Allarme della Caritas per l’emergenza sociale e umanitaria. Sul Libano tutto il peso dei giochi di guerra

L’Osservatore Romano

«Come si può parlare di pace quando poi si alimentano guerre nella regione? Quali sono le conseguenze dei conflitti in Siria, in Iraq, in Libia, nello Yemen? Solo morti, odio, violenze. Dov’è la democrazia che qualcuno voleva portare? Solo disastri. Nonostante tutto credo che si possa ancora sperare e vivere in dignità e rispetto». Parole del maronita Paul Karam, presidente di Caritas Libano, che in questi giorni ha incontrato un gruppo di delegati di alcune Caritas diocesane italiane.
«Il Libano — ha dichiarato il sacerdote all’agenzia Sir — non può più pagare le bollette delle guerre altrui, scatenate ai nostri confini». Chiaro il riferimento ai conflitti in Iraq e Siria che hanno riversato nel paese dei cedri oltre un milione di siriani senza contare gli iracheni e la presenza ultradecennale dei palestinesi. Si stima che un terzo della popolazione libanese sia composta da rifugiati con gravi ripercussioni sociali, politiche, economiche interne. E il loro numero continua a salire.
«Il Libano è un paese in fragile equilibrio e la cui tenuta sociale è a rischio. Con grande generosità abbiamo accolto oltre un milione di siriani in fuga dalla guerra. Possiamo dire che oggi il 30 per cento dei poco più dei sei milioni di persone che compongono la popolazione libanese, è composto da rifugiati. Il nostro problema oggi si chiama lavoro», gli fa eco il vescovo di Jbeil, Byblos dei Maroniti, Michel Aoun, per il quale nel paese «domina la paura per il futuro». Gli ultimi dati diffusi dall’agenzia Onu per i rifugiati parlano di 995.512 profughi siriani, cui vanno aggiunti un altro milione di profughi iracheni e palestinesi. Ma sono decine di migliaia quelli non registrati. In questo senso, per monsignor Aoun, delegato patriarcale per Caritas Libano all’interno del Sinodo maronita, è urgente che «le Nazioni Unite creino nelle zone della Siria già pacificate delle aree protette per accogliere il rientro graduale dei siriani dal Libano, primo step del loro ritorno nelle case e città di origine».
Secondo padre Karam «solo nel primo semestre del 2017 sono nati 170.000 bambini da famiglie rifugiate. Sono bambini che non hanno diritti e cittadinanza, nati invisibili». Da parte sua, aggiunge il sacerdote maronita, «la Caritas cerca di fare il possibile per venire incontro ai bisogni della popolazione sia locale che rifugiata con progetti dedicati, grazie anche al sostegno di altri organismi, come Caritas Italiana. Da tempo poi i nostri progetti prevedono quote sempre più consistenti per i libanesi. Studi recenti hanno mostrato che circa il 35 per cento dei libanesi vive sotto la soglia di povertà. Contestualmente peggiorano anche le condizioni dei rifugiati palestinesi».
Per rilanciare i propri programmi di aiuto la Caritas Libano ha promosso una campagna quaresimale che si basa su tre azioni, «aiutare, donare e sostenere, in cui l’aiuto materiale si unisce alla condivisione e al sostegno spirituale. Non facciamoci ingannare dai grandi immobili, dai centri commerciali pieni di luci, dai cantieri edili che sfornano appartamenti di lusso Molti di questi, circa il 60 per cento — sottolinea il presidente della Caritas — sono di proprietà di uomini di affari dei paesi del Golfo. Qui in Libano i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. La classe media non esiste più. Le coppie giovani faticano a sposarsi e a trovare casa e lavoro. Se non ci fossero le rimesse dei circa 18 milioni di libanesi in diaspora il Libano oggi sarebbe ai limiti della bancarotta. Le famiglie vivono con gli aiuti dei familiari all’estero». E la progressiva diminuzione della presenza cristiana all’interno della società libanese sarebbe, a detta di monsignor Aoun, «una perdita per tutto il Paese. I cristiani sono sempre stati un elemento di equilibrio e di stabilità in Libano. Ma noi non molleremo. Resteremo anche stavolta. Ai cristiani chiediamo una fede matura e forte. In questo ci aiuta la profonda comunione che ci lega alle altre Chiese presenti».
L’Osservatore Romano, 24-25 febbraio 2018

Sud Sudan Orrori in Sud Sudan. Rapporto della Commissione dell’Onu incaricata di indagare sulle violazioni dei diritti umani

L’Osservatore Romano
Testimonianze di orrori: è il contenuto del rapporto dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani perpetrate nella guerra civile in corso ormai da cinque anni nel Sudan del Sud. Il documento sarà presentato ufficialmente a Ginevra il mese prossimo, ma alcuni stralci sono stati consegnati in visione alla stampa ieri. La commissione, che ha stilato il documento, ha raccolto 230 testimonianze e altro materiale che — secondo gli autori del rapporto — rappresentano «sufficienti prove» sia contro le forze del presidente Salva Kiir sia contro i ribelli che si oppongono al suo governo. E spuntano anche alcuni nomi. Il conflitto è scoppiato nel 2013, due anni dopo che il nuovo stato africano aveva ottenuto l’indipendenza dal Sudan.
Si parla di occhi cavati dalle orbite, stupri di gruppo, evirazioni e decapitazioni. Quello che passa attraverso le agenzie di stampa è una serie di indicibili orrori e sevizie. Un uomo di Pegak ha riferito che, mentre si nascondeva da militari governativi, a sua madre sono stati cavati gli occhi perché aveva cercato invano di impedire che 17 militari violentassero sua figlia di 17 anni, mentre suo padre veniva decapitato.
La commissione dell’Onu afferma di aver identificato «più di quaranta alti funzionari» ritenuti responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel Sud Sudan: è quanto si precisa nel comunicato diffuso ieri. Si tratta in particolare di 33 generali, cinque colonnelli e tre governatori statali, ma il comunicato non rivela i nomi.
Si tratta del primo rapporto della Commissione sul Sud Sudan, che è stata incaricata dal Consiglio dell’Onu dei diritti umani di riunire prove su quanto accade nel paese. L’obiettivo è fornirle a quella che è stata denominata la Corte ibrida, voluta dall’Unione africana (Ua) proprio per giudicare i crimini commessi in Sud Sudan. Si tratta di tutte iniziative concordate nell’ambito dell’accordo di pace del 2015 tra opposizione e governo del Sud Sudan. La gestione della Corte ibrida è affidata interamente a personale africano: è composta da giudici indicati dall’Ua e da giudici sudsudanesi.
Commentando il rapporto, il vice direttore regionale di Amnesty international per la regione, Seif Magango, ha parlato di «brutalità scioccante». E ha sottolineato che quanto emerge «dovrebbe scuotere il mondo» e spingerlo a «un’azione rapida per affrontare le orribili violazioni dei diritti che continuano senza sosta in quattro anni di conflitto nel Sud Sudan». Magango ha inoltre ribadito l’importanza di istituire la Corte ibrida per il Sud Sudan, sottolineando anche l’urgenza di rinnovare il mandato della Commissione Onu, che scade in marzo.
L’Osservatore Romano, 24-25 febbraio 2018.

Congo (Rep. Dem.) Marcia prevista per domenica. Preghiere per la pace a Kinshasa

L’Osservatore Romano
Nella Repubblica Democratica del Congo si prepara una nuova marcia di protesta contro il presidente Joseph Kabila. Ieri, a Kinshasa, i fedeli hanno intanto pregato per la pace nel paese e nel Sud Sudan, rispondendo all’appello del Papa. Molti di loro hanno partecipato alla messa celebrata nella cattedrale Notre-Dame del Congo, la più grande delle chiese di Kinshasa. «In unione con Papa Francesco, preghiamo perché il Signore porti la pace in tutti il cuori», ha detto il celebrante.Sempre ieri, ma in serata, a Kitambo, città situata a nord-ovest di Kinshasa, gruppi composti essenzialmente da giovani si sono radunati nella parrocchia di Saint-François, dove una giovane di 24 anni che aspirava alla vita religiosa, Thérèse Kapanga, era stata uccisa nel corso di una manifestazione che, nelle intenzioni degli organizzatori, voleva essere pacifica. «Saremo presenti alla marcia di domenica non c’è dubbio. Se il presidente Kabila e le autorità hanno veramente intenzione di rispettare la costituzione, non ci sarà alcun incidente», ha affermato una giovane all’agenzia France presse.
Come accennato, la giornata di preghiera si è svolta dopo la decisione del Comitato laico di coordinamento (Clc) di indire una terza marcia pacifica, prevista per la giornata di domenica, volta a chiedere al presidente Kabila di dichiarare pubblicamente la sua intenzione di lasciare il potere. Il secondo mandato di Kabila è scaduto nel 2016. Da allora, il presidente è stato accusato di ritardare deliberatamente i preparativi per nuove elezioni, nonostante tutti gli accordi siglati.
Le due ultime marce, vietate dal governo, sono state represse dalle forze di polizia che hanno fatto una quindicina di vittime, secondo fonti vicine autonome, due secondo le autorità. Il Clc ha il sostegno della Chiesa locale che ha invitato gli abitanti a «rimanere in piedi e attenti».
Per il momento la marcia di domenica non è né autorizzata, né vietata dalle autorità di Kinshasa. Nelle scorse manifestazioni, l’accesso a internet era stato interrotto il giorno precedente, per essere poi ripristinato qualche giorno dopo, suscitando le proteste degli utenti e della comunità internazionale. In una dichiarazione congiunta, gli Stati Uniti, la Svizzera e il Canada hanno invitato «i responsabili a astenersi da ogni violenza e garantire lo svolgimento pacifico della manifestazione».

L’Osservatore Romano, 24-25 febbraio 2018.