e in Lui guardare il volto dell’altro uomo e inversamente, guardare il volto dell’altro uomo e in lui scorgere Gesù: si tratta qui dell’originalità della fede cristiana». Che si rappresenta quasi tattilmente nella liturgia della Chiesa. In cui guardare è guardare Dio nella intensità di una partecipazione corale, di una condivisione, in cui gli sguardi si incontrano in un unico sguardo attorno alla mensa. È in questo contesto, afferma la studiosa, che si coglie il significato della liturgia della luce, che consente di «essere guardati e rinnovare, celebrando, l’attesa dello sguardo». Non è dunque il guardare un semplice atteggiamento e neppure un’espressione contemplativa, è un’azione: Per un cristiano guardare è «mettersi in viaggio attraverso paesaggi e paesaggi umani differenti; è un invito a visitare le esperienze e contemporaneamente a cercare, oltre la visione, quella dimensione Altra che ci visita e ci fa percepire ciò che l’occhio immediatamente non vede».

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Emanuela Mancino, Monica Quirico

Guardare

Cittadella. Pagine 130. Euro 12 ,50

Teologia: il cristianesimo non esiste ancora

TEOLOGIA

Collin: «Il cristianesimo non sia soltanto etica»

Non è molto frequente che un teologo si rifaccia a un letterato. Di solito la teologia viaggia su binari più razionali rispetto a quelli della narrativa, maggiormente legata all’immaginazione. Per questo, quando Dominique Collin intitola il suo ultimo lavoro, il primo tradotto in italiano, Il cristianesimo non esiste ancora attingendo a una citazione di Julien Green, ci sono tutte le premesse perché il testo si presenti ricco di significati. E le pagine, densissime, di Collin, docente di teologia al Centre Sèvres di Parigi, non tradiscono le attese. Confermando che oggi l’ordine dei Domenicani, sta continuando a vivere una stagione di feconda vitalità intellettuale, come da dna della casa: oltre a Collin, classe 1975, francese, residente a Liegi, in Belgio, autore già di diversi testi, sono da menzionare l’ancor più giovane Adrien Candiard (1982), islamologo molto apprezzato, di stanza a Il Cairo (dove di recente è stato eletto priore) e altrettanto sagace autore di spiritualità, nonché Éric Salobir, ex banchiere, entrato tra i frati nel 2000, creatore di Optic, un think thank dedicato all’etica delle nuove tecnologie. Ma torniamo a Collin. Il cui volume ha diversi meriti e un piccolo limite. Anzitutto mette in dialogo fecondo tre autori di diversa epoca: Soren Kierkegaard, Michel de Certeau e Maurice Bellet. Molto citati nel testo sono anche i contemporanei Christoph Theobald, Paul Evdokimov e Alexander Schmemann. Dal pensatore danese l’autore riprende lo spunto radicale della paradossalità del cristianesimo e dell’irriducibile differenza tra fede e religione: «Non appena la religione esce dal presente esistenziale in cui è attualità pura, immediatamente si ottunde. Quando si ammorbidisce e in tal modo diviene meno vera, lo si vede subito poiché degenera in dottrina». Dal gesuita del ‘68 Collin mutua la formula del «credere debole», non come pedissequa analogia del pensiero debole, ma rilevando la fragilità della fede che non si impone tramite l’alleanza col potere bensì diventa parola che si propone, soprattutto nell’ascolto. Terzo, dall’autore di La quarta ipotesiCollin attinge lo scavo psicoanalitico e purificante la parola di fede, cercando di andare in profondità, dietro e dentro il testo biblico: la lettura esegetica del brano della resurrezione di Lazzaro, a tal riguardo, raggiunge livelli di notevole maestria spirituale.

Citiamo di sfuggita il suo limite: un calcare troppo la mano contro quel cristianesimo popolare (lui lo chiama bigotteria o dysangelo) che tradisce un intellettualismo a volte sconfinante in disistima verso il cattolico della domenica o il clero impegnato sul campo. Ma in sostanza quale è la tesi di Collin? La proposta interpretativa è molto semplice: il cristianesimo è una vita che si comunica, non una dottrina che si pratica. Perché se di- venta (e da Costantino in poi lo è stato) la seconda, finisce per diventare non eloquente: «Esso parla, discorre e predica pressappoco su tutto, dalla pace nel mondo alla transizione ecologica, dai migranti all’economia, ma è sempre meno parlante per quanto attiene alla sfida decisiva per ciascuno: che ne è di me? Che avviene di me?».

Collin però sfugge alle maglie di un solipsismo interiore quando rivendica la priorità della dimensione gratuita del fatto cristiano: «Se il cristianesimo parla dell’amore senza ricordare innanzitutto che l’amore è dono dell’amore, prima di essere l’amore del dono, si condanna a non saper più come parlare dell’amore, se non nelle categorie di ciò che è o di ciò che deve essere». In pratica, siamo dalle parti della denuncia di Karl Barth, che riecheggia in questo j’accuse: «La lettura che difendo qui è che la fede è stata screditata a vantaggio della credenza». La fede è il posto dell’impossibile, la credenza appartiene a quanto abbiamo addomesticato. Per questo il richiamo è netto da parte del teologo francese: «Occorre pensare che il carattere inverosimile e impossibile del cristianesimo non sia solo un modo di parlare, ma il richiamo al fatto che il cristianesimo non è mai più verosimile e possibile di quando ci sembra inverosimile e impossibile ». Il perdono, ricevuto e offerto, è per Collin il luogo in cui capire la «differenza cristiana».

In concreto, dove allora recuperare la capacità per il cristianesimo di parlare ancora in un mondo secolarizzato? Collin, riecheggiando Daniel Sibony, suggerisce una figura, quella della soglia, per significare la possibilità di far risuonare come inedito, oggi, il dono del Vangelo: «Non c’è che la faglia che mi si attaglia, e potremo dirlo in verità della parola cristiana. Solo la faglia fa parlare il Vangelo, in questo luogo segnato dalla croce, in questo luogo del perdono dato in anticipo e che nulla potrà mai riprendere ». Da notare che, forse anche perché dedica molta attenzione a quella “lingua di bosso” che secondo lui squalifica l’ardire evangelico e la parresia cristiana, Collin non ha paura di impugnare la spada della polemica ad personam, criticando due nomi che vanno per la maggior nella letteratura “spirituale” d’Oltrealpe: Eric-Emmanuel Schmitt e Frédéric Lenoir. Il primo scrittore di grandissimo successo, indagatore del fatto religioso nella serie di romanzi brevi intitolata “Ciclo del mistero”, il secondo saggista e giornalista che perlustra il campo ampio delle fedi. Scrive Collin (forse con un po’ troppa spregiudicatezza): «Numerosi sono gli autori che potrebbero oggi essere annoverati fra i rappresentanti di questo deismo etico-terapeutico», e cita i due sopra. «Il problema di questo deismo è lo stesso che abbiamo individuato nel linguaggio della bigotteria: essi scimmiottano la grazia, facendola passare per il desiderio di un io che non vuole neanche per sogno lo spossessamento del sé. Invece la fede non elimina il desiderio, ma il compimento dell’ego nel giustificarlo».

Resta comunque, in conclusione, una tesi molto puntuta e sfidante chi si domanda quale sia il posto del cristiano oggi nel mondo, quella di Dominique Collin. Il quale, sicuramente involontariamente, sembra riecheggiare Luigi Giussani quando indica nel primato dell’evento rispetto al ragionamento il quid dell’esperienza cristiana: «La percezione ha interesse a rafforzarsi contro l’imprevedibile, che è la modalità di apparizione dell’inafferrabile. È la ragione per cui la modalità sottovaluta l’evento e non sopporta la grazia». Invece è proprio quando il cristianesimo semplicemente accade che lo stupore apre lo squarcio alla conoscenza: «Il dono e il perdono spostano le linee del fronte, ridanno un posto sia alla vittima sia all’aggressore, aprendo un a-venire per coloro che il passato condanna alla tristezza di essere solo creditori o debitori». Cosa tocca dunque ai cristiani? Collin risponde con una frase che vale da sola il libro: «Insomma, invece di parlare del Vangelo, dobbiamo imperativamente far parlare il Vangelo». Aleksandr Men, il celebre prete ortodosso protagonista della rinascita russa in epoca sovietica, ebbe a scrivere un giorno: «Il cristianesimo non fa che cominciare ». Forse Collin ha avuto nella profezia del pope martire un insperato e fecondo aggancio profetico.

Dominique Collin

Il cristianesimo non esiste ancora

Queriniana. Pagine 198. Euro 22,00

Un testo in cui il teologo francese critica un certo modo esclusivamente morale di vivere la fede. «Invece di parlare di Vangelo dobbiamo far parlare il Vangelo»

BRASILE oltre 400mila firme per salvare gli Yanomami

Speravano di arrivare a 100mila firme. Gli Yanomami ne hanno, invece, raccolto oltre il quadruplo per chiedere al governo di Jair Bolsonaro di espellere i 20mila minatori illegali presenti nelle loro terre. Sono stati questi ultimi a portare il Covid fra gli indios: più di mille si sono infettati. Ieri, una delegazione Yanomami ha portato la petizione MinersOutCovidOut realizzata con l’aiuto di Survival International e le 439mila sottoscrizioni al Congresso.

Coronavirus: l’epidemia. Mai così tanti morti: 993 in 24 ore

Avvenire

Record di decessi dall’inizio della pandemia: il dato nell’ultima settimana è aumentato quasi del 10% Stabile il rapporto test/positivi, ma il numero di casi resta alto: 23.225. «Contagiato un italiano su 36»

il giorno più nero. Quello del lutto inaudito, che va ben oltre i numeri freddi del Bollettino quotidiano del ministero della Salute e lascia l’intero Paese senza fiato: ieri 993 persone sono morte a causa del Covid. Significa che 993 famiglie italiane, a un passo dal Natale, sono in pezzi: strette tra il dolore per la perdita di un caro e l’impotenza per non averlo potuto stringere l’ultima volta, o rivedere. Con le 684 di mercoledì, le 785 di martedì, le 672 di lunedì, fanno oltre 3mila famiglie in una settimana: a guardare quelle precedenti, la conta diventa drammatica, fino ad arrivare a 58mi-È la. «Numeri che non dimenticheremo, che non dobbiamo dimenticare» è l’appello del commissario Domenico Arcuri a sera, nel suo tradizionale punto stampa del giovedì.

In molti avevano previsto la seconda ondata dell’epidemia, nessuno avrebbe mai scommesso su un’impennata così tragica dei decessi: e invece eccoli qui. Per osservare numeri simili, occorre tornare indietro al 27 marzo, quando i morti furono 969. Il monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe pubblicato ieri mattina, d’altronde, segnala un solo dato in aumento nella settimana dal 25 novembre al primo dicembre: quello dei decessi. Sono stati 5.055 rispetto ai 4.842 di quella precedente, con un incremento del 9,9%. E non è finita, l’andamento della curva ce l’ha insegnato proprio a primavera: la mortalità segue di 14 giorni quella dei contagi (due settimane fa infatti registravamo quasi 37mila nuovi casi in un giorno), le persone mostrano i primi sintomi dopo circa 5/7 giorni, e se sono così gravi da richiedere un ricovero è mediamente dopo 7 giorni da quest’ultimo che si muore. Così, in questa catena quasi matematica di eventi, si gioca anche quel che accadrà nelle prossime settimane: più riusciremo a ridurre i nuovi contagi, più – lentamente – anche la curva dei decessi tornerà a congelarsi.

E qui si pone un secondo problema. Perché il Bollettino di ieri, al netto dei decessi, fa registrare sì un nuovo calo generalizzato di tutti i parametri, ma non abbastanza pronunciato. Sono ancora oltre 23mila i casi di coronavirus in 24 ore, anche se a fronte di quasi 230mila tamponi (con un rapporto test/ positivi stabile al 10%): tanti, troppi per mettersi alle spalle l’emergenza, «con un italiano su 36 – fa i conti sempre Arcuri, a partire dal milione e 700mila di casi totali – che è stato contagiato». E tante sono ancora anche le persone ricoverate: 31.772 nei reparti ordinari (seppur in costante calo, ormai da una settimana), 3.597 in terapia intensiva. Su quest’ultimo dato, nei prossimi giorni potranno essere fatti finalmente calcoli più precisi: da ieri, infatti, il ministero conteggia nel Bollettino anche il numero dei nuovi ingressi giornalieri in rianimazione, al netto del saldo ingressi-uscite. Un punto sui cui gli statistici di mezzo Paese avevano insistito negli ultimi mesi: è soltanto sapendo quante nuove persone effettivamente si aggravano ogni giorno che si può anche interpretare l’andamento dell’epidemia in maniera oggettiva. Ieri sono state 217: il numero più alto in Puglia (33), seguita da Lombardia (32) e Veneto (30). E proprio la situazione del Veneto continua a destare preoccupazione: la regione, attualmente in fascia gialla, ha registrato quasi lo stesso numero di contagi della Lombardia (3.581 contro i 3.751 della seconda), ma a fronte di un numero meno consistente di tamponi (21.636, e tra l’altro il Veneto nel conteggio inserisce anche quelli rapidi), per un rapporto test/positivi al 16,5%. La Lombardia, che resta sempre la regione con più casi, è invece in linea per quanto riguarda questo valore con la media nazionale (10%), ma ieri ha registrato anche il picco più consistente di vittime: ben 347, un terzo di quelle di tutto il Paese. Oggi l’atteso monitoraggio sull’Rt nazionale, che secondo quanto anticipato ieri sera dal ministro Speranza dovrebbe essere tornato sotto l’1.

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