Le (più belle) preghiere di Pasqua (proposta)

La festa delle feste spinge il cristiano a ringraziare e a condividere la gioia con gli altri, a partire dagli ultimi. L’esempio di san Benedetto, madre Teresa di Calcutta e Turoldo
Un'immagine del trionfo di Cristo risorto

Un’immagine del trionfo di Cristo risorto – ICP

avvenire.it

Pasqua è la festa delle feste, il giorno della gioia, in cui il credente ha la conferma che, sull’esempio di Cristo, lo aspetta la vita eterna. Perché la risurrezione di Gesù insegna che la morte non ha l’ultima parola. Una verità di fede, che ha dato forma a tantissime meditazioni e preghiere. Qui san Benedetto da Norcia (480-547), chiede a Dio di aiutarlo a conoscerlo davvero e a imparare a ragionare come Lui.

«Padre buono, ti prego
Dammi un’intelligenza che ti comprenda,

un animo che ti gusti,
una pensosità che ti cerchi,
una sapienza che ti trovi,
uno spirito che ti conosca,
un cuore che ti ami,
un pensiero che sia rivolto a te,
degli occhi che ti guardino,
una parola che ti piaccia,
una pazienza che ti segua,
una perseveranza che ti aspetti.
Dammi, ti prego,
la tua santa presenza,
la resurrezione,
la ricompensa
e la vita eterna».

La gioia della Risurrezione non può essere ridotta a festa privata, deve trasformarsi in servizio agli altri, a cominciare dai più poveri. In questo senso, riflette madre Teresa di Calcutta (1910-1997), ogni gesto, anche il più piccolo, è importante.

«Gesù è Dio: pertanto il Suo amore, la Sua sete sono infiniti. Abbiamo il potere di essere in Paradiso già da adesso e di essere felici insieme al Signore in questo momento. Dobbiamo solo amare come Dio ci ama, aiutare come Dio ci aiuta, donare come Dio dona e servire come Dio serve. Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe. Che questa Pasqua ti faccia capire l’importanza delle piccole cose per i grandi cambiamenti. Dio è pane, Dio è amore, Dio è per sempre».

Pasqua, si diceva all’inizio, è sinonimo di gioia. Una felicità che se condivisa trasforma la vita, la rende infinitamente più bella. E porta naturalmente a ringraziare Dio. È questo il senso della celebre poesia spirituale di David Maria Turoldo (1916-1992).

«Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Andrò in giro per le strade
zufolando, così,
fino a che gli altri dicano: è pazzo!
E mi fermerò soprattutto coi bambini
a giocare in periferia,
e poi lascerò un fiore
ad ogni finestra dei poveri
e saluterò chiunque incontrerò per via
inchinandomi fino a terra.
E poi suonerò con le mie mani
le campane sulla torre
a più riprese
finché non sarò esausto.
E a chiunque venga
anche al ricco dirò:
siedi pure alla mia mensa,
(anche il ricco è un povero uomo).
E dirò a tutti:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un’icona
dove lui bambino guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole;
e poi gli dirò d’indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell’usignolo,
quell’usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all’alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all’alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: pace!
e poi cospargerò la terra
d’acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell’universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell’altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco».