Il percorso quaresimale come cammino verso la consapevolezza del valore reale delle “cose”…

Se lo scorso anno abbiamo vissuto il tempo quaresimale e pasquale in compagnia del rapper pugliese Caparezza, quest’anno vorrei spostarmi di latitudine – ma non di genere musicale – facendomi accompagnare dalle note e dai testi del rapper milanese (seppur di origini siciliane) Marracash.

Un artista assai maturato negli ultimi anni, sia livello personale che di coscienza politica, come dimostrano il premio Targa Tenco (2022) assegnato all’ultimo album Noi, loro e gli altri (2021) e il sorprendente, storico, riscontro di pubblico ottenuto dal doppio evento Marrageddon festival che, a fine settembre del 2023, ha riunito tra Milano e Napoli circa 140000 persone.

La vera svolta, però, era avvenuta nel 2019 con l’album Persona: il racconto, o meglio, la messa in versi «del superamento di un momento duro, cupo e disperato… due anni e nove mesi in isolamento, legato a una persona “tossica” dal punto di vista sentimentale. Sono andato dallo psicanalista perché mi sentivo vuoto… Poi le canzoni sono uscite come sangue da una ferita in soli tre mesi, è stata una catarsi. Fabio, per rinascere, ha dovuto uccidere Marracash».

Ispirato all’omonimo film di Bergman, l’album è quindi un concept che, viaggiando attraverso e mediante i vari organi del corpo, narra e canta una profonda crisi esistenziale, nella quale l’ego cade, per rinascere – forse – come anima. Più quaresimale e pasquale di così…

In principio dunque, come ad ogni inizio di Quaresima che si rispetti, c’è il deserto delle tentazioni, la vanità di ciò a cui spesso aspiriamo, la vuotezza di ciò che vediamo e, talvolta, invidiamo.

Per questo i protagonisti della prima tappa sono gli occhi. A causa loro, sussurra Marracash nell’intro del brano Tutto questo niente, «desideriamo quello che vediamo / e a volte desideriamo solo di essere visti», pensando (erroneamente) che «quello che ci serva sia fuori di noi / mentre quello di cui abbiamo davvero bisogno è invisibile». Per questo l’invito fraterno del rapper milanese, a sé stesso e a noi, è di buttare fuori, confessare, «i tuoi pensieri o finiranno per ucciderti».


L’elenco di questi falsi bisogni, spesso travestiti da desideri (il più delle volte indotti), è lungo: «fan… Nike… like… un milione di persone… arriva[re] in cima… ponti levatoi… viaggi in prima… spiagge cartolina… essere famoso… come i grandi eroi… tutto rolexato e ingioiellato… file di sneakers, pile di polo…[una] grande casa…».

Forse non sono i nostri «sogni», o forse sì. Di certo, ciascuno può farne la sua traduzione. Perché ognuno, in coscienza, sa quali sono i suoi e nel silenzio – nel deserto – può provare a focalizzarli. Chissà che il vangelo di Marco (1,12-15), ascoltato domenica scorsa, non espliciti le tentazioni rivolte da Satana a Gesù proprio perché il lettore si senta più libero di attualizzarle, di individuarle in sé.

Sappiamo, però, che Gesù non cade in queste tentazioni. Ne è stato toccato, forse ferito, ma sembra che non abbia ceduto ad esse. A noi, invece, tocca il compito di attraversarle, sperimentarle. Per quello che sono veramente: «filtri sulla vita», «un bicchiere di cristallo sopra una formica», «numeri [che] mentono», «cose care» che «raramente diventano care cose», ma che più spesso usiamo poco, senza godercele o finendo per esserne posseduti ed usati: «cercatrici d’oro scavano dentro di me / scalatrici bucano la scorza / tipo che se tu dai loro corda / poi si ripresentano con chiodi e piccozza».

In definitiva, confessa il rapper milanese (e, forse, noi con lui), «cento cose» con cui «riempio il tempo e non colmo il vuoto»; «cento cose» di fronte a cui infine esclamiamo: «è tutto qui? / è per questo che ho fatto questa fatica?».

Sì, dopo una certa età si comprende che «la noia» e «gli attacchi di panico» possono non essere più un accidente negativo da rimuovere o superare in fretta, per poi – magari – autodistruggersi, ma il punto di svolta verso l’agognata «via d’uscita». È per questo che in modo certo paradossale, ma straordinario quanto a provocazione affettuosa rivolta a sé stesso e a ciascuno di noi, Marracash «apre le braccia» e canta nel ritornello «le parole» di verità che spesso la nostra parte profonda, onirica, vuole sentirsi dire:

«un giorno tutto questo niente sarà tuo /
tutto questo niente sarà tuo /
un giorno tutto questo niente sarà tuo /
Tutto questo niente sarà tuo».

Sembra di sentire il Qoèlet: vanità delle vanità. Tutto è vanità. Senza però dimenticare da dove si viene. Da quelle «vecchie strade» popolari dove qualcuno potrebbe sempre ricordarti che «in fondo tutto questo niente / è meglio del niente che aveva prima». Ma dove il rapper di Barona sa che si può crescere come «un cucciolo di squalo», in modo opposto ma speculare ai cuccioli di squalo delle élites.

La vera posta in gioco, allora, sembra essere un’altra – ricchi o poveri che siamo (noi o loro, dirà due anni dopo) – e viene cantata da Marracash nella outro del brano: ritirarsi in un luogo solitario, fare silenzio, ascoltarsi in profondità e divenire consapevoli che ogni «successo» è, diabolicamente, come «una lente di ingrandimento su un insetto / ti fa sembrare gigante ma allo stesso tempo / rivela sempre il vero aspetto / e spesso sei orrendo / quelle zampette che mi danno i brividi / un paio d’antenne / mandibole con cui divori i tuoi simili».

Nel deserto con Gesù, vero uomo e vero Dio, erano presenti non a caso anche gli angeli e le bestie selvatiche. E ad entrambe, all’angelo e alla bestia che è in noi, ma che pascalianamente non siamo, il figlio dell’Uomo ha annunciato che è giunto il tempo – l’ora – di convertirsi: di credere alla buona notizia che possono convivere in pace. Pacificate e pacificanti. Come nel giardino orginario che quel deserto deve ricominciare ad essere, a diventare…
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