Dissentire fa parte del processo di discernimento, senza per forza avere una valenza oppositiva

IL 19 febbraio 2022 papa Francesco lo ha nominato arcivescovo di Torino. Mons. Roberto Repole, dopo un mese circa dall’ingresso in Diocesi, ha inviato una lettera ai suoi fedeli.

In genere le lettere pastorali sono molto lunghe, dove spesso si ripercorre tutta la storia della salvezza per giustificare le scelte che verranno proposte; dove non si interrogano i fedeli su cosa si potrebbe fare, ma si presuppone che i fedeli debbano assentire e attuare; dove spesso si usa un linguaggio “ecclesialese”, chiaramente non sempre comprensibile da una buona parte dei fedeli stessi. Ma soprattutto dove si danno indicazioni operative generali (a volte anche generiche), che poi a cascata, gli organi diocesani e i singoli fedeli dovranno tradurre in scelte concrete.

La lettera di Mons. Repole sembra un po’ diversa, almeno per due aspetti comunicativi. Innanzitutto sul piano del linguaggio. 7300 battute, spazi compresi sono una vero record di sintesi per questo genere si lettere. Una lettura, cioè, che si realizza in cinque minuti al massimo. Se davvero si scrive per farsi leggere sul serio da una intera comunità, oggi la brevità è uno dei requisiti fondamentali. Ancora. Nella foto del post si può notare come il cloud del testo mostri in primo piano parole di un linguaggio esistenziale, concreto e strettamente connesso al tema della lettera. Della serie: dritto al punto, con concretezza, chiarezza e comprensibilità. Leggendola per esteso ci si rende conto che è comprensibile anche da chi non è avvezzo a linguaggi ecclesialesi o particolarmente teologici.

Secondo, sul piano del metodo. Scrive Mons. Repole: “Facendo tesoro di quanto emerso in quei contesti, (le riunioni dei consiglio pastorali e presbiterali – ndr) di tante suggestioni, fatiche o desideri espressi da molti nelle più svariate circostanze, di quanto richiamato nei gruppi che sono stati attivati in occasione del cammino sinodale della Chiesa italiana oltre che, ovviamente, di una profonda convinzione personale, mi pare evidente che, tra i diversi aspetti sui quali occorre operare un discernimento ecclesiale e compiere delle scelte concrete, ce n’è uno che è assolutamente prioritario. Si tratta del ripensamento della presenza ecclesiale sul territorio”.

Intanto la decisione di affrontare un solo problema per volta (“un passo per volta” – si legge verso la fine della lettera), concreto e ritenuto prioritario. L’idea cioè che se davvero si vuole incidere sulla realtà ecclesiale non serve descrivere “vision” astratte e complessive, magari già preconfezionate dal “taglio” teologico del vescovo di turno, che poi gli altri devono realizzare. Bisogna invece prendere i problemi reali, decidendone la priorità e provare a muoverli nel concreto verso una loro soluzione che incarni più che una “vision”, una direzione di marcia della Chiesa, che nella lettera è molto chiara: “rinsaldare o creare delle strutture di corresponsabilità”.

Ma invece di descrivere dall’alto cosa sia la corresponsabilità, Mons. Repole prova a realizzarla dal basso con scelte operative. In questo stesso modo diventano molti interessanti altri due passaggi di metodo. Intanto il discernimento della priorità di questo problema non avviene nelle segrete stanze del vescovo, ma pur essendo lui a definirne il risultato, si realizza dopo aver ascoltato ciò che sale dal popolo di Dio, incontrato in tante situazioni diverse, formali e informali. La parola del vescovo, cioè si presenta sulla scena come l’ultima, a riguardo del problema, e non l’unica.

Ma poi continua Mons. Repole: “Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo (locali, case, chiese, oratori…) anche se invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione costituiscono un peso insopportabile, per chi è chiamato a gestirle, rubando energie, serenità e gioia? Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie, immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che invece di essere parroco di una comunità lo sia di diverse, senza però cambiare nulla? Come si può immaginare, facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…? E come pensare che la loro vita possa risultare attrattiva per dei giovani oggi?”

Ecco l’altro aspetto interessante di metodo: il fatto che un vescovo si permetta di porre domande al suo popolo su come si potrebbe risolvere il problema. Certo, appaiono domande retoriche e forse lo sono, nel senso che è evidente quale sarebbe la risposta del Vescovo. Ma il fatto stesso che siano poste in forma di domanda autorizza e richiede che chi legge produca una sua risposta. E soprattutto che anche chi ha idee diverse da quelle del vescovo possa sentire che uno spazio comunicativo per dire la propria esiste, e che dissentire fa parte del processo di discernimento, senza per forza avere una valenza oppositiva.

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